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IL SOSPETTO – omaggio a Francesco “Citto” Maselli

Sarò sincero, non sono mai stato un fan dell’appena scomparso 92enne Francesco Maselli e trovando su YouTube questo suo importante film che ho visto per la prima volta, confermo la mia posizione: il suo impegno politico e sociale prevarica l’attenzione per il pubblico, tant’è che i suoi film non hanno mai avuto grande riscontro al botteghino. Ci sono film di maestri coevi, Francesco Rosi Florestano Vancini ed Elio Petri tanto per citare i primi che mi vengono in mente, che pur indagando la politica e il sociale non derogano da quella che dovrebbe una delle regole portanti del cinema: la spettacolarità, che non sono solo botti e botte da orbi, ma soprattutto scrittura accattivante e ritmo coinvolgente: chi continuerebbe a leggere un libro che risulta ostico se non noioso sin dalle prime pagine?

Francesco Maselli è “nato bene” come si diceva una volta, in una famiglia di intellettuali romani: suo padre era un critico d’arte che ospitava nel suo salotto i bei nomi intellettuali e progressisti dell’epoca, ed era intimo amico di Luigi Pirandello che gli dava da leggere in anteprima i suoi manoscritti, e fu proprio Pirandello a tenere a battesimo Francesco affibbiandogli il nomignolo Citto. Il ragazzo si dimostrò anch’egli un intellettuale precocissimo: a sette anni aveva già imparato l’Amleto a memoria; e a tredici, durante l’occupazione tedesca della capitale, portava armi e cibo ai partigiani del Gap, Gruppo d’Azione Partigiana; e a seguire, a soli quattordici anni riuscì entrare nell’allora clandestino Pci, Partito Comunista Italiano. In quegli anni gira anche i suoi due primi cortometraggi in 8mm fra i 15 e i 17 e ancora 17enne viene accettato al Centro Sperimentale di Cinematografia da cui si diploma 19enne; sarà subito assistente di Luigi Chiarini, critico e teorico del cinema fra i fondatori del Centro, suo padrino professionale, oltre ad affiancarsi come aiuto di Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti: insomma, il giovane Citto “nato bene” non ha dovuto sgomitare per lavorare coi migliori. Si comincia già a delineare il suo talento come documentarista che è in linea coi suoi impegni politici e civili e probabilmente proprio in questo tipo di cinematografia riesce a dare il meglio: perché essendo film dichiaratamente documento non hanno l’obbligo – ammesso che sia un obbligo – della spettacolarità, ovvero di dover piacere al grande pubblico. Perché questo sarà il nodo irrisolto di tutta la cinematografia di Citto Maselli: non riesce a piacere al pubblico di massa, tanto che per indagare questo aspetto andrà anche in analisi. Di fatto l’autore mette sempre in primo piano la politica che, di fatto, è la sua formazione emotiva, quella che ha formato l’adolescente; racconta i suoi personaggi e struttura i suoi film secondo una visione intimamente marxista, facendone dei casi-limite, esempi di un’umanità e di contesti sociali che finiscono con l’essere poco accattivanti e indigesti al botteghino.

Prendiamo ad esempio questo “Il sospetto” del 1975, che per non essere confuso col film omonimo del 1941 di Alfred Hitchcock “Suspicion” in originale, verrà distribuito come “Il sospetto di Francesco Maselli” (poi ci sarà un altro film omonimo nel 2012 del danese Thomas Vinterberg). Ambientato nella Torino del 1934, centro nevralgico di interessi politici della sinistra operaia per la gran massa di operai della Fiat, racconta di un dirigente del Partito Comunista Italiano in clandestinità perché si è nel bel mezzo del cosiddetto ventennio fascista.

Scorcio parigino del film

L’ambientazione è inappuntabile e accattivante, si fa grande sfoggio di auto d’epoca e di comparse bene acconciate, e la cinematografia di Giulio Albonico insieme al montaggio di Vincenzo Verdecchi scarnificano l’opera rendendola fascinosamente essenziale, senza sbavature e inutili compiacimenti – ma già alla base del progetto c’è una scrittura – sceneggiatura di Franco Solinas (già critico cinematografico per il quotidiano comunista l’Unità) da un soggetto dello stesso Maselli – che sembra non tenere conto degli spettatori: è scritto come se parlasse solo ai tesserati del partito, dando per scontati dettagli informazioni e utili raccordi che vengono a mancare a chi non è addentro a quelle specifiche dinamiche, col risultato che io spettatore “non iniziato” e non iscritto al Partito Comunista faccio fatica ad entrare nello spirito del film, della sua narrazione; è esemplare il finale del film con il lungo monologo-spiegazione del funzionario del partito fascista, che dà un senso all’intero impianto del film ma che nelle mani di altri cineasti sarebbe potuto diventare un confronto più serrato e drammaticamente vivo; e l’intera storia che contiene tutti gli elementi di un thriller – il sospetto che ci sia un traditore fra le fila dei comunisti e l’indagine per smascherarlo – viene invece condotta come un film a tesi che spiega solo le dinamiche interne al partito: le tesi appunto e i contrasti, i dirigenti in clandestinità e quelli in esilio all’estero, l’allontanamento ideologico dal Partito Socialista Italiano, le direttive imposte dall’alto e il sacrificio individuale.

Ne è protagonista il sempre centratissimo Gian Maria Volonté, anch’egli comunista attivissimo: proprio in quel 1975 fu eletto consigliere regionale del Lazio, carica da cui si dimise appena sei mesi dopo, motivando: “Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia: io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso” a dimostrazione che la purezza e l’integrità ideologica non possono andare di pari passo con l’attività politica sul campo che deve fare i conti con le varie realtà trasformando l’iniziale ideologia in fatti concreti. A latere bisogna sempre ricordare che quelli erano i cosiddetti anni di piombo (modo di dire derivato dal film omonimo del 1981 della tedesca Margarethe Von Trotta) del terrorismo di destra e sinistra che aveva fatto del territorio italiano un campo di battaglia, si suppone col supporto dei servizi segreti americani che temevano l’espandersi della comunista Russia nell’Europa Occidentale: già nel film si parla dell’Unione Sovietica come ideologico faro dell’umanità. E anche in tale contesto va collocata l’ispirazione politica di autore e protagonista.

Fanno da contorno a Volonté un insolito Renato Salvatori per chi lo ricorda brillante giovanottone che era arrivato al successo negli anni ’50 con la trilogia di Dino Risi dei “Poveri ma belli” e, nonostante fosse quasi sempre doppiato ebbe anche bei ruoli in film drammatici; ma per Salvatori quegli anni ’70 erano già gli anni del declino: aveva ceduto all’alcolismo e consequenzialmente veniva chiamato per ruoli meno impegnativi benché sempre tenuto in considerazione da amici e colleghi; morirà 55enne di cirrosi epatica. Nel ruolo della dirigente italiana in esilio a Parigi c’è la parigina Annie Girardot, amica di famiglia essendo l’ex moglie di Salvatori con il quale era rimasta in affettuosi rapporti: si erano conosciuti nel 1960 sul set di “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, film che peraltro segnò l’apice della carriera di lui come interprete drammatico. Nel ruolo di un altro dirigente di partito c’è il torinese doc Felice Andreasi che era appena divenuto noto come ospite fisso del televisivo “Il poeta e il contadino” condotto da Cochi e Renato. Chiude il cast dei ruoli principali il sempre eccellente Pietro Biondi, l’unico ancora in vita fra gli elencati, nel ruolo del monologante agente dell’OVRA, la polizia politica fascista. Accreditato nel cast benché con un ruolo da figurante in campo lunghissimo c’è l’emergente Gabriele Lavia che già al cinema aveva avuto ruoli da protagonista: si suppone che il suo personaggio si sia perso in sala di montaggio.

protagonista e regista

L’occasione della scomparsa di Citto Maselli mi accende la curiosità sulla sua filmografia che non ho mai frequentato, con un focus sui lavori collettivi, i cosiddetti film a episodi, e quelli più onestamente politici e documentaristici. Nel 1981 Maselli ha confessato a Paese Sera: “Ho un’ambizione che non ho mai rivelato a nessuno, nemmeno a me stesso. È quella di essere dimenticato come regista e riscoperto, invece, come fotografo… La cosa più orribilmente sincera che abbia mai detto.” E inquadrati in quest’ottica i suoi film sono più fotografici che narrativi, nel senso che staticamente si focalizzano su personaggi e situazioni senza raccontarne lo sviluppo, la dinamicità, il divenire, e in questo modo congelando ogni afflato emotivo. Interessante la sua svolta negli anni ’80 con quattro film incentrati sulla donna: “Storia d’amore” del 1986 gran successo al Festival di Venezia dove l’autore vince il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria mentre alla protagonista Valeria Golino va la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. Nel 1988 segue lo sperimentale “Codice privato” con Ornella Muti unica interprete del film, nominata ai David di Donatello, ai Nastri d’Argento agli European Film Awards e vincitrice del Ciak d’Oro. Del 1990 sono gli altri due film con protagonista Nastassja Kinski, “L’alba” e “Il segreto”, film però entrambi clamorosamente bocciati dalla critica senza dire che il pubblico li ha praticamente ignorati.

Francesco Maselli, oltre a essere cineasta non ha mai abbandonato l’attività politica dedicandosi in particolare alla scrittura saggistica e mantenendo il suo ruolo, fondamentale, come militante della sinistra italiana. Nel 2001 dette vita alla Fondazione Cinema nel Presente riunendo una trentina di autori rappresentativi di tutte le generazioni del cinema italiano, fra i quali: Francesca Comencini, Wilma Labate, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo, Ettore Scola e Pasquale Scimeca; fondazione che produrrà molti di quei documentari collettivi in cui ha dato il meglio di sé. Andiamo a riscoprirlo.

Il signore delle formiche

Forse casualmente, nel centenario della nascita di Aldo Braibanti, Gianni Amelio esce con questo film, di certo cominciato a pensare quando Braibanti morì nel 2014. Un film in cui salta subito agli occhi, vivaddio, una recitazione di altissimo livello con un cast che mischia grandi professioni a molti debuttanti, in pratica tutti gli emiliani i cui nomi sono accompagnati dalla scritta per la prima volta sullo schermo: Leonardo Maltese, che regge alla grande un lunghissimo primo piano durante il processo, è il giovane compagno del processato e vittima sacrificale; Davide Vecchi è il tormentato fratello tormentatore; l’anziana Rita Bosello è la palpitante madre di Braibanti; Roberto Infurna regge un altro lungo primo piano come ragazzo accusatore; la cantante lirica Anna Caterina Antonacci debutta come attrice nel ruolo dell’addolorata ottusa madre. Fra i professionisti, tutti centratissimi, Luigi Lo Cascio è Braibanti, Elio Germano è il giornalista, Sara Serraiocco è l’attivista Graziella, Giovanni Visentin è l’ambiguo direttore del giornale, Valerio Binasco e Alberto Cracco impersonano il pubblico ministero e il giudice. L’autore tira fuori da ognuno il meglio e si riconferma gran scopritore di talenti.

Ma chi era quest’uomo, una figura sconosciuta ai più, me compreso? Assurse alle cronache quando la stampa riportò in cronaca il caso Braibanti. Aldo Braibanti, impropriamente detto il professore poiché di fatto non ha mai insegnato, è stato un intellettuale a tutto tondo, in un’epoca in cui, fra le cose buone, le doti dell’intelletto erano ancora tenute da conto e definire qualcuno un intellettuale non era divenuto spregiativo; fu poeta, drammaturgo, e si occupò di arte in genere, cinema e letteratura, si cimentò nei collage e negli assemblage e viene ricordato, il titolo del film lo richiama, come mirmecofilo ovvero studioso delle formiche, passione che sviluppa sin dalla prima infanzia, quando accompagnava il padre medico condotto nelle visite spesso in zone rurali del loro nativo piacentino: dimostrò una precoce attenzione alla natura da ecologista in calzoncini corti, e in particolare fu incuriosito dalla vita degli insetti sociali come api e formiche e, protetto da una famiglia illuminata che in pieno periodo fascista rifiutò qualsiasi tipo di pensiero autoritario, e anche clericale, il piccolo Aldo cominciò a scrivere versi già a otto anni: il suo destino di intellettuale è segnato. Qui di seguito quattro opere di assemblaggio di Braibanti dall’esposizione allestita dal suo comune natio, Fiorenzuola d’Arda, presso l’ex macello a lui intitolato nel 2016.

L’adolescente Braibanti

Aldo, crescendo come studente modello ottiene l’esonero del pagamento delle tasse scolastiche, e ancora adolescente scrive e distribuisce clandestinamente a scuola un manifesto rivolto a “tutti gli uomini vivi” in cui invita i compagni di liceo a mobilitarsi contro la dittatura fascista, così anche la sua rottura con l’autorità è segnata: 18enne prende parte alla resistenza partigiana e partecipa alla nascita dei primi movimenti intellettuali antifascisti; nel 1943 aderisce al Partito Comunista che è clandestino, e viene arrestato due volte, rischiando la prima volta di essere fucilato, e la scampò grazie all’ordine di Pietro Badoglio che, alla caduta del fascismo, fece prima scarcerare docenti e studenti, la classe pensante, mentre il resto dei comunisti comuni ancora in attesa di giudizio furono prontamente giustiziati dai tedeschi: oggi si può interpretare la scelta di Badoglio come una scelta di classe, ma nella sostanza salvò delle vite piuttosto che condannarle tutte; la seconda volta Aldo fu arrestato per un ultimo colpo di coda della polizia investigativa fascista che sequestrò tutti i suoi scritti antecedenti al 1940 che vennero distrutti per sempre. Nell’immediato dopoguerra, dopo aver fatto l’importante e formativa esperienza fra gli organizzatori del Festival Mondiale della Gioventù, sarà anche collaboratore dell’ormai sdoganato Partito Comunista Italiano come responsabile delle attività giovanili in Toscana: prende forma il suo mondo. Ma presto lascia la politica attiva per dedicarsi alla sua visione culturale artistica e filosofica: seguendo l’esempio di vita comunitaria delle sue formiche aderisce alla comunità che si era installata nel Torrione Farnese di Castell’Arquato, nella provincia della sua terra natia, creata fra gli altri dall’eclettico Sylvano Bussotti, principalmente compositore ma artista a tutto tondo; una comunità dove si svolgeva un laboratorio artistico e artigiano le cui opere sono state esposte anche all’estero.

Collage di Sylvano Bussotti

Il Torrione fu una fucina di talenti e sperimentazioni in cui si esercitarono artisti concettuali e musicisti post-dodecafonici, teatranti e cineasti sovversivi, i più dotati dei quali invaderanno la scena romana e nazionale; anche un giovane Carmelo Bene si è affacciato in quella realtà ed è poi divenuto amico di Braibanti; il quale aveva lì ricreato i suoi formicai in teche, scrivendo e teorizzando opere teatrali e cinematografiche di sperimentazione, e raccogliendo intorno a sé un cenacolo di giovani attirati da una vita comunitaria in cui poter sperimentare se stessi e le proprie tendenze, umane sociali e artistiche.

Giovanni Sanfratello fotografato al processo, mostra chiaramente i segni delle torture subite

il professore conosce un 17enne che qualche anno dopo, con la raggiunta maggiore età, porta con sé nella capitale, a formare una coppia gay come oggi ce ne sono tante ma che all’epoca non poteva avere dignità pubblica (a dire il vero neanche oggi date le tante aggressioni che si registrano) perché motivo di scandalo e riprovazione; e quando si dava il caso che nella coppia ci fosse una sostanziale differenza di età ci si presentava come zio e nipote: tutti capivano, ma la facciata imposta dall’ipocrisia sociale restava intatta. “Mi sono spostato a Roma, – scrisse in seguito Braibanti – e Giovanni Sanfratello mi accompagnò, perché venendo a Roma poteva difendersi meglio dalle pressioni assurde del padre, dovute a ragioni religiose, ideologiche e politiche. I Sanfratello, anche loro piacentini, erano ultraconservatori, cattolici e tra i più fascisti, e non riuscivano ad accettare che il loro figlio potesse scegliere una vita tanto diversa dalla loro.” Il padre voleva per Giovanni una carriera in medicina ma il ragazzo voleva dipingere e nella comunità trovò la sua via di fuga, via già percorsa dal fratello Agostino di poco maggiore: figura assai ambigua, mosso dalla gelosia di non essere più il preferito o di non aver saputo accentrare su di sé l’interesse del professore, reazionario a tal punto e vendicativo sul piano morale ed esistenziale, che negli anni a seguire fonderà un gruppo lefebvriano, aderendo al movimento cattolico ultra tradizionalista fondato dall’arcivescovo francese Marcel Lefebvre in seguito sospeso a divinis e poi scomunicato da Giovanni Paolo II che sciolse il movimento; Lefebvre era contrario alle aperture operate dalla Chiesa durante il Concilio Vaticano II, e nelle sue istanze si riconosceranno i fascisti, sempre in cerca di sponde morali, tanto che sarà un sacerdote ex lefebvriano che pietosamente nel 2014 celebrerà una messa in suffragio dell’anima di Erich Priebke (il criminale di guerra che partecipò all’eccidio delle Fosse Ardeatine di cui si è parlato nel film “Rappresaglia”), una messa svolta nella cappella privata di una villetta nella provincia di Treviso, alla quale partecipò il sindaco leghista Loris Mazzorato.

Agostino Sanfratello fra il pubblico del processo, nella foto che apparve su L’Unità che erroneamente nomina come Giovanni Sanfratello

Gianni Amelio racconta la vicenda prendendosi delle libertà narrative, come si fa sempre: nessun film è fedele al romanzo da cui è tratto così come ogni storia vera o biografia è sempre adattata al linguaggio cinematografico che ha altre esigenze narrative; dunque il film di Amelio non è cronaca né documentario, ma il punto di vista, e come tale discutibile, di un grande autore. Di cui personalmente ho visto e apprezzato quasi tutti i film, con l’eccezione dell’ultimo, l’altro biografico “Hammamet” che racconta gli ultimi mesi di Bettino Craxi, figura che non ho amato sia umanamente che politicamente, e ammetto la debolezza di aver smesso di vedere il film dopo circa un quarto d’ora perché mi annoiava e dava ai nervi; film che a tutt’oggi rimane il maggiore incasso dell’autore.

Restando dunque sul filone proficuo delle biografie, Amelio ritorna a riempire le sale: non vedevo tanta gente seduta tutta insieme dal marzo del 2020: unica differenza le mascherine a propria discrezione su un quarto della platea. Il regista rispolvera per l’occasione un filone che da noi sembrava estinto, quello del cinema di impegno civile, o politico, i cui esponenti di punta sono stati Elio Petri, Carlo Lizzani e Francesco Rosi, un genere che nel cinema internazionale è sempre attivo con Ken Loach o Michael Moore. La seconda parte del suo film, il processo, è praticamente fedele a quanto accaduto, con le testimonianze e i dibattimenti, dove l’unico personaggio che compare col suo vero nome è il protagonista e tutti gli altri sono reinventati per ragioni legali o di opportunità, o di libertà narrativa appunto. La prima libertà che si prende l’autore è quella di sostituire l’ingombrante figura paterna con una rigorosissima mater dolorosa che colpisce, e mette a segno in noi pubblico un forte disagio: perché non è cattiva ma solo fermamente convinta delle sue ragioni e del suo amore nel voler salvare il figlio dalla perdizione. Qui sta il genio di Amelio nel disporre i suoi personaggi: non ci sono vittime e carnefici, buoni e cattivi, ma solo controparti, ognuna delle quali con le sue proprie ragioni, convinzioni, punti di vista: una tragedia greca sull’ineluttabilità. Sulla stessa linea sono tratteggiati il pubblico ministero e il giudice, cattivissimi certo per la nostra moderna sensibilità, ma portatori di istanze che hanno la loro ragione di essere nella loro epoca: l’omosessualità era un reato e prima ancora un peccato. Con cascami su certe mentalità odierne.

In una delle scene in cui Braibanti corteggia il ragazzo volando alto fra poesia e filosofia, ho sentito mormorare dal pubblico “Che viscido!” e non mi ha sorpreso che il commento venisse da un ragazzo di un piccolo gruppo orgogliosamente e rumorosamente gay: non era un insulto ma una constatazione. Perché è cambiato il corteggiamento. Quando le cose non si potevano dire, e non erano ovvie e men che meno legali, omo o etero che fosse il corteggiamento, ci si sottoponeva a dei rituali che oggi non esistono più, minuetti e giri di parole ai quali si finiva col cedere per sfinimento e in cui lo sfinimento reciproco era anche parte del piacere: oggi il corteggiamento, se ancora lo si può definire così, è fagocitato dalla velocità e da un linguaggio, anche corporeo, sempre più espliciti. Il processo definì quel corteggiamento – plagio.

“Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da 5 a 15 anni”. Era il reato di plagio secondo l’articolo 603 del codice penale. Plagio viene dal latino plagium, sotterfugio, che nel diritto romano indicava la vendita di un uomo libero come schiavo, dunque la sottrazione dei diritti di quell’individuo tramite persuasione o corruzione; allorquando alla fine del ‘700 si andò via via accettando il principio di uguaglianza fra persone e la progressiva abolizione della schiavitù, il reato di plagio fu traslato come delitto contro la libertà dell’individuo. La norma applicata nel processo a Braibanti era stata inserita nel nostro codice penale (pacchetto tutto ancora in vigore, tranne qualche spunta) nel 1930 per volontà dell’allora governo fascista e, come si dice nel film, per punire con altro nome gli eventuali reati di manifesta omosessualità, perché nella visione fallocratica di Benito Mussolini in Italia non esistevano, e non dovevano esistere neanche sul piano giuridico, quel genere di deviati. Una norma attivata nonostante i pareri contrari della Commissione Parlamentare e delle Commissioni Reali degli avvocati e procuratori di Roma e Napoli; norma assai spinosa per argomenti assai scivolosi, tanto che non venne mai applicata, fino a quel 1964.

Dopo il caso Braibanti il reato di plagio fu invocato di nuovo nel 1978 contro Emilio Grasso, sacerdote appartenente al Movimento Carismatico, accusato da alcuni genitori di aver fatto il lavaggio del cervello ai loro figli minorenni; la sentenza scagionò il religioso e con l’occasione si avviò la messa in discussione della norma che venne abrogata nel 1981. A seguire, e siamo nel 1988, i ministri Rosa Russo Iervolino (Democrazia Cristiana) e Giuliano Vassalli (Partito Socialista Italiano) cercarono di far reintrodurre nel nostro codice penale il reato di plagio psicologico, ma il parlamento ha saggiamente accantonato l’iniziativa perché argomento sempre spinoso e scivoloso: il reato non è accertabile secondo criteri e metodi scientifici ed espone l’eventuale accusato ad eventuali abusi dell’autorità giudiziaria.

L’altra libertà che si prende Amelio, che ha scritto il film con Edoardo Petti e Federico Fava, è quella di creare due coprotagonisti fittizi assai funzionali al suo racconto: l’attivista Graziella che in pratica sostituisce un giovane Marco Pannella che già nel 1955 era stato fra i fondatori del Partito Radicale, il quale seguendo giorno per giorno il processo avviò una martellante campagna con le sue “Notizie Radicali” chiamando pesantemente in causa i magistrati tanto da farsi citare in giudizio lui stesso, avviando così un ulteriore processo che, nella tradizione radicale, diventò a sua volta processo agli inquisitori. Ma questo nel film non c’è. In una delle sequenze in cui Graziella arringa la piazza, Amelio riempie improvvisamente lo schermo, in un corto circuito temporale, col primissimo piano di Emma Bonino che osserva il suo passato: “I Radicali hanno fatto forti battaglie per Braibanti e la società italiana. – ha dichiarato Amelio – Hanno fatto cancellare il reato di plagio nel 1981. Mi è sembrato giusto far vedere la Bonino di oggi piuttosto che un sosia di Pannella ragazzo.”

Ulteriormente, si inventa come cugino di Graziella (i legami fra personaggi servono a dare alla storia una solida struttura) il giornalista incaricato di seguire il processo e che ne fa una battaglia personale, perché forse anche lui è un omosessuale non dichiarato in cerca di segnali di chiarezza e di libertà espressiva; e come sua controparte viene inventato un direttore dell’Unità temporeggiatore e ostile, ambiguo sulla posizione che il giornale deve prendere, addirittura arrivando a licenziare il giornalista troppo schierato in difesa di Braibanti – cosa che pare non fu nella realtà: dopo un primo momento di sbandamento, l’Unità scese in campo sostenendo l’intellettuale sotto processo, anche sulla spinta – emotiva no, opportunistica forse sì – dei tanti intellettuali che sin da subito si schierarono con Braibanti: quel Pier Paolo Pasolini che a inizio carriera era stato cacciato dal PCI “per indegnità morale e politica”, Elsa Morante, Umberto Eco, Alberto Moravia, i giovani Carmelo Bene e Marco Bellocchio che oggi del film è coproduttore; è un dato di fatto che il partito comunista fosse, in linea con gli umori dell’epoca, tendenzialmente conservatore e bacchettone tanto quanto i cattolici e la destra, e forse Amelio si è voluto togliere qualche sassolino dalla scarpa, o più semplicemente ha operato una sua sintesi, inventandosi quella redazione dell’Unità divisa su come schierarsi, e la polemica che ne è seguita non è da poco. Io ritengo che, così come si è inventato le figure del giornalista e del direttore senza riferirsi ai personaggi reali, altrettanto avrebbe potuto evitare di chiamare in causa l’Unità col suo nome, e avrebbe potuto restare sul vago così come ha fatto per il nome e i simboli del Partito Radicale di cui nel film non c’è traccia. Avrebbe evitato la polemica – che però torna utile al botteghino – e mantenuto la linea del suo intero film ispirata e a tratti lirica, simbolica.

Pasolini scrisse: “Se c’è un uomo ‘mite’ nel senso più puro del termine, questo è Braibanti: egli non si è appoggiato infatti mai a niente e a nessuno; non ha chiesto o preteso mai nulla. Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l’accusa, pretestuale, di plagio?” Carmelo Bene lo ricordò così in un suo libro di memorie: “Un genio straordinario. M’insegnò con quella sua vocetta a leggere in versi, come marcare tutto, battere ogni cosa. Gli devo questo, tra l’altro. Non è poco.” Braibanti in vecchiaia dichiarò: “Quel processo, a cui mi sono sentito moralmente estraneo, mi è costato due nuovi anni di prigione, (oltre a quelli passati come prigioniero dei nazi-fascisti) che però non sono serviti a ottenere quello che gli accusatori volevano, cioè distruggere completamente la presenza di un uomo della Resistenza, e libero pensatore, ma tanto disinserito dal mondo sociale da essere l’utile idiota adatto a una repressione emblematica.” E ancora: “Qualunque siano gli strumenti accusatori che si utilizzano per mettere in moto un’accusa di plagio, l’accusa è sempre fondamentalmente politica, perché riguarda essenzialmente i rapporti tra il privato e il sociale.”

A 83 anni gli venne notificato lo sfratto dall’appartamento romano in cui abitava da quarant’anni, vivendo con la pensione minima. L’anno dopo, a seguito dell’iniziativa della senatrice Tiziana Valpiana (Rifondazione Comunista) col sostegno attivo di Franca Rame e di alcuni parlamentari della fugace “Unione” (idealmente “delle sinistre”) di Romano Prodi, con in testa Franco Grillini e Giovanna Melandri, gli viene assegnato il vitalizio della Legge Bacchelli. Lo sfratto diventa esecutivo tre anni dopo e l’86enne Braibanti, con le migliaia di volumi che aveva accumulato, si trasferisce nella natia Emilia Romagna, a Castell’Arquato, dove morirà 91enne. Di Giovanni Sanfratello non si è saputo più nulla, si sa solo che è morto: una vita sprecata, forse un talento, chissà, sacrificato sull’altare della rispettabilità e della cristianità. Suo fratello Agostino è tutt’oggi vivente, da qui i nomi cambiati nel film.

Dal Lido di Venezia dove il film è stato presentato, Gianni Amelio, che ha fatto coming out nel 2014, dice del suo lavoro: “È limitativo dire che è un film sul caso Braibanti, è una grande storia d’amore tra un uomo e un ragazzo, molto autobiografica: durante le riprese ho vissuto una storia d’amore molto tormentata. Ho scoperto le stesse fragilità di Aldo: Braibanti si è innamorato, io anche. Non sono andato in galera come lui ma sono chiuso in un carcere mio. Sono felicissimo del film, probabilmente è la cosa più bella che abbia mai fatto, ma intimamente non sono felice. Vi auguro di essere più felici di me.” Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Spirano venti di Destra e l’aspirazione a cancellare questi ultimi sessant’anni è forte.