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Palazzina Laf – opera prima di Michele Riondino

Con l’opera prima di Michele Riondino ritorna il cinema di impegno civile, quello che negli anni Sessanta e Settanta vide dietro la macchina da presa autori come Francesco Rosi, Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, per dire i primi che mi vengono in mente: cinematografia che aveva una sua ragione d’essere scoprendo come racconto la denuncia sociale e le malefatte del potere, cinema che in quegli anni si proponeva come alternativa alla commedia all’italiana; cinematografia che non ha mai smesso di esistere e che si è ravvivata in questi ultimi due decenni dei Duemila.

Il tarantino Riondino, trasferitosi a Roma per frequentare l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, è uno di quei fortunati che ce l’hanno fatta in un ambiente in cui la fortuna conta più del talento: e lui il talento ce l’ha, insieme a un suo discreto fascino che certo non guasta. Accumula candidature ai premi ma afferra solo il Premio Guglielmo Biraghi assegnato dai giornalisti per “Dieci inverni” del 2009 del debuttante Valerio Mieli. Fino a questi David di Donatello 2024 in cui è ovviamente candidato come regista debuttante accanto a Beppe Fiorello per “Stranizza d’amuri”, Micaela Ramazzotti per “Felicità” e Paola Cortellesi che con “C’è ancora domani” porta via il premio, come da previsioni; al suo film vengono però assegnati due premi di peso: quello per il miglior protagonista a lui personalmente e quello per il non protagonista a Elio Germano, oltre alla miglior canzone originale a Diodato (Antonio) anche lui tarantino benché nato ad Aosta, ma si sa che la gente del sud si sposta molto.

Non sorprende il debutto socialmente impegnato di Riondino: a Taranto è nel “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” nato nel 2012 per puntare l’attenzione pubblica sui problemi tarantini legati all’occupazione e all’Ilva nello specifico, comitato che organizza in città il concertone del 1° maggio chiamato “Uno maggio Taranto libero e pensante” di cui il nostro è da qualche anno anche direttore artistico insieme a Diodato, guarda un po’, e il trombettista siracusano (di Augusta) Roy Paci. La sceneggiatura che Riondino ha scritto insieme al napoletano Maurizio Braucci che non è l’ultimo arrivato: “Gomorra” e “Reality” di Matteo Garrone, “Pasolini” e “Padre Pio” di Abel Ferrara, “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, “Martin Eden” di Pietro Marcello, per ricordare i film più noti alla cui scrittura ha partecipato; “Palazzina Laf” dove il LAF e l’acronimo di “laminatoio a freddo” che è lo stabilimento accanto alla palazzina in questione, si ispira al romanzo di un altro tarantino, Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore decisamente impegnato sul fronte sociale, che in “Fumo sulla città” ha raccontato le malefatte nell’Ilva del Gruppo Riva che l’aveva acquisita nel 1995 quando l’impresa parastatale fu privatizzata; disgraziatamente lo scrittore è morto all’improvviso poco prima di poter prendere parte alla scrittura del film, che nei titoli di coda gli è dedicato: aveva 40 anni.

Alessandro Leogrande

L’anno dopo la capitale albanese Tirana gli ha intitolato una via del centro riconoscendogli l’impegno che lo scrittore profuse a quella nazione col suo libro-inchiesta “Il naufragio” nel quale ha raccontato l’affondamento della Kater I Rades in cui perirono 81 persone dei 120 migranti, per lo più famiglie con bambini, che nel 1997 si erano imbarcati per raggiungere le coste pugliesi ma la nave fu speronata accidentalmente da una corvetta della nostra Marina Militare impegnata in una manovra di respingimento.

Il film, che non possiamo dire biografico perché è a tutti gli effetti un racconto di finzione, pone il punto di vista di un operaio (Riondino) cooptato da un dirigente (Germano) che in cambio di fittizie fugaci e ingannevoli regalie introduce come sua spia nella palazzina in cui venivano confinati gli impiegati di concetto che si erano opposti alla “novazione” del contratto, ovvero l’illegale declassamento a operai, pratica oltremodo pericolosa per persone che non avevano la preparazione specifica per stare ai macchinari: fatti reali, personaggi fittizi.

Film solido e decisamente diretto con mano ferma e felice, ma a tratti poco accattivante: senza voler diventare rigoroso documentario si fa veicolo per due belle interpretazioni ma la scrittura, scegliendo questa via, avrebbe dovuto essere più generosa con gli attori inserendo un paio di quelle necessarie (a mio avviso) scene madri, monologhi o scene forti, che gratificano gli interpreti e strizzano l’occhio al pubblico – che essendo il fruitore finale e principale va in qualche modo assecondato: a tal proposito basta fare il confronto con le altre opere prime in gara a cominciare dal furbissimo film della Cortellesi che giustamente trionfa. E difatti quest’opera prima di Riondino, rispettabilissima e molto apprezzata dalla critica, è stata praticamente ignorata dal pubblico: ha incassato 750 mila euro in tutto. E se da un lato mi viene da dire “peccato” dall’altro penso “che serva da lezione”. È sbagliato anche o soprattutto il titolo: “Palazzina Laf” dice il contenuto del film ma non è accattivante quanto “C’è ancora domani” che dice il film ma incuriosisce, o “Stranizza d’amuri” o, paradossalmente, “Felicità” che invita a comprare il biglietto ma non racconta assolutamente il film, tradendo poi le aspettative del pubblico: altra trappola in cui non cadere perché il passaparola è determinante. Gli editori, quelli che fanno i libri, sanno quanto siano importanti il titolo e la copertina, e si impongono sempre sulla visione ristretta degli autori. Tornando al film, il titolo del romanzo “Fumo sulla città” sarebbe stato senz’altro più vincente dato che richiama “Mani sulla città” glorioso film di Francesco Rosi del 1963 sulla speculazione edilizia dell’allora boom economico.

Il camaleontico Elio Germano, sempre un passo avanti, era stato chiamato da Riondino per il ruolo dell’operaio protagonista, ma l’attore romano che qui recita in perfetto tarantino, ha scelto il ruolo dell’antagonista perché ha anche il talento di chi sa scegliere i ruoli e ha fatto centro, lasciando all’autore la patata bollente del protagonista che altrettanto fa un ottimo lavoro aggiudicandosi anche lui il premio, ma schivando di un filino il centro: il personaggio è un operaio abbastanza ignorante e anche un po’ ottuso, tanto da lasciarsi infinocchiare dal padrone, ma a Michele Riondino che lo interpreta alla perfezione rimane però, nel suo personale sguardo umano, una luce di intelligenza che il personaggio non ha: sto cercando il pelo nell’uovo, lo so. E qui di seguito mi lancerò in una sterile provocazione, tanto per fare pettegolezzo.

C’è un altro attore pugliese cui il neo autore avrebbe potuto rivolgersi: Riccardo Scamarcio, che rispetto a Riondino (gli è una decina d’anni più anziano) vive su un altro pianeta e di certo i due non sono amici. Si erano ritrovati insieme sul set dell’inutile remake Mediaset del 2006 del glorioso sceneggiato Rai “La freccia nera” da Robert Luis Stevenson allora diretto da Anton Giulio Majano che nel 1968 aveva lanciato Loretta Goggi e Aldo Reggiani, e nel remake lanciando Scamarcio che ne era protagonista accanto a Martina Stella che fece parlare di sé solo per il seno nudo; mentre Riondino aveva un ruolo secondario. Sono poi stati di nuovo insieme nell’infelice fiction Rai “Il segreto dell’acqua” sempre protagonista Scamarcio, Riondino in un ruolo di supporto.

Riondino e Scamarcio si fronteggiano sul set

Diciamola tutta: i due non si sopportano. Avevano già fatto a botte, per finta sul set, beninteso, quando entrambi recitavano gli studenti nella serie Rai “Compagni di scuola” e su richiesta di Riondino la cosa si è ripetuta, sempre per finta, per carità, sul set di questo “Il segreto dell’acqua”, come lo stesso attore ha raccontato a Vanity Fair, e anche lì c’è da capire quanto ci sia di giornalisticamente vero e quanto di ulteriormente fiction: “Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, Riccardo mi è stato subito sul c…! Ma come, io ho una storia idilliaca con la Lodovini (Valentina, n.d.r.) e basta che arrivi uno Scamarcio qualsiasi per rompere tutto? Per di più, il mio personaggio non doveva mai reagire, ma io ho protestato” e ha ottenuto quello che voleva: fare a botte con lo Scamarcio qualsiasi.

Diversità, fra i due, fondamentali. Scamarcio è intemperante, da ragazzo ha cambiato diverse scuole fino a ritirarsi definitivamente dagli studi probabilmente senza neanche conseguire legalmente il diploma; va a Roma a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia e anche lì abbandona perché insofferente alle regole e all’autorità – al contrario del più ordinato Riondino che conclude il corso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e comincia a lavorare in teatro. Debuttano entrambi in tivù e il più anziano Scamarcio diventa fortunosamente un sex-symbol col giovanilistico “Tre metri sopra il cielo” diventando richiestissimo da registi e produttori: scegliendo accortamente, anche con l’illuminante guida della sua più anziana compagna (fino al 2018) Valeria Golino conosciuta nel 2004 sul set di “Texas” dell’esordiente Fausto Paravidino, si piazza nelle produzioni più interessanti lavorando anche all’estero e recitando in inglese e francese, e facendosi anche produttore oltre che occasionalmente sceneggiatore: insomma si dà da fare. Non ha (ancora) debuttato in regia.

Riondino, che ahilui non è mai assurto al ruolo di sex-symbol, tornando appena possibile al teatro (cosa che Scamarcio ha frequentato da guest star) come già detto resta culturalmente e politicamente legato alla sua terra, segno di una coscienza sociale che in un mestiere che si fa col coltello fra i denti può essere a volte un freno piuttosto che uno slancio – a meno di non farsi autori con una propria visione di cinema, che è quello che adesso ha fatto. Però non ha mai preso parte a produzioni internazionali né men che meno ha recitato in lingue straniere. È stato protagonista di “Il giovane Montalbano”, una produzione con la quale la Rai ha tentato il ringiovanimento del glorioso personaggio per liberarsi dall’ormai ingombrante Luca Zingaretti, che stanco di ripetere il personaggio non ne voleva più sapere, salvo poi accettare compensi stratosferici per continuare stancamente il suo “Montalbano sono”. Riondino è poi stato Pietro Mennea nella bio-fiction sempre Rai e al momento è protagonista della serie “I Leoni di Sicilia” su Disney+.

Dice il neo autore: “Il film racconta una storia vera che in pochi sapevano. La Palazzina Laf si chiama così per il nome di un reparto dell’acciaieria ex Ilva dove venivano reclusi, o condannati a stare in attesa, 79 operatori che non hanno accettato di firmare una clausola contrattuale che li avrebbe demansionati a operai. Ma quegli operatori erano altamente qualificati: ingegneri, geometri, informatici. Quando sono arrivati i Riva nel 1995 avevano subito detto di non aver bisogno di impiegati ma solo di operaiE, per una sorta di rimodulazione dell’assetto produttivo dell’azienda, avrebbero dovuto licenziare un certo numero di persone. In quei contratti però c’era l’art. 18, che impediva al proprietario di licenziare senza giusta causa. Il reparto lager è un reparto italiano e non solo di Taranto, ecco perché questo film non parla solo dell’ex Ilva. Veniva usato alla Fiat, nelle realtà industriali molto importanti per costringere i lavoratori, che si trovavano in quelle determinate condizioni, a licenziarsi o a commettere quell’errore che avrebbe prodotto la giusta causa.”

Gli altri interpreti del film sono tutti tarantini o pugliesi: Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo, Domenico Fortunato, Marta Limosani, Michele Sinisi, con Eva Cela nel ruolo della fidanzata, che essendo per nascita albanese (è arrivata in Italia a due anni) il suo ruolo rende implicito omaggio all’autore del romanzo scomparso prematuramente e onorato in Albania.

E per la prima volta sullo schermo… Ornella Muti

1970. Damiano Damiani è uno dei registi di punta del cinema di impegno civile di quegli anni, che si concesse un’incursione nell’horror americano con “Amityville Possession”, 1982, al seguito del produttore Dino De Laurentiis (che intendeva colonizzare Hollywood ed è riuscito a lasciare una sua traccia permanente); ma che quando l’impegno civile cinematografico ebbe il suo declino continuò con i polizieschi segnando i suoi ultimi grandi successi col televisivo “La Piovra”, 1984, e il cinematografico “Pizza Connection” del 1985, e poi avviandosi al declino fino ad “Alex l’ariete” del 2000 che segnò lo sfortunatissimo debutto cinematografico di Alberto Tomba. E’ morto 90enne nel 2013.

Franca Viola; e Filippo Melodia, con i complici, dietro le sbarre nell’aula del processo

E’ di cinque anni avanti la vicenda della prima donna che rifiutò il matrimonio riparatore facendo cronaca storia e legislatura. La quindicenne Franca Viola, di Alcamo in provincia di Trapani, si fidanzò col consenso dei genitori col maggiorenne e maggiorente di bell’aspetto Filippo Melodia, rampollo di una rispettata famiglia mafiosa, e all’inizio erano tutti felici e contenti perché la famiglia di contadini di lei aveva tutto da guadagnare da quell’unione, rispetto e benessere, e fin qui il film ricalca fedelmente la vicenda della fascinazione che la ragazzina provò per il giovane uomo ben vestito e dallo sguardo assassino. Senonché, il giovane uomo, che era davvero un assassino, finì momentaneamente al fresco per un semplice furto e papà Viola, orgogliosamente, ruppe il fidanzamento. Ma erano luoghi e tempi in cui l’orgoglio di un contadino non aveva valore e perciò subì minacce e devastazioni. Franca Viola sulla sua vicenda ebbe parole che oggi sembrerebbero banali ma che allora suonavano rivoluzionarie: “Io non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce” senza dimenticare che ci sono angoli del mondo dove ancora queste cose accadono. L’aggressore fu condannato a dieci anni di carcere con due di soggiorno obbligato a Modena, dove alla scadenza della pena venne raggiunto da un anonimo colpo di lupara.

La sceneggiatura devia dalla storia originale per darsi l’opportunità di raccontare altre realtà: la fidanzata bambina oggetto comincia a vedere l’uomo per quello che è, un arrogante maschilista che non la rispetta perché pensa di doverla possedere, perché possedere è tradizione di famiglia, e lei allora rompe il fidanzamento, nel film senza l’appoggio della famiglia, e la sceneggiatura dà spazio drammatico al padre che si maledice per non avere avuto il coraggio di schierarsi con la figlia, raccontando con questa scena una realtà sottesa: quella della diffusa complicità per ignavia e paura, sottomissione socio-culturale. Nella realtà e nel film la ragazza viene rapita e violentata per essere poi costretta a un matrimonio riparatore, per salvare il suo onore e quello della sua famiglia, pena l’isolamento sociale con il marchio di svergognata e un destino da zitella. E all’epoca, la legislazione italiana, con l’articolo 544 del codice penale, dichiarava: “Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”; con parole più comprensibili l’articolo ammetteva la possibilità che si potesse estinguere il reato di violenza carnale, anche ai danni di una minorenne, qualora fosse stato seguito dal cosiddetto “matrimonio riparatore”, visto come forma di contratto tra l’accusato e la persona offesa; questo accadeva perché la violenza sessuale era allora considerata oltraggio alla pubblica morale e non reato contro la persona. Va da sé che il caso di Franca Viola sollevò forti polemiche divenendo oggetto di numerose interpellanze parlamentari. Quell’articolo del codice penale sarà abrogato con una legge del 1981, a sedici anni di distanza dalla conclusione della vicenda, e solamente nel 1996 lo stupro da reato contro la morale sarà riconosciuto in Italia come un reato contro la persona.

Luisa Rivelli

Per interpretare i due protagonisti Damiano Damiani sceglie due convincenti debuttanti: la 15enne Francesca Rivelli e il 25enne Alessio Orano, e impone a lei il nome d’arte di Ornella Muti da sue reminiscenze dannunziane: Ornella è un personaggio de “La figlia di Jorio” ed Elena Muti è la protagonista de “Il piacere”; nome d’arte, a dire del regista pigmalione, necessario per distinguerla dall’attrice Luisa Rivelli, che in realtà è molto più anziana e in quegli anni già a fine carriera. La coppia di giovani e belli farà coppia nella vita e alla maggiore età di lei convolano a nozze, quando lei era già madre di Naike, la cui paternità non verrà mai dichiarata. In quegli anni lui darà il meglio in film horror e thriller e lei, come sappiamo, diverrà una delle interpreti più celebrate del nostro cinema, nonostante sia sempre stata doppiata da altre professioniste e solo in anni più recenti ha recitato con la sua vera voce, concedendosi pure un paio di interpretazioni teatrali. Qui è doppiata da Loretta Goggi e lui è doppiato da Michele Gammino. Il padre è interpretato da Gaetano Cimarosa che nel film conserva il suo vero nome, Tano Cimarosa, mentre la protagonista Franca sarà Francesca, anche vero nome dell’attrice. Nel ruolo del tenente dei carabinieri l’interessante e purtroppo prematuramente scomparso, a 36 anni, Pierluigi Aprà; mentre interessante è la partecipazione, nel ruolo di un contadino dibattuto fra l’imperativo morale e il dovere sociale-mafioso, del cantante Joe Sentieri, esponente negli anni ’60 di quel gruppo detto “degli urlatori”, genere che ebbe anche una sua propria filmografia composta da un trittico, gruppo cui appartenevano anche Tony Dallara, Adriano Celentano e Little Tony e a cui si aggiungerà il giovanissimo Gianni Morandi. In quegli anni molti cantanti hanno tentato la via del cinema al di fuori e oltre il genere musicarello degli anni ’60, ma solo due di loro sono riusciti a ritagliarsi delle carriere di tutto rispetto: l’ex urlatore Adriano Celentano e l’ex crooner Johnny Dorelli, entrambi star della commedia, il primo con quelle venature surreali che lo contraddistinguono dato che fu anche sceneggiatore e regista, il secondo più a suo agio nel genere scollacciato con incursioni nella commedia di costume d’autore.

Ornella Muti, dopo questo folgorante debutto, ebbe numerose offerte di lavoro, anche dalla Spagna e, come piano B nel caso la carriera cinematografica non avesse decollato, cominciò anche a lavorare nei fotoromanzi insieme alla sorella maggiore, Claudia Rivelli, già star della Lancio; ma non ebbe il tempo di continuare su questa strada perché il cinema la fagocitò, dapprima con ruoli da adolescente inquieta (le adolescenti, nel cinema di ogni epoca e latitudine, sono sempre inquiete, forse perché inquietano i pensieri dei maschi che fanno quel cinema…) e questo genere avrebbe potuto essere la sua tomba professionale, finché Marco Ferreri non la volle protagonista insieme a Gerard Depardieu del discusso e disturbante “L’ultima donna” del 1976, anno in cui Ornella ricevette anche la Targa d’Oro ai David di Donatello per il complesso delle sue interpretazioni; e l’anno successivo, recitando con Ugo Tognazzi in “la stanza del vescovo” di Dino Risi, diede una svolta definitiva alla sua carriera.

Il film, parlando di verginità e dunque obbligatoriamente collocato nella Sicilia cinematografica di allora, fa subito pensare a un film di tre anni prima, “Assicurasi vergine” con la meno espressiva Romina Power, altra storia ispirata a una vicenda realmente accaduta ma in quel caso raccontata con toni da commedia boccaccesca benché qua e là fotografasse comunque una Sicilia dai toni realistici: tutt’altra atmosfera rispetto a questo solido dramma che si apre, comunque, perché il set è la Sicilia, col suono metallico del marranzano, perché la Sicilia è sempre marranzano, anche se a firmare la colonna sonora stavolta c’è Ennio Morricone che, a mio avviso, qui mette insieme spezzoni inutilizzati altrove col solito assolo della sua soprano Edda Dell’Orso, senza scrivere pagine memorabili.

A Franca Viola il poeta palermitano (di Bagheria) Ignazio Buttitta dedicò dei versi che il cantautore-cantastorie calabrese Otello Profazio mise in musica.

Qui il film completo: