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Il cattivo poeta – il cinema 2020-21 disperso nella pandemia

Nel 2020 i cinema hanno timidamente riaperto in estate per richiudere subito dopo. Nel 2021 si va al cinema col green pass ma le sale sono praticamente deserte: gli spettatori sono decimati dalla pandemia e non mancano solo quelli che non hanno il green pass; fra quelli che ce l’hanno non tutti ritengono opportuno, o necessario, tornare al cinema, e i pochi volenterosi spettatori rimasti sono ulteriormente scoraggiati dall’obbligo della mascherina FFP2. I film usciti in sala passano subito sulle piattaforme web e in tv.

Meritevolissima opera prima del 49enne napoletano, laurea in filosofia, Gianluca Jodice, anche autore di soggetto e sceneggiatura: un nuovo autore che ha già all’attivo premi e riconoscimenti per i suoi cortometraggi e il cui merito è, oltre a quello di confezionare un film importante molto ben fatto, quello di tornare a raccontarci il nostro primo novecento, sempre meno recente e per questo più necessario da ritrovare, anche o forse soprattutto, attraverso figure secondarie: qui il vero protagonista, benché nel titolo si richiami al Gabriele D’Annunzio interpretato da Sergio Castellitto, è il giovane federale bresciano Giovanni Comini interpretato da un altro debuttante, il genovese Francesco Patanè dal cognome siciliano: faccia di bravo ragazzo della porta accanto molto funzionale al ruolo scritto dall’autore ma che manca, a mio avviso, di quel particolare fascino magnetico che devono avere i protagonisti (a meno che non parliamo di film di serie B e questo non lo è) ferma restando la sua interpretazione molto aderente e partecipata; del resto Patanè è stato candidato come migliore attore esordiente, insieme a Castellitto migliore protagonista e Gianluca Jodice miglior regista esordiente, ai Nastri d’Argento 2021 dove il film ha ricevuto solo i premi tecnici per la fotografia dell’eclettico Daniele Ciprì e i costumi di Andrea Cavalletto.

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Il film, che va decisamente recuperato, è un’occasione per esplorare le figure che racconta, a cominciare dal protagonista che è un federale, dispregiativamente definito nel film federalino per la sua giovane età: trent’anni. Il federale, come il podestà e il gerarca, sono figure oggi sparite ma assai specifiche dell’allora apparato fascista. Il podestà, come termine, esiste sin dal medioevo ma con le cosiddette leggi fascistissime il podestà tornò in vita sostituendo la figura del sindaco democraticamente eletto e a capo di una giunta: il podestà era nominato per regio decreto e non aveva intorno una giunta con cui confrontarsi o da cui farsi sostenere e di fatto era un’autorità unica che rispondeva al governo centrale; Il termine gerarca indicava gli alti dirigenti del Partito Nazionale Fascista (PNF) fondato nel 1921; il federale era il quarto in grado di importanza in quella gerarchia e dirigeva sul territorio le federazioni di fasci di combattimento, un po’ le sezioni di partito odierne che però, data la specifica natura di quel partito, fungeva anche da ufficio para militare e para poliziesco.

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Giovanni Comini è ricevuto da Achille Starace che si allena al vogatore nell’enorme sala che gli fa da ufficio all’interno di Palazzo Venezia; di lato quello che oggi diremmo il suo personal trainer insieme a una di quelle donne tuttofare a servizio dell’apparato fascista: un racconto cinematografico fatto di dettagli laterali che danno profondità e spessore all’intero racconto

Un ruolo assai impegnativo per il giovane Comini, già vice podestà di Brescia, che si sente addirittura un miracolato quando Achille Starace in persona, segretario del PNF, lo incarica di spiare Gabriele D’Annunzio introducendosi alla sua corte come ammiratore, e credibilmente, data la sua personale predisposizione alla poesia. Per il Vate, come tutti rispettosamente lo chiamano (appellativo dato anche a Giosuè Carducci) sono gli ultimi anni: il film si apre nel 1936 e si conclude nel 1938 con la sua morte, a 75 anni. D’Annunzio vive da auto esiliato nel complesso del Vittoriale degli Italiani, come ribattezzò una villa nella provincia bresciana, a Gardone Riviera, deluso dall’esito della sua impresa fiumana: nel 1919, alla fine della Prima Guerra Mondiale, si era improvvisato condottiero per riconquistare la città di Fiume che le potenze vincitrici avevano assegnato alla Jugoslavia: un’occupazione avvenuta senza fare vittime, denominata Reggenza Italiana del Carnaro come momento di passaggio all’effettiva annessione politica all’Italia; la reggenza si protrasse per quattro anni fino a quando il Regno d’Italia e il Regno dei Serbi Croati e Sloveni, desiderosi di normalizzare i rapporti, dichiararono Fiume stato libero e indipendente; ma D’Annunzio si rifiutò di ritirarsi e la città fu attaccata dall’esercito italiano che allontanò i legionari dannunziani lasciando sul campo una cinquantina di vittime: eventi specifici la cui conoscenza, nel film, è raccontata per sommi capi, ma altrimenti non poteva essere: la figura di D’Annunzio è gigantesca e nel ripercorrerne un breve periodo non si può fare altro che sfoltire, anche pesantemente. Un D’Annunzio che in questa stessa stagione cinematografica è stato tratteggiato nell’episodio di un film dal tono completamente differente: “Qui rido io” di Mario Martone.

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D’Annunzio deve essere controllato perché è una figura ingombrante che il regime non sa come gestire: la sua ristretta cerchia del Vittoriale lo chiama ancora Capitano con memorie e rimpianti fiumani, e di fatto il suo atteggiamento è quello di una personalità pericolosamente alternativa a quella del Duce: sono entrambi dei superuomini, come erano di moda all’epoca, con richiami gloriosi allo Sturm und Drang e ai concetti filosofici di Friedrich Nietzsche, e il sommo poeta non può che disprezzare l’ex vigile urbano: il suo patriottismo, benché muscolare, è più sincero e pregno di valori più alti e spirituali di quelli di Mussolini, il quale in realtà sta solo costruendo il culto della propria personalità in parallelo a quello di quell’altro superuomo che si credeva di essere Hitler. Sono tempi oscuri per la gente ordinaria. Il Vate tenta di far ragionare il Duce che pericolosamente si sta avvicinando al Fuhrer: non vede di buon occhio quell’alleanza ma soprattutto disprezza la politica rozza e anti libertaria di Mussolini, benché sia stato e ancora sia additato come precursore ideologico del fascismo: inizialmente aderì al movimento fondato da Mussolini nel 1919, i Fasci Italiani di Combattimento, e fu uno dei primi firmatari del Manifesto degli Intellettuali Fascisti, ma non si iscrisse mai al PNF consapevole che l’affiliazione avrebbe minato la sua autonomia intellettuale e politica sempre protesa verso il primo posto di ogni podio: D’Annunzio e Mussolini erano come i classici due galli in un pollaio. E diversissimi fra loro. Già nel 1900 il Vate era stato eletto deputato nel Regio Parlamento fra le fila dell’estrema destra ma passò subito all’estrema sinistra con questa celebre frase: “Vado verso la vita”. Poi, nel suo governo provvisorio di Fiume varò una costituzione assai liberale e progressista che prevedeva, oltre ai diritti per i lavoratori e le pensioni di invalidità, il suffragio universale maschile e femminile, la libertà di opinione e di religione, nonché libertà di orientamento sessuale con la depenalizzazione dell’omosessualità, e del nudismo e dell’uso di droga: aperture assai in anticipo su qualsiasi altra carta costituzionale dell’epoca, e toccando argomenti assai invisi al fascismo. Di fatto D’Annunzio esprimeva nella sua visione politica la sua intima natura di gaudente, di uomo sessualmente promiscuo e abituale consumatore di cocaina. Non che i fascisti fossero tutti eterosessuali o non facessero uso di droghe, ma vigeva il sempre diffuso atteggiamento del “predica bene e razzola male”. D’Annunzio, con tutti i suoi difetti, era un libertario perché era intimamente libero. Una figura troppo ingombrante e sempre potenzialmente esplosiva che il Duce pensò bene di tenere sotto controllo accordandogli cariche pubbliche anche non gradite e un perenne sostegno economico, purché se ne stesse buono nel suo Vittoriale.

In questi suoi ultimi due anni di vita percorsi dal film lo vediamo vecchio e malato, minato dall’abuso delle droghe e fortemente amareggiato dalla politica di Mussolini. Gli sono accanto le sue due fedeli muse-amanti Luisa Baccara, detta anche “la Signora del Vittoriale”, e la francese Amélie Mazoyer, figlia di contadini e “bruttina assai” secondo una precisa definizione del Vate, che pare avesse i meriti di “una mano donatrice d’oblio” e “una bocca meravigliosa” per la quale la rinominò Aélis, poetico richiamo al francese hélice, elica, dove per elica intendeva la sua lingua guizzante sulla sua intima virilità. Del resto D’Annunzio usava così, rinominava con epiteti curiosi e poetici di colte ispirazioni le varie contadinotte e prostitute che Aélis gli andava procurando, anche a dispetto della Baccara: le due donne non si sopportavano ma convivevano per amore del Vate.

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Sergio Castellitto lo rende con grande dolorosa partecipazione ma nella sua interpretazione così magistralmente intimistica mancano, a mio avviso, i guizzi del vecchio leone che, pure stanco e malato, non può avere del tutto abbandonato i suoi impeti, le ultime zampate; del dolente discorso che fa ai fedeli ex combattenti fiumani che sono venuti a omaggiarlo fa un encomiabile esercizio di stile interpretativo “di sottrazione”, rende il plateale intimistico, ma mancano così i toni retorici e solenni come io immagino lo stile di D’Annunzio, che era anche lo stile di Mussolini come di Hitler e di tutti coloro che parlavano in pubblico, perché era lo stile dell’epoca, pomposo nei toni come nel vocabolario: siamo negli anni ’30 del ‘900 e anche la gente comune non parlava come parliamo oggi, e mi pare che l’intero cast del film risenta di una mancanza di direzione artistica che indirizzi in uno stile comune preciso e ben riconoscibile. Basta tornare a vedere il lavoro che hanno fatto Mario Martone con gli interpreti del suo “Qui rido io” e Paolo Sorrentino con l’intero cast di “È stata la mano di Dio”, entrambi i film ambientati a Napoli, ma il primo in un primo ‘900 assai teatrale e il secondo nei più recenti anni ’80: recitazione senza sbavature.

Più in linea con lo stile dell’epoca l’Achille Starace di Fausto Russo Alesi, e Tommaso Ragno che interpreta l’architetto del Vittoriale Giancarlo Maroni, nel film raccontato come braccio destro del Vate. Le due femmes fatales sono molto adeguatamente interpretate dalla prevalentemente teatrale Elena Bucci che è Luisa Baccara, mentre nel ruolo della francese Amélie Mazoyer c’è la francese Clotilde Courau naturalizzata italiana, anzi savoiarda avendo sposato l’inutile Emanuele Filiberto di Savoia. Massimiliano Rossi è lo sfuggente commissario Giovanni Rizzo messo al Vittoriale da Mussolini in persona perché D’Annunzio senta la sua presenza istituzionale; Lino Musella tratteggia la necessaria e retorica figura dell’irreprensibile fascista, duro puro e banalmente violento, col quale deve misurarsi la purezza ideologica del giovane Giovanni Comini, che alla morte del Vate verrà rimosso da tutti i suoi incarichi nell’apparato di regime per aver vacillato nel credo fascista. Paolo Graziosi tratteggia la figura del di lui padre. L’ucraina Lidiya Liberman, benché padroneggiando un ottimo italiano, è un po’ stonata nel ruolo dell’amante del protagonista che coinvolge in un dramma personale.

Elena Bucci con Francesco Patanè e Clotilde Courau

Nel suo primo fine settimana di programmazione il film si è piazzato al primo posto incassando 198.730 euro: un primo posto decisamente povero se si pensa agli incassi si facevano in era pre-covid. Dunque eccolo adesso in tivù a racimolare i diritti dei passaggi televisivi.

E’ stata la mano di Dio

Un film in stato di grazia. Candidato per l’Italia agli Oscar 2022 ma l’Academy deve ancora decidere se rientrerà nella selezione, candidato al Golden Globe, in concorso per il Leone d’Oro a Venezia ha vinto quello d’Argento Gran Premio della Giuria (quello d’oro è andato all’unanimità al francese “La scelta di Anne”), sempre da Venezia il Premio Marcello Mastroianni al migliore esordiente Filippo Scotti e il Pasinetti assegnato dai giornalisti come miglior film e migliore attrice a Teresa Saponangelo, e fra altri premi minori e candidature la lista internazionale è ancora lunga.

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Ormai sappiamo che i film di Paolo Sorrentino, sceneggiatore e regista, non passano inosservati, sin dal suo primo lungometraggio “L’uomo in più” (2001) col quale vince il Nastro d’Argento come migliore regista esordiente e col quale inizia il suo sodalizio con Toni Servillo, suo attore feticcio. Di film in film e di premio in premio arriva a prendersi l’Oscar nel 2014 con “La grande bellezza” e oggi è in lizza per fare il bis, e i numeri ci sono tutti, il film è di quelli che piacciono agli americani ma bisognerà fare i conti con gli altri candidati di cui al momento nulla si sa.

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Un film in stato di grazia, dicevo, commedia tragica, ché dirlo tragicommedia sembra riduttivo perché sembra volerlo relegare in un sottogenere, mentre questo film percorre tanti generi, dal biografico al film di formazione. Sorrentino ci mette se stesso, la sua giovinezza spensierata di secchione (oggi si dice nerd) che commenta le situazioni coi versi del sommo Dante e che dopo il diploma (ha 17 anni circa) vuole iscriversi a filosofia. Un ragazzo come tanti in una famiglia come tante allargata a parenti ed amici, figure che via via che si allontanano dalla cerchia ristretta del nucleo familiare diventano vieppiù macchiette da raccontare con pochi tratti, poche pennellate sempre magistrali, perché il chiaroscuro dei dettagli e la profondità di indagine e di immagine è conservata per gli affetti più cari, i genitori e il fratello maggiore, riservando alla sorella l’emblematica figura di un personaggio incognito, sempre chiusa in bagno, da cui la vedremo uscire con una maschera dolorosa all’accadere della tragedia.

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Paolo Sorrentino è un narratore eccezionale e fa della sua biografia un racconto esemplare anche e soprattutto nelle piccole cose, perché a raccontare grandi cose, barzellette e tragedie, siamo buoni tutti; tutti abbiamo nelle nostre famiglie soggetti con disturbi della personalità e nelle nostre giovinezze personaggi fuori dalla norma e sopra le righe: Sorrentino ne fa dei ritratti esemplari, ancora una volta, e di straziante bellezza narrativa: la zia Patrizia e la signora Gentile.

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Durante la gita in barca tutti a prua a guardare imbarazzati il nudo integrale di Patrizia
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La Patrizia di Luisa Ranieri della quale sul web non circolano ancora le immagini del nudo integrale nel film, ma solo nudi in film precedenti che non prendo in prestito

La prima afflitta (e nel termine afflitta non vuole esserci giudizio morale) da una esuberanza erotica (o ninfomania) che viaggiando di pari passo a un disagio psichico la porta a prostituirsi per poi raccontare di avere avuto incontri fantastici e e miracolosi con San Gennaro e la mitica figura partenopea del monaciello: il sacro e il profano; la seconda come amica di famiglia, donna dura chiusa in un suo mondo interiore, che a dispetto del cognome Gentile manda sempre affanculo tutti con i termini più coloriti della lingua napoletana, e da tutti sempre derisa: l’attenzione di Sorrentino per questo personaggio di contorno, e il suo affetto sincero, prendono corpo quando nel momento del dolore sarà l’unica a rivolgere al giovane protagonista dei versi di Dante in un dialogo fra pari che si sono compresi fuori dal coro.

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Dora Romano come Signora Gentile

Dora Romano la interpreta con sguardi di furore trattenuto e grande adesione. Alla zia Patrizia, sua musa ispiratrice e sogno erotico, Sorrentino dedica tutto l’inizio del film – dopo una lunga silenziosa ripresa aerea che dal mare entra in città a esplorare la lunga fila di maschere grige alla fermata dell’autobus nella quale brilla di erotica bellezza, coi capezzoli dei seni generosi che quasi bucano la camicetta, la zia che si lascia irretire da un fascinoso San Gennaro in limousine con autista che la conduce in un fatiscente palazzo nobiliare dove le compare anche il monaciello della tradizione partenopea: un momento di puro cinema surrealista, o immaginifico alla Federico Fellini, in un film che qua e là si aprirà su altri momenti e scenari emblematici, com’è nel gusto di Sorrentino – “La grande bellezza” in testa – e nella qui dichiarata ispirazione al cinema di Fellini che diventa a sua volta personaggio in commedia. La napoletana del Vomero (come l’autore) Luisa Ranieri si dà completamente a questo bellissimo personaggio che Sorrentino dichiaratamente ama sin dall’adolescenza, ed è forse per lei – che ha debuttato con Pieraccioni vent’anni fa e passando anche per la tv sia come attrice che come conduttrice – l’interpretazione più carismatica della sua carriera.

Vale la pena annotare che il fascinoso signore di mezza età che lei vede come San Gennaro è interpretato da Enzo Decaro, il bello del trio cabarettistico La Smorfia formato nella seconda metà degli anni ’70 con Massimo Troisi e Lello Arena. Sorrentino nel 1991 gli è stato assistente alla regia quando Decaro tentò il percorso di autore cinematografico parimenti ai suoi ex colleghi Arena e Troisi, con differenti esiti.

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In questo film corale è protagonista assoluto l’io narrante Fabietto Schisa alter ego dell’autore che affida il ruolo al ventenne Filippo Scotti nativo della provincia di Como ma trasferitosi a Napoli con la famiglia: i genitori sono entrambi insegnanti. Il ragazzo, già da bambino è interessato alla recitazione e a 11 anni si iscrive a dei laboratori teatrali e da lì in poi si avvia al teatro e poi partecipa a dei cortometraggi; con un piccolo ruolo nel televisivo Sky “1994” e poi con una presenza più consistente nel Netflix “La luna nera” a vent’anni ha già la maturità professionale per questo ruolo da protagonista a cui si richiede il vero talento, secondo la scuola dell’autore Sorrentino, che in questo film mette insieme un cast eterogeneo di professionisti e debuttanti che tutti insieme diventano, sotto la direzione del maestro, un esempio di come si dovrebbe recitare. A tal proposito Sorrentino si prende la briga, attraverso il personaggio del suo primo maestro di cinema Antonio Capuano, qui interpretato da Ciro Capano, di dare una lezione morale di recitazione a quegli attori troppo autoreferenziali e stilosi.

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I genitori sono Toni Servillo (una volta tanto non al centro del film) e una sorprendente e già premiata Teresa Saponangelo, attrice da tenere in gran considerazione fin qui relegata sempre in ruoli di supporto. L’importante personaggio del fratello maggiore è andato a Marlon Joubert, nome mezzo americano e mezzo francese per un attore di cui si sa poco o nulla, neanche l’età grazie al fatto che evita i social; dal curriculum sulla pagina del suo agente cinematografico si evince un po’ di teatro, qualche cortometraggio due dei quali come autore e soprattutto un ruolo ricorrente nella serie tv Sky “Romulus”; qui è alla sua prima esperienza con un importante ruolo da coprotagonista e la mia attenzione è dovuta al fatto che è un attore da tenere in considerazione per il futuro; al suo personaggio di fratello maggiore, che lui interpreta con sincera ed emotiva partecipazione, vanno molti dei momenti più significativi del film: è lui che rinuncia ai suoi sogni di gloria – come ogni giovane ne ha – scegliendo la rassicurante banale felicità del quotidiano fatto di piccole cose, gli spinelli gli amici e l’amore, benedicendo il fratello minore che se ne va con il pesante fardello della perseveranza alla ricerca del successo e, implicitamente, della tortuosa infelicità dell’artista.

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Nel resto del cast che sarebbe da premiare tutto in blocco, ritroviamo come zio filosofo l’ormai “grande vecchio” del cinema napoletano Renato Carpentieri qui alla sua prima volta con Sorrentino; nel ruolo dell’ambigua anziana baronessa facciamo la conoscenza della teatrale Betty Pedrazzi ancora poco presente al cinema e sono certo che la rivedremo. Della cinematografia napoletana rivediamo Massimiliano Gallo, Roberto De Francesco, Cristiana Dell’Anna e Lino Musella. La giovane russa Sofya Gershevich fa l’attrice straniera che recita la Salomè di Oscar Wilde in italiano incorrendo nelle ire del purista Antonio Capuano di cui ho già detto. Sorprendente per freschezza e adesione l’interpretazione dell’ex scugnizzo dei Quartieri Spagnoli Biagio Manna che è passato dalla vita di strada alla recitazione, come tanti suoi coetanei che hanno trovato un senso di vita migliore grazie alla frequentazione dei set, non ultima la serie Sky “Gomorra” appena conclusa dopo cinque gloriose stagioni.

La Mano di Dio del titolo è quella che nel 1984, anno in cui si svolge la vicenda, ha portato a Napoli Diego Armando Maradona con grande esultanza di tutti i tifosi fra i quali si annovera Paolo Sorrentino che fa di questo suo film, in seconda istanza, anche un omaggio al grande calciatore; e per dire quanto l’autore sia appassionato di calcio basta ricordare che la sua opera prima “L’uomo in più” si ispira proprio alla vita di un altro calciatore, il meno noto e più sfortunato Agostino Di Bartolomei.

Il prossimo appuntamento è il 9 gennaio per l’assegnazione dei Golden Globe dove Sorrentino se la dovrà vedere con Pedro Almodòvar e il suo “Madre paralelas” che a Venezia si è aggiudicato la migliore interpretazione femminile per Penelope Cruz. Gli altri film in concorrenza vengono da Iran Giappone e Finlandia, da non sottovalutare perché sono stati vincitori in diverse sezioni al Festival di Cannes.

Qui rido io

Si torna al cinema nei cinema ma siamo ancora in pochi ché il green pass non tutti ce l’hanno e non tutti lo vogliono, e anche chi ce l’ha – ha anche altre priorità che andare al cinema. Il film di Mario Martone, anche sceneggiatore con Ippolita Di Majo, è stato presentato al Festival di Venezia e porta a casa solo il Pasinetti, un premio collaterale assegnato dai critici, al protagonista Toni Servillo.

Gianfranco Gallo e la foto incriminata: lui qui parla del film del 2014 “Tre tocchi” di Marco Risi ma lo scatto è stato utilizzato, decontestualizzandolo, per accompagnare la recente polemica

Toni Servillo che è stato oggetto di una polemica scatenata dall’attore Gianfranco Gallo che, dopo aver letto i soliti titoli sui trionfi del cinema napoletano, ha scritto su Facebook: “Che poi, con tutto il rispetto per la sua bravura, inquadrandola dal punto di vista degli attori, uno stesso interprete in tre films a Venezia, è il trionfo del Cinema napoletano o la sua fine? Chiaramente tutti lo pensano, ma io solo lo dico”. I tre film(s) sono, oltre a questo di Martone, “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino (che ha vinto il Leone d’Argento) e “Ariaferma” di Leonardo Di Costanzo, fuori concorso. Ovviamente è successo il finimondo e dopo la valanga di critiche Gallo ha dichiarato: “Mi hanno messo contro Servillo, ma io non ho niente contro di lui. Tre film con lo stesso personaggio: è la vittoria di un singolo, magari di un gruppo. Non di tutto un movimento”.  Ma la frittata era fatta.

Si sa che produttori e registi puntino sempre sul cavallo vincente, quando possono permettersi di pagarlo. Del resto Toni Servillo e Mario Martone sono amici, lavorano insieme da sempre sin da quando non erano famosi, prima in teatro e poi nel primo film “Morte di un matematico napoletano”, e Servillo è divenuto anche l’interprete feticcio di Sorrentino col quale hanno all’attivo l’Oscar per “La grande bellezza”: è un dato di fatto che l’attore stia facendo l’asso pigliatutto nella cinematografia partenopea (e non solo) ma è altrettanto vero, d’altro canto, che non può rappresentarla tutta perché le anime della cultura napoletana sono tante e diverse, come complesso è l’intero argomento. Volente o nolente però, Gianfranco Gallo, ha fatto oggi sui social quello che i giovani intellettuali napoletani fecero a Eduardo Scarpetta un secolo fa: mettere in discussione la figura di riferimento e tentare di abbatterla, convinti di averne il diritto perché convinti di essere il nuovo che avanza. E nel film c’è questo insieme a tanto altro.

In un manifesto dell’epoca Pulcinella, Madama Finz-Finz (anch’essa in maschera)
e il nuovo Felice Sciosciammocca qui nel ruolo di ladro
Antonio Petito

Anche Eduardo Scarpetta era stato il nuovo che avanza sul finire dell’Ottocento, rimpiazzando un po’ alla volta la figura di Pulcinella creata da Antonio Petito nella cui compagnia aveva cominciato a muovere i primi passi. Felice Sciosciammocca esisteva già nei copioni di Petito che, apprezzando il talento del giovane comico, riscrisse su di lui il personaggio come compagno di scena di Pulcinella in alcune delle sue farse più note, ancora espressioni del teatro dialettale e di improvvisazione. Pulcinella, con la sua maschera nera, originariamente era stato una maschera contadina, lo scemo del villaggio (in Sicilia c’è il Giufà di origine araba) che via via si era fatto furbo e insolente e, come il suo pubblico, era diventato personaggio cittadino, quasi borghese; ma era pur sempre una maschera che veniva dalla commedia dell’arte e, benché aggiornati, i suoi frizzi e i suoi lazzi restavano sempre gli stessi, stereotipi da recitare in maschera.

Una delle rare immagini di scena (una fotografia necessariamente in posa) di “Miseria e nobiltà” con Eduardo Scarpetta come Sciosciammocca e Gennaro Pantalena come Pasquale ‘o salassatore

Con la svolta del secolo, il teatro borbonico delle maschere si andò trasformando in teatro borghese, di caratteri più complessi e sfumati insieme, interpretato da attori caratteristi appunto, e il Felice Sciosciammocca – che significa: a bocca aperta, ingenuo, credulone – preso in mano da Scarpetta e da lui riscritto, conserva ancora i modi della maschera ma è già un carattere, un tipo, che di volta in volta cambia mestiere nelle varie farse, così com’erano le maschere in commedia e come saranno anche nel nuovo fantastico mezzo espressivo, il cinema, con le maschere di Buster Keaton e Charlie Chaplin al cui Charlot sembra somigliare nel vestiario questo Felice Sciosciammocca: abito più piccolo di una taglia, scarpe più grandi e cappello, bastoncino di canna, cilindro o bombetta, sulle ventitré. Più volte inquadrato di spalle, in questo film, anche con una camminata caracollante per le scarpe troppo grandi, Martone ci richiama alla mente e omaggia Charlot.

Come lo stesso Eduardo Scarpetta ha scritto nel suo “Cinquant’anni di palcoscenico – memorie” con prefazione di Benedetto Croce, edito pochi anni prima della sua morte avvenuta nel 1925 a 72 anni: “(…) Maschera del piccolo borghese povero ma ambizioso, con il quale ho scalzato e spodestato Pulcinella, per realizzare un teatro adeguato a un pubblico che ‘voleva ridere’ ma vedere attori e non maschere sul palcoscenico, attori ben vestiti che recitassero e non improvvisassero (…) La comicità deve nascere dall’ambiente, dalla situazione scenica, dal personaggio (…) Ma io credo di aver avuto le mie buone ragioni di averla cercata soprattutto nella borghesia dove essa zampilla più limpida e copiosa. La plebe napoletana è troppo misera, troppo squallida, troppo cenciosa per poter comparire ai lumi della ribalta e muovere il riso.”

Mario Martone, sin dal suo esordio cinematografico (è già regista teatrale assai impegnato) con “Morte di matematica napoletano” sulla figura di Renato Caccioppoli dichiara il suo gusto per le biografie e le storie vere continuando con “Noi credevamo” e “Il giovane favoloso” sul soggiorno partenopeo di Giacomo Leopardi; ma anche per gli affreschi, come si dice quando si parla di film abitati da molti personaggi, e per la napoletanità sempre indagata e raccontata nei suoi diversi aspetti. Precede quest’ultimo film la rivisitazione moderna – proveniente dal teatro – di “Il sindaco del rione sanità” di Eduardo De Filippo, e questo tornare al passato nella figura del patriarca padre e patrigno Eduardo Scarpetta sembra un percorso di necessaria ricerca.

“Qui rido io – Scarpetta” è la scritta che il capocomico ha voluto all’ingresso della villa che si è fatto costruire sul Vomero con gli incassi di una sola commedia, come ribadiscono i giovani invidiosi, e il film si concentra sui suoi ultimi anni attivi in teatro, dato che l’uomo era già afflitto dal solito nuovo che avanza, e dal figlio Vincenzo che scalpitava per avere più autonomia e che voleva addirittura fare il cinema con grande scorno del padre; ma il film non racconta che egli stesso girò cinque pellicole mute tratte dalle sue opere, da “Miseria e nobiltà” a “Lo scaldaletto”, film tutti perduti. Inoltre il compagno di scena e sodale Gennaro Pantalena lo tradisce mettendosi in proprio per recitare nel dramma “Assunta Spina” di Salvatore Di Giacomo, già novella di successo poi adattata al teatro dato che il pubblico napoletano era all’epoca pronto a passare dai caratteristi brillanti ai personaggi drammatici. Il colpo di grazia lo riceve quando Gabriele D’Annunzio lo cita in giudizio per plagio del suo dramma “La figlia di Iorio” mentre le cose erano andate diversamente: Scarpetta, ammirato dal dramma del vate e allo stesso stimolato dal proprio gusto per la parodia, si reca a Firenze dove D’annunzio si era trasferito per stare vicino ad Eleonora Duse (che recitò in pellicola una sola volta in “Cenere”) per chiedergli un consenso scritto per la sua parodia “Il figlio di Iorio” ideato per il figlio Vincenzo, consenso che il divertito e ambiguo D’Annunzio gli dà solo verbalmente per poi – com’è nel suo stile di vita sempre votato alla sfida e all’annientamento del nemico ancorché inconsapevole – portarlo in tribunale, sostenuto dai giovani intellettuali napoletani, Salvatore Di Giacomo in testa, ai quali poco importa di D’Annunzio ma molto importa di Scarpetta, e che non vedevano l’ora di disfarsi dell’ingombrante attore commediografo impresario. Difesosi in tribunale approntando un’arringa come vero monologo comico, Scarpetta viene assolto ma da lì a poco lascia l’impresa nelle mani del figlio Vincenzo con l’imposizione di continuare a recitare Felice Sciosciammocca.

Domenico Scarpetta decisamente non ha i tratti somatici e i colori scuri di Scarpetta ma mostra la mascella quadrata della madre e dei De Filippo

Nell’affresco di Mario Martone ci sono ampi stralci della commedia-simbolo “Miseria e nobiltà” nella quale Scarpetta creò il personaggio bambino di Peppiniello proprio per far debuttare Vincenzo e nel quale si avvicendarono tutti i suoi altri successivi figli e figliastri, compresa la femmina Annunziatina detta Titina. E quando l’intera compagnia-famiglia scende dal palcoscenico per riunirsi attorno alla tavola negli impegnativi (per le coronarie) pranzi e sonnolenti dopo pranzi scanditi da sfogliatelle e caffè, la teatralità rimane, uguale, ricca di spunti brillanti e risvolti drammatici, perché Scarpetta fu un patriarca assai prolifico: aveva riconosciuto come suo primogenito Domenico, nato “settimino” nel matrimonio riparatore con la diciottenne Rosa De Filippo, la quale aveva avuto una relazione ancillare col Re Vittorio Emanuele II, che dopo l’unità dell’Italia e la cacciata dei Borboni era passato per Napoli a seminare unità nazionale e regali cromosomi. A Domenico fu proibito di calcare le scene, come implicita forma di rispetto alla sua ascendenza, e nel film si fa passare l’ipotesi, per bocca della stessa Rosa, che Scarpetta abbia avuto dal re, insieme al primogenito, un generoso indennizzo in forma di appannaggio mensile che è servito per restaurare il vecchio San Carlino che divenne prima sede stabile della compagnia. Di queste faccende non si parlava in pubblico benché la gente mormorasse e una volta accadde al Teatro Sannazzaro che un uomo dal pubblico gridasse all’indirizzo del capocomico “…Scarpè tiene ‘e ccorna!” ma lui senza scomporsi rispose: “Sì, ma ‘e mmie so’ reali!”.

Rosa De Filippo, e il figlio Vincenzo Scarpetta che eredita anche lui dalla madre la mascella quadrata
Scarpetta con Luisa De Filippo, anch’ella caratterizzata dalla mascella larga che condivide con la zia Rosa moglie di Eduardo

Dal matrimonio con Rosa nacque un primo vero erede chiamato Eduardo come il padre e detto Bebè, ma il piccolo non sopravvisse e il vezzeggiativo di Bebè rimase come nomignolo del marchese Ottavio Favetti, altro personaggio di “Miseria e nobiltà”. Nacque poi Vincenzo, il vero erede; e nel matrimonio Scarpetta adottò Maria che aveva avuto dalla maestra di musica Francesca Giannetti, la quale sia per afflato amoroso che per problemi economici tentò di ricattarlo, e che alla fine abbandonò la bambina nella Real Casa dell’Annunziata da dove il padre la sottrasse avviando la pratica di adozione. Ma vivendo tutti insieme è facile cedere alle tentazioni così Scarpetta fece altri due figli con Anna, la sorellastra di Rosa: Ernesto che poi prenderà il cognome Murolo dall’uomo che lo adottò legalmente, e che divenuto scrittore sarà fra i giovani contestatori di Scarpetta; segue un altro Eduardo, registrato come De Filippo dal cognome della madre e che calcherà le scene col nome d’arte Eduardo Passarelli; e infine Pasquale che sarà anch’egli attore e che vediamo nascere in questo film.

Ernesto Murolo e gli assai somiglianti fratelli Eduardo Passarelli e Pasquale De Filippo
Titina che eredita dai De Filippo la mascella quadrata, fra Eduardo e Peppino

Ma il talento procreativo di Eduardo Scarpetta non si ferma qui e mette su un’altra famiglia in un appartamento adiacente con la nipote della moglie, Luisa De Filippo, che sarà madre di Titina Eduardo e Peppino, che Scarpetta non riconoscerà mai e che si farà chiamare da questi altri figli sempre con l’appellativo di zio. I tre ragazzi sono il vero nuovo che avanza e nel film sono raccontati come una importante traccia narrativa fra le vicende dell’esuberante capostipite. Per tutta la vita Eduardo De Filippo non volle mai parlare di Scarpetta come padre e si riferì a lui solo come autore teatrale. E quando suo fratello Peppino lo ritrasse spietatamente in un libro autobiografico, Eduardo gli levò il saluto per sempre. Poco prima di morire, intervistato da un amico scrittore, fu spinto a parlare: “Ormai siamo vecchi, è il momento di poterne parlare: Scarpetta era un padre severo o un padre cattivo?”. Eduardo rispose sempre alla maniera: “Era un grande attore”. 

Scarpetta fu un grande nel suo luogo e nel tempo, a teatro, quando il teatro era un’arte transitoria e fuggevole perché non c’erano i mezzi per immortalarlo, e sarà Totò che renderà famosi al grande pubblico, anche di altri luoghi e nei tempi futuri, le commedie di Scarpetta, anche se lo spettatore medio – quello distratto che vuole solo ridere, e i giovani di oggi – di Eduardo Scarpetta non sapranno più nulla. La sensazione è che il bell’affresco di Mario Martone sia un nostalgico omaggio, appassionato e bello, bene orchestrato e godibilissimo, e con un cast di eccellenti caratteristi; ma un omaggio fruibile solo da una ristretta cerchia di estimatori: i napoletani, ovviamente – non dimentichiamo che il film è parlato in napoletano stretto ed è sottotitolato – e poi la gente di teatro e gli intellettuali in genere; tutti gli altri, quelli esclusi da quella lingua e da quella cultura, quanto potranno apprezzare questo film? posso testimoniare che nell’intervallo una signora è andata via.

E ora come a teatro, personaggi e interpreti:

Eduardo ScarpettaToni Servillo (come sempre mai una sbavatura)
Rosa De Filippo, sua moglie – Maria Nazionale
(già cantante, si è data al cinema in età matura e subito è stata candidata ai David di Donatello per la sua interpretazione nel film “Gomorra” di Matteo Garrone)
Luisa De Filippo, nipote di Rosa e concubina di Scarpetta – Cristiana Dell’Anna
(che si è fatta notare in “Un posto al sole” e poi in “Gomorra – la serie”)
Nennella (Anna) De Filippo, sorellastra di Rosa e altra concubina di Scarpetta – Chiara Baffi
Mimì (Domenico) Scarpetta, primogenito – Roberto Caccioppoli
Vincenzo Scarpetta, unico erede artistico di Eduardo – Eduardo Scarpetta
(che non è un refuso e che come dice il nome è l’unico vero erede della famiglia di teatranti ed è certamente avviato alla fama e al successo; in tv è nel cast di “L’amica geniale” nonché protagonista di “Carosello Carosone”)
Titina De Filippo – Marzia Onorato
Eduardo De Filippo – Alessandro Manna
Peppino De Filippo – Salvatore Battista
Vincenzo Pantalena, secondo attore – Gianfelice Imparato
Rosa Gagliardi, prim’attrice – Iaia Forte
Adelina De Renzis, attrice giovane – Antonia Truppo
Mirone, servo tuttofare – Giovanni Mauriello (cantante fondatore insieme ad Eugenio Bennato e a Carlo D’Angiò del gruppo Nuova Compagnia di Canto Popolare)
Gabriele D’annunzio Paolo Pierobon (noto per “Squadra Antimafia” è stato anche Silvio Berlusconi nel trittico tv “1992-1993-1994”, qui è un viscido vate immerso in un’atmosfera decadente e morbosa, come tutti lo abbiamo sempre immaginato)
Irma Gramatica, prim’attrice – Lucrezia Guidone (che interpreta la protagonista di “la figlia di Iorio” che però D’Annunzio aveva scritto per la sua amata Eleonora Duse che dovette rinunciare per motivi di salute)
Lyda Borelli, attrice giovane – Elena Ghiaurov (nei panni della diva del muto che debuttò in teatro proprio con “La figlia di Iorio”)
Benedetto CroceLino Musella (che ha impersonato Renato Pozzetto da giovane in “Lei mi parla ancora” di Pupi Avati, qui dà umanità al filosofo critico ideologo e storico che è la bestia nera di tanti studenti di liceo classico)
Salvatore Di Giacomo, scrittoreRoberto De Francesco (caratterista di lungo corso che ha avuto la prima formazione teatrale al Teatro Studio di Toni Servillo)
Ferdinando Russo, scrittore – Giovanni Ludeno (che ha avuto insperata visibilità quando il suo personaggio secondario nel trittico tv “1992-1993-1994” ha preso spazio per sostituire il personaggio interpretato da Domenico Diele che è finito in prigione per avere causato la morte di una donna mentre era alla guida di un’auto con la patente già sospesa per uso di stupefacenti)
Presidente del tribunaleGiorgio Morra
Giudice istruttore Nello Mascia
Zio PasqualinoTommaso Bianco

Il film otterrà certo altri premi ai prossimi David di Donatello e Nastri d’Argento e anche se al momento si piazza appena fra i primi dieci maggiori incassi di questa esangue stagione post lock down, fatta la tara del green pass, personalmente prevedo un maggiore successo nei passaggi televisivi del prossimi anni.



David di Donatello 2021 a modo mio

David di Donatello 2021 vincitori: chi ha vinto la 66esima edizione. I premi

L’anno scorso, in piena pandemia, Carlo Conti ha presentato l’evento tutto solo in studio con gli interventi in collegamento; un anno dopo, quando tutti abbiamo (si spera…) imparato a convivere col virus e le limitazioni che comporta, e avviata la campagna di tamponi e vaccinazioni, la serata si svolge nuovamente in presenza e, come la notte degli Oscar, anche in collegamento da luoghi diversi: un limite che è stato interpretato come momento creativo per re-impaginare l’evento, così come chiunque di noi deve imparare a re-immaginare la propria vita. Show must go on, ora come non mai. Le produzioni cine-televisive, dopo un primo momento di sbandamento, si sono adattate all’andamento, e mettendo in campo tutte quelle misure di prevenzione che noi nella vita civile non sempre siamo in grado di assecondare e/o rispettare, hanno ripreso a produrre.

Un fotogramma dalla serie tv “Grey’s Anatomy”

Le serie tv, le medical drama in testa, e tutte le altre che agiscono nel presente narrativo, hanno inserito la pandemia nel loro racconto, svolgendo un compito non facile, raccontare il presente all’interno di un mondo immaginario, e insieme abituare noi spettatori, molti dei quali sempre refrattari, a una narrazione in cui mascherine e distanza sociale fanno ormai parte della quotidianità.

Laura Pausini canta sul palcoscenico vuoto del Teatro dell’Opera di Roma

Per questo 66° David di Donatello sono stati allestiti due set in collegamento fra loro. Quello principale con la conduzione della serata dallo studio 5 Rai oggi intitolato a Fabrizio Frizzi scomparso nel 2018; il set secondario è il Teatro dell’Opera di Roma dai cui palchi si affacciano i candidati ai premi secondari, i cosiddetti premi tecnici, e via via delle belle hostess porgono la statuetta al vincitore di turno. Ma il teatro diventa set principale quando nel corso della serata quando un’orchestra sinfonica debitamente distanziata sul palcoscenico, condotta da Andrea Morricone, esegue brani del padre Ennio. E da qui comincia la trasmissione, con un monologo autobiografico e insieme auto celebrativo di Laura Pausini che si concluderà con l’esecuzione della canzone “Io sì” dal film di Edoardo Ponti con sua madre Sofia Loren “la vita davanti a sé”, canzone già candidata all’Oscar e ovviamente super favorita in questa serata.

Ma sorpresona il premio è andato a Checco Zalone, al secolo Luca Medici, per la canzone “Immigrato” dal suo film “Tolo Tolo” che ha anche vinto il premio David dello Spettatore. Non è ufficiale ma insistenti voci di corridoio rinforzate da anni e anni di conferme dicono che un film campione di incassi non si può lasciare a bocca asciutta, a prescindere dalla reale qualità del prodotto; e che in ogni caso l’assegnazione di premi come questo David di Donatello o i Nastri d’Argento tengono sempre in conto il successo al botteghino nonché di dinamiche e di equilibri tutti interni all’industria cinematografica che a noi spettatori non è dato sapere. Checco Zalone era anche candidato come Regista Esordiente dato che i suoi quattro precedenti film, altrettanto campioni al botteghino, erano stati diretti da Gennaro Nunziante. C’è però da dire che Luca Medici è un professionista con seri studi alle spalle, e come musicista ha suonato con diversi jazzisti pugliesi oltre a essere compositore del nuovo inno della squadra di calcio del Bari. Qualcosa mi dice che ha solo cominciato: era in collegamento da casa e esordisce con “Se lo sapevo venivo. – per poi continuare, fingendo di chiamare moglie e figli – I miei dormono, non gliene frega niente se vinco. – E ancora: – Mi sono preparato poche parole: “La solita cricca di sinistra che premia i soliti…” no questo era il foglietto se perdevo. Grazie all’accademia per il riconoscimento meritocratico… – Ma chissà come il suo tentativo di fare dell’ironia politicamente scorretta va a finire in un audio pesantemente disturbato che rende il resto del suo intervento incomprensibile: censura Rai?

L’altro favorito perché già candidato all’Oscar era il documentario “Notturno” del già premiato Gianfranco Rosi che con i suoi due precedenti lavori ha vinto nel 2013 con “Sacro GRA” il Leone d’Oro a Venezia, come miglior film nonostante si trattasse di un documentario, e poi nel 2016 ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino con “Fuocoammare”. Ma anche questo pronostico non è stato rispettato e il premio è andato a “Mi chiamo Francesco Totti” di Alex Infascelli, e anche qui le riserve sono d’obbligo a causa della popolarità del personaggio che è stato anche omaggiato dalla miniserie Sky “Speravo de morì prima” dove il capitano d’a Roma è interpretato da Pietro Castellitto.

Pietro Castellitto, doppiamente figlio d’arte di Sergio Castellitto e della scrittrice Margaret Mazzantini, vince nella categoria Regista Esordiente con il film “I predatori” che ha anche scritto e interpretato, la cui sceneggiatura aveva già vinto a Venezia il Premio Orizzonti e che era candidata anche a questo David insieme al musicista e al produttore. Il giovanotto, oggi trentenne, ha ovviamente respirato cinema e letteratura sin dalla culla. Il padre, quand’era lui era adolescente, lo aveva diretto in tre film ma il ragazzo ha faticato a farsi apprezzare come attore e questo, a suo dire, gli ha dato la giusta spinta verso la scrittura cinematografica, facendolo crescere artisticamente, autonomamente; oggi è considerato un astro nascente. Ha concluso il suo intervento di ringraziamento con un veloce e auto ironico: “N’abbraccio a mamma, ‘n bacio a papà”. Gli altri candidati nella categoria erano, oltre al già citato Checco Zalone, Alice Filippi con “Sul più bello”, Ginevra Elkann con “Magari” e Mauro Mancini con l’intenso “Non odiare” molto applaudito a Venezia e che ha fruttato il Premio Pasinetti al protagonista Alessandro Gassmann.

In memoriam: Ennio Fantastichini e Mattia Torre

E visto che abbiamo parlato di sceneggiature i premi Sceneggiatura Originale e Non Originale, ovvero tratta da preesistente opera letteraria, sono andati al prematuramente scomparso Mattia Torre, 47 anni, per “Figli” diretto da Giuseppe Bonito e interpretato da Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea candidati nelle categorie Migliori Protagonisti e rimasti a bocca asciutta; ha ritirato il premio la figlia Emma con un bellissimo discorso, lucido e intelligente, assai commovente per la platea che ha risposto con una standing ovation. Il premio Miglior Sceneggiatura Non Originale è andato al film “Lontano lontano” regia e interpretazione di Gianni Di Gregorio da un suo scritto nel cassetto; Di Gregorio era già stato premiato col David di Donatello come Miglior Regista Esordiente nel 2009 alla non più tenera età di 59 anni con “Pranzo di ferragosto”. “Lontano lontano” è anche l’ultima interpretazione di Ennio Fantastichini, scomparso nel 2018 a 63 anni.

Lino Musella

Guardando trasversalmente le candidature salta subito all’occhio la doppietta di Alba Rohrwacher, ormai una garanzia dei casting, protagonista in “Lacci” di Daniele Luchetti e non protagonista in “Magari” di Ginevra Elkann, e stavolta non vincerà niente. Con ben tre presenze come non protagonista è Lino Musella, candidato per “Favolacce” dei Fratelli D’Innocenzo ma presente anche in “Lasciami andare” di Stefano Mordini, e con una partecipazione più pregnante e significativa in “Lei mi parla ancora” di Pupi Avati dove interpreta, con grande adesione e sensibilità, Renato Pozzetto da giovane.

Elio Germano - Wikipedia

Con tre presenze ma tutte da protagonista si piazza al primo posto Elio Germano con “Favolacce” e “L’incredibile storia dell’Isola delle Rose” di Sydney Sibilia e soprattutto “Volevo nascondermi” di Giorgio Diritti dove interpretando il pittore Antonio Ligabue – sotto abbondante trucco prostetico – vince il premio come Migliore Attore Protagonista in una cinquina composta anche dal già citato Valerio Mastandrea per “Figli”, Kim Rossi Stuart per “Cosa sarà” di Francesco Bruni, l’ottantenne Renato Pozzetto recuperato in chiave drammatica da Pupi Avati in “Lei mi parla ancora”, Pierfrancesco Favino che interpreta – anche lui con abbondante trucco prostetico – Bettino Craxi in “Hammamet” di Gianni Amelio, film che vince il premio tecnico per il Miglior Trucco.

“Volevo nascondermi” è il film della serata. Oltre al premio per il protagonista riceve anche i riconoscimenti come Miglior Film fra gli altri che erano: Hammamet”, “Favolacce” che vince solo il Miglior Montaggio, “Miss Marx” di Susanna Nicchiarelli che vince i premi Miglior Produttore, Migliori Costumi e Miglior Compositore, piazzandosi con 3 premi. Chiude la lista dei Migliori Film in competizione “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante che è l’unico film della cinquina a non ricevere nessun premio; è film che ho amato molto, per certi versi sperimentale, geniale visionario ed emozionante, ma che secondo il mio personalissimo parere sconta nell’ambiente cinematografico del volemose bene la ruvidezza dell’autrice che non brilla di immediata simpatia. Oltre a Migliore Attore e Miglior Film “Volevo nascondermi” vince anche per la Regia, la Fotografia, la Scenografia, le Acconciature e il Suono, portando a casa 7 statuette. I premi agli attori non protagonisti sono andati all’astro in ascesa Matilda De Angelis e l’assente ingiustificato anche in video conferenza Fabrizio Bentivoglio, entrambi per “L’incredibile storia dell’Isola delle Rose”, film che vincendo anche i Migliori Effetti Visivi si piazza a quota 3 premi con “Miss Marx”.

Fra le tante chiacchiere della serata vale la pena riportare l’ironico intervento di Valerio Mastandrea che, dovendo presentare la cinquina delle scenografie, ha scherzato sul fatto che tanta gente fa confusione fra i termini sceneggiatura e scenografia: “Molto spesso mi è capitato di sentirmi dire: “Ho visto un film bellissimo, dei dialoghi straordinari, chi l’ha scritta la scenografia?” Purtroppo è un errore molto comune e io stesso posso aggiungere per esperienza diretta che scenografia viene anche confusa con coreografia. Ppi Pierfrancesco Favino, introducendo il premio al Miglior Documentario ricorda che tutti i più grandi autori del cinema italiano sono stati registi di documentari: Rossellini, Antonioni, Petri, Comencini, Zurlini, Olmi, Pontecorvo, Visconti, Risi… perché l’occhio di un autore di allena sulla realtà. E poi cità Fritz Lang: “Se volete fare un film non acquistate un auto, prendete la metro, l’autobus o camminate, osservate da vicino alle persone che vi circondano”.

Collegata da Sofia dove si trova per lavoro, Monica Bellucci riceve il David Speciale, riconoscimento per il quale molti sui social stanno storcendo il naso dato che onestamente non si può dire che di lei che sia una brava attrice ma solo una bellissima donna che ha saputo costruirsi un’invidiabile carriera. Questa la motivazione: “Una carriera stellare e tuttavia saggia che parte da Città di Castello e dalla nostra commedia e si lascia valorizzare da grandi autori come Francis Ford Coppola e Giuseppe Tornatore diventando subito internazionale, con in più la devozione del cinema francese dalla sua parte ma senza perdere di vista il lavoro creativo e la comunità artistica. Carismatica, cosmopolita e insieme profondamente italiana”. Nulla da eccepire. Altro David Speciale a Diego Abatantuono che solo nella seconda parte della vita si è dato al cinema di qualità grazie alle opportunità che ha avuto prima da Pupi Avati col dittico “Regalo di Natale” e “La rivincita di Natale”, e poi da Gabriele Salvatores. Questa la motivazione: “Un grandissimo protagonista del nostro panorama artistico con una carriera sorprendente, protagonista poliedrico e amatissimo, passato attraverso film cult come “I fichissimi” o “Eccezziunale veramente” per poi incontrare autori come Luigi Comencini, Giuseppe Bertolucci, Carlo Mazzacurati, Ettore Scola e, specialmente, Pupi Avati e Gabriele Salvatores, con il quale ha intrapreso un vero e proprio sodalizio che lo ha portato fino all’Oscar con “Mediterraneo”. Infine Enrico Brignano entra sul palco a conferire un altro David Speciale e simbolico alla memoria di Luigi Proietti e a seguire Carlo Conti ricorda gli scomparsi dell’anno: Franca Valeri, Ennio Morricone, Michel Piccoli, Gianrico Tedeschi, Marco Vicario, Daria Nicolodi, Peppino Rotunno, Claudio Sorrentino, Enrico Vaime, Ezio Bosso e tanti altri.

David di Donatello 2021: Sophia Loren miglior attrice protagonista, Zalone  batte Pausini – Tutti i vincitori | DavideMaggio.it

Grande momento la premiazione di Sofia Loren che a 87 anni ha vinto, e trepidato come una debuttante, come Migliore Attrice Protagonista diretta dal figlio Edoardo Ponti in “La vita davanti a sé”, e omaggiata con una standing ovation. Giacché ancora la vedo e la rivedo in tv nel fulgore dei suoi anni migliori, mi si è stretto il cuore vederla muoversi a fatica, sorretta dal figlio, commossa e piegata dagli anni, che ha cominciato la lettura del suo discorso scritto su un foglietto mormorando nel suo napoletano un “Madonna mia… aiutateme!” sfuggito dal cuore: “E’ difficile credere che la prima volta che ho ricevuto un David sia stato più di 60 anni fa… (in realtà sono esattamente 60: nel 1961 ricevette il David di Donatello per “La Ciociara” di Vittorio De Sica, che le valse anche l’Oscar; probabilmente ha messo nel conto anche la Targa d’Oro vinta nel 1959 per “Orchidea Nera” film americano con Anthony Quinn diretto da Martin Ritt che le fruttò anche la Coppa Volpi a Venezia) …Ma stasera sembra di nuovo la prima voltama l’emozione è la stessa e anche di più, e la gioia è la stessa… – Ansima, respira a fatica, fa delle lunghe pause: ringrazia la produzione, Netflix, la squadra, cita il bambino protagonista Ibrahima Gueye: Un attore di grandissimo talento che in questo film è davvero magico. E infine ringrazio il mio regista Edoardo – che se possibile è ancora più commosso della madre – Il suo cuore e la sua sensibilità hanno dato vita a questo film e al mio personaggio… per questo io anche a mio figlio sono molto grata perché è un uomo meraviglioso e ha fatto un film veramente molto bello. – Poi, smettendo di leggere: – Forse sarà il mio ultimo film, questo non lo so, ma dopo tanti film ho ancora voglia di farne uno sempre bello, con una storia meravigliosa, perché io senza il cinema non posso vivere. – E dopo l’abbraccio del figlio che le consegna il premio scherza: Non posso prendere il premio sennò cado, io e il premio!”

Le altre candidate nelle stessa categoria, oltre alle già citate Paola Cortellesi per “Figli” e Alba Rohrwacher per “Lacci”, erano Micaela Ramazzotti per “Gli anni più belli” di Gabriele Muccino e Vittoria Puccini per “18 regali” regia di Francesco Amato, film premiato con il David Giovani assegnato da una giuria nazionale di studenti degli ultimi due anni di corso delle scuole secondarie di 2° grado.

David di Donatello 2021, il look di Sofia Loren | DiLei

Subito a seguire la premiazione dell’87enne Sofia arriva l’88enne Sandra Milo per ricevere il David alla Carriera e si mostra subito più in forma dell’antica rivale (senza dimenticare l’altra regina in campo, Gina Lollobrigida che ricevette il David alla Carriera nel 2016): eh sì, perché stessa età, stesso periodo di attività e medesime taglie da maggiorata nel cinema italiano degli anni ’50, ma mentre Sofia andava per Oscar, Nastri d’Argento e David di Donatello a gogo, Sandra, detta Sandrocchia da Federico Fellini ha in bacheca solo due Nastri d’Argento come Non Protagonista per “8 1/2” e “Giulietta degli spiriti” del Fellini di cui dichiarò durante una punta di “Porta a porta” del 2009 di esserne stata amante per ben 17 anni. Sempre bamboleggiando con la sua vocina in falsetto conclude il suo breve ilare discorso con un “Non è mai troppo tardi per ricevere un premio! Grazieee!”

Miglior Film Straniero “1917”, altro film che ho molto amato e fresco di tre Oscar tecnici: Fotografia, Effetti Speciali e Sonoro. Riconoscimenti speciali le Targhe David 2021 appositamente pensate come espressione di riconoscenza ai professionisti sanitari Silvia AngelettiIvanna Legkar e Stefano Marongiu per l’importante contributo alla ripresa in sicurezza delle attività delle produzioni cinematografiche e audiovisive a Roma e in Italia durante la crisi Covid-19. Delle targhe che, come ha ribadito la presidente e direttore artistico dei David di Donatello Piera Detassis nell’intervento istituzionale e conclusivo, ci si augura di non dover consegnare mai più; più avanti fa un riferimento del tipo parlo a chi mi capisce ma che noi spettatori comuni non comprendiamo: “Il David è la casa del cinema, è la casa di tutti quelli che fanno cinema, e anche se c’è qualcuno che a volte scappa di casa poi noi siamo pronti ad accoglierlo a braccia aperte…” Con chi ce l’aveva? chi, è scappato, e perché?

Dicono le cronache che il colpevole è Gabriele Muccino che è ha abbandonato il suo posto in giuria quando ha appreso che il suo film “Gli anni più belli” non sarebbe stato inserito nelle cinquine dei migliori film e migliori registi. Sono rimaste le candidature al David Giovani, a Micaela Ramazzotti come migliore protagonista e a Claudio Baglioni per la canzone originale e come visto nessun premio è andato assegnato. Muccino ha scritto: “Sono uscito dalla giuria dei David di Donatello. Non mi riconosco nei criteri di selezione che da anni contraddistinguono quello che era un tempo il premio più ambito dopo dopo l’Oscar. Non mi presenterò più nelle categorie di Miglior Regia e Miglior Sceneggiatura, in futuro.” Buon pro gli faccia, personalmente non sono mai riuscito a vedere un suo film e anche armato di buona volontà al massimo dopo un quarto d’ora mi annoio, anzi peggio, mi innervosisco: li trovo insopportabilmente zuccherosi e troppo volutamente strappalacrime, insinceri e costruiti a tavolino. Un po’ come quei bambini che piangono guardandosi allo specchio, dove si vedono così belli fra le lacrime da voler piangere ancora per un po’.

I film presi in considerazione sono tutti quelli usciti dal 1° gennaio 2020 al 28 febbraio 2021, che in piena pandemia non hanno potuto godere di una distribuzione appropriata e molti sono già in chiaro in tv, dove possiamo trovarli sia a pagamento che in chiaro. Per consultare in modo ordinato tutte le candidature e i vincitori:


https://www.daviddidonatello.it/

Lei mi parla ancora

Dico subito che non ho mai visto un film di Renato Pozzetto né al cinema né in televisione, benché già lo avessi apprezzato in tivù negli ormai lontani anni fra la fine dei Sessanta e la metà dei Settanta in coppia con Cochi Ponzoni nel duo Cochi e Renato. E’ che non riesco a farmi piacere i comici al cinema dato che apprezzo la loro comicità solo concentrata nel piccolo schermo e mai dilatata nel tempo di un film e sul grande schermo, tanto più che in genere si ripetono nel genere film commerciale per famiglie e dintorni. I film di Pupi Avati però li ho sempre visti.

“Lei mi parla ancora”, produzione 2121, esce direttamente in tivù causa protrarsi pandemia e, in questa fame di cinema, crea un piccolo caso proprio per la partecipazione dell’ottantenne Renato Pozzetto, qui al suo primo ruolo drammatico e, per di più, in cattive condizioni di salute, dato che visibilmente ha gravi problemi di deambulazione.

Risultato immagini per Lungo l'argine del tempo: memorie di un farmacista

La storia è quella del tardivo unico romanzo del farmacista Giuseppe Sgarbi, padre del mercuriale critico d’arte Vittorio e dell’editrice Elisabetta, in cui l’uomo racconta, a 93 anni, della moglie Caterina, il suo perduto amore di una vita, 65 anni di vita insieme, andato in stampa con l’editrice Skira col titolo “Lungo l’argine del tempo: memorie di un farmacista” e ripubblicato, dopo il film, come “Lei mi parla ancora” appunto. Libro immaginato e voluto dalla figlia che vive nel mondo dell’editoria, e che come il film racconta, ingaggia un ghostwriter per scrivere le memorie del padre che continua a parlare con la moglie anche dopo la di lei dipartita: non vede un fantasma ma piuttosto, semplicemente, continua a parlarle per dissipare la sua improvvisa e dolorosa solitudine dopo un’intera vita trascorsa insieme. E il film, andando oltre il romanzo di cui pare tralasci molte memorie (non l’ho letto) narra – alternando le memorie del passato – il difficile rapporto tra il vecchio e lo scrittore che si vende solo con la prospettiva di vedere pubblicato un proprio romanzo, un do ut des con la figlia editrice.

Risultato immagini per elisabetta sgarbi chiara caselli
Chiara Caselli ed Elisabetta Sgarbi

Elisabetta Sgarbi, da gran signora qual è, fa le cose per bene: non sappiamo se ha rispettato il patto con lo scrittore fantasma pubblicandogli il libro, ma nel dare alla stampa il libro del padre evita di farlo con la sua casa editrice “La Nave di Teseo”, evitando il conflitto di interessi, e si rivolge agli amici di “Skira” che, in quanto casa editrice di libri d’arte, fa uno strappo alle regole e pubblica il romanzo-memoria.

Chiara Caselli, Passione
“Passione” di Chiara Caselli

La interpreta, con altrettanto garbo e fine intensità, Chiara Caselli, un’attrice decisamente sofisticata e talentuosa che con successo si è data alla fotografia dato che in Italia, dopo i 40-50 anni, per le attrici sono rari i ruoli interessanti. E non c’è neanche da pensare subito all’America e a Meryl Streep perché basta varcare le Alpi e trovare nella cinematografia francese film costruiti attorno a magnifiche attrici âgée, a cominciare dalla 78enne ancora splendida Catherine Deneuve.

Risultato immagini per Lino Musella renato pozzetto
Stefania Sandrelli e Renato Pozzetto

Stefania Sandrelli, che interpreta il piccolo ruolo della moglie del farmacista, ha 75 anni, e anche lei ormai da qualche decennio non fa un film da protagonista assoluta. Il suo ruolo da giovane lo interpreta la palermitana Isabella Ragonese che ha la stessa solarità della giovane Sandrelli. Il napoletano Lino Musella, molto teatro e ruoli secondari al cinema, presta il suo volto e un’interpretazione partecipe e delicata al personaggio di Pozzetto da giovane.

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Lino Musella e isabella Ragonese


Fabrizio Gifuni interpreta lo scrittore che nella sceneggiatura degli Avati padre e figlio, Pupi e Tommaso, acquista una preponderante dignità narrativa che arriva a indagare le sue inquietudini personali e familiari su un altro piano narrativo e che a mio avviso distrae dal plot principale, la storia d’amore infinita fra Nino E Rina, di cui rimane ben poco, tanto che alla fine mi avanza la domanda: ma che cosa mi ha raccontato questo film? Resta la frase di Cesare Pavese che nei suoi “Dialoghi con Leucò” dice: “L’uomo mortale non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia.” che è l’adagio su cui il protagonista costruisce le sue memorie.

Pupi Avati ancora una volta esplora i luoghi della sua memoria e della sua provincia emiliana con la delicatezza che gli è congeniale anche nella direzione degli attori, differentemente da tanti altri registi che si preoccupano solo della parte tecnica lasciando che gli attori facciano da sé il proprio lavoro. E’ un maestro nel muoversi all’interno del suo mondo, rurale e magico anche con incursioni nel gotico, raccontando il diavolo delle paurose tradizioni contadine, quel diavolo che, come lui fa notare, non è più nominato neanche dalla Chiesa e sta via via scomparendo dall’immaginario collettivo. Un mondo magico e terragno da cui a volte dirazza nel sociale e nel sentimentale senza mai dimenticare, però, il sapore delle sue origini. E’ un maestro nel dirigere gli attori – fra i quali nel tempo sceglie i suoi interpreti feticcio: Lino Capolicchio, Gianni Cavina, Carlo Delle Piane – e con i quali instaura un rapporto di proficua continuità, lanciando volti nuovi e recuperando glorie appannate.

Qui continua a dirigere Alessandro Haber nell’importante ruolo del cognato morto, ruolo che sembra soffrire lo spazio limitato che la sceneggiatura gli concede. Torna a lavorare anche con l’ormai ultrasessantenne Serena Grandi sul cui volto gonfio d’età resta la triste traccia del silicone, qui impensabile in una contadina degli anni ’60. Il pugliese Nicola Nocella è il tuttofare di casa, già protagonista per Avati in “Il figlio più piccolo” nel 2010 che gli valse il Nastro d’Argento, che doppiò l’anno dopo come protagonista del corto “Omero bello-di-nonna”. Gioele Dix compare come agente letterario mentre Vittorio Sgarbi ha il volto di Matteo Carlomagno.

Di Renato Pozzetto la critica dice un gran bene, della direzione di Pupi Avati si scrive che ha lavorato di sottrazione: un modo elegante per dire che si poteva fare meglio. Con l’assoluto rispetto che si deve a un ottantenne che male si regge sulle gambe e che si mette in gioco con abnegazione, confermo che non è, come non è mai stato, un grande attore, e presta la sua maschera stralunata di sempre a questo vecchio addolorato e sognatore che suscita grande simpatia e a tratti anche commozione, ma con la consapevolezza che le prestazioni attorali sono un’altra cosa. E sul lato emozionale Avati è sempre mirabilmente attento a non spingere quel pedale e a non cercare mai facili reazioni emotive con stratagemmi retorici.

Dunque applausi sempre convinti al regista, un po’ meno allo sceneggiatore, stavolta. Ricordiamo però che Pupi Avati è anche un prolifico e sapiente scrittore la cui ultima uscita è “L’archivio del diavolo”, un’altra delle sue storie gotiche di provincia. “Il meraviglioso e l’orrendo sono contigui – dice in un’intervista – sono forme della dismisura del pensiero che mi attraggono fortemente. – E continua: – La narrazione della cultura contadina era estremamente sorprendente e improbabile” e “ognuno di noi ha una specie di mondo archetipale che coincide con l’incontro con le cose e con le persone nei primi anni di vita. Anche se faccio un film ambientato nell’oggi ha sempre un riverbero della stagione in cui ho incontrato le cose per la prima volta.”