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Il giardino dei Finzi Contini – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Sarò controcorrente: secondo me questo film non è fra i migliori di Vittorio De Sica. Tratta un argomento importante, è vero, è tratto da un importante romanzo, è altrettanto vero, ed ebbe grande successo anche oltreoceano dove notoriamente sono assai sensibili riguardo al tema dell’ebraismo: il film negli Stati Uniti si aggiudicò l’Oscar come miglior film straniero ed ebbero la candidatura per la miglior sceneggiatura non originale Ugo Pirro e Vittorio Bonicelli; e poi candidatura al Grammy per la musica di Manuel De Sica, figlio maggiore del regista, qui alla sua terza colonna sonora; Vittorio De Sica vinse anche l’Orso d’Oro a Berlino e il britannico BAFTA dove ci fu la candidatura di Ennio Guarnieri per la miglior fotografia. Premi in Italia: David di Donatello come miglior film e David Speciale al protagonista Lino Capolicchio; Nastro d’Argento a Romolo Valli come miglior attore non protagonista e a Giancarlo Bartolini Salimbeni per la miglior scenografia; e per finire Globo d’Oro a Fabio Testi come miglior attore rivelazione. Elencati per dovere di cronaca premi e riconoscimenti specifico che nel mio essere controcorrente sono in buona compagnia perché all’epoca non tutta la critica fu d’accordo nell’elogiare il film e Morando Morandini sul quotidiano milanese “Il Giorno” scrisse che era eccessivamente melenso. Be’ lo è.

Secondo me questo stile, melenso per Morandini, eccessivamente patinato aggiungo io, non è in linea con la miglior produzione di De Sica che nasce nel neorealismo e anche quando si trasforma in commedia mantiene certe radici veristiche e veraci, popolari e popolane, mentre la vita agiata di questa oziosa famiglia altoborghese, tutti leccati in abiti fra il bianco e il color crema, non appartiene al regista e dunque la racconta per luoghi comuni dove la quotidianità si fa cicaleccio e birignao: una leggiadria certo necessaria a far risaltare la tragedia incombente delle persecuzioni nazi-fasciste, ma non fosse stato per il risvolto drammatico questo ritratto di famiglia in un esterno sarebbe potuto diventare parodia: i Finzi-Contini, con trattino come nel romanzo di Giorgio Bassani, che sono “altro” nella comunità ebraica della Ferrara dell’epoca, restano “altro” anche nella cinematografia di De Sica.

Già l’inizio è imbarazzante dal punto di vista sonoro: Livia Giampalmo, che effettivamente era agli inizi in sala di doppiaggio, doppia Dominique Sanda quasi facendo il verso alle querule doppiatrici d’antan delle sofisticated comedies hollywoodiane, come dandosi un tono perché sta dando voce a una signorina di buonissima famiglia: stonatissima e fasulla; più avanti ci si fa l’orecchio, giocoforza, ma arriva subito anche il doppiaggio altrettanto stonato di Roberto Del Giudice che dà voce a Helmut Berger: l’atmosfera generale è che stiano giocando a fare le persone fini.

Alessandro D’Alatri, recentissimamente morto 68enne dopo una lunga malattia, recita nel film il ruolo del protagonista da adolescente, ma aveva debuttato 14enne l’anno prima da protagonista nel piccolo film di avventura e formazione (di cui non rimane traccia) “Il ragazzo dagli occhi chiari” di Emilio Marsili (due soli film nel portfolio e anch’egli sparito senza lasciare traccia) e poi in Rai con un piccolo ruolo nella miniserie “I fratelli Karamazov” diretta da Sandro Bolchi, dopodiché smette di recitare e da giovane adulto negli anni ’80 è al top come regista di pubblicità, debuttando come regista cinematografico solo nel 1991, 36enne, con “Americano Rosso” che gli varrà il David di Donatello come miglior regista esordiente; era una commedia sentimentale guarda caso ambientata nel 1934 con lo stesso entroterra fascista di questo film di De Sica cui resta legato il suo nome come giovane attore. Nel ruolo di Micol da giovane c’è l’ex attrice bambina Cinzia Bruno che aveva debuttato a tre anni proseguendo la carriera di giovane attrice anche in radio e nel doppiaggio ma per un problema alle corde vocali ha dovuto abbandonare la carriera artistica ed ha aperto un’agenzia di viaggi.

Proprio per il ruolo di Micol, De Sica aveva seriamente considerato Patty Pravo ma non se ne fece niente perché Patty era troppo impegnata, era appena arrivata al successo con “La bambola” (canzone che odiava perché dava l’immagine di una donna totalmente dipendente dall’uomo), inoltre la sua casa discografica stava battendo il ferro ben caldo: in quel 1970 era al successo con “La spada nel cuore” e poiché stava costruendosi una brillante carriera come cantante non volle distrarsi col cinema, tanto che in seguito rifiutò anche “Professione: reporter” di Michelangelo Antonioni: oggi se ne dice pentita. Però l’anno prima aveva doppiato Jacqueline Kennedy nel documentario di Gianni Bisiach “I due Kennedy”.

Alla sceneggiatura del film, come detto firmata da Bonicelli e Pirro, inizialmente partecipa anche l’autore del romanzo, Giorgio Bassani, che però abbandona il progetto per insanabili divergenze col regista, tanto da chiedere, e ottenere, che il suo nome venisse tolto dai titoli. Pare che il punto di rottura fu l’esplicitazione nel film della relazione fra Micol e il comunista milanese Malnati, che nel romanzo è solo accennata da Giorgio che è l’io narrante. E non si può dire che per lo scrittore sia stato il capriccio autorale di uno che non comprende le esigenze cinematografiche, perché egli stesso era da tempo attivo sia come soggettista che sceneggiatore, per non dire che aveva anche doppiato Orson Welles diretto da Pier Paolo Pasolini nell’episodio “la ricotta” del film “Ro.Go.Pa.G.”.

Lino Capolicchio è il protagonista Giorgio, nome autobiografico dell’autore che in qualche modo si rispecchia nel personaggio, ebreo come lui, che narra le vicende reali di una famiglia ferrarese cui nel romanzo sono stati cambiati i nomi (tranne quello del cane Jor) e alcuni dettagli: da qui forse il suo attaccamento a certi passaggi della sua narrativa che nel film non sono stati rispettati. Micol è interpretata dall’ex modella francese Dominique Sanda che dopo un’intenso debutto il patria con Robert Bresson che la diresse in “Così bella, così dolce”, subito viene adottata dai cineasti italiani a quell’epoca sempre affascinati dalle bellezze straniere, tanto c’era il doppiaggio: lo stesso anno gira con Bernardo Bertolucci “Il conformista” e si avvia a una carriera in film d’autore con personaggi tormentati e ambigui. Oggi è una bella signora 71enne che si dedica principalmente al teatro. Mentre ricordiamo che Capolicchio è morto 79enne lo scorso anno: la sua scomparsa ha creato un’impennata di visioni di questo film che fino a quel momento era in chiaro su Sky Cinema e che dopo la sua morte è passato a pagamento su Sky Primafila per sfruttare commercialmente la grande richiesta, e infine scompare del tutto; oggi è visibile a pagamento su Prime Video. Restaurato nel 2015 è reperibile in chiaro su YouTube una vecchia versione per il mercato anglofono con titolo e sottotitoli in inglese.

Ferrara, con Roma e Venezia, era una delle città con maggiore popolazione ebraica, e anche dopo la chiusura del ghetto in epoca fascista rimase un importante centro per la comunità, tanto che alle prime restrizioni vi confluirono ebrei da altre province pensando di trovare un ambiente più favorevole grazie alla presenza del deputato fascista ferrarese Italo Balbo e del suo amico Renzo Ravenna che fu uno dei due soli ebrei (l’altro fu il triestino Enrico Paolo Salem) a ricoprire il ruolo di podestà, fino all’emanazione delle leggi razziali che non risparmiò neanche loro. Ferrara dunque fu un centro nevralgico che anche il regista ferrarese Florestano Vancini racconterà nei suoi film.

Il giardino del titolo è quello della villa che realmente a Ferrara, e poi nel romanzo e infine del film, divenne ritrovo e porto franco per tutti gli ebrei e chiunque altro fosse inviso al regime fascista che aveva cominciato le persecuzioni e le restrizioni sociali; metafora di un sogno bello e impossibile che la realtà andrà a dissacrare. Romanzo e film raccontano come la comunità ebraica non si rese conto di quanto stava accadendo; ci fu chi reagì cercando di mimetizzarsi e si iscrisse al Fascismo, come il suddetto podestà della città e come il padre del protagonista interpretato da Romolo Valli, chi davvero senza poter comprendere, perché si era tutti italiani e da secoli, a memoria umana, non c’erano più state divisioni per ragioni religiose e men che meno razziali. Come detto a Romolo Valli, gran signore del teatro sempre in ruoli di supporto al cinema, è andato il riconoscimento del Nastro d’Argento. A Fabio Testi nel ruolo di Malnate è andato il Globo d’Oro come unico premio in una lunga carriera iniziata appena quattro prima come controfigura sul set di “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone che in seguito gli affida un ruolo in “C’era una volta il west” che però taglia in post-produzione perché non ottimale; ma è un aitante belloccio e dopo una serie di piccoli ruoli è protagonista in un paio di film di serie B; è qui alla sua prima occasione in un film importante e l’industria cinematografica che sta puntando su di lui lo premia per sdoganarlo fra quelli che contano. Conclude il cast dei ruoli principali l’altro bello e possibile già ex modello austriaco Helmut Berger che Luchino Visconti aveva diretto proprio come ragazzaccio austriaco in un episodio del film “Le streghe” e che lancerà come protagonista in “Ludwig” un paio d’anni dopo.

Curiosità letteraria, nel romanzo c’è un prossimamente: Giorgio racconta a Malnate di un’episodio accaduto in città poco tempo prima, che riguarda un otorinolaringoiatra coinvolto in uno scandalo omosessuale per il quale si tolse la vita; nomina il personaggio come Athos Fadigati, personaggio protagonista di un altro romanzo al quale stava lavorando: “Gli occhiali d’oro” che con la regia di Giuliano Montaldo diverrà film nel 1987. Una lettura integrale del romanzo “Il Giardino dei Finzi-Contini” a più voci, è stata realizzata dalla Rai di Torino, e poi una riduzione radiofonica e andata in onda su Radio 3. La New York City Opera e il National Yiddish Theatre Folksbiene ne hanno realizzato lo scorso anno un adattamento operistico presso il Museo del Patrimonio Ebraico di Manhattan.

Mussolini ultimo atto – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Nell’occasione del 25 aprile, festa italiana dalla liberazione dal nazi-fascismo, La7 manda in onda questo film del 1974 e colgo l’occasione per andare a rivedere alcuni dei film d’autore che trattarono l’argomento.

Erano passati trent’anni dalla fine della guerra e se dal punto di vista politico e sociale quello sembra un periodo lontanissimo perché da allora regna al governo la Democrazia Cristiana e nell’immediato il territorio italiano ha il problema contingente del terrorismo di destra e sinistra, in realtà per tanti è ancora molto vicino: i 20enni di allora sono la classe dirigente e quelli che allora erano nell’età di mezzo, fra i 40 e i 50, sono negli anni ’70 ancora viva memoria – dunque un film che rivive l’episodio della fine del duce tocca nervi ancora vivi, sia nei nostalgici che in tutti quanti gli altri che cercavano la via del futuro.

Il romano Carlo Lizzani, classe 1922, all’epoca dei fatti era un 20enne che si era unito alla Resistenza Romana formatasi in città dopo l’8 settembre 1943 in seguito a quella che storicamente viene definita “mancata difesa di Roma” (ma anche “occupazione tedesca di Roma”) da parte del Regio Esercito, e che operò fino al 4 giugno 1944, data della liberazione della città da parte degli Alleati; nella Resistenza confluirono sia militari che civili, sia con forme di boicottaggio passivo, ovvero senza l’uso di armi, che organizzandosi in vere e proprie formazioni paramilitari. Lizzani, sceneggiatore nel periodo neorealista, debuttò come regista poco meno che 30enne prima col documentario “Nel mezzogiorno qualcosa è cambiato” che è possibile vedere alla fine dell’articolo, e poi col film “Achtung, banditi!” che rievoca un episodio della resistenza partigiana a Genova, dunque già nell’ambito del film storico di militanza su cui ritornerà, concedendosi qualche divagazione farà anche un western, rimanendo negli anni fedele al suo genere d’esordio, distinguendosi anche nel noir-poliziesco con ricostruzioni di delitti di cronaca. Dunque questo suo film sugli ultimi giorni di Benito Mussolini a trent’anni dal fatto sembra quasi un atto dovuto, anche se forse non pienamente riuscito.

Lizzani scrisse il film con lo scrittore Fabio Pittorru che si era dato alla sceneggiatura, (tentando l’anno dopo anche lui la disagevole via della regia) che ha dato il meglio di sé nella scrittura di poliziotteschi con qualche incursione nella commedia sexy: questa sceneggiatura rimane la sua prova più impegnativa. Il film che ne viene fuori è un’opera rigorosa, forse troppo perché manca di pathos, e benché ricca di dettagli nella ricostruzione, resta poco spettacolare: rimane un film “a tema” scandito con la freddezza dei dettagli che lo colloca a metà strada fra il documentario storico e il cinema narrativo, e se del documentario ha il necessario rigore del film narrativo non ha la spettacolarità, come se l’attenzione alla documentazione avesse tolto slancio allo spettacolo o come se, forse e soprattutto, Lizzani col suo passato di partigiano avesse voluto – e c’è riuscito – mantenersi al di sopra delle parti senza metterci il suo personale umano punto di vista. Il film risulta didascalico e poco coinvolgente anche se tecnicamente perfetto.

Produce il palermitano Enzo Peri, che laureato in filosofia e giurisprudenza era andato a frequentare anche la California University, e con questo suo background di cultura alta e internazionale torna in Italia e si dà al cinema, prima tentando la strada della regia (un documentario e un western) e poi dedicandosi esclusivamente alla produzione di alcuni film (a tutt’oggi solo cinque) cosiddetti impegnati; non sorprende dunque che il film, schierando divi americani sia, com’è evidente dal labiale, girato in inglese certamente per facilitare una distribuzione internazionale dove fu rilasciato col titolo “Last Days of Mussolini”.

L’interpretazione di Rod Steiger non aiuta, per quanto la sua performance sia misurata e aderente: ma aderente a cosa? L’americano, già premio Oscar per “La calda notte dell’Ispettore Tibbs” (1968) e già in Italia nel 1971 con Sergio Leone per “Giù la testa”, sembra fuori posto nel ruolo del duce, di questo duce in declino e in fuga, e per quanto bene possa interpretare gli scatti d’orgoglio e gli sguardi ora furenti della bestia in gabbia e ora vacui dell’uomo perduto, la figura di Benito Mussolini non diventa mai sua, non gli appartiene, non appartiene alla sua cultura: è quella che in gergo si definisce interpretazione scollata. Non convince neanche l’altrove sempre ottima Lisa Gastoni come Claretta Petacci. Già come personaggio, benché somigliante, è poco credibile perché troppo anziana per il ruolo: Clara o Claretta, Clarice sui documenti, era di 29 più giovane del duce mentre l’attrice è di soli 10 anni più giovane dell’attore e risulta poco credibile quando nel film dice che già adolescente si era innamorata dell’uomo politico: narrativamente nuoce la mancata differenza di età perché sarebbe apparsa dolorosamente assai più patetica una giovane donna ciecamente innamorata di un uomo che ha il doppio della sua età; e benché portatrice di un minimo di pathos sentimentale anche il suo personaggio risulta didascalico fin dalla scrittura.

Nella prima parte del film c’è la partecipazione di gran lusso di Henry Fonda che impersona autorevolmente quel Cardinale Schuster, proclamato beato da Giovanni Paolo II, che nella sua epoca e nel clero fu fra i tanti che si impegnarono nell’intento di cristianizzare il fascismo perché, va ricordato, Il fascismo era nato come un movimento politico anticlericale con venature anticattoliche e anticristiane, venature che poi il lungimirante Mussolini, allorché fu a capo del governo, da buon politico smussò riavvicinandosi alla chiesa con cortesi concessioni auspicando di giungere “in un tempo più o meno lontano” – beninteso – a comporre il dissidio fra Chiesa e Stato che egli giudicava “funesto per entrambi e storicamente fatale”: ipocrisia ad alti livelli. Nel film si racconta il momento in cui promosse nell’arcivescovado di Milano un incontro fra Mussolini in fuga verso la Svizzera, dove aveva già trasferito diversi milioni di lire, e alcuni rappresentanti dei partigiani con l’intento di concordare una resa incruenta del duce; duce già tampinato dai Tedeschi che in quanto alleato lo volevano per sé e con sé, e dagli Americani che in quanto vincitori lo volevano trasferire in una prigione dorata degli Stati Uniti per tenerlo da conto allorquando e semmai il comunismo della vittoriosa Russia avesse preso piede in Europa. Di Fonda resta da dire che anche lui come l’altro americano era di casa a Cinecittà avendo girato con Leone “C’era una volta il West” e con Tonino Valerii “Il mio nome è Nessuno”.

Nella parte centrale del film troviamo Lino Capolicchio che è il partigiano Pier Luigi Bellini delle Stelle, Pedro come nome di battaglia, il cui nome resta famoso per avere intercettato Mussolini in fuga travestito da soldato tedesco fra gli altri nazisti in ritirata. Nell’ultima parte entra in scena Franco Nero – all’epoca divo italiano di prima grandezza che l’anno prima era stato protagonista di “Il delitto Matteotti” di Florestano Vancini, altro film che entra nella mia piccola lista – è qui nel ruolo del partigiano Walter Audisio, Valerio in battaglia, che prese in consegna Mussolini per eseguirne la fucilazione, e con lui la Petacci che si ostinava a non volersi separare dall’uomo della sua vita che divenne l’uomo della sua morte: al momento della fucilazione del duce la donna si frappose restando colpita. Nel resto del cast Massimo Sarchielli come Alessandro Pavolini, figura di spicco dell’apparato fascista che finì appeso a Piazzale Loreto insieme al suo capo e Giacomo Rossi Stuart perfettamente bilingue interpreta il capitano italo-americano Jack Donati. Nando Gazzolo ha doppiato Rod Steiger e Giorgio Piazza Henry Fonda. Musica di Ennio Morricone eseguita da Bruno Nicolai.

Il film, che si apre con un cinegiornale e si chiude con documenti d’epoca rimane esso stesso come rigorosissima documentazione.

Il documentario opera prima di Carlo Lizzani

Metti, una sera a cena – per ricordare Lino Capolicchio

La scorsa settimana se n’è andato dopo una lunga malattia anche Lino Capolicchio che nella memoria collettiva cinematografica di chi ha superato gli anta è l’eterno attor giovane imbronciato in cui si sono immedesimati quelli che oggi vengono definiti nerd e che, volente o nolente, è diventato anche oggetto di una discreta fantasia omoerotica, discreta come discreto e schivo è stato lui, attore protagonista di film importanti ma sempre ai margini, più prossimo alla fuga dietro le quinte che al centro della scena. A innestare su di lui un fascino ambiguo è certamente questo film dove interpreta un sedicente contestatore, un po’ rivoluzionario e un po’ marchetta, e lo stare quasi sempre nudo avvolto fra le lenzuola sembra essere la sua condizione più naturale mentre ospita nel suo letto sia donne che uomini.

Nato in provincia di Bolzano cresce a Torino dove comincia a frequentare il palcoscenico con Massimo Scaglione, e appurata la sua passione si trasferisce a Roma dove frequenta l’Accademia Silvio D’Amico, e subito dopo è a Milano dove lavora con Giorgio Strehler al Piccolo; ottenendo un personale successo di pubblico e critica ottiene un ruolo nello sceneggiato Rai “Il Conte di Montecristo” e poi nel fatidico 1968 è protagonista del film arrabbiato opera prima di Roberto Faenza “Escalation” che volendo essere un’allegoria della società risulta però soltanto un pasticcio grottesco, ma per Lino è soltanto l’inizio di una carriera del cui andamento però, quando tirerà le somme, dirà che non è andata come voleva. Senza considerare un piccolissimo ruolo non accreditato in “La bisbetica domata” di Franco Zeffirelli, “Metti, una sera a cena” è il suo terzo film, sempre da protagonista; ed è dell’anno dopo “Il giardino dei Finzi Contini” di Vittorio De Sica che vincerà l’Oscar come miglior film straniero.

A tal proposito una curiosità commerciale: il film di De Sica era nel pacchetto Sky Cinema – pacchetto a pagamento, per chi non conosce quel piano commerciale, dove sono visibili centinaia di film senza costo aggiuntivo; dalla morte di Capolicchio, con l’improvvisa impennata dei download, il titolo è passato a pagamento nel pacchetto Sky Primafila che, come suggerisce il nome, contiene i titoli appena dismessi dalle sale, una sorta di prima visione casalinga: nello specifico una pratica commerciale scorretta che Sky ha voluto offrire ai suoi abbonati.

Dopo l’ambiguo Ric di “Metti, una sera a cena” e la bella parentesi del film di De Sica, Lino gira una serie di film a sfondo sexy-perverso – sono gli anni della liberazione sessuale e il cinema cavalca l’onda – fino al successivo incontro fatale con Pupi Avati nel 1976 con “La casa dalle finestre che ridono” ed è l’inizio di un proficuo sodalizio. Come dirà in un’intervista, Avati come Strehler hanno rappresentato per lui la figura paterna che gli era mancata nell’infanzia. Il suo ultimo film è “Il signor diavolo” di Pupi Avati, del 2019.

Il film è la trasposizione a tambur battente della commedia che ha avuto un clamoroso successo al Teatro Eliseo di Roma dove è stata replicata per ben due anni dalla Compagnia dei Giovani con regia di Giorgio De Lullo e interpretata da Romolo Valli, Rossella Falk, Carlo Giuffrè, Elsa Albani e Umberto Orsini. La commedia conclude una trilogia scritta per quella compagnia e iniziata con “D’amore si muore”, 1958, messa in film nel 1972 con la regia, l’unica, di Carlo Carunchio, già assistente di Patroni Griffi; proseguita con “Anima nera”, 1960, messa in film nel ’62 da Roberto Rossellini; e conclusa appunto con “Metti, una sera a cena” che lo stesso autore dirigerà per lo schermo. Una trilogia che mette in scena i complicati rapporti sentimentali all’interno di coppie, scoppiate o allargate o che diventano triplette e dove si moltiplicano nel numero chiuso tutte le varianti possibili scavalcando i generi e il tanto decantato comune senso del pudore: i suoi protagonisti sono tutti spudorati e cinici, e coltivano l’amoralità come unica via possibile di espressione sentimentale e sessuale.

Il gioco delle parti che mette in scena Giuseppe Patroni Griffi è quello che si svolge all’interno di una società alto borghese, la stessa da cui lui proviene con ascendenze nobili in decadimento; i suoi protagonisti sono quelli del suo stesso mondo, attori scrittori commediografi spesso con latenze omosessuali o messi a confronto con l’omosessuale di turno, dove l’omosessualità – quella dichiarata dell’autore – diventa l’unica chiave di lettura di una società in cui gli eterosessuali – in una diffusa quanto errata visione omocentrica – non sono altro che froci latenti che aspettano di essere liberati alla gaiezza della vita, anzi no perché la vita è sempre cupa amara contorta perversa e non c’è salvezza per nessuno.

Ho qui a lungo precedentemente parlato di Pier Paolo Pasolini, omosessuale nevrotico e introverso che è stato costretto a esibire le sue pulsioni nelle aule dei tribunali e nei processi pubblici perché ahilui amava scandalizzare i minorenni, e che ha reagito facendo dell’omosessualità un manifesto politico. Patroni Griffi è invece un omosessuale di un’altra specie più diffusa, quella apparentemente pacificata con se stessa, ma che in realtà volendo omosessualizzare il mondo intero dichiara – ancora una volta – il proprio senso di inadeguatezza, di incapacità a gestire serenamente la propria omosessualità sempre vissuta come diversità, il cui senso sarebbe: se anche gli etero sono un po’ gay siamo tutti un po’ più uguali…

Dal punto di vista drammaturgico la cosa funziona perché spesso il teatro e il cinema sintetizzano e a volte anticipano ciò che sta per accadere nella vita reale: alla fine degli anni ’60 la borghesia coi suoi riti è al collasso e le perversioni di Patroni Griffi diventano parabole sociali, oltre a essere appetibili esercizi di stile per attori in carriera in cerca di novità. L’autore ha debuttato come regista cinematografico nel 1962 con “Il mare” dove racconta di un attore in vacanza, Umberto Orsini, indeciso fra una seducente donna e un seduttivo giovanotto. Messo da parte Orsini che interpreta lo scandaloso Ric nella messa in scena teatrale ma che non è e mai sarà un divo cinematografico, mette insieme con i produttori un cast internazionale per la sceneggiatura scritta col suo aiuto Carlo Carunchio e soprattutto col giovane Dario Argento che l’anno dopo avrebbe esordito come regista con “L’uccello dalle piume di cristallo”; la sceneggiatura a sei mani dà respiro alla scrittura teatrale con scene in esterni pensate come flash-back che col creativo montaggio di Franco Arcalli conferiscono al film una marcia in più e un ritmo assai intrigante.

Producono Giovanni Bertolucci, cugino dei fratelli registi Bernardo e Giuseppe, e soprattutto Marina Cicogna (Mozzoni Volpi di Misurata) figlia di un conte e di una contessa che in quegli anni è attivissima come lesbica dichiarata nella dolce vita romana, la quale durante un viaggio è stata folgorata dalla bellezza androgina di una hostess brasiliana, Florinda Bolkan, e se la porta in vacanza a Ischia: è l’inizio di un sodalizio umano e professionale che durerà più di vent’anni. Introduce la ragazza nel jet set artistico intellettuale della capitale e Florinda, che oltre al portoghese natio parla inglese francese e italiano, è già pronta per il gran salto artistico e gira tre film, uno dei quali è prodotto da Bino Cicogna, fratello di Marina, poco prima che fratello e sorella fondassero insieme la Euro International Film con la quale distribuirono questo “Metti, una sera a cena”.

Florinda Bolkan si rivela all’altezza delle aspettative con vere doti attoriali tanto da vincere con questa interpretazione la Grolla d’Oro come migliore attrice esordiente (si sono dimenticati gli altri tre film), una Targa d’Oro ai David di Donatello, e altri premi vincerà con altre interpretazioni; qui è doppiata da Livia Giampalmo. Immediatamente, dato il successo del film e della colonna sonora di Ennio Morricone che vinse il Nastro d’Argento, incise una canzone con le parole scritte da Patroni Griffi. E per non farsi mancare niente recitò il suo ruolo anche in una riedizione teatrale con regia di Aldo Terlizzi e nel cast Michele Placido, Remo Girone, Fiorenza Marchegiani e Fabrizio Bentivoglio; e a seguire Patroni Griffi la diresse in un’edizione dello “Zia Vanja” di Cechov.

Per il ruolo di Max, l’attore bisessuale, fu inizialmente scritturato nientemeno che Gian Maria Volonté che firmò un contratto record di 60 milioni di lire, salvo poi pentirsi durante le riprese: temeva che quel ruolo rovinasse la sua immagine di attore impegnato e ruppe il contratto restituendo i soldi, ma fu citato comunque in giudizio per avere fermato la produzione; dichiarò che aveva temuto di diventare “uno strumento nelle mani di persone che perseguono interessi che non sono i miei”. Peccato, sarebbe stato interessante vederlo in quel ruolo. Ruolo per il quale fu scritturato l’emergente italoamericano Tony Musante che in patria si era fatto notare con ruoli da teppista fra cinema e tv; fu importato in Italia per lo spaghetti-western di Sergio Corbucci “Il mercenario” e con questo ruolo in “Metti, una sera cena” si impose all’attenzione di critica, pubblico e cineasti. Qui è doppiato dal mai compianto abbastanza Luigi Vannucchi. Per i cast-insalate in uso all’epoca gli altri due ruoli andarono ai francesi Jean-Louis Trintignant (doppiato da Cesare Barbetti) e Annie Girardot (doppiata da Paila Pavese) che stranamente, rispetto agli altri interpreti, ha il nome sotto il titolo pur avendo un ruolo alla pari. Ne consegue che alla fine Lino Capolicchio è l’unico italiano di un quintetto di gran classe impegnato in ruoli che risultano vagamente sgradevoli e per i quali, cinici e autoreferenziali, si fatica a provare simpatia. Con l’aggravante che i dialoghi rimangono troppo letterari col risultato che il film, nonostante gli accorgimenti di sceneggiatura e montaggio, resta sempre troppo teatrale, con personaggi talmente carichi di simbolismi e di pensieri assoluti da restare estranei alla realtà.

Giustamente definito d’autore per la sua provenienza, il film fu un clamoroso successo con quella scena di bacio a tre che gli procurò guai con la censura e consequenzialmente code al botteghino e cambio di classificazione: da film d’autore venne proclamato film erotico e inserito per acclamazione in quel filone allora emergente. Le new entries Florinda Bolkan e Tony Musante divennero delle star del nostro cinema d’autore e lavorarono di nuovo insieme in “Anonimo veneziano”, film d’esordio come regista di Enrico Maria Salerno, e in “La gabbia” di nuovo con Patroni Griffi. Musante morì 77enne nel 2013 per complicazioni da un intervento chirurgico, mentre l’ottantunenne Florinda Bolkan è oggi una bella signora pensionata che ha diradato la sua presenza sugli schermi e il cui ultimo ruolo è una piccola partecipazione nel film d’esordio di Ginevra Elkann “Magari” del 2019. Di Lino Capolicchio resta da dire che con quel film divenne, suo malgrado e malgrado il suo fisico mingherlino, un sex symbol, ruolo in cui lui, attore di spessore e con altri obiettivi, non si riconosceva e per il quale ha dichiarato di avere anche ricevuto non desiderate attenzioni omoerotiche. Suo figlio Tommaso è oggi uno sceneggiatore.