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Felicità – opera prima di Micaela Ramazzotti

Il 2023 è stato un anno felice per i debutti alla regia di attrici e attori, a cominciare dall’acclamatissima opera prima di Paola Cortellesi “C’è ancora domani” che ha sbancato il botteghino; e vale la pena annotare il documentario biografico della polacca italianizzata Kasia Smutniak che in “Mur” racconta la zona geografica caldissima, di grande attualità, tra la sua Polonia e la Biolorussia; e sul versante maschile debuttano gli attori Alessandro Roja con il suo “Con la grazia di Dio”, Michele Riondino con “Palazzina LAF” e il figlio d’arte Brando De Sica con “Mimì – il principe delle tenebre” oltre ad altri interessanti registi puri (non attori) i cui nomi non ci dicono nulla nell’immediato. Ma non tutti hanno goduto o ancora godono dell’attenzione del pubblico, come nel caso di questo debutto che al Festival di Venezia, presentato nella Sezione Orizzonti, ha ricevuto il Premio Spettatori, e una benevola attenzione della critica che però non ha mancato di segnalare alcune debolezze del film.

A mio avviso la debolezza principale sta proprio nell’attrice che dichiaratamente ha realizzato un film sulla scia del suo personale percorso artistico, senza tentare vie meno comode, come quello della Smutniak, o come quell’altro meno riuscito di Jasmine Trinca che con “Marcel!” ha tentato una favola drammatica senza riuscire a maneggiare appieno il materiale, però; o l’originale thriller psicologico “Tapirulàn” molto ben diretto e interpretato da Claudia Gerini.

Il film di Micaela Ramazzotti, che ha incassato meno di 600 mila euro, è già in chiaro su Sky Cinema per accompagnare l’uscita della serie “Un amore” che interpreta insieme a Stefano Accorsi che l’ha ideata e prodotta, e per l’occasione è intervistata da Omar Schillaci nel suo programma “Stories” nel quale si racconta con una voce da donna adulta che mi stupisce perché mi ero convinto che il suo tono sempre cantilenante di bambina un po’ imbronciata, che è il marchio tipico delle sue interpretazioni, fosse il suo naturale modulo espressivo.

Molto generosamente cita il successo della Cortellesi, rivendicando il ruolo delle attrici nel nostro cinema, e nell’insieme si racconta rivelando che per costruirsi la carriera ha seguito un modello: all’inizio ha capito che andava la svampita e come tale si presentava ai provini e sui set, procedendo passo passo nella carriera di attrice dopo il suo debutto a tredici anni come interprete dei fotoromanzi “Cioè” e il suo primo ruolo significativo lo ebbe a 21 anni come “Zora la vampira” che fu il debutto dei fratelli registi accreditati come Manetti Bros. Il grande successo, e la svolta anche nella vita privata, arriva con “Tutta la vita davanti” di Paolo Virzì, col quale scoccò una scintilla sul set tanto da convolare a nozze; nel film, che le valse la nomination ai David di Donatello come non protagonista, era una giovane madre scombinata, un ruolo che immergeva in un contesto drammatico la svampita che l’aveva condotta fin lì; è un personaggio molto riuscito e Micaela, che fedele alla sua ricerca della via che porta al successo prende a cavalcare anche quel tipo di donna che lei definisce “storta”, un tipo nel quale il pubblico e la critica la apprezzano: è intensa, indifesa e forte al contempo, e dimostra anche sicure doti di commediante, tanto che – volendo fare uno di quegli inutili accostamenti che però aiutano la lettura – un po’ ricorda Monica Vitti.

Avevo notato che funzionavano i personaggi svampiti, leggeri, – racconta a Omar Schillaci – quindi i registi un po’ li ho presi In giro fingendo di essere veramente svampita, leggera, frivola. Poi a un certo punto me lo sentivo stretto, sentivo che forse ero anche io un po’ fraintesa come persona. E allora ho iniziato ad amarle veramente queste donne e a studiarmele seriamente, a scegliere quei personaggi e scegliere appunto le loro storture. Perché ho sempre amato chi sbaglia, l’imperfezione, chi cade e si rialza. Mi è sempre piaciuto portare al cinema quelle donne lì”. Ma è anche vittima di queste sue donne “storte” che le riescono così bene e su questa traccia comincia a pensare al suo film da debutto autorale; lo scrive insieme all’amica attrice livornese Isabella Cecchi, un’eredità affettiva che le è rimasta dal marito livornese ormai ex, e la non identificata Alessandra Guidi. In realtà nessuna delle tre sembra avere un percorso formativo di scrittura cinematografica e proprio la sceneggiatura è la parte più debole del film, insieme all’inevitabile sensazione di dejà vu: quante famiglie problematiche abbiamo visto al cinema?

Perché l’argomento potesse passare indenne da queste forche caudine avrebbe avuto bisogno di qualcosa di nuovo, un punto di vista personale, più forte; invece il film percorre la via della commedia drammatica, in cui l’ex marito è maestro, che sembra essere la nuova commedia italiana del nuovo millennio. La scrittura soffre anche di tante ingenuità, a cominciare dalla vecchissima gag delle parole tecniche o straniere storpiate, una gag che si rifà all’avanspettacolo, a un’epoca in cui l’ignoranza era diffusa e ci si rideva sopra: ma oggi che una certa ignoranza è drammaticamente di ritorno, ancora più grossolana e anche cattiva, essa non fa più neanche sorridere e arriva cinematograficamente patetica; per non dire delle caratterizzazioni dei personaggi e di certe situazioni che sono rimaste nel grezzo stadio embrionale.

C’è poi il suo personaggio di sempiterna svampita in salsa drammatica, personaggio che qui sdoppia nella figura del fratello disadattato, e stavolta davvero la misura è colma: perché se lei maneggia con sicurezza il suo modulo recitativo, a Matteo Olivetti, che abbiamo visto debuttare nel film di debutto dei Fratelli D’Innocenzo “La terra dell’abbastanza”, non riesce altrettanto: l’attore non sembra maturo per personaggi di un tale spessore, e la cosa grave è che continua a biascicare incomprensibilmente come in quel debutto, dove però il biascichio era lì funzionale.

Dal punto di vista tecnico, puramente registico, il film è invece molto ben confezionato: basta notare la sequenza d’apertura che si svolge su un set cinematografico dove la nostra lavora come parrucchiera, con un dolly ripreso da un altro dolly in un gioco di specchi dove il cinema racconta il cinema. Per il resto, come dicevo, l’autrice fa partire la sua storia di famiglia “storta” da quei set cinematografici che da attrice ben conosce, non riuscendo a immaginarsi come autrice in un contesto diverso: insomma va sul sicuro, si butta col salvagente, e coinvolgendo gli amici: il regista Giovanni Veronesi, col quale però non ha girato alcun film, fa sé stesso; e si affida ad ottimi professionisti: fotografia di Luca Bigazzi, montaggio di Jacopo Quadri e musiche dell’ex cognato Carlo Virzì al quale deve in qualche modo la sua fortuna di attrice: era stato lui a notarla e a presentarla al fratello Paolo.

Anche il titolo, “Felicità”, appare alquanto improbabile in questa storia di dissoluzioni familiari, tanto che i giornalisti gliene hanno chiesto conto, e Ramazzotti ha spiegato: “L’ho scelto perché è una parola che sta sulla bocca di tutti noi, quasi sempre durante la giornata, sia ai bambini che ai grandi, è una parola che mi piaceva, è facile, si ricorda. La felicità per quanto riguarda il mio film viene dal meraviglioso termine greco eudaimonìa che è il percorso che una persona fa per arrivare a quella famosa felicità, salire su quel benedetto treno. Perché la felicità insomma, oggi come oggi, è difficile trovarla, bisogna quasi inventarsela. Invece l’eudaimonìa è una conquista, un percorso che uno fa, uno stile di vita, è un andargli incontro.” In realtà i giornalisti hanno chiesto, e l’autrice ha dovuto spiegare, perché nel finale sorella e fratello si avviano verso una loro personale presa di coscienza, consapevolezza – ma la felicità è un po’ troppo oltre – e cinematograficamente il finale è debole, resta lì, sospeso, non finale aperto ma solo non conclusivo. Felicità resta solo una bella parola accattivante che strizza l’occhio al pubblico, per poi deluderlo.

Di gran livello il resto dei coprotagonisti. L’ex comico televisivo Max Tortora, giunto in età più che matura si sta reinventando come caratterista di lusso nel cinema romano e romanesco; fu proprio nel film di debutto dei D’Innocenzo che per la prima volta si confrontò con un personaggio drammatico a tutto tondo; è qui il padre di famiglia della tossica famiglia, con un personaggio evidentemente scritto su di lui: si ostina a fare il comico e l’intrattenitore che in età avanzata sogna ancora una brillante carriera ma intanto sbarca il lunario esibendosi nei centri per anziani. Anche il ruolo della madre è scritto su misura per Anna Galiena, attrice con studi e frequentazioni internazionali, che ebbe il suo exploit a 41 anni nel 1990 nel sensuale ruolo del titolo in “Il marito della parrucchiera” accanto a Jean Rochefort e diretta da Patrice Leconte; fama che nell’immediato le portò qualche altro bel ruolo ma con l’avanzare degli anni la sua carriera si è stabilizzata nei ruoli di supporto ancorché importanti.

Qui Ramazzotti le offre un’autocitazione quando il personaggio ricorda il suo passato di parrucchiera che tutti desideravano. Detto questo, l’ottuso razzismo e la grettezza dei personaggi, benché resi benissimo dagli interpreti, sono nella scrittura grossolani, a dir poco.

Assai funzionale e ben tratteggiato il marito della protagonista, un intellettuale interpretato con contenuto istrionismo da Sergio Rubini, un personaggio in cui probabilmente confluiscono anche alcune dinamiche private dell’attrice, ma un personaggio che corre anch’esso verso un finale che vuole essere una svolta drammatica a sorpresa e che invece risulta arraffazzonato. In un piccolo ruolo, quello dell’attore con le mani lunghe, Marco Cocci, rockettaro toscano cooptato al cinema da Paolo Virzì, qui a riprova del fatto che l’ex famiglia d’arte toscana dell’ex marito è divenuta anche la famiglia dell’attrice romana.

In un piccolissimo inconcludente ruolo, neanche un cameo, l’ex bellissima francese Florence Guérin attiva anche in Italia dalla seconda metà degli anni ’80 come icona erotica che nulla ha lasciato all’immaginazione – che nel 1998 però, a 33 anni, interruppe la sua carriera a causa di un gravissimo incidente stradale nel quale perse il figlio di cinque anni, restando lei stessa in coma per lungo tempo e subendo diversi interventi chirurgici; è tornata a recitare nel 2000, soprattutto per la televisione francese, con lo pseudonimo di Florence Nicolas prendendo come cognome il nome del figlio perduto.

In conclusione il debutto di Micaela Ramazzotti come regista è un film con molte imperfezioni che però è nell’insieme scorrevole e gradevole, non a caso il premio del pubblico a Venezia. Se ci sarà un’opera seconda mi auguro che si affidi anche per la scrittura a dei comprovati professionisti, per partire sotto i migliori auspici dalle fondamenta delle sceneggiatura. E che abbandoni le vie già percorse e comode. L’abbiamo vista nuda sul settimanale “Max” e sul grande schermo, ha vinto un David di Donatello, quattro Nastri d’Argento e due Ciak d’Oro, è parimenti amata da pubblico e critica, e oggi che ha 45 anni deve trovare la forza di reinventarsi, a cominciare dal ruolo di regista, o passerà presto nei ruoli secondari della zia svampita dai facili costumi.

Tapirulàn – opera prima di Claudia Gerini

Un gran bel debutto quello di Claudia Gerini che si fa regista a coronamento di una brillantissima carriera in cui ha potuto esprimere pienamente il suo talento benché a costo di compromessi.

A 13 anni vinse Miss Teenager, sorta di concorso di bellezza per Lolite spinte sul palco da mamme frustrate, un palcoscenico ad uso e consumo di attempati pedofili – mi si lasci passare la provocazione; quell’anno in giuria c’era Gianni Boncompagni che le mise subito gli occhi addosso e non passerà molto perché i due diventino coppia di fatto, lei ancora minorenne lui di quarant’anni più vecchio; certo, anche se la cosa nell’ambiente fece un po’ di chiacchiere, pubblicamente tutti tacquero, in fondo chi è senza peccato scagli la prima pietra; e poi si sa, da sempre le giovani, ma anche i giovani, arrivano al successo anche passando per le camere da letto e anche sforzandosi di cambiare all’occasione preferenze sessuali.

Solo nel 2017, dopo la morte di lui, lei ha ammesso la relazione in un’intervista al Corriere della Sera: “Capisco che, vista ora e vista da fuori, sembri una relazione scabrosa. Oggi ci arresterebbero, Gianni me lo diceva spesso: ‘Siamo due pazzi’. Ma mi creda: nonostante l’enorme differenza di età, era una relazione alla pari… E non c’era alcun tipo di corruzione, non ho avuto niente in cambio, nulla di materiale.” Sta di fatto che la sua carriera ha avuto degli assist, per usare il gergo sportivo. A quindici anni il suo debutto cinematografico come figlia di Lino Banfi e dopo un altro paio di film secondari a vent’anni c’è la svolta e debutta in tv come conduttrice di un gioco telefonico nel programma Mediaset “Primadonna” ideato da Boncompagni, e poi da lì passa a “Non è la Rai”, dove diva indiscussa sarà un’altra Lolita, Ambra Angiolini di sei anni più giovane della nostra. Parlando degli anni successivi Gerini puntualizza: “Non mi ha aiutato per niente, mi è stato accanto ma non professionalmente. È stato importante per la mia formazione di donna, ma a livello lavorativo zero, non ha aggiunto e non ha tolto niente. ‘Non è la Rai’ l’avrei fatta lo stesso. Vabbè.

A 24 anni arriva la grande occasione per sfondare al cinema facendo coppia con Carlo Verdone nel suo “Viaggi di nozze” dove è stata la Jessica della coppia cult di “O famo strano?”; i due fecero anche coppia fuori dal set, e stavolta lui era più anziano di lei di soli vent’anni; ma era una coppia male assortita e come lei stessa ricorda in un’altra intervista: Mi era venuto a vedere in un piccolo teatro. Avevo fatto il provino per ‘Perdiamoci di vista’, lui era il mio idolo e all’università parlavamo con le battute dei suoi film. C’è stato un coinvolgimento sentimentale, ma era un momento particolare per tutti e due. Ci vogliamo bene, abbiamo diviso molto. Lui è ovviamente un uomo complicato, come io sono una donna complicata. Ci sono stati due anni – quelli in cui abbiamo girato e promosso ‘Viaggi di nozze’ e ‘Sono pazzo di Iris Blond’ – in cui abbiamo praticamente ‘convissuto’. Siamo stati amici, confidenti, poi abbiamo avuto questo crash, questa cotta reciproca, ma eravamo troppo diversi. Lui aveva un’età in cui voleva stare tranquillo, non gli piaceva uscire. Io avevo 25 anni, ero un fuoco d’artificio.” Come Iris Blond riceve la sua prima candidatura ai David di Donatello.

Ma ora la smetto di fare il pettegolo e per ragioni di spazio sorvolo su tutta la sua carriera dove è stata sia protagonista che comprimaria di lusso, apparendo anche in alcuni cameo dove lei ha fatto davvero la differenza, e penso al “Diabolik” dei Manetti Bros. Per questo suo primo film da regista si regala un ruolo da protagonista assoluta col suo nome a campeggiare da solo sopra il titolo, ed è il caso dire: finalmente. Perché Claudia Gerini è cresciuta come una vera attrice che può indistintamente passare dal brillante al drammatico sempre centrando il personaggio; ricordiamoci che come altri suoi colleghi di successo ha studiato recitazione con Beatrice Bracco e Francesca De Sapio.

Il film è scritto da Antonio Baiocco e Fabio Morici e in sede di realizzazioni ci mette le mani anche la stessa regista protagonista, mentre Morici che è anche attore scrittore e sceneggiatore si piazza nel ruolo del supervisore della protagonista. Ma ci sono altri interventi nella scrittura e nei titoli di testa leggiamo “dialoghi di” com’è largamente in uso nella cinematografia francese ma che è una novità nel cinema italiano; si tratta di specialisti che rendono più fluidi i dialoghi ma, spiace dirlo, qui sembrano mancare il bersaglio e si vanifica l’introduzione nella sceneggiatura di questi specialisti, perché proprio i dialoghi – importantissimi in un film di parola come questo – risultano a tratti deboli, a volte scontati, generalmente poco empatici. Supplisce la Gerini con la sua recitazione emotivamente sempre tirata e soprattutto con la sua regia che si può veramente definire raffinata, da mestierante – e il termine non è un dispregiativo – di gran classe.

La protagonista è una psicoterapeuta che fa counseling on line sempre mentre corre sul suo tapis roulant, il tapirulàn del titolo che non è solo la trascrizione della lingua parlata, come fino a ieri credevo, ma anche l’italianizzazione del termine francese. La difficoltà della regia, brillantemente superata, è stata quella di rendere cinematograficamente dinamica una situazione statica – anche se fisicamente l’attrice è sempre in movimento: una donna che corre sul suo super tecnologico tapirulàn, sempre chiusa in un super attico, a dialogare on line con diversi personaggi su schermo. Il rischio della noia è sempre dietro l’angolo ma Claudia Gerini ha mestiere di regista da vendere e, con la complicità del montaggio di Luna Gualano, anche scrittrice regista e creatrice di effetti visivi, realizza un film con un ritmo che non perde mai un colpo.

Essendo tutti usciti da una pandemia che ci ha chiusi in casa nei precedenti due anni, nel vedere questo film con una donna ostinatamente chiusa nel suo attico a svolgere attività on line, facendo un po’ di conti viene naturale pensare che il film sia stato pensato proprio in quel periodo e che dunque è un altro di quei progetti che hanno visto la luce come reazione propositiva al lockdown. Emma, che aiuta gli altri ma non sempre, e che non sa aiutare se stessa, corre sempre e la sua corsa è una metafora, o la fisicizzazione di un disturbo: come comprendiamo subito, quando la contatta la sorella che non vede da 26 anni, sta scappando dal suo passato e, soprattutto, da suo padre. E noi che abbiamo visto centinaia di puntate di “Law & Order – Special Victims Unit” sappiamo subito di che si tratta, e qui sta la parte più debole della storia che non è riuscita a immaginare per la protagonista una fuga da un passato ormai troppo banale perché cinematograficamente e televisivamente abusato. Insomma, un abuso dell’abuso. C’è poi la sequenza dei pazienti-clienti e dei loro disturbi e confessioni: una carrellata di varia umanità messa insieme nel modo più accattivante possibile scremando tutte le varianti immaginabili, dall’ossessivo compulsivo all’aspirante suicida, all’adolescente che fa i conti con la propria omosessualità; e qui viene in mente un’altra serie di successo, la psicoanalitica “In Treatment”. Perché, se la sceneggiatura nell’insieme è un congegno perfetto, nello specifico risente troppo di tanta cinematografia di genere e soprattutto di serialità televisiva, ancorché di qualità internazionale. E il film, magistralmente diretto dalla regista debuttante, inevitabilmente si colloca fra i film di genere di quella produzione tv di qualità come Sky o Netflix o Paramount+. C’è di buono, oltre a quanto detto, che il dramma personale della protagonista viene risolto senza ulteriori stucchevoli drammatizzazioni e senza abusare della nostra pazienza, oltre a tanti altri acuti dettagli della messa in scena: la vista dalla scatola di vetro dell’attico sul parco popolato di vita reale nel quale alla fine la protagonista scenderà a respirare, e poi il disordine di alcuni scatoloni in un angolo dell’algido appartamento, insieme alle prove dei colori sulla parete da dipingere: dettagli sparsi che danno umana profondità alla storia.

“Dirigere ‘Tapirulàn’ ed esserne allo stesso tempo la protagonista, è stato un lavoro complicato e molto impegnativo soprattutto per una prima regia. Il grande trasporto che ho sentito per il personaggio di Emma mi ha dato coraggio e, con energia ed entusiasmo, ho potuto sperimentare e creare un mondo all’interno della casa. La grande sfida era quella di rendere dinamico e vivace il racconto per immagini, poiché Emma rimane per tutto il film sopra una macchina imponente, dialogando con i suoi pazienti-clienti sempre e solo attraverso uno schermo. Ho cercato di sfruttare al meglio questi ‘impedimenti’ e queste difficoltà, cercando di muovere il più possibile le inquadrature e facendo in modo che la partecipazione emotiva di Emma verso i problemi dei suoi pazienti-clienti fosse davvero forte, oltre a rendere ‘tangibile’ la sua empatia attraverso i suoi occhi e i suoi respiri”. Ricordiamo che la 52enne attrice-regista si è potuta fisicamente permettere il film perché è in magnifica forma: è cintura nera di Taekwondo.

Il resto del cast: oltre a Fabio Morici come supervisore ci sono Claudia Vismara che è la sorella, Marcello Mazzarella che è il padre e Corrado Fortuna che fa il toy-boy, mentre i pazienti-utenti sono: Alessandro Bisegna, Niccolò Ferrero, Lia Greco, Maurizio Lombardi, Stefano Pesce e Daniela Virgilio. Ognuno con una storia che potrebbe svilupparsi come spin-off. Anche se il film non è stato premiato al botteghino vale sicuramente una bella serata davanti la tivù. E occhio alla neo-regista alla quale auguro di poter dirigere storie dove lei non sia la protagonista, non perché le manchino il talento e l’energia per fare entrambe le cose, ma perché così avrebbe modo di esplorare storie differenti e accreditarsi come regista a tutto tondo.

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Diabolik – 1968

1968. Il fumetto Diabolik nato sei anni prima è già un grande successo e dunque la trasposizione cinematografica fa gola ai produttori, soprattutto dopo che Kriminal, nato dopo Diabolik, è già diventato un film e un sequel è in allestimento nonostante il tiepido successo che, in ogni caso, ha portato a casa le spese con gli interessi: non c’è aspirazione al capolavoro ma l’obiettivo è piazzare un buon action-noir fra i tanti spaghetti-western e i film con Franco e Ciccio. Dino De Laurentiis, ancora per pochi anni padrone di Dinocittà a Roma prima di trasferirsi definitivamente negli USA, acquista i diritti dalle Sorelle Giussani e inizialmente, lui che è un grande scopritore di talenti a basso costo, affida la regia al debuttante Tonino Cervi figlio del divo Gino Cervi, ma qualcosa non funziona perché dopo appena una settimana il neo regista viene licenziato, probabilmente perché ha una forte personalità e vuole avere un maggior controllo sul film; tant’è che quello stesso anno debutta con uno spaghetti-western di cui è anche produttore e co-sceneggiatore con Dario Argento: “Oggi a me… domani a te”, che fu pure un successo, tanto da venire distribuito negli USA.

Mario Bava

Lo screzio deve aver irritato non poco De Laurentiis che non se lo aspettava e ora non ha un degno sostituto; si fa avanti un amico delle sciurette fumettiste, anche sceneggiatore dell’uomo mascherato, l’appassionato di cinema e specificamente di cinema horror Corrado Farina, già regista di cortometraggi amatoriali che hanno ricevuto consensi nei festival nazionali ed esteri; De Laurentiis però non se la sente di affidargli una macchina complessa e milionaria come Diabolik e Farina, per nulla offeso dai dubbi, gli consiglia come regista il re dell’horror Mario Bava. Il film necessitava di parecchi effetti speciali e Bava ne era maestro dato che aveva iniziato a lavorare nel cinema proprio come effettista, divenendo poi direttore della fotografia e operatore di macchina prima di passare alla regia: dunque conosceva molto bene il mestiere e nonostante la lunga e variegata carriera sapeva sempre mettersi al servizio dei progetti, poiché spesso abituato a lavorare con bassi budget in tempi stretti e cast non sempre all’altezza, e confezionando comunque film dignitosi anche se inevitabilmente di serie B – molti dei quali oggi divenuti del cult. Per De Laurentiis era il regista perfetto: gli offrì il budget più alto che il regista avesse mai avuto a disposizione, duecento milioni di lire, che per il produttore erano però spiccioli, abituato com’era a produrre kolossal hollywoodiani come “Guerra e pace” di King Vidor, “Barabba” di Richard Fleischer e “La Bibbia” di John Huston, tanto per citare i più noti; e Bava era così abituato a ottimizzare che i duecento milioni non li spese neanche tutti e De Laurentiis ne fu così contento che subito gli propose di firmare per il sequel, ma il regista gli diede un due di picche perché irritato dal fatto che il produttore gli aveva imposto di non girare scene troppo violente perché intimorito dalla censura, scene che Bava riteneva necessarie in quanto più fedeli al fumetto e alla sua visione del progetto. Il regista ha dichiarato: “Mi ha chiamato per dirigere il seguito. Gli ho fatto dire che sono ammalato, invalido a letto, permanentemente”. Come oggi sappiamo il film non fu un gran successo e non ci fu nessun sequel.

Era il momento di chiudere il cast. Con Mario Bava alla regia, che firmava anche la sceneggiatura a 4, decadde il nome del francese Jean Sorel che era stato scelto da Tonino Cervi e De Laurentiis fu felice di sostituirlo con l’americano John Phillip Law che già aveva sotto contratto per il contemporaneo “Barbarella” di Roger Vadim che stava subendo dei ritardi nella lavorazione, così con un piccolo incentivo spostò l’attore da un set all’altro – Mario Bava però alla fine non ne fu contento perché ritenne l’attore troppo insulso. Come Eva Kant la prima scelta era stata una sconosciuta modella in quanto amichetta di qualcuno della produzione, però dopo appena una settimana di girato fu licenziata perché evidentemente non sapeva recitare, non sapremo mai il suo nome, e al suo posto arrivò sul set nientemeno che Catherine Deneuve: una francese per il francese Jean Sorel che era stato fatto fuori, dato che era una coproduzione Italia-Francia, girata però in lingua inglese guardando al mercato internazionale. Ma anche la Deneuve durò pochi giorni perché non voleva girare le scene di nudo e si era scontrata col regista. C’era bisogno di un’attrice più disponibile e venne chiamata l’austriaca Marisa Mell (Marlies Theres Moitzi sulla carta d’identità) già regina della dolce vita romana da quando Mario Monicelli l’aveva importata per il suo “Casanova ’70”, film che però era del ’65…. sarà che andava di moda portarsi avanti con gli anni, forse anche auto consegnarsi una patente di innovatori, dato che già nel 1962 era uscito “Boccaccio ’70” e quello stesso 1968 usciranno “Montecristo ’70” “Manon ’70” e “Gangsters ’70”. Per l’onore e i soldi della Francia scese in campo il divo Michel Piccoli come Ispettore Ginko, mentre per il nostro Adolfo Celi fu addirittura creato un personaggio ex novo, il cattivo Ralph Valmont, dato che Celi si era appena messo in luce nel cinema internazionale come cattivo in “Agente 007: operazione tuono” (1965) cui erano seguiti altri importanti ruoli oltreoceano – qui però l’attore è doppiato da Emilio Cigoli, la nota voce profonda con un leggero birignao di John Wayne. John Phillip Law fu doppiato da Giancarlo Maestri, Michel Piccoli da Gigi Proietti e Claudio Gora da Roberto Villa. Non si ha notizia della doppiatrice di Marisa Mell.

Il film di Mario Bava è ispirato al fumetto “Sepolto vivo” e si chiude con un finale aperto che lascia presupporre un sequel come un seguito c’è nel fumetto, e benché il film sia vecchio più di mezzo secolo, rispetto al Diabolik odierno dei Manetti Bros. è senz’altro più spettacolare e ancora godibilissimo perché è un gioiellino assai visuale di cinema pop molto in tendenza con l’avanguardia artistica dell’epoca che era optical, psichedelica e neo-futurista; è molto colorato e per questo assai distante dal fumetto, non perché il fumetto sia in bianco e nero ma perché è denso di atmosfere cupe che nel film diventano un esplosivo caleidoscopio. Distanti dal fumetto anche i due personaggi principali che, in questa sceneggiatura, diventano comprimari del vero protagonista: Ginko. Il Diabolik di John Phillip Law è funzionale, con un trucco che lo fa assomigliare molto al personaggio, anche se per lui il regista inventa addirittura una tuta bianco argento; mentre Marisa Mell, che potenzialmente poteva essere molto somigliante a Eva Kant, sembra però spiazzata e spiazzante, come fuori parte e non a suo agio; indossa sempre lisce parrucche biondo cenere e mai l’iconico chignon, look che la rende iper-moderna ma poco Eva; inoltre, in linea con lo stile, indossa striminziti e coloratissimi abitini nude-look che la signora dei fumetti, benché assai sensuale, non indossava – tuttalpiù qualche vertiginosa scollatura. I due performano scenette sexy con dei nudi vedo-non-vedo e sembrano più provenire dal mondo del “Barbarella” in contemporanea produzione che dai fumetti delle Sorelle Giussani.

L’ispettore Ginko interpretato da Michel Piccoli fece molto discutere perché per molti fan non somigliava affatto al personaggio mentre le stesse creatrici intervennero in difesa (e ci mancherebbe!) dell’attore dichiarando: “Ginko si riconosce per quello che fa, non per il suo volto” e Michel Piccoli lo fa con grande naturalezza, da attore quotato che interpreta un centrato commissario di polizia in un noir, a prescindere dal criminale cui dà la caccia che solo accidentalmente è l’iconico Diabolik e solo casualmente il film è un concentrato di pop art, e la sua interpretazione pervade l’intero film divenendone il vero protagonista. Il cattivo di Adolfo Celi è da antologia e a lui vanno le battute migliori del film. Riuscitissima anche l’interpretazione dell’attore brillante inglese Terry Thomas nei panni del ridicolo ministro delle finanze, doppiato da Renzo Palmer che poi lo sostituisce in figura sulla poltrona da ministro nel film, mentre l’ex ministro delle finanze si ricicla come ministro dell’interno nelle porte girevoli dei palazzi della politica, nella finzione filmica ispirata alla pratica reale. Claudio Gora è l’immancabile ispettore di polizia sempre al seguito del ministro, mentre in ruoli minori sono da segnalare il camionista raggirato da Eva Kant interpretato da Carlo Croccolo, l’anziana lady vittima del furto clamoroso che è Caterina Boratto, Lidia Biondi come poliziotta e Lucia Modugno come prostituta, mentre l’ex pugile Tiberio Mitri è uno sgherro del cattivo Valmont. La colonna sonora fu firmata da Ennio Morricone ma rimase inedita e venne pubblicata in due CD solo nel 2001; l’unico brano che si affacciò sul mercato discografico fu “Deep Down” come lato B di un 45 giri interpretato da Christy (Maria Cristina Brancucci), il cui lato A era “Amore amore amore amore” tratto dalla colonna sonora del film “Un italiano in America” di e con Alberto Sordi: strano destino per una canzone di Morricone.

Come già detto la forza del film è, oltre che nel ritmo, nella parte visiva e va rivelato che Mario Bava, già creatore di effetti speciali e direttore della fotografia, ha inventato per il film degli straordinari effetti visivi: il famoso rifugio-caverna di Diabolik era in realtà un set vuoto e quando Law arrivò per girare la scena con Eva e la Jaguar, rimase sorpreso non vedendo nulla, così chiese al regista dove fosse la scenografia e Bava lo condusse dietro la macchina da presa mostrandogli cosa aveva preparato: pezzi di plastica e vetro colorati che in proiezione sarebbero diventati la scenografia fisicamente inesistente: se non è genio questo! De Laurentiis fu ovviamente piacevolmente sorpreso da quei semplici ma efficaci effetti visivi a costo prossimo allo zero, e compiaciuto dichiarò: “Dirò alla Paramount che questo set ci è costato 200.000 dollari!“. Anche le scene all’interno dell’appartamento seguono la stessa linea creativa.

Con 200 milioni di budget di cui una parte non spesa, il film incassò appena 265 milioni ma ci fu poi un ulteriore ritorno dal mercato estero dove il film, che piacque molto più che in Italia, uscì col titolo “Danger: Diabolik”. La rivista francese Cahiers du Cinéma scrisse: “Gli effetti anamorfici, gli sbandamenti di ordine percettivo in ogni inquadratura, la costante discontinuità spazio temporale, concorrono alla costruzione di un universo dalla bellezza prorompente, improbabile e autoritaria“. E il severissimo americano Roger Ebert, commentò: “Forse perché è meno pretenzioso, Diabolik ha avuto più successo di Barbarella, ed è anche più divertente“. E concludo col mio ben più modesto parere: è molto più divertente del nuovo Diabolik dei Manetti Bros. Il film è disponibile su YouTube.

Diabolik – dal primo fumetto all’ultimo film

Tanto per cominciare lo pronunciamo tutti, anche nel film, Diabòlik, seguendo l’accentatura dell’italiano diabolico, mentre secondo le intenzioni delle autrici e secondo il sito ufficiale – http://www.diabolik.it – la pronuncia dovrebbe essere Diabolìk seguendo l’accentatura del francese diabolique, ma vabbè, vox populi vox dei.

Creato nel 1962 dalle sorelle Angela e Luciana Giussani, di fatto fu inizialmente ideato da Angela, bella signora milanese che dopo aver calcato le passerelle come modella, sposa l’editore Gino Sansoni e comincia a lavorare nella di lui casa editrice Astoria Edizioni che si era specializzata nelle riviste chiuse, pubblicazioni con la copertina chiusa che contenevano materiale per adulti, racconti foto e fumetti, che per essere lette bisognava tagliarne la copertina: dunque non era possibile darci un’occhiata veloce in edicola e andavano comprate; ovviamente la produzione non era tutta lì e la signora Angela si occupò di una collana per ragazzi, salvo poi volere una propria casa editrice per avviare progetti tutti suoi, e dato che era stata regolarmente assunta si licenziò e con la liquidazione creò l’Astorina, sorta di costola dell’Astoria la cui sede venne creata all’interno del vasto appartamento che già ospitava l’Astoria. La signora comincia l’avventura editoriale pubblicando giochi in busta e importando dagli Stati Uniti un fumetto su un pugile, Big Ben Bolt, al quale poi affianca un nuovo progetto ispirato da un romanzo che aveva trovato in treno, Fantômas, un noir rigorosamente francese pubblicato in avventure seriali su uno spietato criminale abilissimo nei travestimenti e dotato di intelligenza diabolica. Nasce così l’italiano Diabolik, con un nome fantasy che non proviene da nessuna lingua, un anglo-francese maccheronico: da noi, a quell’epoca, aggiungere una kappa significava conferire una nota di pericoloso esotismo a nomi altrimenti troppo italiani e dunque banali; sono gli anni in cui vengono creati anche Satanik e Kriminal, il meno noto Zakimort e a seguire arrivano le parodie: Cattivik di Bonvi e il film “Arriva Dorellik” interpretato dal cantantattore Johnny Dorelli e diretto da Steno.

Il primo numero di Diabolik è interamente scritto da Angela Giussani con i disegni del misterioso Angelo Zarcone detto “il tedesco” perché portava in redazione il biondissimo figlioletto avuto da una relazione con una tedesca, che inoltre andava in giro indossando pantaloncini e zoccoli proprio come un turista tedesco. All’epoca disegnava per l’adulta Astoria il fumetto sexy “Alboromanzo Vamp” e, com’era in uso, gli autori, scrittori e disegnatori, non si firmavano per non essere rintracciati dal fisco; oltre a questo, di Zarcone si sa poco perché era un tipo assai sfuggente: l’editore Sansoni doveva appostarsi sotto la pensione nella quale viveva per costringerlo a farsi consegnare le tavole, puntualmente sempre in ritardo; mentre a sua insaputa stava disegnando anche la nuova creatura d’esordio della di lui consorte, solo che, appena consegnato il lavoro sparì senza lasciare traccia e inutili furono le ricerche. L’albo uscì il 1° novembre del 1962 con la copertina disegnata da Brenno Fiumali, e quando due anni dopo vennero ristampati a grande richiesta i primi 17 numeri, Marchesi ridisegnò il numero uno del misteriosamente scomparso Angelo Zarcone.

Nel 1982, a vent’anni da quel numero uno, le sorelle Giussani ingaggiarono addirittura l’investigatore americano Tom Ponzi per trovarlo, ma senza successo; solo nel 2005 Brenno Fiumali incontra Zarcone, non si sa come e dove, e in seguito ne disegnerà a memoria il volto, mentre la ragione della sua sparizione resterà un mistero, poi indagata dal regista Giancarlo Soldi nel docufilm “Diabolik sono io” in cui si ipotizza un incidente cui è seguita un’amnesia dissociativa – ma oltre le ipotesi la verità resterà un enigma. I Manetti Bros. autori di questo film del 2021, sono presenti come testimonial ed esperti di Diabolik nel docufilm visibile a pagamento su YouTube; qui di seguito il trailer.

Il numero 1

Angela Giussani, con piglio da moderna imprenditrice, condusse un’informale indagine di mercato osservando in prima persona i pendolari alla stazione ferroviaria non lontana da casa: i lavoratori durante lo spostamento leggevano per lo più romanzi gialli, di facile presa; e anche nella rivista allora per eccellenza, Grand Hotel, le storie che avevano più seguito erano quelle a tinte forti, per non dire che i titoli di maggior successo della casa editrice del marito erano quelli con copertine sessualmente allusive e titoli morbosi: dunque erano quelle le tracce su cui muoversi e di suo, la signora, ebbe la brillantissima intuizione del formato tascabile, che entrasse appunto nelle tasche e nelle borse, formato che avrà moltissimi epigoni, di lettura facile e veloce ma che soprattutto doveva costare poco, 150 lire, meno di 2 euro odierni. Il numero 1 non è lo sperato successo commerciale e per il numero 2, pensando anche al risparmio, chiama la sorella Luciana alla co-scrittura della storia che, sparito Zarcone, fa disegnare all’amica modista Kalissa Giacobini. Ed è nel fatidico numero 3, “L’arresto di Diabolik” che entra in scena e nella vita del criminale la fascinosa Eva Kant che deve l’invenzione del suo cognome al filosofo Immanuel Kant su cui Angela aveva fatto la sua prima tesina al diploma magistrale.

È dal 14esimo numero che Luciana viene ingaggiata stabilmente nella creazione degli albi e nella conduzione della casa editrice, e insieme racconteranno di essersi ispirate per la creazione di Diabolik a un fatto di cronaca nera accaduto a Torino nel 1958: un 27enne venne trovato nel suo letto in una pozza di sangue con i segni di diciotto coltellate sul petto; le indagini presero anni creando un mistero che appassionò l’opinione pubblica, fino a che l’assassino non inviò un biglietto al commissariato di polizia in cui si firmava Diabolich, a sua volta probabilmente ispirato dal Diabolic protagonista del romanzo “Uccidevano anche di notte” del giallista Italo Fasan che si firmava Bill Skyline. Il fantomatico Diabolich non fu mai catturato e alla sua vicenda pare si sia ispirato anche l’americano Assassino dello Zodiaco. Realtà e finzione che si ispirano a vicenda, perché forse gli psicopatici assassini hanno bisogno da dare un senso alto, un significato superiore, alle loro azioni, mentre scrittori ed editori hanno bisogno della cruda realtà per rendere più scandalosamente emozionanti le loro storie. E col terzo numero arrivarono i guai giudiziari: l’editrice, per promuovere la sua nuova creatura, ebbe l’idea di distribuire copie omaggio ai ragazzi delle scuole medie, ma questo venne visto come un tentativo di traviare la sana gioventù; ne seguì un processo nel quale Angela Giussani fu assolta perché nella copertina Diabolik compariva con i polsi incatenati e davanti a una ghigliottina a monito per le sue indicibili colpe. Resta da svelare come fu creato il nome dell’Ispettore Ginko: fu semplicemente inserita una K, tanto per non cambiare, all’interno del nome Gino, che era Gino Sansoni marito di Angela.

Il primo film su Diabolik è del 1967 diretto dal maestro degli effetti speciali Mario Bava, che non fu un gran successo commerciale ma che negli anni è divenuto, come spesso accade, un cult. Bisogna aspettare più di mezzo secolo perché un’altra produzione cinematografica si metta in moto su idea dei Manetti Bros., Marco e Antonio, anche direttori della fotografia, produttori e sceneggiatori oltre che registi: registi di genere, appassionati di cultura pop anni ’70 e di horror misto a un gusto dissacrante che vira nella commedia grottesca, un po’ alla Quentin Tarantino de noantri, e nelle loro prime produzioni mischiano generi che tutti insieme non hanno fatto presa al botteghino anche perché i nostri, pur essendo dei cineasti rifiniti, non hanno il genio e la visione dei maestri. E questo loro Diabolik ne è la prova.

Scrivono la sceneggiatura con Michelangelo La Neve, loro amico e assiduo collaboratore che fu anche – fu perché è morto 62enne in questo 2022 – sceneggiatore di fumetti come Dylan Dog, Martin Mystère oltre che Diabolik. Nel cast la scelta più infelice, anzi di più, disastrosa, è quella di Luca Marinelli che interpreta il suo Diabolik leggendolo in chiave psicoanalitica e dimenticandosi di avere a che fare con una maschera, un personaggio da fumetto nato nei primi anni ’60, a cui la profondità psicologica è sconosciuta e aliena; ne fa un lugubre psicopatico che a tratti si muove anche come un automa, e gli manca del tutto la caratteristica primaria: quel fascino magnetico foriero di tanti pericoli che il nostro uomo mascherato dagli occhi di ghiaccio possiede; e a dirla tutta Marinelli è anche poco somigliante e appare anche ridicola l’attaccatura a punta sulla fronte. Più centrati e somiglianti i comprimari: Miriam Leone è fascinosa come abbiamo sempre percepito Eva Kant, ma il lavoro migliore lo fa Valerio Mastrandrea come Ginko perché ha dalla sua una recitazione asciutta che non cerca a vuoto facili effetti che non ci sono. Miriam Leone passa l’esame perché fa quello che le riesce meglio, essere credibile, senza però mai arrivare a una vera interpretazione da attrice raffinata che controlla i suoi mezzi espressivi inserendo nel personaggio sfumature che non ha: è bella e fa la bella che sa essere ambigua e seducente, tutto il resto non le compete. Basta guardare l’interpretazione del cameo di Claudia Gerini per capire di che parlo, una vera attrice che interpreta – lei sì – una maschera in commedia, un personaggio inesistente creato da Eva Kant con una maschera di lattice: una sciura milanese con la R moscia che accende lo schermo per la breve durata del suo intervento, e quando Eva Kant si leva la maschera e torna Miriam Leone finisce l’incanto.

Il film, che segue il plot del fumetto n° 3, è un buon prodotto ma non un capolavoro, laddove ai Bros. non è dato creare capolavori: manca un’idea specifica, una chiave di lettura autorale, e si rimane nel film di genere, a tratti anche noioso perché troppo parlato senza avere dialoghi particolarmente brillanti. Se i Fratelli avessero saputo azzardare avrebbero potuto realizzare un film in un tagliente bianco e nero per richiamarsi alle tavole originali del fumetto o, sempre in quest’ottica, montare una serie di inquadrature ferme come fosse appunto una sequenza di tavole disegnate, salvo creare un movimento esasperato nelle scene di azione – invece muovono la cinepresa come se stessero girando né più né meno che un film per la tivù.

Notevolissima, invece, la colonna sonora degli storici collaboratori dei fratelli registi, Pivio (Roberto Pischiutta) e Aldo De Scalzi, che in ogni circostanza del film creano sempre la giusta atmosfera in puro stile anni Sessanta; si aggiungono due canzoni originali di Manuel Agnelli che è l’unico a vincere su 11 candidature ai David di Donatello. Ma sono notevoli anche l’ambientazione tutta in stile italiano, come nei fumetti, con scritte e insegne in italiano nonostante la collocazione sia nella fantasiosa Clerville: un pastiche fantasy pensato e voluto dalle Sorelle Giussani, che colloca le azioni in un immaginario paese estero senza allontanarsi dalla cultura popolare italiana; scenografia di Noemi Marchica, costumi di Ginevra De Carolis, trucco e parrucco di Francesca Lodoli.

Fra gli altri interpreti il ruolo più corposo, quello dell’ambiguo vice ministro innamorato di Eva Kant, è andato a un altro fedelissimo dei fratelli, l’Alessandro Roia (alterimenti Roja) assurto alla notorietà come Dandi nella serie tv “Romanzo criminale” e, proprio perché i Fratelli non pensano a dirigere gli attori, anche lui fa del suo meglio senza convincere del tutto nonostante il personaggio sia molto ben scritto e accattivante. Centrati, invece, tutti gli altri ruoli assegnati a caratteristi di lungo corso che nei loro curriculum hanno anche dei ruoli da protagonisti: Serena Rossi è l’ignara prima compagna di Diabolik che nel fumetto finirà al manicomio, Vanessa Scalera è la compiacente segretaria del vice ministro e Luca Di Giovanni è il cameriere di cui Diabolik indossa la maschera e che è costretto a replicare l’automa a cui Luca Marinelli ha dato vita (si fa per dire!); Roberto Citran è l’azzimato direttore d’albergo, Antonino Iuorio l’ebete direttore del carcere, Daniela Piperno l’adeguata (dis)funzionale direttrice di banca; Urbano Barberini nel piccolo ruolo di un politicante e Pier Giorgio Bellocchio (figlio del regista Marco) interpreta un poliziotto nel tempo libero che gli rimane dall’impegno principale, quello di produttore esecutivo per la Mompracem dei Manetti e per Rai Cinema.

Anche questo film è incappato nelle chiusure della pandemia: la prima uscita era prevista per il 31 dicembre 2020 ed è stata posticipata di un anno, e nonostante la distribuzione accidentata ha avuto ottimi incassi, tanto da far mettere in cantiere addirittura due sequel che gli autori hanno pensato durante il lockdown. Luca Marinelli però è fuori gioco, non si sa se per coscienziosa scelta personale o scelta della produzione: la versione ufficiale è che aveva altri impegni. E a indossare la calzamaglia di Diabolik sarà l’italiano naturalizzato canadese Giacomo Gianniotti che è assurto alla notorietà come dottor Andrew DeLuca nella serie “Grey’s Anatomy” dove era doppiato da Marco Vivio; ma dato che Gianniotti parla anche l’italiano, sentiremo la sua vera voce nei Diabolik numero due e tre? A proposito di voci: quelle di Marinelli e Mastrandrea hanno all’inizio un impatto negativo perché troppo leggere: siamo abituati, viziati, a sentire i personaggi in calzamaglia e in genere quelli iconici con le voci pastose e profonde dei nostri doppiatori, anche riconoscibili di film in film e di serie in serie; ma mentre Mastrandrea nel corso del film risulta accettabile perché convincente è la sua interpretazione, il tenorile biascichio di questo primo Diabolik risulta davvero penoso: archiviato. E ricordandoci che è del 1968 il primo film su Diabolik diretto da Mario Bava, per il futuro non ci resta che attendere.

Giacomo Gianniotti