Archivi tag: luigi chiarini

L’amore in città – esperimento unico nel 1953 di film e rivista contemporanei

la locandina del film

Esempio più unico che raro: possiamo vedere e sfogliare online, contemporaneamente, il film e il cinegiornale che lo racconta. Nell’articolo precedente ho parlato delle riviste di cinema in Italia e qui esploriamo questa curiosa operazione, cinematografica e rivista cartacea insieme, l’una complementare all’altra, pensata di certo con l’intento di portare i lettori al cinema e fare degli spettatori dei potenziali lettori: l’idea non era male, se non che negli anni ’50 il il mercato era già saturo; così “Lo Spettatore”, pomposamente diretto da Cesare Zavattini, Riccardo Ghione e Marco Ferreri, visse per un solo numero. A fine articolo è possibile sfogliare la rivista e vedere il film completo.

nei titoli di testa del film

Ma andiamo a vedere chi furono i tre creatori del progetto. Si legge nella rivista: “Due giovani cineasti, RICCARDO GHIONE e MARCO FERRERI, hanno ideato, assieme a Zavattini – Zavattini è in piccolo perché è citato nell’occhiello precedente – ‘la rivista filmata’ o ‘giornale cinematografico’, con il titolo ‘Lo Spettatore’ che dedicherà i suoi numeri, cioè i suoi films, ad alcuni dei più caratteristici aspetti della vita contemporanea. ‘Amore in città’ è il primo film della serie e svolge il tema dei vari e mutevoli aspetti dell’amore in una grande città.” I “due giovani cineasti” furono molto generosi nell’autodefinirsi, dato che cinematograficamente non avevano ancora prodotto nulla.

Riccardo Ghione è oggi il nome meno noto che viene ricordato come sceneggiatore, regista e produttore; in realtà non ha lasciato nulla di memorabile e possiamo considerarlo un intellettuale che amava il cinema, e si sa che non sempre siamo in grado di fare ciò che amiamo. Già due anni prima Ghione, e già in coppia con Ferreri, aveva fondato il cinegiornale Documento Mensile che nonostante avesse coinvolto bei nomi del cinema vivrà per soli tre numeri. Ci riprova con questo Lo Spettatore che andrà anche peggio. Dal 1956 si dà alla sceneggiatura, e nel 1968 dopo aver firmato un documentario mai distribuito debutta con il lungometraggio erotico “La rivoluzione sessuale”; dirigerà altri due soli film mentre come sceneggiatore resta nella scia dell’erotico firmando film come “Fotografando Patrizia” di Salvatore Samperi cui seguirà “Scandalosa Gilda” sempre con Monica Guerritore ma diretta dal marito Gabriele Lavia; seguono titoli come “Delizia” “Senza scrupoli” “Casa di piacere” “Una donna da guardare” “Diario di un vizio”…

Marco Ferreri, che studiava veterinaria nella natia Milano, cominciò a bazzicare nel mondo del cinema senza sapere ancora dove andare a parare: di certo era uno spirito inquieto e lo dimostra nell’intera sua cinematografia; l’anno prima di questa avventura produttiva aveva fatto la comparsa sul set di “Il cappotto” in cui Renato Rascel recitava in un ruolo insolitamente drammatico con Alberto Lattuada alla regia, film di cui Riccardo Ghione era supervisore alla travagliata sceneggiatura a più firme. Fallita la doppia avventura editoriale, Ferreri si fece agente di commercio per una ditta di obiettivi ottici viaggiando tutta la penisola con puntate anche in Francia e Spagna, dove conobbe lo scrittore Rafael Azcona col quale adattò per lo schermo il di lui romanzo “El Pisito” che dirigerà in lingua spagnola debuttando come regista cinematografico nel 1958. Dunque all’epoca di questo cineromanzo è ancora soltanto un giovanotto di belle speranze.

I meno che 30enni Ghione e Ferreri, non paghi del fallimento della prima esperienza editoriale, si rimettono dunque in gioco ma stavolta coinvolgono il 50enne di rango Cesare Zavattini, oggi ricordato come uno degli sceneggiatori più rilevanti del cinema neorealista. Già giornalista e scrittore si avvicina al cinema nel 1934 e dal suo incontro con Vittorio De Sica nasceranno capolavori come “Sciuscià” “Ladri di biciclette” “Miracolo a Milano” “Umberto D.” Sposando il nuovo progetto editorial-cinematografico dei due giovani rampanti, Zavattini pensa di bene di passare anche dietro la macchina da presa e con la sua sceneggiatura debutta come co-regista insieme a un altro debuttante: Francesco Maselli. E in quanto “grande vecchio” o perlomeno persona con più esperienza, oltre al nome ci mette anche la faccia, come si dice, oltre al suo lavoro espone l’idea del progetto, la cosiddetta poetica, che era quella di rilanciare il già morente neorealismo, sorto nell’immediato dopoguerra come necessario bagno di verità dopo il patinato cinema di regime, e che stava già morendo sulla spinta del nuovo genere che attirava gli italiani al cinema: la commedia all’italiana, e di questo periodo sono molti i film che mischiano i due generi, come ponte sul futuro.

Maresa Gallo, una delle attrici professioniste

Zavattini rilancia dicendo di volere avviare una sorta di cinema-verità, una specie di indagine socio-cinematografica dove gli attori non sono più quelli presi dalla strada ma sono addirittura gli stessi protagonisti delle loro vicende: “Il regista deve saper trarre da loro, come dagli ambienti veri, tutti i valori estetici e morali possibili, prescindendo dalle loro capacità tecniche ed interpretative.” Dunque non sarà la creatività dei cineasti a prendere spunto dalla realtà, ma si farà combaciare questa realtà con la creatività. Ambizioso dal punto di vista creativo di sceneggiatori e registi ma assai deleterio dal punto di vista degli attori professionisti, gente che all’epoca si faceva le ossa in palcoscenico, teatro di prosa o rivista che fosse, ma che nel caso di questo cinema-verità sarebbero stati solo di supporto, come accade in questo film.

L’esperienza fu però fallimentare e invece di rilanciare il neorealismo gli diede il colpo di grazia, in quanto gli esperimenti, più che indagine sociale sembrano più situazioni da “Specchio segreto”, il programma Rai che un decennio dopo Nanni Loy scrisse e diresse, che consisteva nel riprendere persone comuni messe in una situazione non comune dallo stesso Loy e altri attori professionisti capaci di seguire a braccio un copione; il programma era stato direttamente copiato dallo statunitense “Candid Camera” (che certo gli avventurieri di questo esempio di cinema-verità conoscevano) che andò in onda dal 1948 fino a tutto il 2014 e che era partito come programma radiofonico, “The Candid Microphone”, dove per candid si intende spontaneo, naturale, sincero – dunque non costruito; e nella sua versione italiana, Nanni Loy, che fu anche attore sceneggiatore e regista di vaglia, aggiunse una sana dose di cinismo nell’indagare la psicologia della vittima impreparata, spingendosi oltre la comicità fine a sé stessa incentrata solo sul prendersi gioco del malcapitato: una visione che possiamo approfondire su Rai Play di cui qui sotto un assaggio. Ricordiamo pure che da questi programmi è poi nato su Mediaset “Scherzi a parte” dove a subire gli scherzi saranno dei personaggi noti.

Il film, strutturato come un cinegiornale con narratore in voce fuori campo, è composto da sei episodi le cui sinossi è possibile leggere sulla rivista, che ha per attori dei non professionisti che interpretano sé stessi e le loro personali vicende: un cinema-verità che per essere realizzato di fatto interpreta la verità rendendola già finzione; il narratore all’inizio chiede a noi spettatori: “Li avete mai ascoltati cosa si dicono sul serio quando credono che nessuno li veda e li senta?” ma per il fatto che quei dialoghi sono stati trascritti, adattati, provati e riprovati e infine filmati non possono più definirsi verità – ma l’esperimento con la gente comune che reinterpreta sé stessa rimane interessante, e dalla visione si possono distinguere quelli che recitano con la loro voce dagli altri che sono stati doppiati: ulteriore manipolazione della verità.

AMORE CHE SI PAGA di Carlo Lizzani

Parlando di prostituzione e intervistando le “signore della notte” salta subito all’attenzione il paternalismo moralista infarcito di pietà pelosa con cui all’epoca veniva raccontato l’argomento. Carlo Lizzani, che non ha messo mano alla sceneggiatura del suo episodio, proprio in quel 1953 aveva cominciato a scrivere la sua “Storia del cinema italiano”. Era stato partigiano nella Resistenza Romana, poi iscritto al Partito Comunista Italiano. Aveva esordito due anni prima con la regia di “Achtung! Banditi!” che non lascia dubbi sull’impegno dell’autore nel cinema neorealista e politico. Nel 2013 si suicidò 91enne gettandosi dal balcone di casa. Nel ruolo della prostituta Anna la professionista Mara Berni alla quale il trucco ha aggiunto un velo scuro di baffetti sopra le labbra per renderla meno diva e più popolana. In un’inquadratura viene omaggiato Michelangelo Antonioni, altro regista di questo progetto, all’epoca nelle sale con il suo secondo film “La signora senza camelie”, e regista dell’episodio seguente.

TENTATO SUICIDIO di Michelangelo Antonioni

Raccogliendo tutti i personaggi in un teatro di posa, avvia poi i racconti delle singole vicende; prima la vicenda di una ragazza che ha cercato di buttarsi sotto un’auto perché il fidanzato l’aveva lasciata sapendola incinta; è evidente, nell’intervista alla protagonista, che lei sta leggendo da un gobbo il racconto della sua stessa vicenda, alla faccia del cinema-verità. Poi è la volta di un’altra, già ballerina di varietà nonché “entrenuse” come lei stessa pronuncia, che finge il suicidio con pochi barbiturici, dopo altri tentativi falliti, per riconquistare il marito che l’aveva lasciata e che alla fine la riprende in casa, ma lei continua a pensare al suicidio perché fondamentalmente insoddisfatta della vita di casalinga: quella che avrebbe potuto essere un’interessante indagine sull’insoddisfazione di una donna irrealizzata in un’epoca in cui alle donne comuni era preclusa ogni possibilità di riscatto sociale, quest’episodio nell’episodio si limita a raccontare il tentato suicidio.

Sempre per pene d’amore una terza si butta nel Tevere e una quarta, che va da sola in Vespa e definita “esponente di quella gioventù sfasata che riempie le cronache” per dire quanto i giovani fossero male considerati, si taglia le vene pensando che fosse più facile morire, per poi dichiarare che le piacerebbe fare l’attrice; al chi l’intervistatore-narratore, che segue la sceneggiatura dello stesso Antonioni, le chiede se il tentato suicidio non sia stato soltanto una posa. Una quinta racconta con grande naturalezza – “e se ne andette via co’ la moglie” – il triangolo amoroso in cui era la vittima.

Michelangelo Antonioni sta girando in contemporanea il suo terzo film, “I vinti”, un interessante e contrastato film a episodi che ispirandosi a fatti di cronaca avvenuti in nazioni diverse, racconta tre storie nelle tre diverse lingue: francese italiano e inglese. Conoscerà Monica Vitti durante il doppiaggio del successivo “Il grido” dove lei dà la voce a Dorian Gray, e fu subito amore insieme al trittico dei film sull’incomunicabilità.

PARADISO PER 3 ORE di Dino Risi

Che nella rivista viene erroneamente annunciato per 4 ore; ed è già esagerato definire “tre ore di felicità, tre ore di paradiso” poche ore di semplice svago per cameriere e militari, secondo la narrazione del dicitore; il Dancing Astoria sito in via di San Giovanni in Laterano 87 è luogo di svago anche per coppie già formate e già avvelenate dalla gelosia, ma soprattutto è luogo di incontri per giovanotti e signorine, alcune delle quali accompagnate da mammà che filtra i pretendenti al ballo perché non si sa mai se da cosa nasce cosa. Senza raccontare storie specifiche questo episodio si limita a mostrare tipi e comportamenti facendosi onesto documento sociale senza i fronzoli delle pretese narrative e drammaturgiche. Dino Risi aveva debuttato l’anno prima con “Vacanze con il gangster” e all’epoca stava lavorando già al suo secondo lungometraggio “Il viale della speranza”, entrambi film che si collocano come ponti fra il neorealismo e quella commedia all’italiana di cui Risi diverrà indiscusso maestro.

UN GIORNALISTA RACCONTA:
AGENZIA MATRIMONIALE di Federico Fellini

Fellini è Fellini sin dagli inizi. L’anno prima aveva debuttato con “Lo sceicco bianco” che non era piaciuto a tutti perché inaugurava un nuovo stile che sarebbe rimasto tutto suo personale: un realismo onirico e magico venato di amaro e anche sarcastico umorismo che successivamente verrà definito fantarealismo. Quello stesso 1953 esce col suo secondo lungometraggio “I vitelloni” che si aggiudica il Leone d’Argento a Venezia e riempie i cinema anche all’estero. Nel segno di questo fantarealismo firma il suo episodio che molto poco ha a che vedere col cinema-verità dell’intero progetto e che proprio per questo è l’episodio più riuscito: lascia la sua traccia autorale facendosi beffe dell’intero parterre degli ideatori. Di vero, ma anche no, dichiara che c’è l’ispirazione della storia, di quando giornalista fu incaricato di fare un servizio sulle agenzie matrimoniali. Scopriamo che la voce narrante di tutti gli episodi appartiene a questo personaggio, il giornalista, interpretato da Antonio Cifariello col suo vero nome e doppiato da Enrico Maria Salerno che dunque è il narratore dell’intero film; inoltre questo cortometraggio felliniano è quello che dichiaratamente schiera più attori professionisti: Silvio Lillo è il proprietario dell’agenzia che Livia Venturini gestisce e Cristina Grado è la giovane povera in cerca di sistemazione matrimoniale.

UN FATTO VERO: STORIA DI CATERINA
di Francesco Maselli con la collaborazione di Cesare Zavattini

Già dichiarare l’episodio “un fatto vero” sin dal titolo getta un’ombra sulla veridicità degli episodi precedenti… diciamo allora che è un po’ più vero degli altri; del resto non c’era l’attrice Mara Berni a interpretare una delle prostitute nelle finte interviste in “Amore che si paga”? Come spiega la rivista il debutto in regia di Cesare Zavattini è dovuto all’attaccamento per il suo soggetto del cortometraggio, alla cui regia c’è l’altro debuttante, il 22enne Francesco Maselli; la storia è quella vera che tenne banco sulle cronache dell’anno prima: Caterina Rigoglioso interpreta sé stessa in una vera e propria performance recitativa che niente ha a che vedere con le assai più semplici interviste dei primi episodi; esempio di cinema-verità alla massima espressione che rimane come vero documento di un’epoca: vediamo nel film che alla Provincia di Roma c’era l’Ufficio Assistenza Illegittimi, roba che oggi sembra fantapolitica. La palermitana Caterina nel 1949 era andata a Roma a fare la cameriera e lì come molte ragazze sprovvedute venne sedotta e abbandonata, diede alla luce il “figlio del peccato” (come all’epoca venivano definiti i “bastardi”, altro termine fortunatamente non più in uso neanche per i cani) che abbandonò in un giardinetto perché non era in grado di sostentarlo, salvo poi pentirsi e riprendersi il figlio, fra altre disavventure compreso il carcere.

Goliarda Sapienza

La doppia – con l’accento vagamente romanesco tipico di tanti immigrati che si spostano nella capitale, che tentano di mimetizzarsi linguisticamente – la catanese Goliarda Sapienza, oggi acclamata poetessa e scrittrice che 16enne si era iscritta all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma, dove la famiglia si era trasferita, poi protagonista pirandelliana in teatro; di sei anni più grande di Francesco Maselli, si erano conosciuti quando lui era 19enne ed ebbero una tormentata relazione che durò diciotto anni. Avvicinatasi al cinema non vi si dedicò mai pienamente dato che stava scoprendo la scrittura nella quale ha lasciato il meglio di sé.

LO SPETTATORE SI DIVERTE: GLI ITALIANI SI VOLTANO di Alberto Lattuada

Conclude un episodio scapricciatello dove non c’è neanche traccia di parlato ché le sequenze parlano da sé (tranne un paio di inutili battute che annacquano la precisa e vincente scelta stilistica); tante belle ragazze spuntano da ogni dove in una soleggiata mattinata romana quasi come in una sfilata di moda accompagnata dalla musichetta accattivante di Mario Nascimbene, che musica tutti gli episodi. Le belle ragazze invadono le strade e gli uomini si voltano qualcuno anche tentando un approccio, e tranne qualche inquadratura occasionalmente rubata tutto è argutamente costruito in un episodio di cinema-verità studiato a tavolino.

Del regista Alberto Lattuada bisogna ricordare che è praticamente l’unico fra tutti i cineasti coinvolti ad avere un passato di fascista, anche se pare che aderì al GUF, Gruppo Universitari Fascisti, solo per avere mano libera nell’organizzare retrospettive cinematografiche di pregio. Dopo un necessario passaggio al neorealismo, tappa quasi d’obbligo per l’autorato del dopoguerra, oggi è ricordato soprattutto come scopritore di talenti femminili – Marina Berti, Carla Del Poggio (poi sua moglie) Valeria Moriconi, Catherine Spaak, Dalila Di Lazzaro, Teresa Ann Savoy, Nastassja Kinski, Clio Goldsmith, Barbara De Rossi fra le altre – in una cinematografia pervasa di garbata sensualità; dunque possiamo considerare questa carrellata di bellezze come un prodromo della sua matura cinematografia.

Dell’intero film, oltre al musicista Nascimbeni, vanno ricordati Gianni Di Venanzo per la fotografia, Eraldo Da Roma per il montaggio e Gianni Polidori per la scenografia; mentre alle sceneggiature ci sono le penne di: Aldo Buzzi (anche aiuto regista), Luigi Chiarini, Luigi Malerba, Tullio Pinelli, Luigi Vanzi e Vittorio Veltroni, e fra gli aiuto-registi c’era anche Gillo Pontecorvo. Nell’insieme un film ancora oggi gradevole pur con tutti i limiti di un progetto velleitario che non fece scuola, e da vedere per l’intero pacchetto di nomi che schiera.

Fastidiosissima la numerosa pubblicità che partendo a minutaggi prestabiliti interrompe la visione senza rispettarne i tempi narrativi.

IL SOSPETTO – omaggio a Francesco “Citto” Maselli

Sarò sincero, non sono mai stato un fan dell’appena scomparso 92enne Francesco Maselli e trovando su YouTube questo suo importante film che ho visto per la prima volta, confermo la mia posizione: il suo impegno politico e sociale prevarica l’attenzione per il pubblico, tant’è che i suoi film non hanno mai avuto grande riscontro al botteghino. Ci sono film di maestri coevi, Francesco Rosi Florestano Vancini ed Elio Petri tanto per citare i primi che mi vengono in mente, che pur indagando la politica e il sociale non derogano da quella che dovrebbe una delle regole portanti del cinema: la spettacolarità, che non sono solo botti e botte da orbi, ma soprattutto scrittura accattivante e ritmo coinvolgente: chi continuerebbe a leggere un libro che risulta ostico se non noioso sin dalle prime pagine?

Francesco Maselli è “nato bene” come si diceva una volta, in una famiglia di intellettuali romani: suo padre era un critico d’arte che ospitava nel suo salotto i bei nomi intellettuali e progressisti dell’epoca, ed era intimo amico di Luigi Pirandello che gli dava da leggere in anteprima i suoi manoscritti, e fu proprio Pirandello a tenere a battesimo Francesco affibbiandogli il nomignolo Citto. Il ragazzo si dimostrò anch’egli un intellettuale precocissimo: a sette anni aveva già imparato l’Amleto a memoria; e a tredici, durante l’occupazione tedesca della capitale, portava armi e cibo ai partigiani del Gap, Gruppo d’Azione Partigiana; e a seguire, a soli quattordici anni riuscì entrare nell’allora clandestino Pci, Partito Comunista Italiano. In quegli anni gira anche i suoi due primi cortometraggi in 8mm fra i 15 e i 17 e ancora 17enne viene accettato al Centro Sperimentale di Cinematografia da cui si diploma 19enne; sarà subito assistente di Luigi Chiarini, critico e teorico del cinema fra i fondatori del Centro, suo padrino professionale, oltre ad affiancarsi come aiuto di Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti: insomma, il giovane Citto “nato bene” non ha dovuto sgomitare per lavorare coi migliori. Si comincia già a delineare il suo talento come documentarista che è in linea coi suoi impegni politici e civili e probabilmente proprio in questo tipo di cinematografia riesce a dare il meglio: perché essendo film dichiaratamente documento non hanno l’obbligo – ammesso che sia un obbligo – della spettacolarità, ovvero di dover piacere al grande pubblico. Perché questo sarà il nodo irrisolto di tutta la cinematografia di Citto Maselli: non riesce a piacere al pubblico di massa, tanto che per indagare questo aspetto andrà anche in analisi. Di fatto l’autore mette sempre in primo piano la politica che, di fatto, è la sua formazione emotiva, quella che ha formato l’adolescente; racconta i suoi personaggi e struttura i suoi film secondo una visione intimamente marxista, facendone dei casi-limite, esempi di un’umanità e di contesti sociali che finiscono con l’essere poco accattivanti e indigesti al botteghino.

Prendiamo ad esempio questo “Il sospetto” del 1975, che per non essere confuso col film omonimo del 1941 di Alfred Hitchcock “Suspicion” in originale, verrà distribuito come “Il sospetto di Francesco Maselli” (poi ci sarà un altro film omonimo nel 2012 del danese Thomas Vinterberg). Ambientato nella Torino del 1934, centro nevralgico di interessi politici della sinistra operaia per la gran massa di operai della Fiat, racconta di un dirigente del Partito Comunista Italiano in clandestinità perché si è nel bel mezzo del cosiddetto ventennio fascista.

Scorcio parigino del film

L’ambientazione è inappuntabile e accattivante, si fa grande sfoggio di auto d’epoca e di comparse bene acconciate, e la cinematografia di Giulio Albonico insieme al montaggio di Vincenzo Verdecchi scarnificano l’opera rendendola fascinosamente essenziale, senza sbavature e inutili compiacimenti – ma già alla base del progetto c’è una scrittura – sceneggiatura di Franco Solinas (già critico cinematografico per il quotidiano comunista l’Unità) da un soggetto dello stesso Maselli – che sembra non tenere conto degli spettatori: è scritto come se parlasse solo ai tesserati del partito, dando per scontati dettagli informazioni e utili raccordi che vengono a mancare a chi non è addentro a quelle specifiche dinamiche, col risultato che io spettatore “non iniziato” e non iscritto al Partito Comunista faccio fatica ad entrare nello spirito del film, della sua narrazione; è esemplare il finale del film con il lungo monologo-spiegazione del funzionario del partito fascista, che dà un senso all’intero impianto del film ma che nelle mani di altri cineasti sarebbe potuto diventare un confronto più serrato e drammaticamente vivo; e l’intera storia che contiene tutti gli elementi di un thriller – il sospetto che ci sia un traditore fra le fila dei comunisti e l’indagine per smascherarlo – viene invece condotta come un film a tesi che spiega solo le dinamiche interne al partito: le tesi appunto e i contrasti, i dirigenti in clandestinità e quelli in esilio all’estero, l’allontanamento ideologico dal Partito Socialista Italiano, le direttive imposte dall’alto e il sacrificio individuale.

Ne è protagonista il sempre centratissimo Gian Maria Volonté, anch’egli comunista attivissimo: proprio in quel 1975 fu eletto consigliere regionale del Lazio, carica da cui si dimise appena sei mesi dopo, motivando: “Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia: io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso” a dimostrazione che la purezza e l’integrità ideologica non possono andare di pari passo con l’attività politica sul campo che deve fare i conti con le varie realtà trasformando l’iniziale ideologia in fatti concreti. A latere bisogna sempre ricordare che quelli erano i cosiddetti anni di piombo (modo di dire derivato dal film omonimo del 1981 della tedesca Margarethe Von Trotta) del terrorismo di destra e sinistra che aveva fatto del territorio italiano un campo di battaglia, si suppone col supporto dei servizi segreti americani che temevano l’espandersi della comunista Russia nell’Europa Occidentale: già nel film si parla dell’Unione Sovietica come ideologico faro dell’umanità. E anche in tale contesto va collocata l’ispirazione politica di autore e protagonista.

Fanno da contorno a Volonté un insolito Renato Salvatori per chi lo ricorda brillante giovanottone che era arrivato al successo negli anni ’50 con la trilogia di Dino Risi dei “Poveri ma belli” e, nonostante fosse quasi sempre doppiato ebbe anche bei ruoli in film drammatici; ma per Salvatori quegli anni ’70 erano già gli anni del declino: aveva ceduto all’alcolismo e consequenzialmente veniva chiamato per ruoli meno impegnativi benché sempre tenuto in considerazione da amici e colleghi; morirà 55enne di cirrosi epatica. Nel ruolo della dirigente italiana in esilio a Parigi c’è la parigina Annie Girardot, amica di famiglia essendo l’ex moglie di Salvatori con il quale era rimasta in affettuosi rapporti: si erano conosciuti nel 1960 sul set di “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, film che peraltro segnò l’apice della carriera di lui come interprete drammatico. Nel ruolo di un altro dirigente di partito c’è il torinese doc Felice Andreasi che era appena divenuto noto come ospite fisso del televisivo “Il poeta e il contadino” condotto da Cochi e Renato. Chiude il cast dei ruoli principali il sempre eccellente Pietro Biondi, l’unico ancora in vita fra gli elencati, nel ruolo del monologante agente dell’OVRA, la polizia politica fascista. Accreditato nel cast benché con un ruolo da figurante in campo lunghissimo c’è l’emergente Gabriele Lavia che già al cinema aveva avuto ruoli da protagonista: si suppone che il suo personaggio si sia perso in sala di montaggio.

protagonista e regista

L’occasione della scomparsa di Citto Maselli mi accende la curiosità sulla sua filmografia che non ho mai frequentato, con un focus sui lavori collettivi, i cosiddetti film a episodi, e quelli più onestamente politici e documentaristici. Nel 1981 Maselli ha confessato a Paese Sera: “Ho un’ambizione che non ho mai rivelato a nessuno, nemmeno a me stesso. È quella di essere dimenticato come regista e riscoperto, invece, come fotografo… La cosa più orribilmente sincera che abbia mai detto.” E inquadrati in quest’ottica i suoi film sono più fotografici che narrativi, nel senso che staticamente si focalizzano su personaggi e situazioni senza raccontarne lo sviluppo, la dinamicità, il divenire, e in questo modo congelando ogni afflato emotivo. Interessante la sua svolta negli anni ’80 con quattro film incentrati sulla donna: “Storia d’amore” del 1986 gran successo al Festival di Venezia dove l’autore vince il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria mentre alla protagonista Valeria Golino va la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. Nel 1988 segue lo sperimentale “Codice privato” con Ornella Muti unica interprete del film, nominata ai David di Donatello, ai Nastri d’Argento agli European Film Awards e vincitrice del Ciak d’Oro. Del 1990 sono gli altri due film con protagonista Nastassja Kinski, “L’alba” e “Il segreto”, film però entrambi clamorosamente bocciati dalla critica senza dire che il pubblico li ha praticamente ignorati.

Francesco Maselli, oltre a essere cineasta non ha mai abbandonato l’attività politica dedicandosi in particolare alla scrittura saggistica e mantenendo il suo ruolo, fondamentale, come militante della sinistra italiana. Nel 2001 dette vita alla Fondazione Cinema nel Presente riunendo una trentina di autori rappresentativi di tutte le generazioni del cinema italiano, fra i quali: Francesca Comencini, Wilma Labate, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo, Ettore Scola e Pasquale Scimeca; fondazione che produrrà molti di quei documentari collettivi in cui ha dato il meglio di sé. Andiamo a riscoprirlo.