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Number One – instant movie del 1973 su uno scandalo di cocaina, jet-set, servizi segreti e terrorismo

“Un’inchiesta cominciata nel cesso non può che finire nella merda.” La notevolissima battuta è attribuita a uno dei tanti avvocati difensori del bel mondo che fu coinvolto nello scandalo del night-club romano Number One, sito in via Lucullo a pochi passi da quella Via Veneto dove si era consumata la Dolce Vita raccontata da Federico Fellini, scandalo cui seguì un’inchiesta assai paparazzata che nel 1971 vide sfilare davanti agli inquirenti ben 25 esponenti di quel jet-set, quelli che oggi chiamiamo sia vip che svippati, che nell’intimo – si fa per dire – cesso del locale citato dall’avvocato sciavano su piste di cocaina, e che poi nell’aula del tribunale scivolarono su accuse e querele reciproche perché erano tutti innocenti e la colpa era sempre di un altro.

Il playboy Gigi Rizzi con la sua conquista Brigitte Bardot e l’amico Johnny Hallyday al Number One

Alla fine degli anni Sessanta avevano aperto in Italia i primi night-club sull’esperienza di come ci si divertiva all’estero: quelli che viaggiavano, e che dunque avevano soldi e tempo da spendere, volevano trovare sotto casa lo stesso tipo di divertimento e le metropoli italiane si adeguarono: a Roma la dolce vita cedette il passo alla mala vita della nascente Banda della Magliana cui facevano da sfondo i servizi segreti deviati e corrotti; il Number One fu fra i night più in voga, gestito nell’illegalità delle connivenze e con l’inventiva tutta italiana nell’aggirare restrizioni e divieti, e tanto per dirne una: nei suoi documenti contabili il locale era dichiarato come un semplice ristorante vegetariano per smussare la mannaia fiscale; ne era proprietario l’imprenditore e, va da sé anche playboy, Paolo Vassallo, che però stava sempre sul chi vive, pover’uomo, perché sapeva di che pasta erano fatti i suoi occulti compagni d’impresa, e perciò sapeva pure che il suo locale poteva avere vita breve restando vittima di vendette incrociate: in molti bar e ristoranti e night andarono in scena risse di facinorosi come pezzi di teatro il cui scopo era far chiudere i battenti, oppure furono definitivamente incendiati da ignoti alla legge ma ben noti alle vittime. Nel Number One si materializzò tutto questo.

È difficile districarsi in quelle vicende perché i lati oscuri sono tanti e tanti rimasero anche all’epoca. Di sfuggita bisogna ricordare che l’anno prima, era il 1970, erano stati arrestati per possesso e spaccio di droga l’attore Walter Chiari e il musicista entertainer Lelio Luttazzi, e a seguire il francese Pierre Clémenti. Era il decennio in cui si sarebbero costituite le cellule terroristiche e in una decina d’anni avremmo avuto: nel 1969 la strage di Piazza Fontana presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano, nel 1970 la strage di Gioia Tauro, nel 1972 la strage di Peteano a Gorizia, nel 1973 la strage in una questura sempre a Milano, nel 1974 la strage di Piazza della Loggia a Brescia, sempre nel ’74 la strage del treno Italicus diretto da Roma a Monaco di Baviera, nel 1976 la strage di Alcamo Marina in provincia di Trapani, e nel 1980 ci fu la strage alla stazione di Bologna. Solo per ricordare le stragi, ché innumerevoli furono gli attentati senza vittime o con soli feriti, o i singoli assassinii o le sole gambizzazioni.

La Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano dopo l’attentato

Fu un periodo che dall’inglese Observer venne definito “strategy of tension” secondo le carte che l’agenzia segreta inglese, l’ineffabile MI6 – l’em-ai-six di tanti film – avevano sottratto all’ambasciatore greco in Italia: si era in piena Guerra Fredda e gli Stati Uniti, in quanto guardiani del mondo, stavano mettendo in pratica nell’area mediterranea una strategia per metterci in sicurezza dall’influenza sovietica: a livello popolare si fece passare la colorita immagine dei cosacchi che venivano ad abbeverare i loro cavalli in Vaticano; di fatto destabilizzando i nostri equilibri sociali anche attraverso eventuali colpi di stato volti a instaurare governi di matrice conservatrice, destrorsa e fascista: i giovani terroristi italiani che si coinvolsero non furono altro che bassa manovalanza senza reale consapevolezza del disegno generale; i tanti innocenti che furono sacrificati negli attentati erano il danno collaterale di una politica volta alla marginalizzazione dei partiti di estrema sinistra e contemporaneamente alla criminalizzazione dell’estrema destra, i classici due piccioni con una fava che avrebbero condotto al rafforzamento dell’unica area centrista: la Democrazia Cristiana che in quella strategia della tensione sacrificò il suo esponente più possibilista, Aldo Moro.

Appena al di sopra di quel fangoso pantano, la bella vita di chi se la poteva permettere procedeva senza intoppi e anzi veniva incoraggiata, e nei nostri night-club fiumi di american whiskey scorrevano ecumenicamente insieme a fiumi di russkaya vodka e di apolide cocaina; ovviamente, non tutto essendo legale, bisognava dotarsi di opportuni soci in affari e di illecite frequentazioni: anche oggi, chi si concede una striscetta di cocaina il sabato sera, non si chiede certo chi o cosa sta finanziando. Il buon Walter Chiari, abituale consumatore, pare che finì in prigione e sulle pagine di tutti i giornali per scandalizzare il popolo bue, modo di dire che sembra provenire da un generale romano che così si era rivolto a Giulio Cesare: “Il popolo non deve pensare ma solo eseguire come fa il bove” e come mandria di bovi gli italiani del 1970 andavano pascolati con gustosissime notizie scandalistiche per distrarli da altri titoli che all’epoca comparivano su quegli stessi giornali e che riguardavano il primo processo sulla strage di Piazza Fontana. In seguito fu accertato che Lelio Luttazzi era completamente pulito: era stato coinvolto nell’inchiesta solo perché aveva ricevuto una telefonata dall’amico Walter (il cui telefono era sotto intercettazione) che gli chiedeva di chiamare un tizio per suo conto, uno che poi si rivelò essere uno spacciatore, perché lui non riusciva a prendere la linea – mentre per chiamare Luttazzi c’era riuscito: probabilmente Chiari già temeva di essere intercettato ma non pensò che avrebbe inguaiato l’ignaro Luttazzi.

L’attore si fece tre mesi a Regina Coeli e poi fu scarcerato pagando una cauzione di tre milioni di lire, nove mila euro odierni, e al successivo processo venne scagionato dall’accusa di spaccio e condannato con la condizionale per il solo uso privato della sostanza stupefacente. Mentre Lelio Luttazzi si fa 27 giorni di carcere prima di venire totalmente prosciolto ma quell’errore giudiziario gli rovinò la carriera perché perse le conduzioni della radiofonica Hit Parade e della televisiva Ieri e Oggi; espone la sua breve esperienza carceraria nel libro “Operazione Montecristo” che ispirerà Alberto Sordi per il suo “Detenuto in attesa di giudizio”. Anche il francese Pierre Clémenti finì a Regina Coeli per detenzione e uso ma dopo 18 mesi fu scarcerato per insufficienza di prove e costretto a lasciare l’Italia dopo aver dato belle prove attoriali diretto da Bernardo Bertolucci, Liliana Cavani e Pier Paolo Pasolini. Ma intanto il popolo bue era già stato allegramente condotto sui sempre verdi pascoli della disinformazione.

Gianni Buffardi con la moglie Liliana De Curtis, i due figli e il suocero Totò

In questo clima matura la vicenda del Number One. Gianni Buffardi, produttore di diversi film con Totò di cui sposò la figlia Liliana De Curtis, e che produsse anche l’opera prima di Luigi Magni “Faustina”, volle farsi autore scrivendo e dirigendo questo suo primo film che rimane anche l’unico perché morì prematuramente a causa di una leptospirosi contratta tuffandosi nel biondo Tevere. L’onesto intento è quello di fare un film inchiesta, o di denuncia che dir si voglia, sulla scia dei modelli Francesco Rosi o Elio Petri senza però neanche arrivare a sfiorarne la pregnanza. Sceneggiato su un suo soggetto da Sandro Continenza, suo collaboratore di fiducia dai tempi dei film con Totò, ma poi anche rimaneggiato su consiglio di Renzo Montagnani che gli consigliò di dare un respiro più ampio alla vicenda – forse di questo troppo ampio respiro il film soffre. L’intenzione dell’autore era inizialmente quella di attenersi rigorosamente ai fatti che riguardarono il night-club e già a quella dichiarazione di intenti si misero in moto, secondo Buffardi, delle oscure manovre per impedire la realizzazione del film: “È un film che non si dovrebbe fare perché può dare fastidio a molti, ma nonostante ciò lo realizzo ugualmente. Ritengo di essere la persona più indicata per fare questo film per vari motivi: primo fra tutti perché sono l’unico amico di Pier Luigi Torri; poi perché conosco molto bene coloro che frequentavano il Number One; quindi, perché sono stato interrogato in qualità di testimone dalla magistratura.”

Pier Luigi Torri con Marisa Mell

Pier Luigi Torri, produttore cinematografico e altro tombeur de femmes che all’epoca si accompagnava a Marisa Mell, viene indicato come la gola profonda che diede inizio all’indagine sull’allegro girotondo di bustine di cocaina, e non parve vero a paparazzi e giornalisti di buttarsi sulla vicenda, perché nella narrativa di un certo giornalismo c’è sempre l’ansia di scoprire l’illecito e l’intrallazzo nel bel mondo degli eroi patinati, i belli i ricchi i potenti, dove l’invidia di classe si fa vendetta sociale; per non dire della distrazione che veniva operata su un piano diverso: l’aula del tribunale dove sfilarono i moderni Dei dell’Olimpo era accanto a quella dove Franco Valpreda era imputato per la strage di Piazza Fontana, ma mentre lì si discuteva noiosamente di bombe e di 17 vittime innocenti, qui era un via vai di bei nomi tutti potenzialmente colpevoli di essersi divertiti troppo. All’uscita della notizia della realizzazione di quel film venne fuori che Torri, in carcere anche lui, aveva confidato ad altri due detenuti che proprio Buffardi aveva materialmente consegnato la cocaina: Torri era stato assai probabilmente manovrato con la promessa di uno sconto di pena ma l’inganno fu svelato e si prese un’ulteriore condanna per calunnia, e il produttore poteva continuare a fare il suo film, anzi no, perché subito a seguire venne accusato di estorsione dal figlio del pittore Massimo Campigli: secondo la sua denuncia, il produttore gli avrebbe chiesto 5 litografie del padre per sé e 18 milioni da versare ad alcuni “amici” per fargli riavere le 6 grandi tele, sempre paterne, e una preziosa collezione di vasi precolombiani che erano stati trafugati da ignoti dalla loro villa a Saint-Tropez. La Stampa titola: “È il tramonto della Roma ‘dolce vita’ – l’arresto del produttore Gianni Buffardi”, che secondo l’articolo firmato da Silvana Mazzocchi “entra a Regina Coeli con la camicia di seta munita di cifre ricamate in blu, come ci si recasse in visita. Nonostante tutto, il protagonista di questa storia non ha ancora capito come sono cambiate le regole della vita romana di cui lui resta uno degli ultimi misconosciuti esponenti pittoreschi.” E ancora lo apostrofa: “Gianni Buffardi, produttore cinematografico, cinquantenne, ideatore di film di cassetta, squattrinato «vitellone» della Via Veneto Anni Sessanta, poi scommettitore e trafficante di oggetti d’arte. (…) Nel mondo del cinema è sempre stato una figura di terzo piano, un produttore con scarse possibilità; ma vivendo al margine del «mondo che conta» ne aveva orecchiato i segreti.” Nei fatti Buffardi fu poi scagionato dall’accusa mossa dall’amico Torri.

Sia come sia, il produttore si fece autore cinematografico e girò il suo imperfetto e scomodissimo film, tanto scomodo che fu presto consegnato all’oblio e a tutt’oggi non è mai stato reso disponibile né in VHS né in DVD, e solo dopo decenni ne è stata rinvenuta una copia – si riteneva perduto – nei magazzini di una casa di distribuzione e così restaurato dal Centro sperimentale di cinematografia e dalla Cineteca Nazionale in collaborazione con la rete tv Cine34 dove, dopo la prima del dicembre 2021, il film ciclicamente torna in programmazione. L’opera prima e unica di Gianni Buffardi si apre subito, con accattivante e beffarda marcetta di Giancarlo Chiaramello, sul montaggio veloce di una serie di articoli giornalistici che parlavano del night-club, e subito segue un’ancora veloce sequenza di fotografie con gli esponenti di quel jet-set allora coinvolti, e fra gli altri si riconoscono in ordine sparso: Carla Gravina, Gina Lollobrigida, Monica Vitti, Florinda Bolkan, Omar Sharif, Liz Taylor e Richard Burton, le già dette Brigitte Bardot e Marisa Mell e Jacqueline Bouvier già vedova Kennedy e ancora per poco signora Onassis; e senza apparire nelle foto dei titoli del film si possono per certo aggiungere come abituali frequentatori la modella Verushka, Helmut Berger, Marina Ripa di Meana, Johnny Hallyday, Gianni Agnelli… Subito dopo la parata di foto un cartello avverte: “Fin qui la cronaca e la realtà. Ora l’immaginazione e la fantasia di un racconto, il cui eventuale riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti, è puramente casuale” solo per mettersi al riparo dalle querele ma il casuale e ben più causale.

La marcia di Giancarlo Chiaramello
Talitha Pol e Paul Getty sui Fori Romani della capitale dove erano venuti a sposarsi

Negli spettatori dell’epoca dev’esserci stato il gioco dell’indoviniamo chi è chi anche se la maggior parte dei personaggi, coi nomi cambiati, non erano noti al grande pubblico trattandosi di attricette, playboy, malviventi, affaristi, nobili e innominati; l’unico personaggio vagamente riconoscibile, anche a cinquant’anni di distanza, è il magnate americano Paul Getty III la cui bellissima moglie Talitha Pol morì per un’overdose di eroina e barbiturici, subito spacciato per un suicidio, tragico evento che dette il via a indagini degli inquirenti e sotterranei movimenti tellurici negli ambienti dell’illegalità che fecero altre vittime. Il film, assai ben documentato per la vicinanza dell’autore a quel mondo, affastella decine di personaggi fra i quali ci si perde, oggi come all’epoca, e procede seguendo le indagini di un commissario di polizia interpretato da Renzo Montagnani e di un comandante dei carabinieri che è Luigi Pistilli; alla loro lineare indagine si contrappongono i troppo disarticolati depistaggi che conducono anche a un furto di opere d’arte e altri morti ammazzati. Leo Pestelli sulla Stampa commentò: “La pellicola è documentatissima, rivela la preparazione di un naturalista. Ma noi che non fummo mai in quel luogo di perdizione, restiamo all’oscuro di troppe circostanze che qui si danno per intese, non sappiamo sostituire ai nomi falsi i nomi veri, agli episodi truccati gli episodi autentici, e insomma annaspiamo nel generico. Ma che cosa importa se intanto abbiamo assistito, sia pure di sbieco e per enimmi, alle messe nere della cafe-society romana, con polverine, morti ammazzati, lenoni, bari e dovizia di donne nude? In fatto di grosse e un po’ provincialesche emozioni, si ripigliano i soldi del biglietto.”

Nel resto del cast Paolo Malco è il magnate americano; l’ex divo dei melodrammi Massimo Serato è un editore e sarebbe bello capire chi fosse la controparte reale, Venantino Venantini è il proprietario del locale Paolo Vassallo, il romeno italianizzato Chris Avram rifà il playboy Pier Luigi Torri, Il belloccio Guido Mannari (che di sfuggita passò fra le lenzuola di Liz Taylor) fa l’altro playboy Gigi Rizzi, la teatrale Rina Franchetti impersona una principessa della cosiddetta nobiltà nera, Josiane Tanzilli che quello stesso 1973 fu la volpina in “Amarcord” di Federico Fellini qui esala l’ultimo respiro come Talitha Pol, e sfilano nei vari ruoli Howard Ross, Renato Turi, Bruno Di Luia, Emilio Bonucci, il direttore della fotografia Roberto D’Ettorre Piazzoli come gallerista, una giovanissima Eleonora Giorgi figura come attraente e compiacente arredamento del night, e per finire c’è l’ex pilota automobilistico datosi alla recitazione Guido Lollobrigida, che nella scheda info del film rilasciata da Cine34 figura solo come G. Lollobrigida facendoci illudere che nel cast ci sia sua cugina Gina: inutili scorrettezze di redazione. Luca Pallanch della Cineteca Nazionale ebbe a dire alla presentazione del film restaurato: “I protagonisti di quella oscura vicenda sono tutti scomparsi e, con loro, si è inabissato quell’effimero mondo riunito sotto le luci di una Roma by night, che non aveva nulla da invidiare alle altre metropoli del divertimento e del vizio.” Con riferimento alle indagini nel film passa l’espressione muro di gomma che decenni dopo è stata rispolverata per la vicenda dell’aereo caduto-abbattuto a Ustica nel 1980 da cui il film “Il muro di gomma” di Marco Risi del 1991.

Faustina – opera prima di Luigi Magni

il film completo

Nel 1968 il 40enne Luigi Magni è già in attività da più di dieci anni avendo cominciato come soggettista e sceneggiatore sotto la guida della coppia Age & Scarpelli e si distinse subito lavorando con e per i migliori registi dell’epoca e a film di successo come “Le voci bianche” di Pasquale Festa Campanile ambientato in quella Roma papalina che sarà il marchio di fabbrica di Magni; e proprio lo stesso anno del suo debutto come regista esce un con un’altra sceneggiatura di successo: “La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli. Per la sua opera prima scrive e dirige una commedia che, benché ambientata nella Roma moderna (ovviamente di quel 1968) già si colloca per gusto e ispirazione nella Roma storica di cui lui è grande studioso e cultore: un triangolo amoroso che sembra uscito dai sonetti romaneschi di Giuseppe Gioachino Belli, il quale a proposito della sua produzione aveva scritto: “Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col concorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca.” E Magni, supportato dalla moglie Lucia Mirisola, che sarà costumista e scenografa di tutti i suoi lavori, ambienta la vicenda in una Roma ancora più antica, quella dei siti archeologici a cielo aperto, coi Mercati di Traiano in testa, dove colloca scenografiche strutture posticce per creare le abitazioni dei suoi romani di borgata su quell’antica Via Biberatica, direttamente con affaccio sugli scavi e con libertà di movimento, anche di automezzi, oggi assai improbabili data la rigorosa protezione di cui quei siti attualmente godono; una sorta di periferia romana molto idealizzata e di nobili ascendenze, assai diversa dalle periferie fatiscenti dei primi film di Pier Paolo Pasolini che raccontavano storie di turpi borgatari; il popolino di Luigi Magni, benché altrettanto sinceramente romanesco e altrettanto dedito agli intrallazzi, è più gioioso e romantico e piuttosto che muoversi solo nella violenza dell’ignoranza e della fame, si ispira alla storia antica, quella gloriosa e imperiale cui il recente fascismo si era ispirato con ben altri intenti e risultati; uno dei protagonisti di Magni è un tombarolo che ben conosce la materia che tratta disquisendo con ricettatori e collezionisti stranieri di etruschi e Roma antica; l’altro è uno stornellatore da osteria che però avendo perso la chitarra in un incidente non può più esibirsi ed è alla fame assoluta. Fra loro l’autore colloca un’ambigua figura femminile, ambigua perché d’impatto ma poi poco definita: una ragazza mulatta frutto dell’amore estemporaneo fra una romana e uno di quei soldati di colore del vittorioso esercito americano che lasciarono su tutto il suolo italiano, e specialmente da Roma in giù, stuoli di nascituri dal colorito scuro, fatto che già nel 1944 aveva ispirato la napoletana “Tammuriata nera” al giornalista e paroliere Edoardo Nicolardi che era anche direttore amministrativo dell’ospedale Loreto Mare e lì vide nascere decine di bambini neri; la musica è del suo consuocero E. A. Mario che fu anche autore della “Canzone del Piave”: “È nato nu criaturo, è nato niro, / e ‘a mamma ‘o chiamma Ciro, / sissignore ‘o chiamma Ciro.”

La Tammuriata Nera nella personalissima interpretazione di Peppe Barra
Il debuttante Luigi Magni posa con la debuttante Vonetta McGhee
Enzo Cerusico e Vonetta MacGhee
Vittoria Febbi a 10 anni nel suo film di debutto “Campane a martello” del 1949 diretto da Luigi Zampa

Il personaggio della mulatta di Luigi Magni è d’impatto perché il nostro cinema ha raccontato molto poco quell’esperienza sociale, ma è un’occasione che lui spreca e, benché raccontando la storia della ragazza, non ne esplicita le implicazioni socialogiche e i drammi personali, che pure ci furono, e la sua protagonista è solo una bella ragazza mulatta che parla romanesco col doppiaggio di Vittoria Febbi, ex attrice bambina dal colorito altrettanto scuro in quanto figlia di un italiano e di un’eritrea. L’interprete della Faustina che dà il titolo al film dell’autore, fuorviando lo spettatore poiché il personaggio non è la chiave di volta del film, è un’altra debuttante, l’americana Vonetta MacGee, molto efficace sul piano espressivo, che quello stesso anno sarà anche protagonista dello spaghetti-western di Sergio Corbucci “Il grande silenzio”; tornata in patria sarà brevemente una star in film del genere blaxploitation e nel 1975 lavorerà con e per Clint Eastwood in “Assassinio sull’Eiger” in mezzo a un carriera di film di serie B. Morirà 65enne per attacco cardiaco.

Anche Enzo Cerusico è un ex attore bambino figlio di un direttore di produzione che debutta a 10 anni e nei successivi cinque anni recita in ben undici film. Svoltando l’adolescenza si ferma per un paio d’anni e studia recitazione col russo italianizzato Alessandro Fersen (nato Aleksander Fajrajzen che con la famiglia era giunto in Italia a 2 anni) e da lì in poi i suoi ruoli si fanno più impegnativi e recita anche in teatro dove già 30enne si mette in luce nella commedia musicale “Meo Patacca”: viene notato da due funzionari della rete tv americana NBC che cercavano il protagonista di un telefilm, e così il giovanotto pel di carota è andato alla scoperta dell’America dove con il personaggio di Tony Novello ha preso parte accanto a James Whitmore a una puntata della serie “The Danny Thomas Hour” dove ogni puntata era una storia auto conclusa; il suo episodio ebbe un tale successo che divenne il pilot di una nuova serie che poi arrivò in Rai col titolo “Il mio amico Tony” e Cerusico divenne un protagonista della televisione italiana dove, insieme al teatro, si svolgerà la gran parte della sua carriera. Per un tumore al midollo spinale muore a 54 anni. Qui è doppiato da Massimo Turci, probabilmente perché impegnato a registrare per la Rai e la regia di Ugo Gregoretti le sei puntate di “Il Circolo Pickwick” da Charles Dickens.

Renzo Montagnani in un raro scatto col figlio Daniele

Il terzo protagonista è il toscano Renzo Montagnani, attore di rango che ha speso il resto della sua carriera prevalentemente nel filone della commedia sexy; di lui, Indro Montanelli che da debuttante regista lo aveva diretto come debuttante attore cinematografico in “I sogni muoiono all’alba” da un suo testo teatrale, disse: “Come attore ha sacrificato il suo talento, che era grande, accettando qualsiasi cosa. Una vita disgraziatissima, la sua, da questo punto di vista.” Mentre Mario Monicelli ha ribadito: “Uno straordinario professionista, molto attento e intelligente come attore; purtroppo sottovalutato. Purtroppo per ragioni di famiglia non poteva rinunciare a lavorare, e doveva accettare qualunque proposta gli arrivasse.” “I film grossolani sono una scelta remunerativa, ma io uso definirmi migliore dei miei film.” è quanto Montagnani si è sentito di dichiarare. Nei fatti lui ha lavorato per gran parte della sua carriera, in cui non sono mancati i film importanti, nelle commedie trash proprio perché gli portavano lauti e facili guadagni per poter coprire le ingenti spese per le cure del figlio Daniele segnato da una lesione subita durante la nascita a causa del forcipe, e ricoverato in permanenza presso una clinica di Londra; inglese era la moglie Eileen Jarvis che aveva conosciuto quando lei ballava nelle Bluebell Girls, che nell’epoca del loro splendore furono anche trampolino di lancio per showgirl come Gloria Paul o le Gemelle Kessler. Renzo Montagnani è morto 66enne per un tumore ai polmoni ed è sepolto nel cimitero del paesello inglese Stockton-on-Tees insieme al figlio che lo ha raggiunto sette anni dopo e alla moglie che si è spenta 90enne nel 2021.

Il film di Magni è una favola sugli affamati del dopoguerra, che sintetizza nel sognatore stornellatore, un po’ alla Charlot, Enea Troiani (così lo nomina dato che il mitologico principe Enea era troiano) e nell’intrallazzista Quirino (insieme a Faustina altro nome tipico dell’antica Roma) che per tirarsi fuori dalla miseria fa di mestiere il tombarolo e che, al contrario del principe dei poveri puro di spirito, è un uomo dall’indole violenta, sempre in chiave di commedia; chiude il terzetto, come detto, la figlia del peccato e dell’amore inter-etnico (termine che dovremmo imparare a usare sostituendo l’inappropriato inter-razziale dato che non di razze si tratta ma di diverse etnie all’interno della stessa razza umana). E Magni, con la precisione della sua messa in scena di una romanità di nobili ascendenze ma corrotta dai tempi, si fa notare da quella critica e da quel pubblico che decreteranno la sua definitiva affermazione col suo successivo film “Nell’anno del Signore” col quale inizierà la sua proficua collaborazione con Nino Manfredi. Nel resto del cast Franco Acampora come aiutante di Quirino, Clara Bindi come madre di Faustina ed Ernesto Colli come patrigno; una giovane Ottavia Piccolo è impegnata nel ruolo di una ragazza che sospira d’amore per il bel cantastorie morto di fame. Produce Gianni Buffardi, prevalentemente produttore di film con Totò e autore di un unico curioso film, “Number One”, che raccontò il malaffare attorno ai locali notturni romani con precisi riferimenti alla cronaca; anche lui morto prematuramente a 49 per una leptospirosi contratta durante un bagno nel Tevere. Musiche importanti fin dalle prime note di Armando Trovajoli.

Per tentare un’indagine sul disagio dei nostri primi bambini mulatti bisogna andare a un altro film del 1954, il melodramma “Il grande addio” di Renato Polselli.

Per grazia ricevuta – opera prima di Nino Manfredi

E’ il 1971 e Saturnino Manfredi detto Nino ha cinquant’anni quando debutta in regia col suo primo lungometraggio in cui però ne dichiara quaranta scarsi, credibilissimi per carità, e si fa esageratamente truccare come un divo da operetta, ma ci sta perché comincia a mostrare una lieve sindrome della palpebra cadente sull’occhio sinistro, che mostrerà cinque anni dopo, accentuata dal trucco, nella sua memorabile interpretazione in “Brutti, sporchi e cattivi” di Ettore Scola. Primo lungometraggio, dicevo, perché Manfredi si era già cimentato dieci anni prima dirigendo e interpretando il cortometraggio “L’avventura di un soldato” da un racconto di Italo Calvino nel film a episodi “L’amore difficile”.

#nino manfredi from Bianco&Nero
Nino Manfredi con Luigi Magni

Per questo debutto sviluppa un suo soggetto originale, con riferimenti autobiografici che fanno da struttura portante a un’opera di fantasia, e si fa aiutare nella sceneggiatura da Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, ma soprattutto dall’amico regista Luigi Magni, col quale spesso aveva lunghe piacevoli chiacchierate sulla religione il clero e il potere temporale, regista per il quale era stato protagonista di “Nell’anno del Signore” cui seguiranno “In nome del Papa Re”, “Secondo Ponzio Pilato” e “In nome del popolo sovrano”, tutti film anticlericali. Perché di questo tratta questo suo primo film semi autobiografico: di dubbi sulla fede religiosa, un argomento assai importante per chiunque vi si fosse impegnato, e particolarmente spinoso in quel periodo perché sono gli anni in cui l’Italia si avvia verso le contestazioni sociali e la libertà sessuale; ma è anche un periodo appena successivo al Concilio Vaticano II, su cui certamente Manfredi e Magni si saranno confrontati, un concilio di apertura, sempre entro i limiti sistematici, che non fu in grado di approfondire l’argomento del momento, la contraccezione, né men che meno vi si parlò di divorzio, altro argomento caldo. Argomenti che allora come oggi riguardano la vita sociale e sui quali, come oggi succede riguardo al DDL Zan, la chiesa pone i suoi veti – ammesso che sia lecito – senza mai essersi ufficialmente interrogata e/o confrontata su quegli argomenti.

Nino Manfredi parte dalla sua reale esperienza di bambino ciociaro con radici contadine, assai vivace, e trasferisce nel film la sua vera esperienza come semi internista in un collegio cattolico da cui scappa molte volte per poi finire nella reclusione forzata di un sanatorio quando sedicenne si ammala di tubercolosi. Sono gli anni formativi della personalità e di quella coscienza religiosa con la quale si confronta: quella intrisa di superstizioni nell’ambito contadino che trova pure riscontro nel buon senso e nel cattolicesimo addomesticato e molto casalingo dei fraticelli che racconta nella prima parte del film, quella dell’infanzia del protagonista, che sopravvissuto indenne a una terribile caduta viene fatto oggetto di culto perché miracolato da Sant’Eusebio. Il bambino è anche sopravvissuto alla religione punitiva e terrorizzante impartita dalla procace zia con cui vive – è orfano – la quale, zitella, intrattiene quella che un tempo era definita relazione illecita, e il bambino la scopre nuda mentre si fa il bagno: eventi che lo segneranno per sempre con l’esplosivo dualismo della religione persecutoria e del sesso illecito e proibito che ne faranno un adulto disadattato… ma non racconterò la trama del film, che va visto.

Mario Scaccia, al centro

Parlerò dell’ironica simpatia con cui mostra i fraticelli che come garrule casalinghe si affollano attorno all’Ape del venditore ambulante che si avventura per borghi e vallate sperdute; dell’attenzione che mette nel ritrarre tutti i personaggi di contorno con attori di vaglia che purtroppo, all’epoca, dovevano fare i conti con la piaga pervasiva del doppiaggio; dell’abilità con cui dosa commedia e dramma, gestendo con grande equilibrio anche un momento esilarante a ridosso della tragedia del tentato suicidio; la sua interpretazione sempre spaurita da uomo sempre fuori contesto che però ha gli sguardi e i tentennamenti di un’intelligenza sempre volta a comprendere, sempre tesa a dipanare i dubbi esistenziali che devono essere stati gli stessi dubbi del Nino Manfredi uomo. “Per grazia ricevuta” è un film riuscitissimo che gli valse a Cannes il premio per la migliore opera prima, il Nastro d’Argento a soggetto e sceneggiatura e un David di Donatello speciale per il suo esordio da regista insieme ad Enrico Maria Salerno che quello stesso anno esordiva con “Anonimo veneziano”. Ma gli valse anche il favore del pubblico che in quella stagione cinematografica, ’70-71, con quasi quattro miliardi di lire di incassi si piazzò al primo posto e a tutt’oggi detiene il 32° posto nella lista dei film italiani più visti.

Anche se io al cinema non lo vidi perché ero un preadolescente e in famiglia non si andava al cinema, e mi sarei mosso da solo dopo i 16 anni, conoscevo benissimo il film per le tante volte che se ne era parlato in televisione dove Nino Manfredi era anche una star dei varietà del sabato sera, nelle interviste e nei servizi dei telegiornali che registravano l’enorme successo, e per la canzone della processione “Viva viva sant’Eusebio” che passava continuamente alla radio e che ormai tutti canticchiavamo, musica di Guido e Maurizio De Angelis e parole di Manfredi che la canta; autori anche dell’altro successo “Me pizzica, me mozzica”.

Nel cast il ruolo più di rilievo e andato all’americano Lionel Stander doppiato da Corrado Gaipa, e l’attrice più famosa è un’ancora sconosciuta Mariangela Melato nel ruolo della maestrina della colonia, qui doppiata da Angiola Baggi così bene che a un primo ascolto sembrava la vera voce della Melato che abbiamo imparato a conoscere, e che diventerà prestissimo famosa perché protagonista in “La classe operaio va in paradiso” di Elio Petri ma soprattutto in “Mimì metallurgico ferito nell’onore” di Lina Wertmuller. Nel ruolo femminile principale c’è Delia Boccardo, attrice assai interessante e decisamente bella utilizzata al cinema per lo più nei poliziotteschi e che ebbe una carriera più interessante negli sceneggiati Rai, senza mai assurgere all’ambito ruolo di stella di prima grandezza. Mario Scaccia è il priore dell’abbazia e Paola Borboni, detta dal marito scenico Lionel Stander la iena come anche l’avvoltoio, dà il meglio di sé con sguardi severi ma doppiata però, forse a causa di impegni teatrali, dall’altrettanto valida Pina Cei. Fausto Tozzi è l’autorevole chirurgo ed Enzo Cannavale è il lungodegente dalla malattia che non si sa che cos’è, che al richiamo dell’infermiera Fiammetta Baralla che gli ordina di rientrare perché fa fresco, risponde: Almeno muoio di qualcosa che si sa! La francese Véronique Vendell, oggi del tutto dimenticata anche perché già nel 1979 si ritirò dalle scene, nel significativo ruolo di una prostituta che si auto definisce ragazza chiacchierata e che tenta senza successo le reali virtù del protagonista. Il messinese Tano Cimarosa, doppiato da Pino Caruso, è il venditore ambulante.

Nel ruolo del divertente ingenuo Fra’ Gesuino c’è l’invecchiato fenomeno noto come Mister O.K., l’italo-belga Rick De Sonay che diede l’inizio alla tradizione di tuffarsi nel Tevere, vorticoso e gelido, a capodanno subito dopo lo sparo di cannone di mezzogiorno del Gianicolo. La gente affacciata al parapetto di Ponte Cavour, che misura sul fiume circa 18 metri, stava pochi secondi col fiato sospeso finché l’eccentrico tuffatore non riappariva facendo il gesto dell’O.K. per dire che stava bene, e da lì il soprannome che lo rese famoso insieme all’impresa che negli anni raccolse altri adepti. Già nel 1968 aveva debuttato nel cinema salvando proprio Nino Manfredi che si era buttato nel Tevere in “Straziami, ma di baci saziami” di Dino Risi.

Nino Manfredi, che resterà nella nostra memoria come il primo e in assoluto migliore Geppetto nel Pinocchio televisivo, firmerà anche altre regie ma questa rimarrà la sua opera migliore, per la sincerità dell’spirazione e la complessità del tema trattato con esemplare equilibrio fra leggerezza e approfondimento. Del famoso quartetto che ha dominato la nostra cinematografia lui era quello che ha dato voce ai personaggi più sinceri e popolari, laddove Alberto Sordi era la maschera più infida ma nel contempo divertente, Vittorio Gassman il fanfarone, Ugo Tognazzi il più eccentrico; contemporaneo a quel quartetto ma fuori dagli schemi per la sua particolare inclassificabile complessità è stato Marcello Mastroianni, sempre in fuga dalla star system. Solo Nino Manfredi, con Sordi e Tognazzi, si cimenteranno nella regia, e lui è quello che fra tutti si è espresso più chiaramente sui sempre scomodi temi della fede. Alla sua morte, 83enne, nel 2004, benché dichiaratamente ateo ebbe un funerale religioso che la famiglia avrebbe potuto evitare se solo si fosse ricordata del finale di “Per grazia ricevuta”.

Qui il film completo su YouTube (dove curiosamente, come in tv, manca il nome di Lionel Stander nei titoli, forse per la perdita di un paio di fotogrammi).