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Fellini Satyricon

FELLINI - SATYRICON - Film (1969)

1969. Quattro mesi prima era uscito in tutta fretta il “Satyricon” prodotto da Alfredo Bini, ma pare che non fu solo un’azione prettamente concorrenziale e in cerca di facili incassi, quanto piuttosto la risposta piccata a uno sgarbo: era da tempo che il produttore parlava con Federico Fellini della possibilità di fare del Satyricon un film ma quando il regista stipula un accordo con un altro produttore, Alberto Grimaldi, decide di andare avanti con un suo personale Satyricon da fare uscire nelle sale prima di quello di Fellini, per bruciarne l’uscita. La storia del cinema ci dice che invece accadde il contrario e fu lui a restare bruciato: l’orgoglio è quasi sempre un cattivo consigliere.

Federico Fellini e Alberto Grimaldi

D’altro canto Federico Fellini già dall’anno prima aveva stabilito un proficuo rapporto con Alberto Grimaldi quando il produttore gli aveva chiesto di dirigere l’episodio “Toby Dammit” nel film a episodi “Tre passi nel delirio” da tre racconti di Edgar Allan Poe, gli altri due diretti da Roger Vadim e Louis Malle. Per il produttore la collaborazione con Fellini, che già da un decennio era un regista internazionalmente apprezzato che praticamente a ogni uscita veniva candidato all’Oscar, sarebbe stato il definitivo riconoscimento come produttore di film d’autore e di qualità. Aveva debuttato producendo il misconosciuto “L’ombra di Zorro” e poi colpito da “Per un pugno di dollari” col quale Sergio Leone stava rinnovando il genere western (ma per lui la fama di maestro era di là da venire e gli spaghetti-western erano considerati film di serie B) produsse i due seguiti che formeranno “La trilogia del dollaro”: “Per qualche dollaro in più” e “Il buono, il brutto, il cattivo”. Quindi, dopo aver preso parte alla coproduzione italo-francese di “Tre passi nel delirio” stese davanti a Fellini tappeti rossi, come si dice, dandogli praticamente carta bianca, come si dice, perché realizzasse il suo Satyricon, che arriverà nelle sale come “Fellini Satyricon” per distinguerlo dalla concorrenza, che come la concorrenza, però, altrettanto incapperà nelle maglie della censura.

CHE REBUS QUEL REBIS… – L'Archipendolo
L’Ermafrodito

Fellini lo scrive insieme a Bernadino Zapponi, che aveva voluto come sceneggiatore del suo episodio in “Tre passi nel delirio” dopo aver letto una sua raccolta di racconti fantastici, “Gobal”, e sarà l’inizio di una lunga e proficua collaborazione. Per questo Satyricon la vena fantastica e gotica di Zapponi unita alla visionarietà di Fellini sforna una sceneggiatura meno fedele al libro e a cui aggiunge scene totalmente nuove, come quelle dell’oracolo ermafrodita e del Minotauro. Nel complesso il film che Fellini realizza, e da disegnatore creando anche dei bozzetti per la scenografia realizzata da Danilo Donati che firma anche i costumi, è un Satyricon frammentario in cui la storia dei protagonisti si mette insieme per accumulo di sequenze – e non ha la logica narrativa del precedente film; dell’altro Satyricon non ha neanche la satira ridanciana e divertita, ancorché volgare, ed è piuttosto un film cupo e letargico, ricco di una visionarietà simbolica, e dove l’altro semplificava per offrirsi a un pubblico di massa questo di Fellini si fa esoterico e si offre alla lettura di pochi, e il viaggio a tappe dei protagonisti, anziché spudorato e satiresco, diventa un percorso di conoscenza iniziatico pervaso dal senso incombente di morte.

Nella consapevolezza di dover raccontare un’epoca remota della quale umanamente non sappiamo nulla – se non dal materiale morto degli scritti e delle immagini, pitture mosaici sculture monete ceramiche – piuttosto che vivificare i personaggi in un contesto realistico e verosimile, ne fa delle maschere inserite in un mondo onirico e fantastico, spesso inceppati in gesti meccanici e ripetitivi, spesso salmodianti in lingue morte o sconosciute, latino o greco antico o dialetto africano, inseriti in scenari lunari che a volte sembrano installazioni d’arte contemporanea, installazioni che suggeriscono – senza banalmente descrivere – un mondo e un’epoca; altrettanto i personaggi non sono altro che maschere di trucco che nascondono altre maschere, ovvero gli attori, che Fellini vede – e vedrà in futuro – solo come vuote marionette che vivificano i suoi bozzetti, bellissimi o bruttissimi senza via di mezzo, senza volti resi anonimi dalla normalità, maschere con un fascino esasperato dal trucco o portatrici di una bruttezza congenita, di lineamenti imperfetti e membra distorte ricercati con cura fra i figuranti in cui Fellini inserisce i freak, nani e deformi e mutilati, in una fantasmagoria, però, in cui anche la bellezza è freak, un capriccio non della natura ma d’autore.

Fellini - Satyricon | Trailers and reviews | Flicks.com.au

Per Fellini gli attori, dunque, non sono altro che maschere e burattini, siano essi professionisti o gente presa dalla strada, stranieri o italiani, poco importa: per lui sono solo i suoi bozzetti che prendono vita tridimensionalmente, ai quali fa recitare anche una sequenza di numeri a cui poi darà un senso in sala doppiaggio. Un grande regista burattinaio, un Mangiafuoco che per decenni ha dato smacco ai professionisti volto-voce, che nell’utilizzare i suoi tipi presi dalla strada ha snaturato la pratica espressionista e stilistica del cinema del neorealismo che per rappresentare le sue storie vere in risposta al cinema manierato cercava i suoi interpreti fra la gente vera. Fellini è, suo malgrado e inconsapevolmente, un antesignano del cinema digitale dove i personaggi si creano con la computer grafica: lui prendeva le persone reali, analogiche, e attraverso il trucco e il doppiaggio le faceva diventare i suoi personaggi virtuali; una pratica che nel suo caso, poiché indiscutibile Maestro, era una componente del suo stile, ma che in molti altri casi era diventato un malcostume. Una pratica oggi resa assai più difficile grazie a una legislatura che impone la presa diretta per i film di produzione italiana, dove anche gli stranieri devono perciò recitare in italiano, cui però si aggiunge una nuova deriva: quella degli interpreti presi dalla strada che biascicano incomprensibilmente a prescindere dal loro dialetto.

Encolpio e Ascilto sono interpretati da due baldi giovani e sconosciuti stranieri, Martin Potter e Hiram Keller, che spesso percorrono in perizoma un film in cui il nudo è ancora più esibito che nel primo Satyricon offerto alle masse: lì restava funzionale alle scene erotiche e non si mostrava più che mezza chiappa o un seno vedo e non vedo; Fellini fa del nudo, anche integrale in campo lunghissimo, una cifra stilistica del suo film. Lo schiavetto Gitone, impersonato da Max Born, è meno presente ma più scollacciato e, benché sembri un adolescente è già diciottenne. Il 25enne inglese Martin Potter continuerà la carriera di attore fra cinema e tivù senza altri grossi exploit, mentre il coetaneo americano Hiram Keller, già modello adolescente che aveva avuto un piccolo ruolo nel precedente film di Fellini “Giulietta degli spiriti”, avrà una carriera fatta di ruoli secondari quando non addirittura marginali e si ritirerà nel 1982; morirà di cancro 53enne. Per Max Born il Satyricon rimane un’esperienza occasionale e oggi è un cantautore folk.

Fellini-Trimalchio | Doppiozero
Salvo Randone

Il poeta e parassita Eumolpo ha la mimica del grande siracusano Salvo Randone, qui doppiato da Renato Turi, e va specificato che avendo fatto molto cinema è stato qualche volta doppiato probabilmente a causa dei suoi impegni teatrali che costringendolo in tournée lo tenevano lontano dalle sale di doppiaggio romane; rimane indimenticato il suo Innominato nei “Promessi Sposi” Rai e anche lui purtroppo, come tanti altri professionisti dello spettacolo grandi e piccoli, finirà i suoi anni in miseria e gli verrà riconosciuto l’appannaggio della Legge Bacchelli.

Fellini-Trimalchio | Doppiozero

Per il ruolo del liberto arricchito Trimalcione, che nei frammenti del Satyricon di Petronio è il passaggio più ampiamente conservato, Fellini avrebbe voluto Bud Spencer che però rifiutò essendo prevista una scena di nudo, scena che poi nel film non ci fu più lasciando a Bud Spencer l’amaro in bocca. Nel film di quattro mesi prima Trimalcione è una figura centrale che dà a Ugo Tognazzi l’occasione di gigioneggiare e giganteggiare, ma nel film di Fellini il personaggio è ridimensionato e prende più spazio il rito orgiastico della cena.

Il ristorante romano “Al Moro” com’è oggi, che ricorda nella gigantografia il suo fondatore

Per questo personaggio Fellini ha il suo lampo di genio nello scritturare un oste romano, tale Mario Romagnoli proprietario del ristorante “Al Moro” e come Il Moro accreditato nel film: Fellini disse che era stato colpito dal suo sguardo “sabbioso” da “Onassis tetro”, e questo la dice lunga su quanto fosse evidente la sua visione cupa del Satyricon, in contrasto a quello solare colorato e ridanciano della concorrenza. Lo farà doppiare da Corrado Gaipa.

A fare da contorno a Trimalcione, e a metterlo in ombra con le loro danze orgiastiche e i loro baci lesbo, sono Fortunata Trifena e Scintilla; la prima è impersonata dalla francese Magali Noël venuta in Italia a interpretare ruoli di femme fatale, e che per Fellini aveva recitato in “La dolce vita” e di nuovo sarà in “Amarcord” con l’indimenticabile patetico dolce ruolo della Gradisca. Trifena, che percorre il film in altre scene, ha la bellezza statuaria della modella franco-svizzera Capucine, al secolo Germaine Hélène Irène Lefebvre, poi attrice a tempo pieno anche a Hollywood. Scintilla è la jugoslava Danika La Loggia, nata Pajovic e coniugata con un italiano, caratterista per un ventennio nel cinema italiano, chiude la sua carriera nel 1987 facendo letteralmente perdere le sue tracce.

Martin Potter - Rotten Tomatoes
Eumolpo e Lica mimano un matrimonio omosessuale

Il francese Alain Cuny, attore di gran classe con lunga frequentazione del cinema italiano, già con Fellini in “La dolce vita” è qui nel ruolo dell’ambiguo pirata Lica che ammaliato dalla bellezza di Eumolpo mette in scena un matrimonio omosex, graziosamente indossando un velo da sposa sul suo volto quadrato e segnato che ha dato e ancora darà vita a molti personaggi drammatici e complessi per registi come Michelangelo Antonioni, Louis Malle, Luis Buñuel, Francesco Rosi, Marco Ferreri, nonché interprete dell’unico film da regista del controverso scrittore Curzio Malaparte.

Un personaggio al giorno: FANFULLA | Commedia italiana

Al comico Fanfulla, all’anagrafe Luigi Visconti e nessuna parentela col regista Luchino, Fellini affida il ruolo di Vernacchio, il capocomico di una compagnia di attori che mettono in scena i vizi e i vezzi della Roma Imperiale in cui vivono, unico momento di satira in linea con il testo petroniano, la rappresentazione di una satira beninteso, ché a Fellini non importa fare satira né tanto meno essere storicamente accurato: i frammenti dell’antico testo sono per lui ispirazione per un film fantasy in cui l’immagine, l’estetica, i personaggi-marionette e le scene-contenitori, sono più importanti del testo stesso che diviene un percorso iniziatico per noi spettatori, dove ognuno può pure trovare quello che crede: sia una nuova ispirazione per ulteriori fantasie che una risposta ai propri dubbi e ai propri demoni. Fanfulla, che ha una sua compagnia di avanspettacolo con la quale gira l’Italia, è stato usato poco e male nel cinema dove ha recitato in ruoli secondari quando non del tutto marginali. Fellini è l’unico a dargli spazio e con questo film, benché anche lui doppiato, da Carlo Croccolo, vince il Nastro d’Argento come Attore non Protagonista ex aequo con Umberto Orsini per “La caduta degli dei” di Luchino Visconti; il terzo concorrente rimasto a bocca asciutta era Alberto Sordi per “Nell’anno del Signore” di Luigi Magni. Fanfulla lavorerà ancora con Fellini l’anno dopo in “I Clowns” ma finite le riprese morì d’infarto mentre era in tournée, a soli 57 anni.

Lucia Bosè morta di polmonite: addio alla star del cinema italiano e madre  di Miguel

Lucia Bosè, già gran diva del cinema italiano dopo essere stata incoronata Miss Italia nel 1947 sbaragliando altre bellezze che come lei si daranno al cinema, nell’ordine di prossimità al podio: Gianna Maria Canale, Gina Lollobrigida, Eleonora Rossi Drago e Silvana Mangano. Insieme al misconosciuto e poi sparito nel nulla Joseph Wheeler di cui resta traccia un secondo film, “Gradiva” del 1970, unica regia cinematografica di Giorgio Albertazzi, Lucia Bosè è protagonista di un quadro in cui una coppia patrizia si suicida bevendo veleno da coppe dorate per sottrarsi alle rappresaglie del nuovo imperatore, poiché fedeli sostenitori del vecchio regime. Anche qui, come per la satira nel quadro dedicato al teatro, Fellini mette in scena un’azione politica, politica insita nella satira petroniana ma del tutto occasionale e solo rappresentativa nel film. Egli vede la coppia con distaccato rispetto, quasi reverenziale, filmando la loro dignitosa pacatezza e mettendoli in scena, unici in tutto il film, senza fronzoli e senza un trucco esagerato, facendo risaltare la naturale bellezza di Lucia Bosè e l’avvenenza del suo sconosciuto compagno di scena.

Completano il cast l’ex culturista americano Gordon Mitchell, qui nel ruolo di un predone ma nel nostro cinema protagonista di tanti peplum della serie di Maciste e di tanti poliziotteschi e spaghetti-western. L’altrettanto aitante Luigi Montefiori, che abbiamo già visto in “Bordella” di Pupi Avati del 1976 e che con lo pseudonimo di George Eastman avrà anche lui una proficua carriera nel nostro cinema di serie B, qui interpreta un gladiatore travestito da Minotauro che, dopo aver lottato sconfiggendo l’imbelle Encolpio, chiede di salvarne la vita all’imperatore, imperatore che Fellini fa impersonare en travesti alla francese Tanya Lopert.

Le tre vite di Marcella: uomo, donna nel fulgore della sua bellezza come appare nella copertina della biografia, e infine anziana serena signora

Il proconsole dell’imperatore è affidato alla mimica di Marcello Di Folco, un nome che merita una specifica messa a fuoco. Qui è al suo debutto cinematografico, scoperto da Fellini mentre si aggirava a Cinecittà per consegnare una lettera, che lo prende sotto la sua ala protettiva e facendosene in qualche modo pigmalione. Marcello era un estroverso omosessuale protagonista delle trasgressive notti romane che ruotavano attorno al Piper Club. Fu l’inizio di una carriera cinematografica fatta per lo più di piccoli ruoli equamente divisi fra cinema di serie A e B, da “In nome del popolo italiano” di Dino Risi a “Quant’è bella la Bernarda, tutta nera, tutta calda” di Lucio Dandolo. Fellini lo volle di nuovo in “Roma” e soprattutto in “Amarcord” dove interpretò il principe Umberto di Savoia cui si offre la Gradisca di Magali Noël con la leggendaria frase “Signor principe… gradisca.” Questo ruolo gli fece guadagnare quello di protagonista nella miniserie Rai “L’età di Cosimo de’ Medici” firmata da Roberto Rossellini. Ma viveva una forte depressione a causa della sua disforia di genere e nel 1980 si risolse al gran passo e volò a Casablanca per cambiare sesso: in quegli anni era attivamente impegnato nel Movimento Italiano Transessuali che si batteva per fare approvare in Italia una legge sul cambio di sesso, approvata nel 1982. Come donna lavora per l’ultima volta con Fellini in “La città delle donne”, 1980. Intraprende la carriera politica e fu eletta consigliere comunale a Bologna nel 1995, prima donna al mondo eletta a una carica pubblica ad essere nata maschio. Morirà 67enne di tumore nel 2010. Nel 2014 le viene dedicato il film documentario-biografico di Simone Cangelosi “Una nobile rivoluzione” di cui ho parlato in questo blog. Nel 2019 esce il libro “Storia di Marcella che fu Marcello” scritto da Bianca Berlinguer. Per la sua carriera cinematografica ha recuperato il cognome Di Falco che un errore di trascrizione all’anagrafe aveva trasformato in Di Folco.

Un altro debutto è quello del 19enne Alvaro Vitali, un elettricista con la passione per il ballo e il canto, che Fellini mette sul palcoscenico del capocomico Vernacchio come imperatore bamboccio e fantoccio: non più che una figurazione di pochi secondi ma bastevoli a farci riconoscere il suo inconfondibile viso dall’espressione eternamente smarrita. Fellini lo userà ancora in “I Clowns”, “Roma” dove finalmente potrà ballare il tip-tap come ballerino d’avanspettacolo, e “Amarcord”; mentre per conto suo si avvia a una brillante carriera con piccoli ruoli da caratterista in film importanti: “Che?” di Roman Polanski, “La Tosca” di Luigi Magni, “Rugantino” di Pasquale Festa Campanile, “Polvere di stelle” di Alberto Sordi… Lo nota il produttore di film di genere Luciano Martino e decolla la sua carriera come spalla in commedie più o meno sexy e poi protagonista della serie di Pierino. Concluso quel filone oggi lamenta di essere stato dimenticato.

Altri interpreti in piccoli ruoli: Carlo Giordana, fratello minore del più noto Andrea, nel ruolo di un capitano di vascello; e come figuranti il comico americano Richard Simmons e un ragazzo che risponde al nome di Renato Fiacchini e che impareremo a conoscere come Renato Zero. La critica dei decenni posteriori è divisa nel considerare questo film un capolavoro o al contrario uno dei film minori di Federico Fellini. Io propendo per la definizione di capolavoro imperfetto perché decisamente non si può considerare minore data la sua sontuosità ma neanche perfetto per tutta una serie di annotazioni che ognuno può personalmente trovare. Di fatto fu un successo commerciale che l’anno dopo avrà una parodia a firma Mariano Laurenti con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia e intitolato “Satiricosissimo”. Ovviamente Fellini ebbe anche la nomination come Miglior Regista all’Oscar 1971, insieme a Ken Russell per “Donne in amore”, Robert Altman per “M*A*S*H”, Arthur Hiller per “Love Story” e Franklyn J. Shaffner che vinse con “Patton, generale d’acciaio”. Ma adesso sono curioso di vedere il film a episodi al quale ha partecipato: “Tre passi nel delirio”.

Bordella

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1976. Un unicum nella cinematografia di Pupi Avati: satirico, grottesco, surreale, demenziale e via dicendo, senza dimenticare che è anche stato vietato ai minori. Beh certo già il titolo deve avere allarmato i benpensanti tutori morali dell’epoca, inconsapevoli che era un’epoca che stava lì lì per esplodere una seconda volta dopo il recente ’68.

In quell’anno muoiono Agatha Christie e Mao Tse-tung mentre in Italia nasce il quotidiano La Repubblica e oltre oceano nasce la Apple di Steve Jobs mentre IBM sta lanciando sul mercato la prima stampante laser: prove tecniche di un futuro dagli sviluppi inimmaginabili. Sul nostro territorio nazionale gli attacchi terroristi dei brigatisti ci facevano rinchiudere in quelle case da dove le femministe, però, uscivano sempre più spesso a manifestare per le strade a favore della legge sull’aborto per la quale furono raccolte 700mila firme, definite all’epoca “firme delle puttanelle”, ma l’aborto rimane reato tranne quei casi eccezionali in cui è a rischio la salute della donna. In parlamento entrano per la prima volta i Radicali e il Partito Comunista Italiano è al 34% subito dopo la Democrazia Cristiana che è al 38%.

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Il 6 maggio un violento terremoto scosse e distrusse gran parte del Friuli, e il 10 luglio scoppia il reattore di una fabbrica di prodotti chimici a Seveso, alle porte di Milano: una nube di diossina invade il territorio e le conseguenze saranno da film dell’orrore: prima cadono stecchiti gli insetti, poi gli uccelli, a seguire i polli non stanno più in piedi e i cani cominciano a impazzire mentre i gatti diventano feroci come tigri, prima di morire le mucche muggiscono a lungo di dolore e per ultime muoiono le capre.

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Al cinema esce “Taxi Driver” di Martin Scorsese mentre la Corte di Cassazione condanna al macero tutte le copie di “Ultimo tango a Parigi” del 1972 di Bernardo Bertolucci, che intanto esce di nuovo nelle sale col suo monumentale “Novecento” diviso in due film – grande novità nella nostra cinematografia più abituata ai cortometraggi e agli sketch dei film a episodi – e che ancora fu sequestrato a Salerno per oscenità e blasfemia ma poi rimesso in circolazione con un nulla di fatto. E’ anche l’anno del “Rocky” di Sylvester Stallone, del disturbante “L’inquilino del terzo piano” di Roman Polanski, dell’horror “Carrie, lo sguardo di Satana” di Brian De Palma e dei politici “Quarto potere” di Sidney Lumet e “Tutti gli uomini del presidente” di Alan J. Pakula. E chiudo la carrellata con un altro Pupi Avati che esce lo stesso anno: il giallo horror “La casa dalle finestre che ridono”.

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Il critico Giovanni Grazzini scrive: “Siamo spesso nel cabaret televisivo, nel paradosso goliardico. L’ambizione di Avati, di darci un’immagine emblematica della civiltà confusa degli anni Settanta, è poco adeguata alle sue virtù di narratore originale. Se è vero che la commedia all’italiana ci ha stancati, è dubitabile che film come “Bordella” possano proporsi quali modelli d’una nuova comicità internazionale.” Di fatto il film, un soggetto di Avati, di suo fratello Antonio e di Gianni Cavina cui si è aggiunto Maurizio Costanzo nella sceneggiatura, lo si potrebbe definire come un prodotto di cervelli in libertà. Si apre e si chiude con immagini di repertorio del potentissimo Henry Kissinger che con sapiente doppiaggio si fa promotore della multinazionale American Love Company gestita dal Mr Chips che manda il siculo-americano Eddie Mordace (doppiato però in pugliese da Carlo Croccolo) ad aprire una succursale a Milano. Di nuovo c’è che il bordello è per signore e vi si prostituiscono ruspanti giovanotti in una sequela di quadretti e siparietti ancora oggi divertenti quanto improbabili: si passa dal grottesco al burlesque maschile con numeri da musical e colpi di scena surreali in un film goliardico dove ogni interprete dà davvero il meglio di sé in assoluta libertà espressiva.

Gianni Cavina si disegna il ruolo del pugile suonato Adone Tonti con certi problemini di erezione che però non scoraggiano le donne con animo da infermiera e l’impeto da “io ti salverò!” ma che poi finisce per dare il meglio di sé con un pompiere travestito. Il venticinquenne Christian De Sica si lascia andare, è proprio il caso di dirlo, come aristocratico decaduto, tale Conte Ugolino Facchini, facendo forse il verso al Conte Max di suo padre Vittorio, ed è lui che apre le vie del musical con vezzi e mossette che nei decenni successivi faticherà a tenere a freno in una carriera lunghissima fatta di pochi alti e molti bassi. Il maniaco sessuale Ivanohe Zuccoli che nell’impresa mette a frutto il suo talento è un divertito e divertente Gigi Proietti, anche lui libero di fare e disfare quello che gli pare – in un film però sempre tenuto sotto controllo dal regista, pur nell’apparente anarchia generale. Lo statuario Luigi Montefiori, l’unico col physique du rôle, star dei B-movie italiani con lo pseudonimo di George Eastman, è il marinaio Silvano “Sinbad” Silingardi e chiude la squadra il caratterista polacco Vladek Sheybal qui nel ruolo di Francesco Brandani detto Checco ma anche checca dato che subito si traveste e fa il maestro di cerimonia in una casa bordello-bordella dove l’omoerotismo, divertito o reale, è più che palese.

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Non manca il personaggino di un massaggiatore assai gaio interpretato da Tito Le Duc, anche coreografo del film, noto come componente delle Sorelle Bandiera che in quegli anni avevano sdoganato, grazie a Renzo Arbore, il travestitismo in tivù. Le sciure milanesi apprezzano la bordella mentre Taryn Power, sorella minore della più famosa Romina, fa un’improbabile fanatica religiosa americana che viene a perseguitare i peccatori anche a Milano. Il potente Mr Chips che fa il verso al Hugh Hefner di Playboy è interpretato da Vincent Gardenia e il protagonista era Al Lettieri, morto d’infarto alla fine delle riprese e a cui il film è dedicato; ricordiamo che era un caratterista che raggiunse la notorietà con “Il Padrino” di Francis Ford Coppola.

Il film non poteva che fare scandalo già dal titolo, in un’Italia ultra cattolica, anche perché racconta una cosa per quei tempi sconvolgente: le donne hanno una loro sessualità anche al di fuori del talamo coniugale, e avrebbero dovuto lottare decenni per dichiararla liberamente. Anche se oggi persecuzioni e femminicidi raccontano di uomini fermi alla preistoria.

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Al Lettieri davanti a un manifesto di Adone il pugile sexy