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La stranezza

Quest’anno ben due film su Luigi Pirandello. Il primo, “Leonora addio” di Paolo Taviani è uscito a inizio anno e “La stranezza” di Roberto Andò ha visto la luce a ottobre al Festival del Cinema di Roma e nelle sale si è subito piazzato al primo posto degli incassi, mentre il film di Taviani, spiace dirlo, non ha avuto altrettanta fortuna. Dunque non è Pirandello che porta la gente al cinema e, tocca dirlo, neanche Andò, un autore rinomato e premiato dalla critica ma mai abbastanza dal pubblico: questo è il suo primo vero successo commerciale, cui certamente seguiranno i dovuti premi.

Roberto Andò è un intellettuale palermitano che deve praticamente tutto alla sua amicizia con Leonardo Sciascia al quale dedica questo film; fu l’altro siciliano eccellente, scrittore assai rappresentato al cinema e in teatro, a spingerlo alla scrittura e a introdurlo nel mondo del cinema, dove Andò sarà assistente di Francesco Rosi, Giacomo Battiato e Federico Fellini fra i grandi italiani, e Michael Cimino e Francis Ford Coppola fra gli americani venuti a girare in Sicilia. Così va imparando il mestiere col meglio del panorama cinematografico mentre apprende l’arte della messinscena a teatro, sempre con progetti di alto livello culturale e debutta con un testo che gli è stato affidato nientemeno che da Italo Calvino e Andrea Zanzotto e messo in scena con i bozzetti di Renato Guttuso: meglio di così!… Impiegherà una decina d’anni per realizzare il suo primo lungometraggio, “Diario senza date” una docu-fiction ambientata in quella sua Palermo, i cui misteri indaga attraverso testimonianze e interviste vere e inventate; mentre il suo primo lungometraggio totalmente di finzione narrativa è una finzione che racconta la realtà ispirandosi alla biografia di un altro siciliano eccellente, Giuseppe Tomasi di Lampedusa con “Il manoscritto del principe”; dopo una serie di film i cui protagonisti sono sempre degli intellettuali, perché quello è il suo mondo e il suo immaginario, torna con questo scherzo biografico su Luigi Pirandello e fa tombola.

Abbandona i suoi più congeniali toni pensosi e ai tormenti personali e sempre inevitabilmente intellettuali del Pirandello, colto nel periodo in cui sta scrivendo i “Sei personaggi in cerca d’autore”, contrappone una favola ironica e grottesca degna del miglior cinema sul teatro e del miglior cinema di ambientazione siciliana: una coppia di teatranti amatoriali mette in scena un dramma che ovviamente si rivolge in farsa e la cui interazione fra teatranti e pubblico si rivela di grande ispirazione per il tormentato autore che non sa dare forma ai suoi personaggi-fantasma. “La stranezza”, titolo quanto mai efficace perché misteriosamente accattivante, è detta nel film dalla balia del Pirandello bambino che era vittima di parossismi estatici e creativi che la balia illetterata poteva descrivere solo come stranezza, una stranezza che nel presente narrativo diventerà la stranissima, per l’epoca, “Sei personaggi in cerca d’autore, commedia da fare” che debutterà al Teatro Valle di Roma, oggi minuziosamente ricostruito in studio con l’impiantito e le poltroncine di legno, il 9 maggio del 1921, e sarà un clamoroso insuccesso, con pochi sostenitori che verranno alle mani con molti dei buggeratori che accoglieranno l’autore gridandogli “Manicomio! manicomio!”, invettiva specifica speciosa e ad arte, sicuramente lanciata per prima da qualcuno che conoscendo la personale tragedia di Pirandello voleva colpirlo nell’intimo: due anni prima l’autore era stato costretto a far rinchiudere in un manicomio la moglie pazza.

A essere onesti quel pubblico non aveva tutti i torti: abituato al teatro classico e ai drammi borghesi, improvvisamente si trova ad assistere a un’ardita sperimentazione che mette in discussione l’intero impianto teatrale, la concezione dei personaggi e il ruolo degli attori. Avevano imparato a conoscere e apprezzare Pirandello sin dal suo grande successo letterario “Il fu Mattia Pascal” pubblicato nel 1904 prima a puntate sulla rivista Nuova Antologia e poi in volume, un successo determinato proprio dai lettori prima che dalla critica che si era mostrata tiepida; una disattenzione che ferì nell’intimo l’autore, che di rimando se la prese pubblicamente con coloro che, osannati dalla medesima critica, egli non riteneva degni: Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli, alla cui uscita delle opere dichiarò di detestarli nel modo più assoluto, e ancor di più gli brucerà l’essere ignorato da D’Annunzio mentre Pascoli beffardamente lo apostrofò “Pindirindello”. Passeranno pochi anni e Pindirindello avrà la sua rivincita vincendo il Premio Nobel per la letteratura.

Oggi sorprende e fa sorridere che grandi nomi che abbiamo studiato sui libri di scuola siano stati esseri umani con tutte le umane debolezze annesse. In ogni caso lettori e pubblico teatrale avevano fin lì amato Pirandello, a cominciare dalle sue prime prove sceniche che si rifacevano alla classica narrativa siciliana: “Cecè” “Liolà” “Pensaci, Giacomino!” fra gli altri; nella sua seconda fase, l’Agrigentino si discosta da quello che in qualche modo rinnovava il teatro di tradizione dell’Isola, e si avvia verso i drammi borghesi con incursioni nel grottesco anche di tono drammatico, e nell’umoristico, ad esempio: “Così è (se vi pare)” “Il berretto a sonagli” “L’uomo, la bestia e la virtù”. A quel punto, ed è questo il periodo sul quale si concentra il film di Andò, Pirandello dà un’ultima svolta, quella decisiva, al suo teatro col dirompente “Sei personaggi in cerca d’autore”, una fase poi definita di teatro nel teatro: ricordando che egli fu regista delle sue messe in scena, rendendosi conto che la rappresentazione non poteva essere soltanto parola ma anche spettacolo visivo, tornò di fatto al teatro shakespeariano con la tecnica del palcoscenico multiplo, ovvero spazi scenici diversi in cui gli attori agiscono contemporaneamente; inoltre viene mostrato il teatro come work in progress, lo diciamo oggi, il teatro che racconta se stesso.

La scena nella scena, il palcoscenico multiplo dei “Sei personaggi”
La quarta parete fa parte della sospensione dell’incredulità esistente tra l’opera di finzione e lo spettatore. Il pubblico di solito accetta implicitamente la quarta parete senza tenerla direttamente in considerazione, potendo così godere della finzione della rappresentazione come se stesse osservando eventi reali.

E ancora, Pirandello rimuove l’immaginaria quarta parete, concettualmente codificata da Denis Diderot (metà ‘700) per far comprendere la necessità di una recitazione più realistica, dove l’azione scenica si completa nel suo spazio e nel suo tempo che prescinde da quello reale in cui è il pubblico; di fatto la quarta parete era un concetto già noto sin dai tempi dell’antica Roma, tanto che il commediografo Plauto (250 a.C.) fu fra i primi a romperla facendo comunicare gli attori direttamente col pubblico in un’azione dichiaratamente di finzione per entrambe le parti, con dialogo e interazione molto apprezzati dal pubblico popolare e che sarà connaturata nella Commedia dell’Arte dove con gli a parte i personaggi si rivolgono direttamente al pubblico per metterli in guardia su quanto sta per accadere o per sollecitarne personali simpatie. Dunque, dopo quasi tre secoli, Pirandello rompe di nuovo la quarta parete in un teatro ormai sterilmente imborghesito e lo fa a tutto tondo, facendo agire i suoi personaggi fra il pubblico in sala che, dato il contesto e la consuetudine, non poteva comprendere: Manicomio! manicomio!

Raccontano i biografi di Pirandello su Pirandelloeweb.net di come una volta dei muratori che lavoravano davanti alle finestre della casa dello scrittore, sospendessero il lavoro per contemplare, stupiti e affascinati, quanto avveniva nel suo studio: Pirandello si era messo “a parlare da solo, gesticolare, strabuzzando gli occhi, e facendo le più strane facce del mondo”. Quegli operai avranno pensato di aver sorpreso il drammaturgo, evidentemente pazzo, in un momento di delirio; In realtà egli era impegnato in uno dei suoi frequenti colloqui coi personaggi, di cui parla nella novella omonima che si può leggere o ascoltarne la lettura nel link dato. Scrisse la commedia fra l’ottobre del 1920 e il gennaio del 1921 avendo come fonte narrativa anche le altre sue novelle “Personaggi”, “La tragedia di un personaggio”.

Foto di gruppo della compagnia del 1921, al centro Dario Niccodemi seduto, alla sua sinistra sono riconoscibili Vera Vergani e Jone Frigerio.
Pirandello con Dario Niccodemi

Dario Niccodemi fu accortamente anche un impresario che produsse Pirandello, ma era principalmente un drammaturgo che scriveva commedie sentimentali e ironiche ambientate nell’alta società borghese, il cui successo di punta fu “La nemica”, opera che Lev Tolstoj disse di preferire ai lavori dello stesso Pirandello o ai romanzi di Giovanni Verga. Egli aveva appena costituito la sua compagnia nella quale era prima attrice Vera Vergani, sentimentalmente e direi opportunamente a lui legata, e prim’attore era Lugi Cimara che con la Vergani formò un’affiatata coppia scenica, e mai sapremo quanto affiatata fu anche in privato: chiacchiere di antichi corridoi; altro attore di punta era Luigi Almirante, forte carattere espressivo che ebbe un suo personale successo proprio con le opere pirandelliane a partire da questi “Sei personaggi” in cui interpretò il Padre, con Jone Frigerio nel ruolo della Madre, l’acclamatissima Vergani come Figliastra e Cimara come Figlio. Nonostante il contrastato esordio romano, l’impresario Niccodemi non si fece intimorire e portò lo spettacolo a Milano dove fu degnamente acclamato: in questo link la critica dalla rivista Comoedia dell’ottobre 1921. Più tardi, nel 1925, Pirandello aggiunse una prefazione nella quale spiegava la genesi e le intenzioni del dramma, per meglio disporre il pubblico alla comprensione.

Roberto Andò ci accompagna in un viaggio immersivo nel disorientamento di un Pirandello in lutto per la morte della vecchia balia, distrutto dalla follia della moglie e tormentato dai suoi fantasmi-personaggi che ancora non sa come portare in scena – e lo fa regalandosi e regalandoci una leggerezza narrativa che scivola su tutto il racconto drammatico come un balsamo lenitivo: si sorride, si ride anche, mentre si palpita e ci si emoziona per questo Pirandello così misteriosamente umano ed empatico.

Lo interpreta un Toni Servillo sempre in gran spolvero quando c’è da rendere dei personaggi realmente esistiti: è stato Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi e Ennio Doris per Paolo Sorrentino (“Il divo” e “Loro”), Giuseppe Mazzini e Eduardo Scarpetta per Mario Martone (“Noi credevamo” e “Qui rido io”), e Paolo VI in “Esterno notte” di Marco Bellocchio. Gli fanno da contraltare la coppia Ficarra e Picone, Salvatore Ficarra e Valentino Picone, che si esibiscono come cabarettisti a partire dal 1993; nel 2000 partecipano separatamente con piccoli ruoli in “Chiedimi se sono felice” film del trio Aldo Giovanni e Giacomo, e già dal 2002 avviano la loro personale sequenza di film di derivazione cabarettistica; in questo “La stranezza” sono per la prima volta protagonisti di una commedia, grottesca sì ma dai risvolti drammatici, in cui benché sempre facendo coppia sono altro e meglio del loro standard, già alto: il loro ultimo film pre-pandemia “Il primo natale” era in testa nella classifica del botteghino.

Il resto del nutrito cast è una felicissima carrellata di facce perfette, cinematograficamente parlando, facce che altrettanto felicemente corrispondono ad interpreti di razza, e si intuisce un minuzioso lavoro di casting. Renato Carpentieri interpreta il Giovanni Verga che Pirandello va ad omaggiare per i suoi ottant’anni, e al quale rivolge i suoi dubbi esistenziali e creativi. Aurora Quattrocchi è la vecchia balia, e la catanese Donatella Finocchiaro, già protagonista per Andò in “Viaggio segreto” del 2006, qui interpreta in una sola intensa scena muta la moglie pazza di Pirandello. A conclusione dei personaggi che ruotano attorno a Pirandello va senz’altro nominato il suo storico suggeritore Battaglia interpretato da Antonio Ribisi La Spina. Altro centratissimo interprete di una scena muta, perché muto è il personaggio, è l’ultima grande maschera del teatro catanese, Tuccio Musumeci, nel ruolo del suocero di Nofrio (Picone) sempre in mezzo sulla sua sedia a rotelle e con uno sguardo sempre preventivamente punitivo. Rosario Lisma è il corrotto impiegato comunale la cui vicenda è una storia nella storia.

In primo piano Antonio Ribisi La Spina
Cartolina ricordo della compagnia filodrammatica

Fra gli attori amatoriali della “Compagnia Filodrammatica Siciliana Principato e Vella” spiccano la puntuta Marta Lìmoli, del cui personaggio non sappiamo le vicende ma che potrebbe essere una sartina come una bidella come la moglie del farmacista, e il bonaccione Franz Cantalupo anche becchino per la coppia dei capocomici impresari funebri: entrambi attori provenienti dalla scuola catanese che benissimo hanno saputo mimetizzarsi, anche linguisticamente, in un cast girgentino-palermitano: è cosa nota che siciliani dell’est e dell’ovest hanno cadenze e musicalità diverse e che non sempre sono in grado di fingersi gli uni per gli altri. Nella compagnia amatoriale spicca anche Brando Improta che è Fofò, il torvo trovarobe innamorato di Santina, la sorella del gelosissimo Bastiano (Ficarra) che però finirà col fare coppia col di lui amico Nofrio che per lei lascerà la famiglia e romperà la storica amicizia col collega d’impresa funebre e d’arte. Santina è interpretata da Giulia Andò, figlia del regista e col quale ha praticamente solo lavorato, e forse meriterebbe di spiccare il volo dal nido. Visibilmente appesantita ma per questo efficacissima nel ruolo della prostituta che allieta i momenti intimi di Bastiano, è Tiziana Lodato, un’altra catanese che fu protagonista ventenne al suo debutto in “L’uomo delle stelle” di Giuseppe Tornatore. Completano il cast dei filodrammatici Laura Giordani, già vista in “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante, Aldo Failla protagonista di una divertente gag, Adele Tirante e Alberto Molonia.


Adele Tirante, Laura Giordani, Franz Cantalupo e Aldo Failla nella compagnia amatoriale

Nella catartica messa in scena dei “Sei personaggi” Filippo Luna è il direttore di scena, Luigi Lo Cascio il capocomico, Fausto Russo Alesi il Padre, Galatea Ranzi la Madre, Giordana Faggiano la Figliastra e Paolo Briguglia il Figlio, in una inappuntabile e coinvolgente ricostruzione storica di quell’evento, col pubblico che venne alle mani e Pirandello che dovette fuggire insieme alla figlia. I due teatranti amatoriali venuti dalla Sicilia ad assistere allo spettacolo rimangono chiusi nel teatro vuoto e non sapremo che ne sarà di loro perché non importa: sono ulteriori fantasmi che hanno animato la stranezza creativa di Luigi Pirandello in un’invenzione narrativa che veicola un momento biografico e storico. Nel complesso un film di cui sentiremo ancora parlare, con diversi piani di lettura e di un autore in stato di grazia che, va detto, l’ha scritto con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso. Premi in arrivo per tutti.

Il cast del ricostruito Teatro Valle

Le sorelle Macaluso – frammenti di vite che parlano di tutti noi

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Elena Cotta con la sua Coppa Volpi a Venezia

Secondo film di Emma Dante, complessa autrice teatrale palermitana, tratto da un suo spettacolo di grande successo. il primo film è stato “Via Castellana Bandiera” del 2013, tratto da un suo romanzo, poiché la Dante è anche prolifica scrittrice, e che presentato al Festival di Venezia ha portato ad Elena Cotta, anziana signora del teatro, la Coppa Volpi come migliore interpretazione femminile. Anche a quest’opera seconda va un premio alle interpretazioni, nello specifico il Premio Pasinetti per la migliore interpretazione femminile all’intero cast – quello per l’interpretazione maschile è andato ad Alessandro Gassmann per “Non odiare”. Voci di corridoio sussurrano che la Dante rimase delusa allora, quando il riconoscimento andò alla sua co-protagonista e non anche a lei che ne era anche co-interprete, e delusa oggi dato che il Premio Pasinetti è un premio collaterale e non risplende di prima luce come la Coppa Volpi. Delusioni lecite, per carità, dato che è un mestiere necessariamente fatto di egocentrismo, a volte sfrenato, e nello specifico di Emma Dante è un percorso artistico fatto anche di visceralità.

Comincia come attrice, frequenta la scuola di teatro del palermitano Michele Pereira, sperimentatore espressionista col quale non si trova in sintonia, e lascia dopo il primo anno. Frequenta l’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma, percorso formativo assai classico che le dà le solide basi culturali di cui necessiterà nel suo futuro creativo; come spettatrice si avvicina al teatro d’avanguardia ed è folgorata dal polacco Tadeusz Kantor, rivoluzionario del teatro, simbolista e astrattista suggestionato dal teatro dell’assurdo e dalla teoria della supermarionetta. Tutti spunti, per chi volesse, da approfondire altrove. In sintesi: il testo e i suoi interpreti, i movimenti e i suoni, sono visti come elementi autonomi non più sottomessi alla classica interpretazione di un testo, ma divengono realtà separate, indagate e rappresentate autonomamente, e contemporaneamente, nell’ottica di una performance teatrale totale.

Nel 1999, tornata a Palermo dopo una carriera teatrale più o meno tradizionale, fonda la sua compagnia, Sud Costa Occidentale, che nel nome ha due precise collocazioni intese anche come distinguo: Sud – dato che il suo teatro parlerà del suo sud, in dialetto, un dialetto che diventerà un grammelot alla Dario Fo quando nel suo gruppo arriveranno interpreti non siciliani – e Occidentale, per distinguersi dalla costa orientale, Catania, nello specifico, dove ha vissuto durante l’infanzia e dove in quegli anni impera un teatro stabile di nobili e classiche tradizioni, oggi allo sbando. Il suo teatro è anche sociale, e ci tiene a precisare che non è politico, perché racconta il popolo, la miseria fisica e morale, la fame, la bestialità e un dolore del vivere senza catarsi, intrappolato ed espresso nel corpo degli interpreti, in un teatro che si fa espressionista nel suo personalissimo modo.

“le sorelle Macaluso” a teatro erano sette, perché dalle Pleiadi in poi le sorelle sono sempre sette, nell’immaginario collettivo, sette stelle, “Sette spose per sette fratelli” film del 1954; ed esistono filastrocche e romanzi, ma ci sono anche le sette sorelle delle compagnie petrolifere internazionali e le sette sorelle fra le squadre di calcio in serie A. Il film ne perde due per concentrarsi in un nuovo racconto, dove i gesti, le grida, i bisbigli, la ripetitività, la fisicità, l’animalità, rimangono e si asciugano per essere raccontati per immagini, che è lo specifico dell’opera filmica, immagini che Emma Dante frammenta in dettagli, di espressioni e di gesti, di oggetti quotidiani, in una ripetitività che si fa altrimenti narrativa, e portatrice di quegli stessi valori, e disvalori, che ha raccontato in teatro: la differente femminilità, la brutalità della vita, la fisicità dei rapporti fra sorelle e fra donne e oggetti, senza tralasciare il potente simbolismo che il mezzo cinematografico le consente: un buco scavato nel muro – nonostante le ampie finestre – da cui le sorelle si accalcano per spiare il mondo da una prospettiva minima, ristretta, costretta, come è la loro vita; e poi la colombaia con centinaia di colombe, molte delle quali bianche da dare in affitto per matrimoni e feste parrocchiali, perché tanto tornano sempre a casa, bianche perché il bianco è il colore della purezza, e la purezza è il colore delle sorelle Macaluso, la purezza dei loro spiriti e dei loro intenti, dei loro sogni che andranno infranti negli anni futuri, che resteranno bianchi nonostante tutto, la tragedia, la miseria, le gelosie, i rancori, la mancanza di amore, i matrimoni grigi, il sesso gridato alla finestra: nel racconto di Emma Dante, dal teatro al film, non c’è speranza per nessuna di loro ma la sensazione che mi rimane, da spettatore cinematografico, è che comunque ognuna di loro è salva nel disegno più ampio dell’universo, perché ognuna ha vissuto tutti i propri peccati ed ognuna non ha mai tradito, né se stessa né le altre.

Le cinque sorelle Macaluso sono accompagnate dalla loro infanzia-giovinezza del 1985 (viene citato il film “Ritorno al futuro”) anno di illusioni e di speranze colorate, ma in cui perdono la più piccola e si radica il dramma che le accompagnerà per sempre, al grigio presente in cui sono mature e disilluse, e perdono un’altra di loro, alla vecchiaia in un futuro immaginario di là da venire che celebra il funerale della sorella più mentalmente instabile, l’unica che – non è un caso, è anzi un altro simbolo – ama i libri. Viola Pusatieri è la piccola Antonella che tornerà a farsi mettere il rossetto nei ricordi delle sorelle; Eleonora De Luca e Simona Malato, che viene dal teatro di Emma Dante, sono Maria adolescente e poi adulta; Susanna Piraino, Serena Barone e Maria Rosaria Alati, interpretano le tre età di Lia, la lettrice, la disturbata, fra le quali solo Serena Barone viene anche dallo spettacolo teatrale; alla più rotonda Katia danno vita Alissa Maria Orlando, Laura Giordani e Rosalba Bologna; mentre la più vivace e sessualmente attiva è interpretata dalla giovane Anita Pomario, che da adulta è l’unico nome noto nel circuito cinematografico, Donatella Finocchiaro, e da anziana è Ileana Rìgano qui alla sua ultima interpretazione insieme a “Picciridda”, anch’esso presentato alla 77a Mostra di Venezia dove ha ricevuto la “Menzione Speciale Opera Prima” del Premio Kinéo.

“Le sorelle Macaluso” è un film ammaliante, avvolgente, come le mura della casa – che è la “sesta sorella” come dice l’autrice nelle interviste – appartamento in cui si svolge e si avvolge la vita di queste donne, bambine avventurose, adolescenti piene di sogni, donne sfigurate dal dolore, donne concrete senza illusioni, donne senza uomini nonostante gli uomini, donne che non sanno che farsene degli uomini: donne simbolo di tante donne sparse in tutta la Sicilia, dentro ogni casa, in ogni famiglia, da dove la favola nera di Emma Dante prende spunto e ritorna, per farci riconoscere come nipoti, figli, fratelli, mariti, amanti. Evocativo anche il commento musicale, che utilizza la più nota delle Gymnopédies di Erik Satie, che dal carillon nella colombaia esce a diventare struggente colonna sonora; e poi la voce di Gianna Nannini che spicca su tutte le altre canzoni. Un film che merita un lungo percorso e che celebra, nonostante il dialetto che sottende alla lingua parlata, un linguaggio limpido e comprensibile in tutte le parti d’Italia, contrariamente alla tendenza odierna di altre produzioni dove il parlato va oltre il dialetto e diventa un biascichio incomprensibile. Un film che vedrei bene per rappresentare l’Italia agli Oscar.

recensione di Le Sorelle Macaluso
La regista circondata dll’intero cast