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C’è ancora domani – opera prima di Paola Cortellesi

Opera prima col botto grazie al concorso di diversi elementi: la popolarità dell’autrice già attrice acclamata in commedie di grande successo dove era giunta con la fama acquisita sul piccolo schermo come tuttofare di talento: ironica conduttrice, camaleontica imitatrice ed eccellente cantante: Mina l’ha definita come delle più belle voci italiane. Poi quasi a sorpresa la svolta drammatica, perlomeno per il pubblico televisivo perché al cinema si era già cimentata benché per un pubblico di nicchia, come interprete di Maria Montessori nella miniserie omonima del 2007 su Canale 5.

Altro elemento che contribuisce al successo del film è l’argomento drammaticamente attuale della violenza sulle donne, rivisto in chiave di commedia però, perché al cinema ci si va per rilassarsi e sognare e perché quello è il terreno su cui la nostra si è meglio espressa; e da questo punto di vista il film è molto furbo, laddove la furbizia è segno di intelligenza, e l’intelligenza segno di sensibilità. Poi c’è l’inattesa svolta politica e sociale che eleva il film a un livello decisamente superiore, sorprendendo ed emozionando le platee che col passaparola fanno la fila al botteghino facendo guadagnare all’opera prima diversi record: con un incasso di un milione e 600mila euro si è dapprima piazzato nella prima posizione del box office nel week end di fine ottobre, guadagnandosi anche il record di migliore esordio dell’anno; al momento con 25 milioni di euro oscilla fra il primo e il terzo posto giocandosela con “Napoleon” di Ridley Scott starring l’amatissimo Joaquin Phoenix post-Joker, e “La ballata dell’usignolo e del serpente” che è il prequel della saga fantasy “Hunger Games”: due blockbuster americani messi nell’angolo da una debuttante italiana. Inoltre è il film col più alto incasso degli ultimi tre anni scalzando dal podio Aldo Giovanni e Giacomo di “Il grande giorno” che fu il primo grande successo post Covid; e notizia del 28 novembre scorso, è al 31º posto dei film con maggiori incassi in Italia di sempre. Alla Festa del Cinema di Roma, dove il film è stato presentato, ha vinto il Premio Speciale della Giuria, quello come Migliore Opera Prima e i premio del pubblico. Insomma, Paola Cortellesi, secondo le regole del mercato è diventata un’intoccabile di cui tutti vorrebbero toccare il lembo del mantello da super-eroina.

Girato in bianco e nero con la fotografia di Davide Leone si apre con il formato 4:3 dei film del dopoguerra cui dichiaratamente si ispira omaggiando il neorealismo; ma l’omaggio dura cinque minuti perché poi lo schermo si allarga nel moderno 16:9 mentre la camminata della protagonista va in ralenti e la canzonetta d’epoca viene sostituita da musica attuale e da “Aprite le finestre” cantata da Fiorella Bini si passa a Daniele Silvestri, Fabio Concato, Lucio Dalla e altri con le musiche originali di Lele Marchitelli. Da qui in poi, pur mantenendo col montaggio secco e pulito di Valentina Mariani lo stile retrò, cui contribuiscono appieno i costumi di Alberto Moretti, il trucco di Ermanno Spera e le scenografie di Massimiliano Paonessa e Lorenzo Lasi, il neorealismo resta formalmente nello stile visivo mentre il film diventa commedia moderna che nulla ha però a che vedere con la commedia italiana di genere, la stessa che l’attrice frequenta con successo, perché l’autrice non è di quella sui generis: la sua commedia passa dal grottesco dello schiaffo di prima mattina senza ragione al surreale della coreografia che stempera nel fantastico la violenza domestica – bellissima intuizione – momenti che la critica ufficiale ha stigmatizzato come ingenuità narrative ma che per me sono segni precisi dello stile della neo-autrice che li maneggia con grande maestria senza farli percepire come corpi estranei alla sua commedia grottesca che ha il momento clou nel funerale del patriarca: grottesco e surreale che con grandissimo equilibrio narrativo e interpretativo di tutto il cast si ferma un attimo prima di diventare il troppo che storpia: segno di una maturità artistica che inscrive la Cortellesi già fra i maestri della commedia italiana: c’è Ettore Scola, c’è Luigi Comencini, c’è  Lina Wertmüller.

“La storia del film è inventata, ma c’è moltissimo dei racconti della mia famiglia. Molte delle storie da cui ho tratto ispirazione sono di mia nonna. È anche il motivo per cui ho immaginato l’opera in bianco e nero. Quando ti tornano in mente le immagini del passato a Roma non sono mai a colori. I cortili romani in cui tutto veniva messo in piazza. Si viveva insieme, non c’era discrezione, però era bello. La Roma di “C’è ancora domani” è molto lontana dalla Roma di oggi. La vita sociale era diversa.” Già sceneggiatrice – ha cominciato collaborando col marito regista Riccardo Milani – ha scritto questo suo primo film con l’amico di lunga data Furio Andreotti che conobbe ai corsi di recitazione di Beatrice Bracco (corsi frequentati anche da Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria e Claudia Gerini fra tanti altri) e Giulia Calenda, figlia di Cristina Comencini per il ramo cinema e del gionalista-scrittore Fabio Calenda per il ramo scrittura.

E da qui in poi siamo a rischio spoiler – che in italiano dicevamo anticipazione o rivelazione. Nella storia immaginata dall’autrice coi suoi due sceneggiatori, sono in primo piano la violenza domestica e il patriarcato, con un’attenzione quasi maniacale ai dettagli per collocare il film nell’immediato dopoguerra: c’è la polizia militare americana a pattugliare le strade e ci sono i mutilati, che furono tanti e per i quali sorsero nelle nostre città fra la fine della Prima Guerra Mondiale fino a tutto il ventennio fascista le Case del Mutilato, enti a sostegno dei soggetti e delle loro famiglia, spazi oggi riconvertiti ad altro uso. C’è un amore di gioventù della protagonista che porta la nostra attenzione volutamente fuori strada, e c’è il militare americano nero che viene da chiedersi dove conduca quel personaggio, e presto lo scopriremo.

Ma soprattutto c’è una lettera che la protagonista riceve a suo nome, una lettera da tenere segreta e da nascondere, e che l’astuzia narrativa ci fa credere una lettera d’amore per la quale Delia prepara la fuga insieme alla vecchia fiamma. Ma a sorpresa la lettera si rivela essere la sua prima carta elettorale perché siamo alla vigilia del suffragio universale, il voto alle donne in Italia per il referendum del 2-3 giugno 1946 che sancì il passaggio dalla monarchia alla repubblica. E la fuga della nostra donna verso il suo primo voto diventa in parallelo la liberazione dal patriarcato e dalla violenza domestica – e anche se sappiamo che nella realtà ciò non è mai avvenuto e le donne continuano a morire per mano degli uomini che dicono di amarle, il film ci regala nel finale la sua bella dose di speranza che fa partire nella platea cinematografica timidi applausi.

Paola Cortellesi, altrimenti molto espressiva, sceglie per la sua Delia una maschera sospesa con le sopracciglia sempre un po’ alzate con l’espressione di una che sembra voler dire: ma che ci faccio qui? e di maschera in maschera anche Valerio Mastrandrea tratteggia il suo marito violento un po’ credendoci e un po’ no anche lui sempre in bilico sul baratro del troppo che storpia. Centratissima la giovane figlia adulta di Romana Maggiora Vergano che dopo un po’ di sana gavetta si è fatta notare nel televisivo “Christian” su Sky e qui tratteggia con grande partecipazione emotiva la figlia che vorrebbe ribellarsi al patriarcato ma che accecata dall’amore non vede il suo personale pericolo dietro l’angolo. Il vecchio patriarca allettato, ferocemente proattivo, è il sempre ottimo Giorgio Colangeli che qui fa scuola di romanesco sboccato ai due nipoti minorenni e incontenibili resi dai debuttanti Gianmarco Filippini e Mattia Baldo. Vinicio Marchioni è l’amore di gioventù, Emanuela Fanelli è la sincera amica del cuore, Gabriele Paolocà il fruttivendolo suo marito, il militare americano è il nero Yonv Joseph che si è fermato a Roma per studiare musica al Conservatorio di Santa Cecilia e alla Scuola di Musica Popolare di Testaccio e va da sé è diventato anche attore; il caratterista Lele Vannoli è il soccorrevole (anche troppo) vicino di casa e la professionista di lungo corso Paola Tiziana Cruciani presta la sua maschera sempre più intensa, col passare degli anni, alla merciaia; Francesco Centorame è il fidanzato della figlia che si rivelerà anch’egli frutto di lombi patriarcali: il padre lo interpreta Federico Tocci e la madre borghesuccia snob ma anch’ella vittima è Alessia Barela; le vicine di casa, in un contesto sociale in cui non esisteva il concetto di privacy, sono Priscilla Micol Marino, Maria Chiara Orti e Silvia Salvatori che è quella più avvelenata, che in romanesco sta per velenosa, e che solo per questo si distingue sulle altre.

Paola Cortellesi dedica questo suo primo film a Lauretta, la sua bambina di dieci anni, che quasi casualmente ha fatto la comparsa nel film lamentandosi di star perdendo un giorno di scuola perché del cinema, come ha detto sua madre, non gliene frega un granché. Staremo a vedere, se ci saremo ancora.

I mostri oggi

1962, Dino Risi dirige Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi nel film a episodi “I mostri”: è l’inizio del boom economico, è l’inizio della commedia all’italiana, è un film da salvare fra i 100 migliori. 1977, Risi torna a dirigere Gassman e Tognazzi in “I nuovi mostri” e alla regia si aggiungono Mario Monicelli e Ettore Scola, mentre nel cast entrano Alberto Sordi e Ornella Muti: siamo negli anni di piombo e i mostri si fanno anche più sanguinari, e il film concorre agli Oscar. 2009, nessuno dei registi e dei protagonisti originali è più fra noi – c’è solo la 68enne Ornella Muti che però non conta dato che era solo una bella presenza. I due film ogni tanto tornano in tv e si sono radicati nel nostro immaginario collettivo: nessuno più pensava a un altro seguito. Ma non si può stare mai tranquilli: il cinepanettonaro Enrico Oldoini aveva un’alta opinione di sé.

Enrico Oldoini con Terence Hill sul set di “Don Matteo”

Diplomatosi attore all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica fu poi soggettista e sceneggiatore collaborando con molti bei nomi: Marco Ferreri, Pasquale Festa Campanile, Alberto Lattuada, Nanni Loy, Lina Wertmüller… ma deve essersi sentito più in sintonia con Sergio e Bruno Corbucci di cui ha seguito le orme sfornando film di cassetta. Passato al piccolo schermo lì ha avuto il merito di ideare il personaggio e la serie di “Don Matteo”, uno dei pochi format non traslati da adattamenti esteri. Questo suo “I mostri oggi” è la sua ultima regia cinematografica. È morto 77enne nel 2022 per una sclerosi laterale amiotrofica che l’aveva colpito cinque anni prima.

Questo suo ultimo film è nelle intenzioni (anche) un sincero omaggio, e partendo da un suo soggetto coinvolge nella sceneggiatura i figli d’arte Silvia Scola e Giacomo Scarpelli; assicuratosi l’eredità dei nomi coinvolge nel pacchetto l’amico sceneggiatore di genere Franco Ferrini, e Marco Tiberi già sceneggiatore nella squadra di “Don Matteo”: non esattamente il meglio delle penne cinematografiche in circolazione. Alla produzione tornano Pio Angeletti e Adriano De Micheli con la loro Dean Film insieme a Maurizio Totti (nessuna parentela col pupone Francesco Totti) della Colorado Film fondata insieme a Gabriele Salvatores e Diego Abatantuono (che dunque ha avuto il privilegio della prima scelta sui ruoli) e alla Mari Film di Massimo Boldi che però si tiene fuori dal cast. Vedo adesso per la prima volta questo film di 14 anni fa perché sin dallo stile del manifesto puzzava già di cinepanettone: tutti insieme i bei volti della commedia all’italiana più o meno intelligente o più o meno scollacciata, niente a che vedere coi manifesti dei mostri originali di cui pretende di essere sia omaggio che seguito. D’altro canto ogni film coi propri mostri è specchio del suo tempo: negli anni ’60 gli italiani scoprivano di non essere brave persone e nei ’70 ebbero la conferma di essere pessimi; cosa resta da scoprire agli italiani del nuovo millennio?

Ferro 6

C’è di nuovo che il film si apre con una carrellata su alcuni dei personaggi che vedremo e gli episodi si raccordano l’un l’altro senza più la distinzione netta dei cartelli coi titoli: narrazione più fluida e moderna. Nel primo episodio facciamo la conoscenza di alcuni personaggi del jet-set capitolino in un golf-club fra cui spiccano il Diego di Diego Abantantuono che fa il piacione con la bella di turno, la spagnola Pilar Abella, praticamente rifacendo sé stesso; e c’è il sofisticato Gino di Giorgio Panariello che davvero si sforza, sostenuto anche dal trucco, di creare uno di quei mostri che sappiamo: meno originale perché in pratica li abbiamo già visti tutti e meno originale perché le stesse maschere del pur volenteroso Panariello le abbiamo già viste tutte in tv. Sul green una sciroccata Angela Finocchiaro, che rifà anche lei una delle sue solite maschere da “La TV delle ragazze” di Rai 3 1988-89; non accreditato il suo istruttore dal volto rotondo incorniciato da folta chioma che nasconde Marco D’Amore, futura star del televisivo “Gomorra”, Sky 2014-2021. I mostri sono ancora i ricchi che parlano con la erre moscia: tutto qui?

Unico grande amore

La forzatura è che i due che si incontrano per caso si chiamano Romeo e Giulietta, ma vabbè: genialità e originalità non abitano questo film. Lei è disabile, lui la corteggia, la mette su una giostra e le ruba la carrozzella per accedere gratis allo stadio nel settore riservato ai disabili, per poi saltare in piedi al gol d’a Roma. Il mostro suburbano c’è, nipote di quello che interpretò Gassman in “Che vitaccia!” nel 1962. Aderenti i due protagonisti, Mauro Meconi e Susy Laude, che sono interpreti generici senza maschera grottesca perché ormai la mostruosità è interiorizzata e metabolizzata. Sarebbe stato più divertente e meno ordinario se nei due ruoli ci fossero stati due nomi di prima grandezza a misurarsi con l’ordinarietà.

Il malconcio

La premessa è arguta: partendo dall’episodio “Pronto soccorso” del 1977 con Sordi unico monologante, indaga sul pirata della strada – figura peraltro accennata da Gassman in “La strada è di tutti” nel 1962 – mostrandoci il ritrattino grottesco di un mostro che al volante sniffa cocaina e fa scommesse al telefono, nell’esecuzione di Diego Abatantuono che non è Gassman né Tognazzi né Sordi. L’altra buona trovata è l’aver dato un carattere e una maschera alla vittima del pirata, che con Sordi era un attore generico perché Sordi non dava spazio a nessuno, e qui c’è invece Giorgio Panariello che fa tutte le facce possibili per prendersi il suo spazio. Terza buona trovata è che non avendo più un Alberto Sordi la figura del soccorritore si sdoppia in una coppia con problemi di coppia, Claudio Bisio e Sabrina Ferilli, e qui casca l’asino perché la sceneggiatura si fa più che banale, servita da una recitazione più che ordinaria. L’ultima buona trovata è il malconcio che si va a cercare da sé un pronto soccorso, sfuggendo alla litigiosa coppia che fa pace pomiciando sul cofano dell’auto, con l’improvvido Bisio che davvero fa guizzare la lingua sulle labbra della collega – scherzo da guitto che avrebbe dovuto essere cestinato al montaggio, ma non in un film e in una compagine che esalta – non il sopra – ma il fuori le righe. Soggetto con buone trovate però mal sviluppate in scrittura.

Il vecchio e il cane

Veloce e riuscito episodio sui mostri contemporanei che si apre con un tizio che abbandona il cane per strada. Si ferma un’altra auto con famigliola in partenza per le vacanze estive: genitori con due ragazzi più nonno e cane. Si discute sull’abbandono degli animali e sul costo della vita, poi il capofamiglia invita il vecchio padre a far scendere il cane per i bisogni – e sgomma via abbandonandoli entrambi. Giorgio Panariello al naturale con la sua parlata toscana, così come l’anziano Sergio Forconi che interpreta suo padre; la milanese Angela Finocchiaro si adegua e parla anche lei toscano. Finora l’unico episodio pienamente riuscito.

Padri e figli

Abatantuono e Panariello duettano nella riscrittura di “Come un padre” del 1962 con Ugo Tognazzi e Lando Buzzanca, e l’aggiornamento sta nel fatto che il questuante non è un ansioso uomo tradito ma un meditabondo padre che ha scoperto l’omosessualità del figlio, di cui il professore è l’insegnante; avendo rassicurato il padre, l’anziano docente torna a letto dove ad attenderlo c’è il ragazzo, e il rimando all’altro episodio c’è tutto. La trasposizione con le tematiche del nuovo millennio funziona, quello che non funziona è sempre la sciatteria della sceneggiatura che non sa rinunciare a battute banali, però con Panariello sempre un passo avanti rispetto al bolso Abatantuono. Ma non finisce qui e l’episodio continua con uno sviluppo tutto originale: con l’invito a pranzo che nel ’62 chiudeva l’episodio mentre qui apre un nuovo arguto scenario in cui il padre spinge al confronto con rottura fra il figlio e il professore. Panariello con la sua toscanità pervade l’intero episodio che come nel precedente prevede una moglie conterranea, qui l’imitatrice umbra Emanuela Aureli, mentre il figlio è il debuttante Rocco Giusti con quest’unico film nel curriculum visto che essendo già star di “CentoVetrine” resta a fare la star nelle soap tv. Secondo episodio promosso.

La testa a posto

Dalla toscanità alla napoletanità. Anna Foglietta ha lasciato il lavoro per amore del fidanzato musulmano Alì, interpretato dal tunisino Mohamed Zouaoui, qui al suo secondo film in un carriera che lo porterà a vincere il Globo d’Oro nel 2011 (Golden Globe italiano dalla stampa estera) al miglior attore rivelazione per “I fiori di Kirkuk” dell’iraniano Fariborz Kamkari. Senza più gli introiti del suo lavoro la ragazza non potrà più aiutare la famiglia in ristrettezze economiche, col capofamiglia Carlo Buccirosso che qui non fa rimpiangere i mostri d’antan, la cabarettista Rosalia Porcaro come madre e l’ottantunenne Enzo Cannavale come nonno, qui al suo ultimo film. Ma l’aver lasciato il lavoro non basta e il fidanzato musulmano rompe con la ragazza, che dunque può riprendere il suo lavoro di prostituta per aiutare la famiglia, col padre che esulta perché la figlia ha rimesso la testa a posto. Paola Lavini come amica e collega della protagonista. Un altro episodio completamente riuscito se non fosse per le solite sciatterie nella scrittura più da serie tv che da cinema di serie A.

La fine del mondo

La fine del mondo è il buco nell’ozono che porta un caldo innaturale (e in questi giorni tutti ne abbiamo esperienza) ma sulla spiaggia sono tutti inconsapevoli e contenti – non abbastanza mostri dentro, però: sono caratteri banali. Veloce episodio corale dove ci sono tutti quelli visti fin qui: Anna Foglietta, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Giorgio Panariello, Susy Laude e Mauro Meconi di nuovo in coppia, Diego Abantatuono che si auto-cita rifacendo il suo terrunciello, maschera con la quale fece ben 17 film in 3 anni, Angela Finocchiaro e Claudio Bisio. Nella foto di gruppo manca l’intervistatore tv, attore non accreditato che risponde al nome di Antonio Friello.

Povero Ghigo

Entra in scena la scuola milanese. Abatantuono duetta con Bisio, poi si aggiunge Ugo Conti. Ex attori cabaret i due vanno al funerale del compagno di scena Ghigo, ma il primo che nel frattempo è divenuto un divo di fiction tv dirotta il secondo verso un altro funerale dove fa l’ospite a pagamento. All’inizio dell’episodio altri due comici milanesi, Enzo Polidoro e Stefano Vogogna, come funzionari televisivi. Luciano Manzalini, in solitaria dal duo Gemelli Ruggeri, è il prete officiante. Altro degno episodio di mostri da nuovo millennio.

Razza superiore

Episodio che graffia più in profondità mettendo in scena gli argomenti sensibili del razzismo e del classismo. La vecchia nobildonna nostalgica del regime fascista e amica di gioventù di Edda Mussolini, la primogenita del Duce, costretta in carrozzella si fa accompagnare dal badante immigrato il quale, non appena la vecchia si addormenta, la traveste da mendicante e la lascia all’ingresso di una chiesa dove i parrocchiani in uscita le lasceranno molti oboli. Una trentina di euro che il badante si dividerà col maggiordomo perché la nobildonna sono anni che non paga gli stipendi. Protagonista la vera nobildonna Valeria De Franciscis che dopo una figurazione nel 2000 in “Estate romana” di Matteo Garrone debutta 93enne da protagonista in “Pranzo di Ferragosto” dell’altrettanto debuttante alla regia Gianni Di Gregorio; riprenderà il suo ruolo di vecchia madre nel 2011 in “Gianni e le donne” sempre di Di Gregorio per andarsene 99enne nel 2014. Il badante Tushar, attore non professionista ma efficace, si esibisce col suo vero nome.

Euro più, euro meno

La coppia di camerieri di un grande albergo romano, lui in sala lei alle camere, a fine giornata torna a casa sognando un futuro radioso nel presente ad ostacoli fra buffi e cravattari. A far coppia con la Ferilli la new entry nel cast del film Neri Marcorè. Dopo una velocissima carrellata dei soliti ricchi al buffet in albergo (già visti nel golf club del primo episodio) e un gratuito riferimento a Lilli Gruber“a roscia che sta de sguincio” – resta da chiedersi: dove sono i mostri? questi sono solo du’ poveri disgraziati, per dirla col loro gergo romanesco, che lecitamente sognano un futuro migliore, euro più euro meno. Episodio assolutamente inconcludente.

Fanciulle in fiore

Le tre fanciulle ironicamente in fiore sono tre borgatare romane calate in centro a far danno, sono dunque i mostri di questo brutto episodio scritto malissimo. Le tre fanciulle vogliono fare shopping ma non ci hanno gli euri, sempre al plurale in tutto il film quando sarebbe bastato una sola volta scegliendo di caratterizzare con questo idiotismo uno solo dei tanti personaggi. Le tre prendono di mira un Panariello ancora una volta formato famiglia, per circuirlo, scattargli delle foto e ricattarlo perché minorenni. I mostri ci sono e sono attuali ma sono scritti male perché svelando le intenzioni delle tre sin dall’inizio non lasciano nulla allo spettatore, né sorpresa né suspense, e il racconto si svolge tutto sulle smorfie dell’attore agganciato nella sala cinematografica dove ha portato la famiglia; a peggiorare l’intera struttura ci sono le risate del pubblico aggiunte in post-produzione, che dovrebbero essere rivolte al film sullo schermo ma sono sfacciatamente sincronizzate con le smorfie del disgraziato proprio come se l’episodio cinematografico non fosse altro che uno sketch tv, che sembra essere l’unico riferimento di regista e autori. Buggerato e derubato Panariello torna a sedere in sala e piangendo davanti al film comico dice alla moglie: “Piango dal ridere!”: battutona profonda che fa traboccare il vaso del brutto. Le tre adolescenti sono come da foto da sinistra a destra: Veronica Corsi, Cristel Checca e Chiara Gensini che è quella che si dà da fare in sala; la barese Elena Cantarone nel ruolo della moglie.

Terapia d’urto e L’insano gesto

A seguire due episodi che si intrecciano. Abatantuono come alto prelato in limousine con autista si dimostra banalmente poco caritatevole con un ragazzo africano che vorrebbe lavare il parabrezza. Poi passiamo nello studio dell’analista Finocchiaro in seduta con l’assistito Bisio, e si vede che i due amici milanesi si divertono a duettare – senza però divertire noi spettatori: la terapia d’urto consisterebbe in un grottesco e mal riuscito capovolgimento della deontologica professionale, che non è arriva ad essere un paradosso da mostro del terzo millennio ma ancora una volta solo trita comicità televisiva; sia come sia l’analista induce il paziente depresso al suicidio confermando il “buon” esito della seduta alla di lui moglie: c’è molto materiale per mettere in scena dei veri mostri ma gli sceneggiatori sono troppo presi dai loro moduli televisivi e dall’incapacità di graffiare. Si passa dunque all’insano gesto: il povero Bisio guarda il Tevere da un ponte mentre il prelato nega l’elemosina a un altro questuante, un attimo prima di accorgersi che un ragazzo sta per buttarsi nel fiume e lo “salva”, solo che il ragazzo voleva buttarsi in soccorso all’altro che si era già buttato: un pasticcio senza capo né coda, e senza morale. Nel ruolo del giovane impossibilitato salvatore Rodolfo Castagna non accreditato.

La seconda casa

Con Buccirosso si va a Napoli. Fornito di parrucchino col ciuffo che non sa trattenersi dallo scostare graziosamente dalla fronte, manca solo il mignolo alzato, fa costruire la seconda casa, ovvero un bunker segreto, sotto la villa che abita. Indi accompagna in una visita guidata lo zio latitante e i suoi due complici che abiteranno il bunker, rivelando di avere ucciso e interrato il progettista e gli operai che vi hanno lavorato, perché restasse davvero segreto. Il mostro c’è, ma l’episodio è facile e scontato: nessuno si aspetta che un camorrista non lo sia. I veri mostri sono quelli che sorprendono. Nel ruolo della moglie l’attrice teatrale Antonella Morea, nipote di Renato Carosone.

Cuore di mamma

Episodio da protagonista assoluta per la Ferilli in un episodio che è figlio di “Sequestro di persona” del 1977: lì a Vittorio Gassman avevano rapito la moglie, qui Sabrina si è persa la figlia in un supermercato; a entrambi viene data l’opportunità di una diretta televisiva per fare un appello, che si trasforma in manipolazione del mezzo pubblico. Come già detto altrove l’idea non è male ma è realizzata malissimo. La bella mamma è in cerca di attenzioni, e non c’è niente di male, mette gli occhi su un giovanotto che però è accompagnato dal suo fidanzato e lì, mentre la donna cambia espressione e parte la musica smaccatamente retorica e triste, in questo tripudio di banalità anche il fidanzato gay è eccessivamente effeminato come se non fosse bastato il bacio fra i due uomini a rendere il contesto. Di fatto la donna ha perso di vista la bambina. Anche nel cambio di prospettiva della protagonista non c’è progressione drammatica perché sceneggiatori e regista non sanno cosa sia la drammaturgia, e la donna passa da disperata a imbonitrice televisiva in un paio di fotogrammi. Di questa scrittura carentissima ne fa le spese Sabrina Ferilli che altrove e diretta da altri registi è anche brava. Massimo Giletti rifà sé stesso come intervistatore Rai.

Accogliamoli

E per finire in bellezza, si fa per dire, un episodio dedicato agli immigrati. Nel peggio del peggio di una Napoli-Milano, Buccirosso e Abatantuono duettano con battutacce da barzellette trite e ritrite che neanche da cabaret, ormai, forse solo da villaggi vacanza. I due sono due mostri reali, quelli che sfruttano gli immigrati affittando abitazioni super affollate a prezzi esorbitanti, ne sono piene le cronache. Solo che la materia è trattata con grandissima superficialità e quello che avrebbe potuto essere grottesco si fa grossolanamente surreale, alla continua ricerca di effetti per i due protagonisti. Diego Abantuono continua a rifare il suo terrunciello mentre Carlo Buccirosso non può far altro che indossare la parrucca di Pappagone, la maschera televisiva creata da Peppino De Filippo nell’ormai lontanissimo 1966, personaggio di grandissimo successo che dall’anno successivo divenne anche fumetto. In conclusione “I mostri oggi” sono solo quelli che hanno realizzato il film.

Tornando ai mostri di oggi, ovvero di 14 anni fa, il film è nel complesso un clamoroso pasticcio. Non manca qualche episodio riuscito ma, come si dice, una rondine non fa primavera. Alla sua uscita fu massacrato dalla critica quasi all’unanimità ma ebbe successo al botteghino presso il cosiddetto pubblico di bocca buona. La debolezza del film è proprio strutturale: dovrebbe toccare argomenti per i quali ci si indigna e si tiene lontano da temi sensibili come la politica, la religione, il giornalismo e la televisione che anzi omaggia: i mostri sono cinematograficamente altrove anche se non direttamente citati: “Ferie d’agosto” e il più recente e meno riuscito “Siccità” di Paolo Virzì, ma anche l’Oscar “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino che ha saputo indagare su altri mostri moderni, così come pure Matteo Garrone la cui filmografia sembra interamente dedicata ai mostri troppo umani.

Col dovuto senso critico è un film in ogni caso da vedere per metterlo a confronto coi film del 1962 e 1977 coi quali ha cercato un confronto: se invece di intitolarsi ai mostri si fosse intitolato altrimenti oggi non sarei qui a parlarne. I titoli degli episodi li apprendiamo solo in coda, quando ormai stiamo lasciando la sala, se al cinema, o cambiando canale se in tv. I numeri: Diego Abantantuono, che onestamente è il peggio, la fa da padrone apparendo in 8 episodi che potrebbero essere 7 se si considera che come prelato compare in due; segue Giorgio Panariello che con le sue maschere alternatamente riuscite compare in 6; a quota 4 si piazzano a pari merito Carlo Buccirosso che è il più incisivo del terzetto, Claudio Bisio e Angela Finocchiaro che arrancano; 3 episodi per Sabrina Ferilli protagonista solo in uno è sempre troppo simpatica sopra le righe; due per Anna Foglietta e la coppia filmica Mauro Meconi e Susy Laude; un solo episodio per Neri Marcorè arrivato alla ribalta come imitatore concorrente di “La corrida” condotta da Corrado su Canale 5, vincendo nel 1988; in seguito partecipa anche a “Stasera mi butto”, Rai 2, arrivando in finale e da lì in poi la carriera televisiva è tutta in ascesa, studiando da professionista per prepararsi al doppiaggio, al cinema e al teatro; benché da più di un decennio anche protagonista al cinema, per quando in film secondari, qui con un solo episodio non merita neanche il nome in locandina. Su tutto il resto stendiamo veli pietosi.

L’immensità

Erano anni che aspettavo un film di Emanuele Crialese che già mi aveva rapito e incantato col suo debutto cinematografico “Respiro” dell’ormai lontano 2002 e di cui avevo visto i suoi altri due film: “Nuovomondo” del 2006 e poi “Terraferma” del 2011, e poi più nulla, nonostante con soli tre film si fosse imposto sulle platee internazionali, ricevuto premi e riconoscimenti, e fatto amare dal non facile e ondivago pubblico italiano. Con “Respiro” aveva in particolar modo conquistato la Francia dove a Cannes aveva vinto il Grand Prix e lo speciale Prix de la Jeune Critique, e poi il Nastro d’Argento alla protagonista Valeria Golino, il David di Donatello al produttore Domenico Procacci e altro ancora. Con “Nuovomondo” ha vinto a Venezia il Leone d’Argento – Rivelazione inventato per lui da quella giuria presieduta da Catherine Deneuve e mai più riproposto in seguito; a seguire non si contano altri premi fino alla candidatura a rappresentare l’Italia agli Oscar. Con “Terraferma” si riconferma a Venezia con il Leone d’Argento ufficiale con standing ovation. Nel 2014 l’autore è stato insignito del Premio Nazionale Cultura della Pace “per aver mostrato attraverso le sue opere, i suoi film e i suoi racconti un’umanità in viaggio alla ricerca di un luogo di vita dignitoso dove poter esprimere il proprio desiderio di appartenenza al consesso umano ed il proprio progetto vitale. Mostra un’umanità attenta ad affermare con forza il proprio essere nel mondo, a manifestare con semplicità e chiarezza la cittadinanza mondiale di ogni uomo, al di là di confini e frontiere artificiosamente costruiti. La dignità non ha carta d’identità o passaporto che possa negare il diritto di ognuno all’esistenza.” E da allora il silenzio.

La sua cinematografia in vent’anni conta solo quattro film più uno, e con quest’ultimo “L’immensità” ne possiamo parlare come di un corpo unico che, benché proiettato su diverse realtà, ha nella sua intima natura la sicilianità. Il più uno cui mi riferisco è in realtà l’opera prima di Crialese, il vero debutto con un lungometraggio del 1997, un film girato in America dove il ragazzo, dopo aver frequentato la Libera Università del Cinema di Roma, città dove era nato da genitori siciliani, va a laurearsi anche presso la New York University, prestigiosissimo istituto privato per ricchi rampolli. Grazie ai soldi di un’eredità e col supporto economico di alcuni amici entrati nella produzione, realizza quel suo primo film, distribuito anche in Italia ma che pochi possono dire di aver visto, e io non sono fra quelli, film oggi disponibile on demand; un film che per il già 32enne Crialese è ovviamente di formazione, sia artistica che umana, che racconta il suo personale punto di vista, punto di vista già frequentatissimo e affollatissimo, sugli immigrati che nella Grande Mela cercano affermazione e identità, o l’affermazione della propria identità. E’ anche l’inizio della sua amicizia e collaborazione artistica con l’altro siculo-newyorkese Vincenzo Amato che diverrà il suo attore feticcio innestato in tutti i suoi film, con l’eccezione di “Terraferma” dove gli obblighi produttivi gli hanno imposto la star televisiva Beppe Fiorello.

Quella sua opera prima americana pare che sia il compito bene eseguito di un regista in cerca di identità, ma che percorre la via del sentimentalismo giovanilistico con moti eversivi che però non graffiano, restando sul già visto, ponendo in campo però quei caratteri che benissimo metterà a fuoco successivamente: i personaggi che non vogliono lasciarsi ingabbiare nelle convenzioni sociali e che preferiscono bruciare nelle loro passioni, a cominciare dalla protagonista di “Respiro”, moglie e madre che mette a soqquadro l’intera isola di Lampedusa per dare forma a un malessere che non ha nome né ragione: che a chiamarla depressione è quanto mai riduttivo, trattandosi della ribellione creativa di una donna che non si riconosce nell’unica realtà in cui lei esiste, un mondo che gli uomini hanno immaginato al maschile, a loro immagine e somiglianza, e tutto quello che devia da quell’ordine costituito diventa incomprensibile. Per un ulteriore sguardo su questo tema rimando al mio articolo sul linguaggio inclusivo.

Benché romano di nascita Emanuele Crialese resta intimamente innestato sulle sue radici siciliane. Dopo Lampedusa, dove l’autore aveva vissuto per alcuni mesi di certo con l’intento di trovarvi ispirazione, si sposta cinematograficamente nella Sicilia interna, montuosa, quella rurale d’inizio secolo 1900, a Petralia Sottana in provincia di Palermo, uno dei tanti piccoli comuni da cui i contadini fuggirono in cerca di fortuna nel “Nuovomondo”; figura cardine è il personaggio di Vincenzo Amato ma per la coproduzione con la Francia entra nella storia Charlotte Gainsbourg come gentildonna inglese che fugge in America, raccontata da Crialese come simbolo dell’emancipazione femminile. L’emigrazione dei siciliani oltre oceano viene messa a confronto con l’immigrazione degli africani verso il nostro vecchio mondo in “Terraferma” che ispirandosi a “I Malavoglia” di Giovanni Verga racconta di una famiglia di pescatori siciliani di Linosa (mai nominata nel film), isola prossima alla più nota e drammaticamente frequentata Lampedusa e che insieme costituiscono un comune in provincia di Agrigento.

Dopo undici anni ecco il nuovo film che, non specificamente dichiarato, è un’autobiografia attraverso la quale Crialese parla della sua transizione di genere. A Venezia, dove il film era candidato al Leone d’Oro e al Queer Lion, detto volgarmente leone gay, una sezione creata nel 2007 che assegna il premio al “Miglior film con tematiche omosessuali & Queer Culture”; l’oro è andato al documentario americano “All the Beauty and the Bloodshed” di Laura Poitras e il queer al tedesco “Aus meiner Haut” di Alex Schaad. Della transizione di genere di Crialese si mormorava già dai suoi esordi ma è sempre rimasto opportunamente e giustamente un fatto privato sul quale, solo in occasione del film, in un’intervista l’autore ha specificato che non essendo un personaggio pubblico o una rock star non aveva senso parlare della sua vita privata. Chiuso argomento.

Quello che c’è da dire è tutto nel film, delicato emozionante e imperfetto. Gli nuoce, a mio avviso, la solita necessità produttiva di avere nel cast un nome di garanzia, in questo caso la sempre eccellente Penelope Cruz nel ruolo della madre, ruolo per il quale l’attrice ringrazia, e che costringe l’autore su equilibrismi narrativi che, benché assai ben risolti, tolgono però forza alla sua ispirazione primaria, in questo caso i tormenti di una dodicenne che già sa di essere un ragazzo nato per sbaglio in un corpo femminile e che si sottopone a innocenti rituali empirici, come tentare di mettersi in contatto con gli alieni dai quali crede di provenire o cercare un miracolo divino, per tentare di risolvere il suo dilemma esistenziale. Sono gli anni ’70 e la famiglia siciliana alto borghese che si trasferisce nella periferia romana è quella tipica di quegli anni, che ruota attorno a uno di quei capi famiglia più autoritari che autorevoli che verranno messi in discussione dalle nascenti rivoluzioni sociali di cui però nel film non c’è colpevole sentore né lontana eco. Sarà che la vita della famiglia si svolge tutta all’interno delle due anime in cerca della loro identità, madre e figli*, che trovano una più facile via di fuga nei lustrini in bianco e nero e nelle note accattivanti e melodiche dei programmi tivù del sabato sera. La sicilianità, poi, s’innesta giocoforza dello spagnolo che la Cruz porta con sé, aggiungendo al film sfumature non immediatamente necessarie.

Quello che avrebbe potuto essere a tutto tondo l’emozionante racconto di un ragazzo alla scoperta della sua identità e della sua sessualità, ancorché intrappolato in un corpo che non riconosce come suo, diventa il contraltare di un racconto parallelo che già avevamo visto e amato in “Respiro”, quello di una donna che esprime con una fantasia eversiva il suo male di esistere in un ruolo socio-familiare che non riconosce come suo. I due ruoli si sostengono e compenetrano a vicenda senza però riuscire a farsi complementari in un racconto uniforme; questo nonostante l’invenzione, fantasticheria del giovane protagonista, che fa di sua madre una stella pop di quel piccolo schermo in bianco e nero, prima Raffaella Carrà e poi Patty Pravo, e il film diventa a tratti anche musical, moltiplicando ispirazioni e stili, giungendo a un finale dove il lieto fine è più onirico che reale e il protagonista si esibisce finalmente in smoking cantando con la voce di Johnny Dorelli davanti alla platea di Canzonissima. Si sente che via via che è stato scritto e riscritto e adattato alle varie esigenze produttive, il film ha perso la freschezza e l’urgenza del racconto primario che ormai affiora a tratti, convincente nell’esecuzione ma meno convinto in fase di scrittura, con passaggi di un’autobiografia romanzata che rimangono oscuri perché se ne sono persi i riferimenti: l’incendio del salotto di cui la madre viene incolpata, e per il quale viene mandata a rieducarsi in una casa di cura, come e perché è realmente accaduto? e poi, l’avventuroso perdersi del gruppo dei ragazzini nei meandri del vecchio bunker militare sotterraneo, com’è che si conclude senza una vera morale della favola? Sono passaggi che nel minutaggio del copione devono aver ceduto il passo ad altre urgenze e non mi stupirei se fra qualche anno il film venisse sviluppato in una miniserie televisiva come è già accaduto per “A casa tutti bene” di Gabriele Muccino.

L’anno scorso ha trionfato a Venezia un’altra biografia d’autore, “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino che si è portato a casa il Leone d’Argento e ha veicolato il Premio Marcello Mastroianni al miglior esordiente Filippo Scotti. Ritengo che se Crialese fosse stato più libero nella composizione del suo film avrebbe potuto ottenere gli stessi risultati ed è un peccato che l’esordiente Luana Giuliani non abbia avuto nessun riconoscimento. E va dato merito all’autore che ha sempre saputo scegliere con grandissima cura i giovani interpreti sempre presenti nei suoi film. Per questo delicatissimo ruolo ha indirizzato la sua ricerca verso ragazze che praticassero sport maschili, che in qualche modo avessero accantonato i vezzi tipici di quell’età per affrontare rudi prove fisiche, e la prescelta è stata questa piccola campionessa di minimoto, che già ben quattro anni fa, per un terzo della sua vita, ha incontrato Crialese e cominciato l’addestramento alla recitazione e al cinema, dovendo abbandonare lo sport per non mettere a rischio l’integrità fisica; e, racconta Luana, essendo in un’età di precoce crescita e cambiamento, le riprese sono state concentrate il più possibile in un breve periodo.

Francesco Casisa con Valeria Golino e Vincenzo Amato in “Respiro”

Anche gli altri bambini del film sono degli esordienti e fra tutti spicca il fratello minore, interpretato da un più che convincente Patrizio Francioni nel ruolo del figlio di mezzo, quello che più interiorizza e meno esprime, salvo poi liberare le sue frustrazioni in modo scatologico; un bambino che molto ricorda, per intensità espressiva, un altro bambino che vent’anni fa debuttava in “Respiro” e che oggi Wikipedia classifica come attore e criminale italiano: Francesco Casisa, palermitano del quartiene Zen, è coprotagonista accanto a Golino e Amato, e poi di nuovo con Crialese come figlio maggiore dell’emigrante in “Nuovomondo”; nonostante si fosse ben avviato alla carriera di attore anche con partecipazioni in tv, fra il primo e il secondo film ha messo a segno una denuncia per rapina, e poi è finito in ospedale per un grave incidente col motorino dopo aver fatto il parcheggiatore abusivo fuori da una discoteca: in coma per tre giorni ha perso tutti gli incisivi e i canini e Valeria Golino con Maria Grazia Cucinotta gli hanno pagato la ricostruzione dentistica; negli anni a seguire viene arrestato per il possesso di mezzo chilo di hashish e alcuni grammi di cocaina e poi di nuovo condannato sempre per traffico di stupefacenti si rende latitante andando a vivere a Parigi; successivamente gli viene revocata la condanna di custodia cautelare e può rientrare in Italia ma non in Sicilia; in quest’ultimo film interpreta il piccolo ruolo di un molestatore. Nel resto del cast la bambina Maria Chiara Goretti come sorellina minore ma già saggia, Penelope Nieto Conti come primo amore dell’adolescente, la mai abbastanza utilizzata dal cinema Alvia Reale come algida nonna paterna alto borghese, il coach di recitazione di Luana Carlo Gallo interpreta il ruolo dello zio, Elena Arvigo, Laura Nardi e Valentina Cenni come zie e cognate pronte a puntare l’indice.

Vincenzo Amato, che da Crialese era stato lanciato nel cinema italiano, pur con diverse partecipazioni anche sui set internazionali non è mai riuscito a sfondare davvero, segno che la sua espressività cinematografica è tutta nel segno dell’amico di gioventù. Palermitano di nascita, 18enne si trasferisce a Roma con la madre, la cantante folk Muzzi Loffredo che fu attrice per Francesco Rosi e Lina Wertmüller; Vincenzo, dieci anni dopo da Roma si trasferisce a New York dove fra le altre cose lavorerà il ferro battuto creando delle sculture, lavoro e residenza presso i quali ritorna quando non è sui set: “Da quando vivo all’estero sono diventato ancora più siciliano e più italiano. Ho avuto la stessa sensazione che hanno gli astronauti quando vedono la Terra dallo spazio: quando poi torni indietro riesci a vedere le cose in modo oggettivo. L’Italia mi manca molto, stando lontano e non avendo a che fare ogni giorno coi suoi aspetti negativi mi ricordo solo le cose belle.”

Del film resta da dire che il coinvolgimento autobiografico dell’autore resta una nota per gli addetti ai lavori e per gli spettatori professionisti; tutti gli altri, le coppie di anziani coniugi o le anziane amiche in pausa dal torneo di burraco – ché l’età media e l’estrazione sociale della platea di cui ho fatto parte erano proprio quelle – stanno vedendo un film ambientato negli anni Settanta, epoca che ben riconoscono e nella quale facilmente si introiettano, senza però capire il senso dell’operazione retrò: l’autore ha detto tante cose sul red carpet e nelle varie interviste ma nel film aleggia un’aria di reticenza, di pudicizia certo, che non spiega bene che cosa stia raccontando, e perché. Si apprezza sulla fiducia. A questo punto la cosa da fare sarebbe andare a rivedere tutta la breve filmografia di Emanuele Crialese. E poi, a tempo perso, possiamo andarci a vedere l’omonimo “L’immensità” del 1967 con Don Backy e Caterina Caselli.

Oscar 2022, la sintesi della serata

A inizio serata Daniel Kaluuya, premio Oscar 2021 non protagonista per “Judas and the Black Messiah” di Shaka King, insieme a H.E.R. premio Oscar per la miglior canzone originale per lo stesso film, annunciano il premio alla migliore attrice non protagonista 2022 ma soprattutto, insieme, vestono i colori della bandiera ucraina.

Ariana De Bose riceve l’Oscar come migliore attrice non protagonista per il ruolo di Anita in “West Side Story” remake di Steven Spielberg del musical del 1961 diretto da Robert Wise e Jerome Robbins, dove a ricevere l’Oscar per lo stesso ruolo fu Rita Moreno, che in questo remake è fra i produttori e si ritaglia il piccolo ruolo di Valentina che volge al femminile il personaggio di Doc del musical originale.

Rita Moreno, 91 anni

A seguire “Dune” di Denis Villeneuve si aggiudica tre premi tecnici per l’impianto sonoro, la fotografia e gli effetti speciali.

Viene poi omaggiata la saga di 007 che compie 60 anni, essendo cominciata nel 1962 con “Agente 007 licenza di uccidere”, starring Sean Connery, e conclusa con la morte della spia più longeva iconica e redditizia dell’industria cinematografica nell’ultima interpretazione di Daniel Craig “No Time to Die”. In mezzo possiamo recuperare altre chicche come la parodia del 1967 “Casino Royale” che è anche il titolo del primo film con Daniel Craig, reboot della serie nel 2006. Ma c’è anche uno 007 apocrifo del 1983, o fuori serie, che per complesse azioni legali viene realizzato da una differente produzione, e per l’occasione viene riscritturato un già anziano Sean Connery da mandare in duello al botteghino con lo 007 ufficiale che all’epoca era Roger Moore, del quale abbiamo il primo 007 “Vivi e lascia morire” del 1973. E c’è la parentesi George Lazenby “Agente 007 al Servizio Segreto di sua Maestà” del 1969.

Viene poi premiato il miglior film di animazione, “Encanto”.

Mentre il miglior corto di animazione è “The Windshield Wiper”, sei anni di lavorazione, che è integralmente disponibile su Youtube, in lingua originale, con limitazioni per scene di sesso. La sinossi: all’interno di un bar, mentre fuma un intero pacchetto di sigarette, un uomo di mezza età fa a sé stesso e a noi pubblico una domanda ambiziosa: “Cos’è l’Amore?”. Troverà la risposta in una raccolta di scenette e situazioni animate ma talmente iperrealistiche da sembrare ridisegnate su un film dal vero; in realtà, come racconta l’autore Alberto Mielgo, lui parte da sopralluoghi reali in cui scatta delle fotografie che userà per dipingere i suoi scenari in 2D mentre i personaggi in movimento sono in 3D. Oltre ai dialoghi sceneggiati e riprodotti, sullo schermo compaiono molte scritte che riproducono voci fuori campo, maschili e femminili, che rispondono fuori copione a domande sull’amore. Poi spiega il titolo che in italiano è tergicristallo: “Il titolo è molto importante e molto significativo. Ogni volta che proviamo a definire l’amore, per lo più falliamo, perché è quasi indefinibile. Questo perché la definizione di amore si basa sulle relazioni e ogni relazione è diversa. Uso la metafora di un tergicristallo perché ogni goccia d’acqua crea un motivo su un parabrezza, quindi il tergicristallo pulisce le gocce e poi la pioggia crea uno schema completamente diverso. Non è mai lo stesso. Ogni modello di gocce è una relazione diversa. E questo si riflette anche nel ritmo del film, che è lo stesso di un tergicristallo. Mostra e pulisce e mostra e pulisce. Rivela un modello, ma il modello non viene mai spiegato. È un po’ come un codice che solo le coppie conoscono, ma in realtà nemmeno le coppie ne capiscono il modello.”

La sudcorena Youn Yuh-jung migliore attrice non protagonista lo scorso anno per “Minari” proclama il migliore non protagonista 2022 il non udente Troy Kotsur per il film “I segni del cuore” che è il remake del francese “La Famiglia Bélier” del 2014 diretto da Éric Lartigau, che aveva una marcia in più perché gli interpreti dei ruoli dei genitori sordomuti della protagonista sono due attori normodotati talmente bravi da sembrare realmente sordomuti. Va ricordato che Troy Kotsur è il secondo attore sordomuto premiato con l’Oscar dopo Marlee Matlin che lo vinse nel 1987 per “Figli di un Dio Minore” di Randa Haines e che qui è la madre della protagonista normodotata che vuole fare la cantante. Dispiace che l’attore ringrazi la regista e sceneggiatrice Sian Heder per aver messo insieme, col suo film, il mondo dei non udenti con quello degli udenti, dimenticando clamorosamente che la sceneggiatura originale è francese.

Segue l’Oscar al miglior film internazionale che vedeva schierato il nostro “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino già Oscar nel 2014 con “La grande bellezza” e che è andato al giapponese “Drive my car” di Ryūsuke Hamaguchi che aveva vinto anche il Prix du Scénario a Cannes.

E’ poi il momento di Mila Kunis, che, essendo ucraina di nascita e statunitense d’adozione, era molto atteso il suo intervento come presentatrice di una delle migliori canzoni originali candidate; non delude le aspettative mantenendosi nella traccia obbligatoria della serata e parla, senza fare nomi di luoghi e persone, di eventi totali, forza e dignità, devastazione, resilienza, forza, lotta, buio inimmaginabile; poi presenta il brano “Somehow you do” di Diane Warren eseguita da Reba McEntire per il film “Quattro buone giornate” che Mila Kunis interpreta con Glenn Close.

Dopodiché compare il cartello: “We’d like to have a moment of silence to show our support for the people of Ukraine currently facing invasion, conflict and prejudice within their own borders. While film is an important avenue for us to express our humanity in times of conflict, the reality is millions of families in Ukraine need food, medical care, clean water, and emergency services. And we – collectively as a global community – can do more. We ask to support Ukraine in any way you are able. #standwithukraine”. Il ventilato intervento del presidente Volodymyr Zelens’kyj non c’è stato.

Lupita Nyong’o – l’attrice keniota premiata al suo debutto cinematografico come migliore non protagonista in “12 anni schiavo” del 2013 di Steve McQueen, regista nero inglese omonimo del bianco divo hollywoodiano – entra sul palco accompagnata da Ruth Carter, prima costumista nera a vincere l’Oscar per “Black Panther” del 2018 diretto dal nero Ryan Coogler (un momento di orgoglio nero, dunque); presentano i candidati migliori costumisti, and the Oscar goes to Jenny Beavan per “Crudelia” di Craig Gillespie con Emma Stone, film targato Disney che rinverdisce il mito della cattiva di “La carica dei 101” mettendola al centro di una storia tutta sua dove i dalmata sono solo comprimari, ispirato al mitico cartone animato del 1961 che nel 1996 è stato rifatto in live action, regia di Stephen Herek, in cui una strepitosa Glenn Close ha dato vita al personaggio.

Segue l’ispanico John Leguizamo che dà vita a un suo momento di orgoglio latino raccontando che nel 1928 come modello per la statuetta dell’Oscar è stato preso l’ispanico Emilio Fernandez, e conclude col doppio senso che è “come avere un 30 centimetri di messicano nelle tue mani che si chiama Oscar”; presenta la seconda canzone originale in gara, “Dos Oruguitas” di Lin-Manuel Miranda.

A introdurre i candidati alla miglior sceneggiatura originale arriva il terzetto dei protagonisti del film “Juno” del 2007 diretto da Jason Reitman che vinse proprio in questa categoria con la sceneggiatura di Diablo Cody; il terzetto è formato da J. K. Simmons, Jennifer Garner e Elliot Page che all’epoca del film era ancora anagraficamente donna col nome di Ellen Page. Si aggiudica la statuetta Kenneth Branagh che ha scritto e diretto il semi-autobiografico “Belfast”, primo Oscar dopo ben otto nomination nella sua carriera di attore e regista.

Il cantante Shawn Mendes e la performer (cantante, attrice comica, conduttrice tv, regista) Tracee Ellis Ross (figlia di Diana Ross) con un ardito décolleté, sono chiamati a presentare la migliore sceneggiatura non originale, ovvero tratta da preesistente opera; e vince la Sian Heder (al suo secondo film) che ha riscritto il film francese sulla famiglia di sordomuti e che nel suo discorso di ringraziamento non dice una parola sull’opera originale a cui si è ispirata.

Jason Momoa, nel cast di “Dune”, accetta a nome del compositore Hans Zimmer, che non poteva essere presente alla serata, il premio per la miglior colonna sonora originale.

Subito a seguire Rami Malek, che era il cattivo dell’ultimo 007, presenta la canzone scritta per il film e candidata fra le migliori canzoni originali, “No Time to Die” di Billie Eilish e Finneas O’Connell che a dispetto dei nomi sono sorella e fratello, che più avanti nella serata verrà proclamata vincitrice nella cinquina presentata da Jake Gillenhaal e Zoe Kravitz.

A presentare i candidati per il miglior montaggio è una voce femminile fuori campo mentre scorrono le clip dei cinque film, e vince ancora “Dune” col montaggio di Joe Walker, assiduo collaboratore del regista, Denis Villeneuve, per il quale aveva montato “Arrival” ricevendo una candidatura, e di un altro regista col cui film era stato precedentemente nominato, Steve McQueen, “12 anni schiavo”.

Per annunciare il miglior documentario arriva sul palco il comico Chris Rock che com’è prassi fa un po’ di battute, prima prendendo di mira la coppia Javier Bardem – Penelope Cruz entrambi nominati nelle rispettive sezioni da protagonisti, poi passando a Will Smith e sua moglie Jada Pinkett che notoriamente soffre di alopecia e infatti sfoggia un look testa rasata, e il comico fa un’infelice battuta: non vede l’ora di vederla nel remake di “Soldato Jane”, film in cui Demi Moore sfoggiava il look testa rasata; Jade ha alzato gli occhi al cielo, mentre il comico si commenta da solo dicendosi che la battuta non era male; ma Will Smith si alza dalla platea e sale in palcoscenico a dargli un pugno in faccia, proprio come si fa nei film, e Chris Rock continua a sorridere commentando “Wow! Will Smith mi ha appena dato un bel pugno!” mentre Smith, tornando a sedere gli grida: “Togliti il nome di mia moglie dalla tua cazzo di bocca!” Gelo in sala.

Si prosegue con la presentazione dei documentari candidati e la nomina del vincitore: “Summer of Soul (…Or, When the Revolution Could Not Be Televised)” regia del musicista Questlove.

Il rapper Sean Diddy Combs, noto anche come Puffy Daddy, viene sul palco per ricordare il 50esimo anniversario di “Il Padrino” ma non può fare a meno di parlare, da artista nero, di quello che è appena successo fra altri due artisti neri, e si auspica che nel retropalco tutto verrà chiarito perché si è tutti una grande famiglia. Poi dopo sequenze dei film della seria compaiono insieme sul palco Francis Ford Coppola (83 anni) Robert De Niro (79) e Al Pacino (82) ed è subito standing ovation.

Arriva il sempre commovente momento In Memoriam col tappeto canoro dei The Samples Choir, e Tyler Perry apre la sequenza omaggiando Sidney Poitier; segue l’intervento di Bill Murray per ricordare il regista Ivan Reitman; conclude Jamie Lee Curtis che omaggia Betty White; fra gli altri nomi più noti scomparsi nell’ultimo anno: la nostra Lina Wertmuller, il recentissimo William Hurt, il francese Jean-Paul Belmondo; e poi il musicista Mikis Theodorakis, e i registi Peter Bogdanovich, Richard Donner, Jean-Marc Vallée, e gli attori Ned Beatty, Charles Grodin, Michael K. Williams, Sally Kellerman, Dean Stockwell.

Ancora un’altra statuetta a “Dune” che si aggiudica anche la migliore scenografia di Patrice Vermette e Zsuzsanna Sipos, piazzandosi con 6 Oscar su 10 nomination al primo posto fra i premiati.

Kevin Costner presenta i candidati alla miglior regia che va a Jane Campion per “Il potere del cane” che con 12 nomination era in testa e si aggiudica solo quest’importante premio.

A 28 anni da “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino, arriva sul palco il terzetto formato da Uma Thurman, John Travolta e Samuel L. Jackson – altra standing ovation – per nominare il miglior attore protagonista, che è Will Smith per “Una Famiglia Vincente – King Richard” dove interpreta il padre delle tenniste Serena e Venus Williams. E Will Smith si aggiudica il premio tornando sul palco dove prima era salito a difendere l’onore di sua moglie, ora commosso fino alle lacrime. Dice che è “stato chiamato in questa vita ad amare le persone e a proteggere le persone”. Protegge la memoria di Richard Williams che ha interpretato, la collega Aunjanue Ellis che interpreta sua moglie e le ragazze che interpretano le figlie. E poi cita il beduino interpretato da Anthony Quinn in “Lawrence d’Arabia”: “Io sono un fiume per la mia gente”, consapevole di essere uno degli attori più potenti di Hollywood, nominato dalla rivista Newsweek il più nel 2007. Poi, parlando di lavoro mischia finzione e la realtà e fa un riferimento velato a quanto successo parlando di persone che non portano rispetto, e cita Denzel Washington che gli ha detto: “Nel tuo momento più alto è proprio quello il momento in cui il diavolo viene a tirarti per la manica” e alla fine chiede scusa all’Accademy e a tutti i colleghi fra lunghe pause e lacrime copiose che dicono molto più delle parole, e alla fine ringrazia con una battuta: “Spero che mi invitino di nuovo su questo palco!”

Nel retropalco Will Smith incontra e abbraccia Sir Anthony Hopkins che sta andando a premiare la migliore attrice. Nel frattempo viene premiato il miglior trucco per “Gli occhi di Tammy Faye” di Michael Showalter. Vengono anche annunciati gli Oscar alla carriera: Samuel L. Jackson, Liv Ullmann e Elaine May, e contrariamente agli anni precedenti non vengono premiati in palcoscenico ma solo inquadrati nel salottino in cui sono relegati e senza la possibilità di dire una sola parola. Triste.

L’ingresso di Anthony Hopkins suscita un’altra standing ovation, e comincia dicendo: “Will Smith ha già detto tutto”; poi dopo avere speso belle parole per le attrici della cinquina annuncia la vincitrice Jessica Chastain. Segue Lady Gaga, protagonista del discusso “House of Gucci” per il quale si aspettava una candidatura non arrivata, che sale sul palco a nominare il miglior film 2022 che a sorpresa è l’outsider “I Segni del Cuore” a riprova che quando ci sono disabilità e buoni sentimenti l’Academy non si tira mai indietro, e fra i ben dieci film in concorso ce n’erano di titoli certamente migliori. In ogni caso molta bella roba da vedere, avendone la possibilità.

Film d’amore e d’anarchia

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Se n’è andata a 93 anche Lina Wertmüller, ancora sulla cresta dell’onda nonostante la sua fama sia dovuta a non più di quattro film girati negli ormai lontani anni settanta. Quattro film che hanno segnato un’epoca e imposto uno stile unico, il suo, immediatamente riconoscibile, come accade per i grandi, Fellini tanto per dirne uno.

Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich è nata a Roma da un avvocato potentino con antiche ascendenze nobiliari svizzere e si avvicina al mondo dello spettacolo grazie alla frequentazione di un’amica e compagna di scuola, Flora Carabella, figlia di un musicista, che poi si iscrisse all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica; anche Lina tentò quella strada ma essendo di due anni più piccola dell’amica, coi suoi 16 anni non si poté iscrivere e allora frequentò i corsi privati di Pietro Sharoff, un russo naturalizzato italiano che in patria era stato allievo di Mejerchol’d e aiuto regista di Stanislavskij, al cui metodo si ispirò come insegnante di recitazione a Roma. Flora Carabella, recitando in teatro nei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello regia di Luchino Visconti, conobbe e sposò il collega Marcello Mastroianni, il quale divenendo presto un divo del cinema veicolò in Lina la passione per la settima arte (la più moderna dopo le classiche sei: architettura, musica, pittura, scultura, poesia e danza).

Prima di lavorare in teatro con Garinei e Giovannini da cui prende il gusto per la commedia, e con Giorgio De Lullo che la ispira sul piano drammatico, si era fatta le ossa come animatrice e regista nel teatro di burattini di Maria Signorelli, e anche se lei non ne farà cenno nelle interviste successive, questa esperienza segnerà a mio avviso il suo stile, perché utilizzerà i suoi interpreti proprio come marionette: i gesti, seppur minimi, devono essere precisi secondo la sua ferrea direzione, e partendo da un affettuoso “amore devi fa’ così” poi seguito da un più spazientito “amo’ t’avevo detto che devi fa’ così” finiva anche col picchiare e ferire i malcapitati: Luciano De Crescenzo sul set del televisivo “Sabato, domenica e lunedì” (1990) colpevole di agitare sempre il dito per aria, dovette correre in ospedale a farsi mettere tre punti perché Lina, dopo ripetute e inascoltate correzioni, glielo aveva morso a sangue.

#love and anarchy di SLEEPY GOLDEN STORM

Anche gli sguardi e i movimenti degli occhi devono essere precisi al millimetro nei suoi primissimi piani da proiettare in schermi di 15 metri di larghezza in media, e si metteva davanti agli interpreti indicando col suo dito dove e quando girare le pupille. Va da sé che dava anche le intonazioni e il ritmo delle battute, proprio come se gli esseri umani che dirigeva fossero pupazzi di legno a cui lei dava la sua voce, fermo restando che poi rifaceva tutto in doppiaggio, pratica assai abusata in quegli anni, dove si ricreava completamente il parlato del film. Doppiaggio che nel caso di questo “Film d’amore e d’anarchia” creò alla produzione non pochi problemi, arrivando a costare quasi quanto l’intero girato, perché le ragazze della casa di tolleranza provengono da tutte le regioni d’Italia e ne parlano tutti i dialetti.

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Prime da sinistra: Lina Polito e Mariangela Melato; al centro col braccio alzato Isa Danieli, seduta accanto a lei Enrica Bonaccorti; ultima a destra Anna Melato.

Dopo l’exploit di Mimì Metallurgico, nel quale racconta il disagio della classe operaia, e col quale impose all’attenzione di critica e pubblico l’inedita coppia Giannini-Melato – quando i produttori avrebbero voluto imporle altri nomi ben più noti che lei sapeva di non poter dirigere secondo il suo tirannico metodo, con questo film ripropone la coppia vincente e fa un salto nell’immediato passato dell’Italia fascista ispirandosi a un fatto realmente accaduto: quello di un uomo venuto a Roma dalla provincia per uccidere Mussolini e che trascorre tre giorni in un casino, protetto accudito e coccolato dalle prostitute. Il film è drammatico ma il suo modo di trattare la materia, quello grottesco e divertito che sarà la sua cifra vincente, ne fa un’opera magistrale che entusiasma la critica e fa accorrere a frotte la gente a al cinema. Se già con Mimì aveva risvegliato l’attenzione di Hollywood con questo “Love and Anarchy” si guadagnò l’ammirazione incondizionata del severissimo critico John Simon e cominciarono ad arrivare le proposte da Hollywood.

Love & Anarchy (1973) - IMDb

Nel film le sue marionette diventano maschere da commedia dell’arte con tutte le tipologie dialettali del genere e le caratterizzazioni precise e senza le sfumature del naturalismo; le ragazze, come tristi Pierrot, sono pesantemente truccate di bianco (Lina metteva mano anche al trucco) e il protagonista, con la zazzera disordinata e decolorata in rosso, indossa un make-up (8 ore ogni seduta) che gli fa il volto una maschera piena di efelidi: una fantasia dell’autrice che disegna i suoi personaggi direttamente sugli interpreti, diversamente da quanto faceva Federico Fellini – per il quale era stata assistente in “La dolce vita” e “8 1/2” – che disegnava i suoi pupazzi su carta e poi li trasferiva nella fisicità e nella fisionomia degli attori.

Il film si conclude con una citazione dello scrittore anarchico Errico Malatesta: “Voglio ripetere il mio orrore per attentati che oltre a essere cattivi in sé sono stupidi perché nuocciono alla causa che dovrebbero servire… Ma quegli assassini sono anche dei santi e degli eroi… e saranno celebrati il giorno in cui si dimenticherà il fatto brutale per ricordare solo l’idea che li illuminò e il martirio che li rese sacri.” E vale la pena elencare il cast che con Giannini protagonista assoluto ha come coprotagoniste Mariangela Melato e la debuttante Lina Polito che giovanissima aveva recitato in teatro con Eduardo De Filippo. Eros Pagni tratteggia la maschera del facinoroso fascista e Pina Cei è la tenutaria del bordello. Elena Fiore, che abbiamo visto in “Mimì metallurgico” è la sguaiata cagna da guardia del casino, mentre alle signorine prestano volto e non sempre voce: Isa Danieli che tornerà più volte a lavorare con Lina, Anna Melato sorella di Mariangela, le giovanissime e irriconoscibili Enrica Bonaccorti e Anna Bonaiuto, e ancora Giuliana Calandra e Isa Bellini. Roberto Herlitzka in una sola scena dà vita a un ispettore di polizia fascista che tratteggia la filosofia del regime: cancellare dalla memoria collettiva gli oppositori del regime.

Nella filmografia di Lina seguirà “Tutto a posto e niente in ordine”, un film che torna al mondo operaio contemporaneo con un cast corale e col quale l’autrice prova ad affrancarsi dalla coppia Giannini-Melato ormai divenuta celeberrima, grazie a lei, e che singolarmente sono avviati in eccellenti carriere; il film non ebbe successo commerciale e posso testimoniare in prima persona, essendo all’epoca un giovane spettatore di Lina Wertmüller, che io stesso non andai a vedere il film perché non c’erano Giannini e Melato. Quello stesso anno, il 1974, torna nelle sale dirigendo di nuovo la coppia fatale in “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” che sarà la punta di diamante dei quattro film che contano nella sua carriera. Concluderà questo quartetto fortunato “Pasqualino Settebellezze” col quale torna al passato e agli orrori del nazi-fascismo.

A quel punto cede alle lusinghe di Hollywood e gira “La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia” con Giannini e Candice Bergen, un film sbagliato che rompe definitivamente l’incanto e la complicità fra l’autrice e il suo pubblico, e anche con Hollywood che non perdona gli insuccessi: io ero andato a vederlo perché era il primo film americano di Lina e anche perché c’era la bionda glaciale Candice Bergen che avevo ammirato in “Soldato Blu” e “Conoscenza Carnale”, 1970 e ’71. Lina non ne fa un dramma e continua imperterrita a lavorare, e tornata in Italia gira “Fatto di sangue fra due uomini…” nel quale coinvolge ancora una volta Giannini insieme ai divi di più lungo corso Marcello Mastroianni, suo amico personale a cui rinnovò il look aggiungendo una lunga barba, e Sophia Loren con la quale si scontrò subito proprio a causa del trucco: Lina voleva che il suo volto esprimesse la tragedia greca e, in fondo, sappiamo che voleva ridisegnare a suo modo la diva; la quale, ferma alla sua immagine di star internazionale con le sopracciglia ad ali di gabbiano, non voleva assolutamente che qualcuno le cambiasse i connotati: che erano la percezione di sé e insieme l’immagine con la quale il pubblico la percepiva da sempre: vinse Lina e in seguito lavorarono di nuovo insieme. Lei, la terribile regista sempre sorridente, è riuscita a creare intorno a sé una sua propria longeva mitologia senza mai più tornare, però, ai fulgori dei magici anni settanta; è passata alla regia di eccellenti film tv e poi alle regie d’opera grazie all’influenza e al gusto del marito scenografo, che ha curato tutti i suoi film, Enrico Job, che si legge iob e non giob all’inglese.

Film d'amore e d'anarchia - Ovvero "Stamattina alle 10 in via dei Fiori  nella nota casa di tolleranza..." - Wikipedia

“Film d’amore e d’anarchia – Ovvero: Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza…” valse a Giannini il premio come migliore attore al Festival di Cannes; Grolla d’Oro alla migliore esordiente Lina Polito; Nastro d’Argento a Giannini e alla Polito; Mariangela Melato si dovette accontentare della candidatura ai New York Film Critics Circle Awards dove arrivò terza dietro alla vincitrice Joanne Woodward (“Summer Wishes, Winter Dreams” mai distribuito da noi) e alla seconda classificata Glenda Jackson (“Un tocco di classe”).

Nel 1977 Lina Wertmüller è stata la prima donna regista a essere candidata all’Oscar per il successivo “Pasqualino Settebellezze” in tre categorie: migliori regia sceneggiatura e film straniero, anche con Giannini candidato come miglior attore. Lina è così diventata per le giovani registe dell’epoca un’icona a cui ispirarsi, dato che è stata anche la prima ad avere un successo commerciale internazionale. “Non si può fare questo lavoro – dichiarerà lei – perché si è uomo o perché si è donna. Lo si fa perché si ha talento. Questa è l’unica cosa che conta per me e dovrebbe essere l’unico parametro con cui valutare a chi assegnare la regia di un film”. E’ stata anche la prima a far recitare en travesti Rita Pavone nel ruolo maschile del televisivo “Il giornalino di Gian Burrasca” ed era il 1964.

La cultura femminile o femminista oggi la indica come un’autrice che ha sempre posto attenzione alla condizione della donna, ma così non è, e io c’ero: Lina Wertmüller, nei suoi film di punta, con eccezione di “Travolti…” dove i ruoli uomo-donna sono assolutamente paritari, non si preoccupava di avere uno sguardo al femminile, tutt’altro; i suoi protagonisti sono stati i personaggi – Mimì, Tunin, Pasqualino – interpretati da Giancarlo Giannini, suo vero alter ego, e le donne erano solo coprotagoniste della vicenda; di fatto lei non si curava di essere femminile o maschile ma solo regista coniugata al maschile: “Il massimo della mia aspirazione – dirà – non era passare alla storia come un regista impegnato, io volevo passare alla storia come un regista che si è divertito.”

E’ più utile dire che ha indagato i ruoli dell’uomo e della donna nella nostra società e in diverse epoche, sempre nell’eterno dialogo tra il Nord e il Sud – lei che si è sempre considerata una donna del sud; e nel contrasto tra la borghesia e il proletariato, sempre guardando la politica e la società con ironia pungente e grottesca, senza mai prendersi sul serio, appunto, e divertendosi divertendoci. Nel 2020 le viene attribuito l’Oscar onorario con questa motivazione: “Per il suo provocatorio scardinare con coraggio le regole politiche e sociali attraverso la sua arma preferita: la cinepresa”.

E’ del 2015 il film documentario di Valerio Ruiz “Dietro gli occhiali bianchi”, visibile nel pacchetto Sky, in cui è raccontata da quanti l’hanno conosciuta e in cui lei stessa si racconta sempre col brio che l’ha contraddistinta, raccontandoci dei suoi occhiali bianchi: “Devo dire che ho sempre avuto una gran simpatia per gli occhialiprima ce li avevo di tutti i colori: verdi giallo rossi, poi a un certo punto c’è stato un incontro fatale, quello con gli occhiali bianchi. Come succede negli incontri d’amore, uno non se l’aspetta quel segno del destino però quando càpita càpita!” E’ questo il creare la propria mitologia: io non credo affatto che una giovane donna, come un giovane uomo, potesse essere felice di dover portare gli occhiali e perciò averne una gran simpatia: ci si convive e si scende a compromessi, ci si piace così come si è. Poi lei continua spiegando che avendo trovato un modello che le piaceva particolarmente, dovendo sostituirlo e non trovandolo più nei negozi, si reca addirittura nella fabbrica che li produceva pensando di acquistarne una mezza dozzina, ma l’imprenditore le spiegò che l’ordine minimo era di 5000 pezzi e così Lina si rifornì dei suoi occhiali bianchi per tutta la vita. E anche oltre.

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Pasqualino Settebellezze

Pasqualino Settebellezze anche lui ferito nell’onore come Mimì Metallurgico, dato che per difendere il suo onore finisce nei guai. Ma se Mimì salva il suo onore con uno sberleffo, Pasqualino l’onore non lo salva e lo perde ancor più, perdendo pure la libertà. Un film amaro, che dal grottesco che sposa il drammatico dei precedenti film, si fa di un grottesco livido venato di tragedia. Non ci sono più neanche i colori brillanti del capostipite dei successi di Lina W. e il film è polveroso, buio, tetro – e a ragione. Ancora tutto costruito sul talento istrionico di Giancarlo Giannini, per intere sequenze perde anche la parola tornando all’espressività del cinema muto, vedi la sequenza del processo tutta fatta di sguardi molto eloquenti, o quella di quando lui che deve disfarsi del cadavere e sono evidenti i richiami alle comiche d’antan.

Cosa è accaduto a Lina Wertmüller? Dopo il successo del 1972 ha battuto il ferro ben caldo sfornando un film l’anno: “Film d’amore e d’anarchia” nel ’73; “Tutto a posto e niente in ordine” film corale del ’74 senza Giannini, e forse anche per questo rimasto in secondo piano; sempre del ’74 un altro clamoroso successo che riunisce la coppia Giannini-Melato, terrone-milanese, proletario-borghese, film che nel 2002 ha avuto un infausto remake con Adriano Giannini figlio di, e Madonna, diretti dal marito di lei Guy Ritchie; Lina W. ha dichiarato di aver ceduto i diritti del film a Madonna per stima nei suoi confronti (tralasciamo il ritorno economico?) ma dopo il clamoroso flop del film ha dichiarato di aver commesso un errore, visto anche lo stravolgimento della trama in cui si perde lo scontro-confronto sociale e politico e diventa solo un’occasione per due differenti tipologie umane.

Pasqualino Settebellezze (1975) | FilmTV.it
Fernando Rey

Il 1975 è l’anno di “Pasqualino Settebellezze”. In questi pochi anni Lina W. ha creato un suo stile e, cosa ancora più ammirevole, ha fidelizzato una grossa fetta di pubblico, creandosi un seguito anche oltre oceano. In questo film per la prima volta ci sono nel cast degli stranieri: lo spagnolo Fernando Rey, portato al successo da Luis Buñuel e subito divenuto un caratterista di lusso nel cinema internazionale molto apprezzato anche per la sua professionalità; qui recita senza farsi doppiare, lui che ha iniziato la carriera da doppiatore ed è stato la voce spagnola di calibri come Tyrone Power e Laurence Olivier, e tratteggia un anarchico spagnolo che ha fallito vari attentati contro Hitler e Mussolini.

Shirley Stoler, come nazista e fuori scena

L’altra straniera è l’abbondante americana Shirley Stoler, anche lei senza doppiatrice, che interpreta la comandante del lager, una forzatura narrativa perché, benché ci siano state anche delle donne fra le SS che gestivano i lager, nessuna è mai arrivata al grado di comandante. C’erano le guardie, generalmente conosciute con il titolo di SS-Helferin (Aiutante Donna delle SS). Nella gerarchia nazista nessuna donna avrebbe potuto dare ordini ad un uomo poiché il rango di SS-Helferin era considerato al di sotto di tutte le cariche maschili, e le donne non erano riconosciute come membri ufficiali, ma solo come ausiliari e nessun campo di concentramento nazista fu mai affidato ad un comandante donna. La Stoler, che nel corso della sua vita è arrivata a pesare anche 250 kili, viene dal teatro sperimentale di La Mama e Living Theatre; i suoi ruoli più noti sono sono quelli in “Il Cacciatore” di Michael Cimino, 1978, e “Seven Beauties” come viene chiamato Settebellezze nel circuito statunitense.

Altri interpreti degni di nota. Elena Fiore, già in Mimì e qui sorella maggiore di Pasqualino che inguaiata dal fidanzato Totonno Diciotto Carati, che prima la mette a fare la sciantosa in una rivista di quart’ordine e poi direttamente a lavorare in un bordello, è causa di tutti i mali del protagonista, ‘nu ‘uappo detto settebellezze perché tiene sette sorelle, che proprio grandi bellezze non sono, ma sono belle ciacione e lo mantengono con la loro attività di materassaie; lui però racconta che lo dicono settebellezze per ironia all’incontrario, ché brutto com’è ha grande successo con le donne. Piero Di Iorio, poco cinema e molto teatro soprattutto con Luca Ronconi, interpreta l’altro disertore, insieme a Pasqualino, che finisce nel campo di concentramento.

Molto interessante la scelta della colonna sonora, apparentemente bizzarra ma lucidamente espressionista sin dall’inizio del film che si apre con filmati di repertorio, una stretta di mano fra Mussolini e Hitler e poi scene di guerra e distruzione, commentati dalla voce beffarda di Enzo jannacci in “Quelli che” e poi più avanti, seguendo Pasqualino nelle sue disavventure, canta “Tira a campà”: accostamenti fra immagini e canzoni anacronistici e in assoluto contrasto ma che proprio per questo sono una scelta forte e vincente. Su questo argomento Lina W. ha scritto: “Ho sempre pensato che la musica sia l’anima segreta di un film, in grado di suscitare con la sua forza misteriosa le emozioni dello spettatore, elevando il racconto per immagini in vera poesia.”

Amazon.com: Night Full of Rain [VHS]: Giancarlo Giannini, Candice Bergen,  Michael Tucker, Mario Scarpetta, Lucio Amelio, Massimo Wertmüller, Anny  Papa, Anne Byrne Hoffman, Flora Carabella, Anita Paltrinieri, Giuliana  Carnescecchi, Alice Colombo Oxman,

Con questo film, grazie anche al campo di concentramento che sempre commuove gli americani – vedi l’Oscar a “la vita è bella” di Roberto Benigni – Lina Wertmüller mette a segno 4 candidature agli Oscar: Miglior film in lingua straniera, Miglior regia, Migliore attore e Migliore Sceneggiatura; nessuna candidatura va a segno: miglior film e miglior regia vanno a John G. Avildsen per “Rocky”, miglior attore fu Peter Finch per “Quinto Potere”, premio postumo dato che l’attore morì dopo il completamento del film; miglior sceneggiatura a Paddy Chayefsky sempre per “Quinto Potere”. Ma Lina W. si poté fregiare del titolo di prima regista, donna, e per giunta straniera, a ricevere una candidatura, dopo di lei verranno Jane Campion, Sofia Coppola e Kathryn Bigelow. Interrompendo il ritmo di un film l’anno ne impiega tre per il successivo, che data la notorietà negli Stati Uniti è ora una coproduzione: “La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia” con Candice Bergen accanto a Giannini, film che non ottenne lo sperato successo sia di qua che di là dell’oceano. L’incanto si è rotto, la fascinazione che aveva sul pubblico è sparita. Seguirà un solo altro film con Giannini, sempre nel 1978, “Fatto si sangue fra due uomini per causa di una vedova” con Mastroianni e la Loren, e poi un film tv nel 2002, “Francesca e Nunziata”, ancora con Sofia Loren. Per il resto sarà una regista che camperà di rendita sui successi degli anni d’oro 1972-75, tornerà alla televisione nobilitandola con i suoi film tv e sarà regista teatrale e d’opera.

Quando in un’intervista le è stato chiesto se avesse mai avuto difficoltà in quanto regista donna ha risposto : “Me ne sono infischiata. Sono andata dritta per la mia strada, scegliendo sempre di fare quello che mi piaceva. Ho avuto un carattere forte, fin da piccola. Sono stata addirittura cacciata da undici scuole. Sul set comandavo io. Devi importi. Gridavo e picchiavo. Ne sa qualcosa Luciano De Crescenzo durante le riprese di “Sabato, domenica e lunedì” con Sofia Loren. Non faceva altro che gesticolare con l’indice di una mano e così per farlo smettere gli “azzannai” il dito.” Nel 2019 le è stato conferito l’Oscar onorario con la motivazione: “Per il suo provocatorio scardinare con coraggio le regole politiche e sociali attraverso la sua arma preferita: la cinepresa”. Lei non è mai stata una regista femminista né una regista femminile nel senso di una sensibilità stilistica immediatamente riconoscibile, come è per Jane Campion o Sofia Coppola, tanto per restare nell’ambito delle registe nominate all’Oscar, pur con un accostamento sicuramente improprio; non ha mai lavorato dalla parte delle donne o fatto della sua influenza culturale un veicolo di quella parte, ma è stata regista senza connotazioni di genere, al di sopra delle parti e sempre politicamente schierata dalla parte del proletariato. Si può dire che i suoi migliori personaggi maschili sono lei. E’ stata anche accusata di anti femminismo dal movimento “Me Too” che si batte contro le molestie sessuali e la violenza sulle donne, per le scene in cui Giannini schiaffeggia la Melato in “Travolti…” ma è una lettura superficiale approssimativa e decontestualizzata che lascia il tempo che trova. Quando a 91 anni ha avuto in mano il suo Oscar, l’ha guardato e ha detto: Perché non chiamarlo Anna? invitando tutte le attrici in sala a pretendere un Oscar-Oscarina.

Giancarlo Giannini, intervistato da Huffpost dice di lei: Mi ha creato. Se non ci fosse stata lei, io non sarei qui e non avrei mai fatto quello che ho fatto nella mia carriera. E’ riuscita a trasformare ogni idea che aveva in un grande divertimento ed è sempre stato un piacere lavorarci insieme e confrontarsi sugli argomenti più disparati. Per me è stata tutto.”

Mimì metallurgico ferito nell’onore

1972. Con questo successo di pubblico e critica comincia il fruttuoso sodalizio, che li porterà all’Oscar, tra la sceneggiatrice regista Lina Wertmüller e Giancarlo Giannini, insieme a Mariangela Melato.

accadde…oggi: nel 1992 muore Maria Signorelli, di Giuseppina Volpicelli |  daniela e dintorni
Maria Signorelli con i suoi burattini

Lina – all’anagrafe Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich, romanissima, figlia di un potentino, con un cognome che le arriva da lontane radici aristocratiche elvetiche – viene dall’accademia teatrale del russo italianizzato Pietro Sharoff e poi, per alcuni anni, sarà animatrice e regista del teatro dei burattini di Maria Signorelli; un’impronta, questa dei burattini, che segnerà il suo stile sempre intriso di una visione grottesca della vita in cui i suoi personaggi si muovono, agiscono e parlano, come burattini: più maschere che personaggi realistici, più rappresentazione di un tipo in senso assoluto che tipi di complessa umanità. Farà anche teatro, radio e televisione dove debutterà nel 1964 come co-sceneggiatrice e regista di “Il giornalino di Gian Burrasca” con Rita Pavone, che fra l’altro lancerà la canzone “Viva la pappa col pomodoro” parole della Wertmüller e musica di Nino Rota.

Prime Video: The Belle Star Story - Il mio corpo per un poker

Nel cinema sarà aiuto di Federico Fellini (“La dolce vita” e “8 1/2”) e debutta come regista cinematografica nel 1963 con “I basilischi”, un ritratto di accidiosi giovani di provincia, molto ispirato a “I vitelloni” del maestro, che se non le vale l’attenzione del pubblico attira però l’interesse della critica: premiata al Festival di Locarno e poi anche a Taormina e Londra. Dirigerà di nuovo Rita Pavone in “Rita la zanzara” e “Non stuzzicate la zanzara” e poi lo spaghetti-western con Elsa Martinelli “Il mio corpo per un poker” nascondendosi sotto lo pseudonimo Nathan Witch. Nel 1972 la svolta con “Mimì metallurgico” che le frutta la nomination Palma d’Oro al Festival di Cannes e consacra Giannini e la Melato: David di Donatello a lui e David speciale a lei, Nastri d’Argento e Globo d’Oro a entrambi come rivelazioni, e Grolla d’Oro solo per lui.

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Giancarlo Giannini e Mariangela Melato, Mimì e Fiore, con i coloratissimi maglioni che lei fa e vende. Nei titoli: i costumi della Sig.na Melato sono di Enrico Job. Che è scenografo e marito di Lina Wertmüller.

Il film inaugura la felicissima accoppiata Giannini-Melato benché il protagonista sia solo lui, che interpreta il catanese Carmelo Mardocheo, diviso fra tre donne: la moglie Rosalia, la concubina milanese Fiore e l’amante napoletana Amalia. la storia, una commedia grottesca in cui i personaggi sono, come detto, delle marionette, o delle macchiette cinematograficamente parlando, si regge tutta sull’espressività dello spezzino cresciuto napoletano Giancarlo Giannini.

Mimì Metallurgico | ciaksicilia
Giannini con Agostina Belli con una folta parrucca nera che la rende quasi irriconoscibile

La sceneggiatura, brillante, accattivante, parte da una Catania grottesca dove si parlano ben tre dialetti: quello autoctono dei caratteristi locali, quello stilizzato e teatrale del prim’attore Turi Ferro che mette a servizio la sua maschera per interpretare diversi ruoli di mafiosi, tutti imparentati fra loro, tutti riconoscibili da tre nei a triangolo sulla guancia destra, simboleggianti il triangolo della Sicilia: riuscito simbolo della tentacolare mafia che insegue dovunque il povero protagonista. Il terzo dialetto è quello che io, da catanese, chiamo sicilianese, un dialetto costruito al cinema da autori e attori che siciliani non sono, finto e inesistente, quanto urticante per le orecchie sicule doc.

MIMÌ METALLURGICO FERITO NELL'ONORE movie seduction scenes |  re-edit/rescore – serenagiannini
Giannini stretto fra le braccia di Elena Fiore

Purtroppo Giannini parla il catanese che gli è stato scritto come meglio può, e non è il solo dato che gli fa da spalla come amico comunista il torinese Luigi Diberti. Così sul piano linguistico la sceneggiatura fa acqua da tutte le parti ed è evidente che Lina non si è preoccupata più di tanto della credibilità, del resto la sua è una commedia grottesca. La catanese moglie di Mimì si chiama Rosalia e tutti i catanesi sanno che nessuna catanese si chiama Rosalia, dato che Santa Rosalia è la protettrice di Palermo mentre la protettrice di Catania è Sant’Agata e a Catania ci sono (c’erano, a dire il vero) tante Agata. Mimì, ferito nell’onore, si preoccupa che possa passare per frocio e ricchione, termini romano e napoletano, ma tutti sanno che a Catania si dice puppu e jarrusu. E lo stesso Mimì, zittendo la napoletana Amalia si lascia scappare un napoletanissimo statte szitta! Per il resto il film è un intelligente affresco di fatti sociali dell’epoca, alcuni mai debellati: la mafia appunto, il voto di scambio, l’emigrazione interna di lavoratori da sud a nord, il caporalato, le manifestazioni e le contestazioni, il tutto filtrato attraverso il colorato caleidoscopio di Lina Wertmüller che si farà stile personale.

DAVID COPPERFIELD sceneggiato RAI di grande successo del 1965
Giancarlo Giannini con Anna Maria Guarnieri in “David Copperfield”

Giancarlo Giannini aveva raggiunto la popolarità nel 1965 col televisivo “David Copperfield”, regia di Anton Giulio Majano che nel 1971 lo dirigerà di nuovo in “E le stelle stanno a guardare”. Il suo incontro con Lina W. è dovuto grazie ai due musicarelli con Rita Pavone la Zanzara, ma sul grande schermo si impone nel 1970 con “Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca)” di Ettore Scola, nel quale mette a punto il personaggio dell’operaio fulminato e instabile che tornerà a interpretare molte volte, soprattutto con Lina W.

Fuori Cinema | Film in TV (ma da vedere) _ lunedì 30 marzo | Il Cinema  Ritrovato Festival
Mariangela Melato con Massimo Foschi in “Orlando Furioso” di Luca Ronconi

Mariangela Melato ha studiato pittura all’accademia di Brera e poi ha lavorato come vetrinista alla Rinascente per pagarsi le lezioni di recitazione. Raggiunge la fama interpretando Olimpia nel grandioso “Orlando Furioso” allestito da Luca Ronconi. Al cinema riceve la consacrazione con “La classe operaia va in paradiso” del 1971 col quale vince da protagonista il Nastro d’Argento e il David speciale cumulativo dei due film, La Classe Operaio e Mimì Metallurgico. Anche lei come Giannini avrà un successo internazionale e negli ultimi anni tornerà signora del teatro. Muore 71enne nel 2013 per un tumore al pancreas.

Agostina Belli con Alessandro Momo

Anche Agostina Belli aveva lavorato alla Rinascente di Milano, ma come segretaria negli uffici, e chissà se si erano mai incontrate con Mariangela Melato. Grazie alla sua indubbia bellezza ottiene delle particine nei musicarelli in voga all’epoca, e in alcuni polizieschi; ma il primo ruolo con cui riesce a farsi davvero notare è questo di Rosalia moglie di Mimì. Il ruolo migliore della sua carriera arriverà nel 1974 con “Profumo di donna” di Dino Risi, dove recita con Vittorio Gassman (che non le renderà facile l’impegno) e la giovane rivelazione Alessandro Momo che morì quasi 18enne in un incidente motociclistico alla fine delle riprese; per questa interpretazione verrà insignita del Globo d’Oro alla migliore attrice rivelazione, e in seguito riceverà molte proposte di cinema di qualità che declinerà tutte, preferendo una carriera più facile nella commedia all’italiana e nelle commedie sexy, forse consapevole dei suoi limiti: infatti la sua voce è stata sempre doppiata da altre attrici professioniste, pratica che all’epoca era ordinaria.

Mimì metallurgico ferito nell'onore | Giffetteria

La caratterista napoletana Elena Fiore, qui in un grottesco nudo sicuramente con controfigura, è la terza donna di Mimì, non desiderata ma voluta per ragioni d’onore. Lavorerà ancora con la regista e Giannini in “Film d’amore e d’anarchia” e “Pasqualino Settebellezze”. L’ultimo film in cui ha lavorato è “Il Marchese del Grillo” del 1981. Oggi è 92enne e non si hanno più sue notizie.

Tuccio Musumeci con Giancarlo Giannini

Anche Luigi Diberti, qui nel ruolo dell’amico Pippino, viene dal teatro e il suo primo ruolo importante è quello di Ruggero, ancora nell’ “Orlando Furioso” di Ronconi. Con ruoli da comprimario e caratterista avrà una lunga carriera equamente divisa fra teatro cinema e tv. L’altro amico di Mimì è l’integerrimo, in senso mafioso, Pasquale, interpretato dal caratterista etneo Tuccio Musumeci, oggi ottantenne primattore del teatro catanese. Un film importante questo Mimì, per la regista e per gli interpreti, e anche per la cinematografia italiana dove irromperà questo genere nuovo di commedia amara, venata di grottesco, e in cui non manca l’impegno sociale, che si pone a metà strada, e sempre in bilico, fra la commedia all’italiana e il cinema politico, in un’Italia vittima del terrorismo. Film di quello stesso anno sono “Il caso Mattei” di Francesco Rosi, “Il caso Pisciotta” di Eriprando Visconti e “Nel nome del padre” di Marco Bellocchio. Ma anche “Roma” di Fellini e poi tanti polizieschi e tutta una serie di Decameroni e di Canterbury e fimetti sexy al limite della pornografia. Erano anni di piombo e almeno al cinema ci si voleva divertire.