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Edipo Re

Il film completo

Dopo il salto in avanti con “Medea” torno alla cronologia della filmografia di Pier Paolo Pasolini con l’altra sua tragedia classica che si colloca subito dopo la favola sociale “Uccellacci e uccellini” ma a cui pensava da anni, ancora prima di realizzare il suo debutto con “Accattone” in cui ha fatto debuttare come protagonista Franco Citti, fratello di poco minore di Sergio Citti, entrambi imbianchini, Sergio che tranne apparizioni occasionali resterà al fianco di Pasolini prima come dizionario vivente romanesco e poi via via come assistente alla regia e co-sceneggiatore fino al suo debutto come regista. Per Pasolini è un’opera molto personale perché si confronta con una sua “ansia autobiografica” e con il complesso cui il personaggio di Edipo, assassino del padre e sposo di sua madre, ha dato il nome: “In Edipo io racconto la storia del mio complesso di Edipo. Il bambino del prologo sono io, suo padre è mio padre, ufficiale di fanteria, e la madre, una maestra, è mia madre. Racconto la mia vita mitizzata, naturalmente resa epica dalla leggenda di Edipo”.

Carlo Alberto Pasolini

Di fatto il padre, militare fascista, fu per lui e per sua madre una figura ingombrante perché pare che non fosse marito e padre affettuoso, oltre al fatto che di ritorno dalla guerra d’Africa soffriva di quella che oggi definiamo stress post traumatico da combattimento ma che all’epoca era non più che un disagio mentale cui si accompagnava la violenza. È dunque quasi consequenziale che il giovane Pier Paolo, intellettuale precoce, si immedesimasse nel personaggio della tragedia perché di certo deve aver desiderato di cancellare il padre dalla loro vita, avendo per la madre un amore sacro, scevro da pensieri immediatamente incestuosi, che espliciterà nella poesia “Supplica a mia madre”.

È difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata

alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame

d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu

sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso

alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,

l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione

di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile….

Scrive un film, come anche sarà “Medea”, più visivo che parlato, asciugando al massimo i dialoghi, che nella tragedia teatrale sono tutto, e inserendo qua e là dei cartelli da cinema muto con importanti battute che così divengono come una sorta di titolo della scena che segue: una visione assai personalizzata della tragedia che se da un lato riporta il linguaggio cinematografico agli albori, quando essendo muto è ancora fotografia in movimento – dall’altro piega e asserve il racconto alle sue necessità, che sono: critica alla borghesia e santificazione del proletariato in prima istanza, e poi necessità di adattare la narrazione al cast che intende impiegare, e qui sta la debolezza del suo gusto artistico che sottende la sua personalissima passione per i proletari; aveva dichiarato che solo i sottoproletari possono rappresentare se stessi, e prendendo per buona l’istanza – anche non necessariamente condividendola – la tradisce clamorosamente chiamando Franco Citti a impersonare Edipo. È vero che nella sua calligrafia cinematografica lui ricolloca i personaggi nel suo schema forzatamente dualistico: i proletari e i borghesi, facendo degli uni e degli altri delle emanazioni sociali di quel mondo moderno cui lui appartiene ma che di certo non appartengono al mondo antico da cui quei personaggi provengono: una forzatura che diviene il suo stile; con la nevrotica complicazione, quasi schizofrenica, che lui è un borghese, appassionato di proletariato, che vede nel suo mondo di origine il male assoluto mentre nei semplici, che osserva e che studia e che cerca di imitare perché ama, vede la purezza, il bene supremo: una sorta di personalissima Arcadia intrisa dell’affascinante brutalità e della beata ignoranza dei suoi “Ragazzi di vita”.

Su questa sua linea narrativa assegna il personaggio dell’eroe tragico a un non-attore che s’è inventato lui, che se poteva andar bene come “Accattone” in questo ruolo è decisamente fuori parte: perché se solo un proletario può rappresentare se stesso, secondo quale giudizio un proletario può rappresentare un personaggio classicamente tragico fin lì interpretato a teatro solo da attori di rango? Pasolini fa di Edipo un altro accattone: benché figlio legittimo dei regnanti di Tebe, Laio e Giocasta, e cresciuto a Corinto da altri due regnanti, Polibo e Merope, questo Edipo resta rozzo come rozzo è l’interprete, e l’autore lo colloca nelle periferie archetipe in cui ben trasfigura le baraccopoli e i pratoni fuori Roma dei suoi primi film; ma si fa fatica a credere che questo Edipo col volto di Franco Citti possa pronunciare, o anche solo pensare, parole come responso o costruzioni verbali come se io avessi immaginato, e anche se doppiato da Paolo Ferrari questo linguaggio alto resta assai poco credibile ritagliato sull’interprete, perché gli è alieno tanto quanto l’intera tragedia nella quale mima una disperazione visibilmente appiccicata dalla mimica suggerita dall’autore: mani sul volto a nascondere espressioni disperate che Franco Citti non ha – ma che poi, e onestamente va riconosciuto, recupera nel finale dove si dispera e suda vero sudore proletario nel comprendere l’orrore del personaggio, personaggio che con orrore comprende la sua tragedia; ma data l’evidente inadeguatezza dell’interprete, laddove Edipo fa discorsi un po’ più lunghi, come quando regalmente si rivolge al popolo con parole assai forbite, Pasolini lo filma in campo lunghissimo alternandogli i primi piani muti e, essi sì assai espressivi, di Giocasta che chiusa in casa lo ascolta, interpretata da una davvero regale e levigatissima – sembra quasi una pittura di Tamara di Lempicka – Silvana Mangano che illumina il film con la sua sola presenza.

Silvana Mangano, che meriterebbe una chiacchierata a parte, all’epoca di questo film è già 37enne e vanta una lunga variegata carriera anche con incursioni internazionali; è moglie del produttore Dino De Laurentiis e in questo periodo esprime disagi professionali e personali; già dal decennio precedente ha via via abbandonato i ruoli basati sulla sua statuaria fisicità per la quale ha cominciato a provare un certo dichiarato imbarazzo, forse anche consapevole del fatto che nel cinema si stava imponendo la nuova diva, benché più giovane di lei di soli quattro anni, Sophia Loren; così cerca ruoli diversi nel cinema cosiddetto d’autore, e in quel 1967 lavora per la prima volta con Pasolini e Luchino Visconti nel film a episodi “Le streghe” firmato dai due insieme a Vittorio De Sica e Franco Rossi e costruito dal marito su di lei che è protagonista di tutti gli episodi; per Pasolini sarà subito dopo Giocasta in questo “Edipo Re” e poi di nuovo ancora nell’inedito ruolo, per lei, di una madre borghese frustrata in “Teorema”; mentre per Visconti dipingerà ritratti esemplari in “Morte a Venezia” “Ludwig” e “Gruppo di famiglia in un interno”. Sul piano personale si sente insoddisfatta, soffre di una grave insonnia, e forse teme di essere anche intrappolata, o probabilmente non abbastanza presente, nel ruolo di moglie e madre; e a più riprese ha pensato di abbandonare la recitazione.

Come Laio l’autore fa debuttare il bel 21enne Luciano Bartoli dallo sguardo acuto e tagliente che nell’antefatto del film, vestito da militare come il padre dell’autore, guarda il figlio neonato con un distacco e una durezza agghiaccianti mentre la didascalia del cartello da film muto recita: “Tu sei qui per prendere il mio posto nel mondo, ricacciarmi nel nulla e rubarmi tutto quello che ho. La prima cosa che mi ruberai sarà lei, la donna che io amo. Anzi già mi rubi il suo amore.” E se il giovane debuttante regge bene il primo piano non si può però non notare la troppa differenza di età con la diva che interpreta sua moglie. Dopo questo debutto Bartoli prosegue con una carriera fatta di secondi ruoli nei poliziotteschi con interessanti incursioni anche nel cinema internazionale e nelle produzioni tv.

Antefatto dunque, o prologo, cui segue un epilogo alla fine del film, entrambi ambientati nelle epoche di Pasolini: gli anni ’20 della sua nascita e gli anni ’60 della sua maturità che sono gli stessi anni in cui si gira il film. Nel prologo racconta la nascita borghese di Edipo, che il padre affida a un servo perché se ne disfaccia, e col viaggio del servo comincia il pellegrinaggio nelle terre di nessuno, le distese desolate del Marocco come Grecia antica in cui si sposta l’azione. Nell’epilogo, l’Edipo consapevole della sua tragedia, accecatosi, come un mendicante vaga dal sagrato di una chiesa a una zona industriale, luoghi del benessere e dell’ipocrisia borghese che Pasolini mantiene nel mirino, ed è accompagnato da Angelo che nella tragedia era Ànghelos, una specie di servo tuttofare, un po’ messaggero un po’ angelo custode, affidato al più convincente Ninetto Davoli che recita con la sua voce, giocoso e palpitante insieme, mentre tutti gli altri proletari del film Pasolini li fa doppiare con accenti regionali, per ribadire la loro provenienza sociale. Nel mezzo si svolge la narrazione della tragedia, affidata a sequenze mute e narrazioni scritte, con un lungo peregrinare, anche noioso c’è da dire perché si perde il senso del racconto, di Edipo in cerca di una verità che lo spingerà verso il suo dolente destino: uccidere accidentalmente suo padre e sposare inconsapevolmente sua madre, vittima di un disegno perverso degli dèi.

E in questa sua rilettura socio-antropologica della tragedia di Sofocle, Pasolini risolve l’importante passaggio dell’incontro con la Sfinge in un paio di frettolose battute: perché nella sua visione, direi ansia, di fare indagine sociale, l’incontro col misterico, così come per lui ateo è il rapporto con la religione, non ha significanza e dunque butta via tutto, l’acqua sporca insieme al bambino, come si dice; e paradossalmente, anzi forse proprio a sberleffo, recita lui stesso il ruolo di un gran sacerdote.

Ancora una volta affida all’amico scrittore Francesco Leonetti un ruolo significativo e qui interpreta il servo che Laio ha incaricato sbarazzarsi del neonato. Al padre di Ninetto, Giandomenico Davoli fa recitare il sostanzioso ruolo del pastore che salva il bambino. Per gli altri tre ruoli significativi chiama tre grandi, ognuno a suo modo: Alida Valli che qui è la regina madre adottiva Merope, nella vita è stata una diva di sfolgorante bellezza, dote che la accomuna alla Mangano, ma che già 46enne è in un periodo in cui si sta reinventando dandosi al teatro e a ruoli assai diversificati, percorso nel quale la più giovane Silvana Mangano la seguirà.

Il divo del teatro di sperimentazione Carmelo Bene è anch’egli al suo debutto come attore di cinema, un genere espressivo dove fra regie proprie e provocazioni continuerà a far clamorosamente parlare di sé, ma in definitiva il cinema per lui resterà una parentesi nella sua vulcanica attività: qui interpreta Creonte, fratello di Giocasta.

L’americano Julian Beck, per gentile concessione del Living Theather, come si legge nei titoli di testa, è invece l’intenso veggente Tiresia: scelte assai interessanti da parte di Pasolini che sperimenta con esponenti del teatro sperimentale che lui ricolloca come quintessenza dell’imborghesimento sociale – alla faccia degli artisti sperimentatori la cui ricerca artistica andrebbe nel suo stesso senso.

Il film è stato in competizione a Venezia per il Leone d’Oro che però è andato a “Bella di giorno” di Luis Buñuel; ai Nastri d’Argento vincono il produttore, lo scenografo Luigi Scaccianoce e vanno senza premio i candidati Danilo Donati per i costumi, Giuseppe Ruzzolini per la miglior fotografia a colori, dato che all’epoca c’era ancora il premio separato per il bianco e nero, e per la regia Pasolini, con il premio che è andato a Elio Petri per “A ciascuno il suo” che porta a casa anche il premio al protagonista Gian Maria Volonté, mentre – curiosità – il premio alla protagonista non è stato assegnato e c’erano candidate solo Sophia Loren per “C’era una volta” di Francesco Rosi e Monica Vitti per “Ti ho sposato per allegria” di Luciano Salce: le due signore, rivali a distanza, devono esserci rimaste assai male!

Produce per l’ultima volta Alfredo Bini, il quale se da un lato come produttore dei difficili film pasoliniani è stato premiato, dall’altro gli si sono prosciugati i conti bancari dato che quei film non hanno mai avuto successo commerciale. Bini aveva fatto debuttare lo scomodo autore con “Accattone” e l’intesa fu subito perfetta dato che Pasolini, digiuno di tecniche cinematografiche, accoglie tutti i consigli del produttore che dichiarerà: “È proprio dal conflitto tra il regista e il produttore che nasce la professionalità, perché un fiume che non ha nessun argine non è più navigabile, porta solo distruzione.” Per Bini questo “Edipo Re” è l’opera più riuscita di Pier Paolo e i progetti che seguiranno, “Teorema” e “Porcile”, non lo entusiasmeranno, tanto che dirà: “I film di Pasolini sono capaci di parlare tra le lingue del mondo. Io l’ho abbandonato quando ho cominciato a sentire odore di morte. Ma anche: “Io e Pasolini subimmo una lunga sequenza di carognate. La reazione alle nostre opere fu durissima, e mi investì personalmente. Pasolini aveva in sé un valore artistico oggettivo: era l’uomo che più irritava il quieto stagno italiano nel pieno del boom economico. La sua opera era la spia e insieme l’analisi di un momento preciso che stava cambiando la nostra società, il momento in cui le generazioni che erano uscite dalla guerra si avviavano verso una società consumistica che confondeva sviluppo e progresso. A cambiare totalmente erano le nostre stesse radici: il fatto di mettere in modo inequivocabile la società italiana di fronte a questo cambiamento, e forse anche a un suo tradimento, non poteva essere accettato. Non era accettabile che un marxista, pederasta e dunque già esecrabile, facesse la morale a tutti.

Il Vangelo secondo Matteo

1964. Dopo le aspre polemiche e la denuncia per vilipendio alla religione del suo cortometraggio “La ricotta” che compone il film “Ro.Go.Pa.G.”, Pier Paolo Pasolini torna nelle sale con un film intensamente religioso, frutto di meditazioni personali che risalgono a quando adolescente era stato tentato dalla via ecclesiale – segno di una tormentata e intensa vita interiore – poi dirazzata nel comunismo più spinto nella sua presa di coscienza sociale secondo la quale metteva gli ultimi al centro del suo pensiero speculativo: dirazzata perché era un’epoca in cui dichiararsi comunisti significava automaticamente dirsi anche atei. Era l’epoca delle barricate ideologiche perché ancora bruciavano le ferite del fascismo che i quarantenni come Pasolini avevano vissuto sulla loro pelle, un fascismo nero e cattivo che era stato rimpiazzato dal totalitarismo del fascismo bianco accogliente e rassicurante della Democrazia Cristiana, una democrazia che ispirata appunto al cristianesimo metteva al bando e perseguitava anche con l’uso della forza qualsiasi pensiero che avesse radici a oriente, nel comunismo russo e cinese: erano gli anni in cui si temeva che i cosacchi venissero ad abbeverare i loro cavalli in San Pietro, il libero stato del Vaticano che eterodirigeva (e ancora lo fa, anche se a fatica) lo stato italiano.

Ma va considerato che la Democrazia sedicente Cristiana era in realtà soltanto cattolica, sapendo che fra cristianesimo e cattolicesimo ci sono delle sostanziali differenze che non sfuggivano certo all’attenzione di Pasolini che, da questo punto di vista, si poteva definire più cristiano dei sedicenti cristiani di fede cattolica: Cristiano è colui che segue gli insegnamenti del Cristo e sono Cristiani anche i Protestanti e gli Ortodossi che non riconoscono l’autorità del Papa cattolico dato che il Cattolicesimo è una delle tante confessioni che sono nate nel nome di Cristo, la più pervasiva ma non l’unica e assoluta; e laddove il Cattolicesimo si è imposto come una sovrastruttura politica con le sue classi dirigenti con propri palazzi del potere che nulla hanno da invidiare ai palazzi reali – il Cristianesimo, quello puro, si può vedere come la religione dei poveri e degli ultimi a cui il Cristo ha dato attenzione e voce: quel Cristo che ha cacciato i mercanti dal tempio è qui Pasolini che mette i cattolici di fronte a quella stessa scomodissima realtà.

Elsa Morante, Pasolini, Bini e Margherita Caruso e Marcello Morante come Maria e Giuseppe

Pasolini aveva dichiarato: “La mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un’aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all’altezza poetica del testo. E’ quest’altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un’opera di poesia che io voglio fare. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine, né un’opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità. Per questo dico ‘poesia’: strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo.”

Enrique Irazoqui, Pasolini e accovacciato sul fondo l’aiuto regista Maurizio Lucidi

Secondo il suo stile compone un film scarno con la fotografia in bianco e nero del fidato Tonino Delli Colli, fatto di molti primi piani che si alternano a campi lunghi e lunghissimi, e occasionali carrellate a scoprire i soggetti fermi e fissi come in posa per dei ritratti o a seguire i movimenti lunghi delle processioni. Scrive da solo la sceneggiatura dal Vangelo di Matteo senza aggiungere nulla, e da quel punto di vista è inattaccabile; però non sa rinunciare alla sua visione delle cose e nel primo film che consegna al produttore Alfredo Bini non ci sono i miracoli né la resurrezione perché il suo film intendeva raccontare solo un uomo, l’uomo Gesù, che spogliato dai fenomeni soprannaturali è soltanto trascinatore di quelle masse cui raccontava una nuova verità: per Pasolini il cosiddetto Verbo di Cristo aveva più valore della parte più fantastica e accattivante del racconto. Il produttore invitò alla visione privata il suo amico Monsignor Francesco Angelicchio, che da Giovanni XXIII era stato messo a dirigere il Centro Cattolico Cinematografico, ruolo che lui svolgeva senza piglio censorio ma in modo amichevole ascoltava le persone per meglio aiutarle a indirizzare i loro messaggi, e per questo era diventato intimo di molte personalità del mondo cinematografico fra cui Fellini, Rossellini, Olmi oltre ai più barricadieri Liliana Cavani e Pasolini appunto. Qui di seguito l’intervista Rai su quell’incontro.

Pasolini aveva scelto come set naturali la Basilicata e la Calabria, come anche le desertiche pendici sassose dell’Etna per la sequenza della tentazione del demonio, perché la Palestina, dove aveva fatto un sopralluogo, si era troppo occidentalizzata e lì anche le eventuali comparse non erano più credibili, lui che cercava l’arcaicità e riusciva a trovarla solo nel sottoproletariato, la bassa manovalanza, gli analfabeti, e trova volti segnati, di grande efficacia espressiva anche laddove non esprimono nulla perché il segno è nelle rughe, nei denti poco curati, negli sguardi attoniti e inconsapevoli, e a tutti lui dedica un primo piano. In questo senso è magistrale la sua ricerca dei volti, come lo fu quella di Fellini, ma Fellini truccava e vestiva i suoi figuranti per farli diventare grottescamente simili ai pupazzi che disegnava mentre Pasolini li lascia tragicamente integri.

Così, dopo la chiacchierata con Checco Angelicchio, tornò ai Sassi di Matera e rimise in piedi i set, cercando fra i locali dei veri storpi: anche i miracoli sono quanto di più scarno si possa cinematograficamente immaginare ma sono in linea, e dunque efficaci, col racconto fortemente voluto dall’autore che, va svelato, aveva raggelato i primi entusiasmi del produttore che si era immaginato un kolossal in Technicolor addirittura con Burt Lancaster protagonista, una roba hollywoodiana insomma, che l’anno dopo sarebbe arrivata puntuale con “La più grande storia mai raccontata” di George Stevens. E nonostante il beneplacito del monsignore e dunque del Vaticano, siccome c’erano e sempre ci sono quelli più realisti del re, il film scatenò sulle pagine dei giornali aspri confronti fra sostenitori e detrattori fra i quali si riaffacciarono quelli che ancora gridavano allo scandalo e di nuovo invocavano il vilipendio: l’animosità non era contro il film ma contro Pasolini in quanto scomodissimo intellettuale. Ambiguo fu il giudizio dell’Unità: “Il nostro cineasta ha soltanto composto il più bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il più sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obiettivamente, ma non entusiasticamente atto”: da notare il riduttivo soltanto e la formale e obiettiva mancanza di entusiasmo. Misurato fu il giudizio dell’organo di stampa vaticano, l’Osservatore Romano: “Fedele al racconto non all’ispirazione del Vangelo” che però alla fine chiosa: “Il più bel film su Gesù di tutti i tempi” consegnando ai posteri ma soprattutto ai contemporanei un giudizio positivo che varrà al film il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria a Venezia, i Nastri d’Argento alla regia, alla fotografia e ai costumi davvero molto belli di Danilo Donati, e le candidature all’Oscar sempre per i costumi, la scenografia di Dante Ferretti e Luigi Scaccianoce e la colonna sonora con le musiche originali di Luis Bacalov oltre al repertorio classico tanto caro a Pasolini.

Il ruolo di Gesù lo offre a un diciannovenne catalano, Enrique Irazoqui, che per le sue origini italiane dal lato materno, era stato mandato dal sindacato universitario clandestino di Barcellona presso un’organizzazione di studenti fiorentini in cerca di aiuti economici per coprire un grosso debito che gli studenti antifranchisti avevano accumulato con i tipografi della loro città. Da Firenze la raccolta fondi universitaria si spostò a Roma e lì Enrique conobbe Pasolini e la Morante in casa di lui che fu subito intrigato dal suo viso e gli propose il ruolo, telefonando di corsa al produttore: “Ho trovato Gesù! Gesù è in casa mia!” Lo studente però aveva rifiutato l’offerta perché in contrasto con la sua ideologia, ma fu convinto da Elsa Morante e dal produttore Alfredo Bini che gli indicarono la via: interpretare un Gesù gramsciano, politicamente vicino agli ultimi – ma anche l’entità del compenso fu determinante all’accettazione del ruolo, compenso che versò interamente nelle casse del movimento studentesco antifranchista. Rientrato in patria fu punito dal regime per avere interpretato un film di “propaganda comunista” col ritiro del passaporto e l’espulsione dall’università. Divenuto a suo modo una estrella del cine girò altri due lungometraggi della scuola oggi detta barcellonese, entrambi con l’italiana in trasferta Serena Vergano già interprete di “Una vita violenta” di Heusch-Rondi e dunque appartenente a quella che oggi possiamo definire la factory di Pasolini per parafrasare quella newyorkese di Andy Warhol. Poi Enrique si spostò a Parigi per laurearsi in economia e successivamente andò negli Stati Uniti dove conseguì una seconda laurea in letteratura spagnola, materia che insegnò nelle università statunitensi. Ma sin da bambino era stato anche un appassionato di scacchi, tanto che nel 1968 era riuscito a battere il numero tre della squadra olimpica francese, e in seguito, non trovando degni avversari nelle università, cominciò a giocare contro un computer – era l’epoca in cui quelle macchine cominciavano a diffondersi nelle università americane – ma non ritenendolo all’altezza predispose partite fra due pc, apportando così importanti migliorie alle capacità del dispositivo. Nel 2011 è tornato in Italia per una mostra dedicata a Pasolini e in quell’occasione ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Matera; ha dichiarato che Pasolini avrebbe voluto fare un film da un suo testo intitolato “Il padre selvaggio” solo a condizione di averlo ancora come protagonista, ma Irazoqui aveva rifiutato dicendosi ormai più interessato a fare la rivoluzione che il cinema. Negli ultimi anni è tornato però davanti alla macchina da presa, prima nel video musicale di Vinicio Capossela “Il povero Cristo” interpretato anche da Marcello Fonte e Rossella Brescia, e poi nel progetto multimediale materano, film più performance dal vivo, di Milo Rau “Il nuovo vangelo”. È morto 76enne nel 2020 ed è ancora inedito il suo ultimo film, “Cenestesia” di Joan Vall Karsunke, ispirato all’omonimo e semi-autobiografico libro di José María Nunes.

L’interpretazione del ragazzo è intensa e convincente ma necessitando di essere doppiato viene chiamato a dargli voce Enrico Maria Salerno che è di 22 anni più anziano e questo si sente, la voce non corrisponde al volto in quello che in gergo si dice voce scollata; ma c’è di buono che stavolta il lavoro del professionista svolto nel buio della saletta di registrazione viene riconosciuto sin nei titoli di testa. Il resto del cast, come detto, è formato dalla manovalanza locale e dagli intellettuali amici di Pasolini che ormai fanno la fila per apparire nei suoi film. In testa c’è la maschera tragica di Susanna Pasolini, madre dell’autore nel ruolo della vecchia dolente Maria.

La giovane Maria è interpretata dalla studentessa 14enne Margherita Caruso, che subito dopo avere preso parte al film ricevette una proposta dal già hollywoodiano Dino De Laurentiis per interpretare una nuora di Noè in “La Bibbia” di John Huston; Margherita, che nel frattempo è divenuta perito chimico e vive a Milano, racconta 50 anni dopo che a scattarle alcune fotografie ai giardini comunali fu il padre, ma non era il book professionale che avevano richiesto gli americani e la cosa finì lì. L’ex ragazzina racconta che Pasolini era giunto da quelle parti accompagnato dal 16enne Ninetto Davoli: i due già si frequentavano a Roma ma Ninetto era nativo proprio della Calabria e gli avrebbe fatto da gancio con i locali; nello specifico si era avvicinato alla ragazzina guardandola con fare ammiccante e lei, abbassando lo sguardo intimidita era tornata nella comitiva dei suoi amici: quello era stato il primo provino. Subito dopo si sentì bussare su una spalla: era lui, Pasolini, che le dice: “Mi conosci?”. “No”, aveva risposto lei. “Sono Pasolini, ti piacerebbe fare un film?”. Ci fu un boato tra gli amici, più per la parola film che per il nome Pasolini. I provini lui li aveva fatti così, per strada: mandava Ninetto Davoli a fare domande provocatorie a quelli che aveva puntato e se ne stava in disparte a guardare come reagivano, come si muovevano: li sceglieva per l’espressività e poi sul set si lavorava senza copione, diceva all’ultimo momento quello che bisognava fare. “Ma io ho fatto un provino anche a casa sua; c’erano Morante, Moravia, Siciliano, Maraini.” Anche suo padre fece il figurante e interpretò il fariseo che dice del Cristo: “Dobbiamo trovare un modo per farlo morire”.

L’importante ruolo di Giuseppe va invece allo scrittore Marcello Morante fratello della più nota Elsa Morante già carcerata in “Accattone”, e padre dell’attrice Laura Morante, qui doppiato da Gianni Bonagura. Un altro scrittore e poeta, Mario Socrate, interpreta il Battista doppiato da Pino Locchi e a discesa tutti gli altri ruoli, grandi e piccoli, interpretati da intellettuali e affini: Natalia Ginzburg è Maria di Betania e Enzo Siciliano è Simone; Giacomo Morante, figlio di Marcello e fratello di Laura, interpreta Giovanni l’Apostolo; il filosofo Giorgio Agamben è Filippo; lo scrittore e giornalista Francesco Leonetti è Erode Antipa; il poeta scrittore pittore Alfonso Gatto è Andrea; il principe palermitano Alessandro Tasca di Cutò è Ponzio Pilato; il contadino partigiano e rivoluzionario intellettuale Rosario Migale è Tommaso; il poeta scrittore argentino naturalizzato italiano Rodolfo Wilcock è Caifa; gli attori professionisti Elio Spaziani e Renato Terra interpretano Taddeo e un fariseo; Amerigo Bevilacqua da borgataro di “Accattone” assurge al ruolo di Erode il Grande; lo studente 17enne Luigi Barbini è Giacomo di Zebedeo, e dopo quest’esperienza continua per altri pochi anni la carriera di attore girando anche una mezza dozzina di film di nuovo con Pasolini ma anche con un piccolo ruolo in “Giulietta degli spiriti” di Fellini e un paio di peplum, ma alla fine ha lasciato la carriera cinematografica per laurearsi in Teologia; la 12enne Paola Tedesco debutta come Salomè e la notorietà le arriva in tv come valletta di Pippo Baudo, cui seguirà una carriera di attrice in film di secondo piano; Rossana Di Rocco è l’angelo, e se lo aggiudicherà lei il ruolo della nuora di Noè in “La Bibbia” che era sfuggito a Margherita Caruso, e avrà anche una particina nel film di Alessandro Blasetti con Walter Chiari “Io… io… io… e gli altri” prima di tornare alla vita cosiddetta civile. Anche Ninetto Davoli debutta come pastorello e subito dopo sarà coprotagonista con Totò in “Uccellacci e uccellini”: da notare che fra i giovani proletari lanciati da Pasolini lui è l’unico che appare sempre apertamente sorridente, nelle fotografie in posa gli altri hanno molto più spesso uno sguardo sfuggente o un sorriso amaro o di sola circostanza: già in quello sguardo aperto e senza vergogna si vede che sarà vicino a Pier Paolo fino alla fine.

“Il miglior film su Cristo, per me, è Il Vangelo secondo Matteo, di Pasolini. Quando ero giovane, volevo fare una versione contemporanea della storia di Cristo ambientata nelle case popolari e per le strade del centro di New York. Ma quando ho visto il film di Pasolini, ho capito che quel film era già stato fatto.” Martin Scorsese. Su YouTube il film completo.