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Whitney – Una voce diventata leggenda

Il problema dei film biografici è che anche mostrando debolezze e intime miserie del personaggio noto, inevitabilmente sono sempre agiografici e celebrativi, e questo dedicato a Whitney Houston non sfugge al cliché, perché l’intento, dichiaratissimo, è proprio quello: è sicuramente un bel film ma non un grande film. Perché un film biografico diventi cinema di qualità superiore c’è bisogno che dietro ci sia non un semplice regista ma un autore che dia al film la sua impronta precisa e personale – e che altrettanto inevitabilmente allontanerà il film dal prodotto medio standard: o film per pochi, come “Anton Čechov” appena visto, o film personalissimo che inevitabilmente tradisce la biografia.

È un dato di fatto che la scrittura filmica tradisce sempre l’ispirazione originale, trattasi di biografia o fatto reale, romanzo o pièce teatrale, perché il linguaggio cinematografico ha altre esigenze narrative rispetto all’originale cui si ispira; e quando questo avviene perché dietro c’è un Autore, appunto uno o una con la A maiuscola che confeziona un film che verrà ricordato nei decenni a venire, siamo tutti soddisfatti; ma se il prodotto è un medio prodotto di stagione allora siamo più propensi a dare voce ai dubbi e cominciamo a chiedere il perché di certi tradimenti: l’Autore non tradisce – travisa, ricrea, e dà una lettura personale dei fatti. Qualche esempio? senza andare troppo lontano nel tempo fino a “Lawrence d’Arabia” di David Lean del 1962, c’è “Toro Scatenato” di Martin Scorsese del 1980, o “Malcom X” di Spike Lee del 1992, o “Frida” di Julie Taymor del 2002, e l’elenco è assai ricco.

Namie Ackie e Whitney Houston

Il film racconta Whitney dall’adolescenza alla morte con l’intensa interpretazione della britannica Naomi Ackie (ma Whitney rimane più affascinante) che canta con la sua voce nelle sessioni private ma è doppiata dall’originale The Voice, così com’era stata soprannominata la Houston, in tutte quelle performance pubbliche di cui esistono registrazioni. Quello che il film rivela a noi pubblico medio è che la cantante ebbe a inizio carriera un’importante relazione omosessuale con Robyn Crawford (Nafessa Williams) che anche come amica le resterà accanto tutta la vita; poi c’è l’agitato matrimonio col rapper Bobby Brown (Ashton Sanders), il confortante rapporto col sempre accogliente e generoso produttore Clive Davis (Stanley Tucci) e per finire, ma anche per cominciare perché alla radice del suo successo, il conflittuale rapporto coi genitori.

Dionne e Dee Dee Warwick

Figlioccia di Aretha Franklyn e cugina delle sorelle Dionne Warwick e Dee Dee Warwick, Whitney era figlia di John Russell Houston (Clarke Peters) che di mestiere faceva il manager della moglie (e nel mio piccolo immaginario personale quando c’è un uomo che fa da manager alla sua donna mi viene sempre da pensare a un pappone) che è la cantante soul e gospel Cissy Houston (Tamara Tunie) la quale aveva avviato la figlia nel coro della chiesa, dove la talentuosa bambina si conquistò il ruolo di solista a 11 anni; inoltre la ragazza accompagnava la madre nelle serate nei locali dove occasionalmente saliva sul palco a farle da spalla o corista. Sin da subito fu evidente alla madre il suo talento, la sua grande estensione vocale, per mettere in risalto la quale Whitney preferiva allungare le note e rallentare i ritmi di canzoni già famose rifacendole totalmente sue. Qui a seguire “I will always love you” che nel 1974 era stata incisa dalla folk-singer Dolly Parton e che poi Whitney, reinterpretandola, portò al successo planetario: è diventato il singolo più venduto nella storia da una cantante, e afroamericana, nonché uno dei più venduti di sempre con oltre 22 milioni di copie nel mondo; il film diretto da Mick Jackson era come tutti sappiamo “Guardia del corpo” accanto alla star Kevin Costner reduce dal suo clamoroso successo come regista esordiente “Io ballo coi lupi”. Quando si definì la produzione del film fu proprio Costner a suggerire il nome di Whitney Houston e fu ancora lui a spingerla a cercare brani più consoni rispetto a quelli che prevedeva la sceneggiatura. Costner ha concesso l’uso della sua immagine di repertorio nel film odierno, insieme a Oprah Winfrey che ha ospitato la cantante nel suo show.

Poi ci furono la droga e gli psicofarmaci e un lento declino ma quello che il film non racconta è quanto il fratellastro Gary Garland, figlio del primo matrimonio della madre, rivelò in un’autobiografia: che lui e Whitney da bambini, 7 e 9 anni, vennero abusati dalla più anziana cugina Dee Dee Warwick, fatto che è stato raccontato nel docu-film “Whitney Houston – Stella senza cielo” di Kevin McDonald presentato al Festival di Cannes nel 2018; e poiché l’interessata, scomparsa dieci anni prima non poteva replicare, sua sorella Dionne in un comunicato congiunto con la zia Cissy negarono che ciò potesse essere avvenuto, pur ammettendo i lati oscuri della personalità di Dee Dee. Sia come sia si torna al concetto di biografia: per varie scelte – di opportunità, di tempi narrativi, stilistiche – non tutto può essere contenuto in un film e quello che non ci viene mostrato finisce col non esistere, come tutto quello che non entra nell’inquadratura di una fotografia. Punto. Prima di questo un altro film televisivo del 2015 “Withney” era stato diretta dall’attrice Angela Bassett alla sua prima regia. Angela e Whitney avevano lavorato insieme nel 1995 in “Donne – Waiting to Exhale” opera prima cinematografica dell’attore Forest Whitaker.

Scritto dal quotato neozelandese Anthony McCarten che entra anche fra i produttori, la regia era stata in un primo tempo affidata alla canadese nera Stella Meghie salita alla ribalta col suo precedente successo “The Photograph – Gli scatti di mia madre”, film ambientato nella comunità nera di New York; ma distratta da un altro progetto – una serie tv per Disney+ – lascia la regia restando nella produzione (che fra produttori semplici e produttori esecutivi conta ben più di 30 nomi: un’esagerazione) e la direzione del film viene affidata a un’altra nera che è anche attrice, Kasi Lemmons, qui anche lei produttrice, e anche lei specializzata nei film all black e che ha all’attivo altre due biografie: quella di un ex detenuto che diventa attivista e seguitissimo speaker radiofonico in “Parla con me” e “Harriet” sull’abolizionista della schiavitù Harriet Tubman attiva nella seconda metà dell’Ottocento. A seguire si formò il cast e venne scelta Naomi Ackie assurta alla notorietà per aver vinto il British Indipendent Film Award per la sua interpretazione in “Lady Macbeth” di William Oldroyd. Anche l’attrice s’è acquistata un biglietto per sedere nel numeroso consiglio dei produttori probabilmente rinunciando a una parte della paga come accade agli interpreti emergenti alla loro prima co-produzione. E anche Clive Davis, il produttore musicale della cantante è nella lista dei produttori.

Nel 2012 Whitney è morta 48enne annegata nella sua vasca da bagno e la causa della morte non è chiarissima. Secondo le indagini mediche morì per un collasso cardiaco assai probabilmente causato dall’abuso di droga farmaci e alcol, sostanze che nello specifico non hanno causato la morte che venne archiviata come accidentale. Anni dopo si fece strada un’altra ipotesi secondo la quale era morta per annegamento in seguito a un attacco cardiaco causato sempre dai farmaci. in ogni caso non si trattò di suicidio né omicidio. Un’ultima speculazione fece riaprire il caso sulla causa della morte allorché un investigatore privato, probabilmente in cerca di visibilità, rese pubblica la sua teoria, soltanto sua, secondo cui la cantante sarebbe stata assassinata per debiti di droga. Resta la sua grandezza: fu la prima cantante afroamericana a conquistare mercati musicali fino ad allora preclusi ai neri; ha piazzato 7 singoli consecutivi nella top 100 statunitense scalzando il record dei Bee Gees; tra gli altri record detiene anche il primo posto nella classifica degli artisti afroamericani di maggior successo di sempre, insieme a Michael Jackson, e nel 2006 il Guinness dei Primati l’ha dichiarata “l’artista più premiata e famosa di tutti i tempi”. Dunque figura fortemente emblematica per la cultura nera americana in generale, e in quello musicale nello specifico, da cui i due film biografici e i due documentari. Poi la sua morte improvvisa ha creato il resto del mito. La cosa ancora più triste è che il frutto non cade mai lontano dall’albero: tre anni dopo sua figlia Bobbi Kristina Brown a 22 anni fu ritrovata priva di sensi nella vasca da bagno anche lei svenuta per un mix letale di sostanze e tenuta in coma farmacologico per sei mesi prima di spegnersi. E anche su di lei film e documentari.

Oscar 2022, la sintesi della serata

A inizio serata Daniel Kaluuya, premio Oscar 2021 non protagonista per “Judas and the Black Messiah” di Shaka King, insieme a H.E.R. premio Oscar per la miglior canzone originale per lo stesso film, annunciano il premio alla migliore attrice non protagonista 2022 ma soprattutto, insieme, vestono i colori della bandiera ucraina.

Ariana De Bose riceve l’Oscar come migliore attrice non protagonista per il ruolo di Anita in “West Side Story” remake di Steven Spielberg del musical del 1961 diretto da Robert Wise e Jerome Robbins, dove a ricevere l’Oscar per lo stesso ruolo fu Rita Moreno, che in questo remake è fra i produttori e si ritaglia il piccolo ruolo di Valentina che volge al femminile il personaggio di Doc del musical originale.

Rita Moreno, 91 anni

A seguire “Dune” di Denis Villeneuve si aggiudica tre premi tecnici per l’impianto sonoro, la fotografia e gli effetti speciali.

Viene poi omaggiata la saga di 007 che compie 60 anni, essendo cominciata nel 1962 con “Agente 007 licenza di uccidere”, starring Sean Connery, e conclusa con la morte della spia più longeva iconica e redditizia dell’industria cinematografica nell’ultima interpretazione di Daniel Craig “No Time to Die”. In mezzo possiamo recuperare altre chicche come la parodia del 1967 “Casino Royale” che è anche il titolo del primo film con Daniel Craig, reboot della serie nel 2006. Ma c’è anche uno 007 apocrifo del 1983, o fuori serie, che per complesse azioni legali viene realizzato da una differente produzione, e per l’occasione viene riscritturato un già anziano Sean Connery da mandare in duello al botteghino con lo 007 ufficiale che all’epoca era Roger Moore, del quale abbiamo il primo 007 “Vivi e lascia morire” del 1973. E c’è la parentesi George Lazenby “Agente 007 al Servizio Segreto di sua Maestà” del 1969.

Viene poi premiato il miglior film di animazione, “Encanto”.

Mentre il miglior corto di animazione è “The Windshield Wiper”, sei anni di lavorazione, che è integralmente disponibile su Youtube, in lingua originale, con limitazioni per scene di sesso. La sinossi: all’interno di un bar, mentre fuma un intero pacchetto di sigarette, un uomo di mezza età fa a sé stesso e a noi pubblico una domanda ambiziosa: “Cos’è l’Amore?”. Troverà la risposta in una raccolta di scenette e situazioni animate ma talmente iperrealistiche da sembrare ridisegnate su un film dal vero; in realtà, come racconta l’autore Alberto Mielgo, lui parte da sopralluoghi reali in cui scatta delle fotografie che userà per dipingere i suoi scenari in 2D mentre i personaggi in movimento sono in 3D. Oltre ai dialoghi sceneggiati e riprodotti, sullo schermo compaiono molte scritte che riproducono voci fuori campo, maschili e femminili, che rispondono fuori copione a domande sull’amore. Poi spiega il titolo che in italiano è tergicristallo: “Il titolo è molto importante e molto significativo. Ogni volta che proviamo a definire l’amore, per lo più falliamo, perché è quasi indefinibile. Questo perché la definizione di amore si basa sulle relazioni e ogni relazione è diversa. Uso la metafora di un tergicristallo perché ogni goccia d’acqua crea un motivo su un parabrezza, quindi il tergicristallo pulisce le gocce e poi la pioggia crea uno schema completamente diverso. Non è mai lo stesso. Ogni modello di gocce è una relazione diversa. E questo si riflette anche nel ritmo del film, che è lo stesso di un tergicristallo. Mostra e pulisce e mostra e pulisce. Rivela un modello, ma il modello non viene mai spiegato. È un po’ come un codice che solo le coppie conoscono, ma in realtà nemmeno le coppie ne capiscono il modello.”

La sudcorena Youn Yuh-jung migliore attrice non protagonista lo scorso anno per “Minari” proclama il migliore non protagonista 2022 il non udente Troy Kotsur per il film “I segni del cuore” che è il remake del francese “La Famiglia Bélier” del 2014 diretto da Éric Lartigau, che aveva una marcia in più perché gli interpreti dei ruoli dei genitori sordomuti della protagonista sono due attori normodotati talmente bravi da sembrare realmente sordomuti. Va ricordato che Troy Kotsur è il secondo attore sordomuto premiato con l’Oscar dopo Marlee Matlin che lo vinse nel 1987 per “Figli di un Dio Minore” di Randa Haines e che qui è la madre della protagonista normodotata che vuole fare la cantante. Dispiace che l’attore ringrazi la regista e sceneggiatrice Sian Heder per aver messo insieme, col suo film, il mondo dei non udenti con quello degli udenti, dimenticando clamorosamente che la sceneggiatura originale è francese.

Segue l’Oscar al miglior film internazionale che vedeva schierato il nostro “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino già Oscar nel 2014 con “La grande bellezza” e che è andato al giapponese “Drive my car” di Ryūsuke Hamaguchi che aveva vinto anche il Prix du Scénario a Cannes.

E’ poi il momento di Mila Kunis, che, essendo ucraina di nascita e statunitense d’adozione, era molto atteso il suo intervento come presentatrice di una delle migliori canzoni originali candidate; non delude le aspettative mantenendosi nella traccia obbligatoria della serata e parla, senza fare nomi di luoghi e persone, di eventi totali, forza e dignità, devastazione, resilienza, forza, lotta, buio inimmaginabile; poi presenta il brano “Somehow you do” di Diane Warren eseguita da Reba McEntire per il film “Quattro buone giornate” che Mila Kunis interpreta con Glenn Close.

Dopodiché compare il cartello: “We’d like to have a moment of silence to show our support for the people of Ukraine currently facing invasion, conflict and prejudice within their own borders. While film is an important avenue for us to express our humanity in times of conflict, the reality is millions of families in Ukraine need food, medical care, clean water, and emergency services. And we – collectively as a global community – can do more. We ask to support Ukraine in any way you are able. #standwithukraine”. Il ventilato intervento del presidente Volodymyr Zelens’kyj non c’è stato.

Lupita Nyong’o – l’attrice keniota premiata al suo debutto cinematografico come migliore non protagonista in “12 anni schiavo” del 2013 di Steve McQueen, regista nero inglese omonimo del bianco divo hollywoodiano – entra sul palco accompagnata da Ruth Carter, prima costumista nera a vincere l’Oscar per “Black Panther” del 2018 diretto dal nero Ryan Coogler (un momento di orgoglio nero, dunque); presentano i candidati migliori costumisti, and the Oscar goes to Jenny Beavan per “Crudelia” di Craig Gillespie con Emma Stone, film targato Disney che rinverdisce il mito della cattiva di “La carica dei 101” mettendola al centro di una storia tutta sua dove i dalmata sono solo comprimari, ispirato al mitico cartone animato del 1961 che nel 1996 è stato rifatto in live action, regia di Stephen Herek, in cui una strepitosa Glenn Close ha dato vita al personaggio.

Segue l’ispanico John Leguizamo che dà vita a un suo momento di orgoglio latino raccontando che nel 1928 come modello per la statuetta dell’Oscar è stato preso l’ispanico Emilio Fernandez, e conclude col doppio senso che è “come avere un 30 centimetri di messicano nelle tue mani che si chiama Oscar”; presenta la seconda canzone originale in gara, “Dos Oruguitas” di Lin-Manuel Miranda.

A introdurre i candidati alla miglior sceneggiatura originale arriva il terzetto dei protagonisti del film “Juno” del 2007 diretto da Jason Reitman che vinse proprio in questa categoria con la sceneggiatura di Diablo Cody; il terzetto è formato da J. K. Simmons, Jennifer Garner e Elliot Page che all’epoca del film era ancora anagraficamente donna col nome di Ellen Page. Si aggiudica la statuetta Kenneth Branagh che ha scritto e diretto il semi-autobiografico “Belfast”, primo Oscar dopo ben otto nomination nella sua carriera di attore e regista.

Il cantante Shawn Mendes e la performer (cantante, attrice comica, conduttrice tv, regista) Tracee Ellis Ross (figlia di Diana Ross) con un ardito décolleté, sono chiamati a presentare la migliore sceneggiatura non originale, ovvero tratta da preesistente opera; e vince la Sian Heder (al suo secondo film) che ha riscritto il film francese sulla famiglia di sordomuti e che nel suo discorso di ringraziamento non dice una parola sull’opera originale a cui si è ispirata.

Jason Momoa, nel cast di “Dune”, accetta a nome del compositore Hans Zimmer, che non poteva essere presente alla serata, il premio per la miglior colonna sonora originale.

Subito a seguire Rami Malek, che era il cattivo dell’ultimo 007, presenta la canzone scritta per il film e candidata fra le migliori canzoni originali, “No Time to Die” di Billie Eilish e Finneas O’Connell che a dispetto dei nomi sono sorella e fratello, che più avanti nella serata verrà proclamata vincitrice nella cinquina presentata da Jake Gillenhaal e Zoe Kravitz.

A presentare i candidati per il miglior montaggio è una voce femminile fuori campo mentre scorrono le clip dei cinque film, e vince ancora “Dune” col montaggio di Joe Walker, assiduo collaboratore del regista, Denis Villeneuve, per il quale aveva montato “Arrival” ricevendo una candidatura, e di un altro regista col cui film era stato precedentemente nominato, Steve McQueen, “12 anni schiavo”.

Per annunciare il miglior documentario arriva sul palco il comico Chris Rock che com’è prassi fa un po’ di battute, prima prendendo di mira la coppia Javier Bardem – Penelope Cruz entrambi nominati nelle rispettive sezioni da protagonisti, poi passando a Will Smith e sua moglie Jada Pinkett che notoriamente soffre di alopecia e infatti sfoggia un look testa rasata, e il comico fa un’infelice battuta: non vede l’ora di vederla nel remake di “Soldato Jane”, film in cui Demi Moore sfoggiava il look testa rasata; Jade ha alzato gli occhi al cielo, mentre il comico si commenta da solo dicendosi che la battuta non era male; ma Will Smith si alza dalla platea e sale in palcoscenico a dargli un pugno in faccia, proprio come si fa nei film, e Chris Rock continua a sorridere commentando “Wow! Will Smith mi ha appena dato un bel pugno!” mentre Smith, tornando a sedere gli grida: “Togliti il nome di mia moglie dalla tua cazzo di bocca!” Gelo in sala.

Si prosegue con la presentazione dei documentari candidati e la nomina del vincitore: “Summer of Soul (…Or, When the Revolution Could Not Be Televised)” regia del musicista Questlove.

Il rapper Sean Diddy Combs, noto anche come Puffy Daddy, viene sul palco per ricordare il 50esimo anniversario di “Il Padrino” ma non può fare a meno di parlare, da artista nero, di quello che è appena successo fra altri due artisti neri, e si auspica che nel retropalco tutto verrà chiarito perché si è tutti una grande famiglia. Poi dopo sequenze dei film della seria compaiono insieme sul palco Francis Ford Coppola (83 anni) Robert De Niro (79) e Al Pacino (82) ed è subito standing ovation.

Arriva il sempre commovente momento In Memoriam col tappeto canoro dei The Samples Choir, e Tyler Perry apre la sequenza omaggiando Sidney Poitier; segue l’intervento di Bill Murray per ricordare il regista Ivan Reitman; conclude Jamie Lee Curtis che omaggia Betty White; fra gli altri nomi più noti scomparsi nell’ultimo anno: la nostra Lina Wertmuller, il recentissimo William Hurt, il francese Jean-Paul Belmondo; e poi il musicista Mikis Theodorakis, e i registi Peter Bogdanovich, Richard Donner, Jean-Marc Vallée, e gli attori Ned Beatty, Charles Grodin, Michael K. Williams, Sally Kellerman, Dean Stockwell.

Ancora un’altra statuetta a “Dune” che si aggiudica anche la migliore scenografia di Patrice Vermette e Zsuzsanna Sipos, piazzandosi con 6 Oscar su 10 nomination al primo posto fra i premiati.

Kevin Costner presenta i candidati alla miglior regia che va a Jane Campion per “Il potere del cane” che con 12 nomination era in testa e si aggiudica solo quest’importante premio.

A 28 anni da “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino, arriva sul palco il terzetto formato da Uma Thurman, John Travolta e Samuel L. Jackson – altra standing ovation – per nominare il miglior attore protagonista, che è Will Smith per “Una Famiglia Vincente – King Richard” dove interpreta il padre delle tenniste Serena e Venus Williams. E Will Smith si aggiudica il premio tornando sul palco dove prima era salito a difendere l’onore di sua moglie, ora commosso fino alle lacrime. Dice che è “stato chiamato in questa vita ad amare le persone e a proteggere le persone”. Protegge la memoria di Richard Williams che ha interpretato, la collega Aunjanue Ellis che interpreta sua moglie e le ragazze che interpretano le figlie. E poi cita il beduino interpretato da Anthony Quinn in “Lawrence d’Arabia”: “Io sono un fiume per la mia gente”, consapevole di essere uno degli attori più potenti di Hollywood, nominato dalla rivista Newsweek il più nel 2007. Poi, parlando di lavoro mischia finzione e la realtà e fa un riferimento velato a quanto successo parlando di persone che non portano rispetto, e cita Denzel Washington che gli ha detto: “Nel tuo momento più alto è proprio quello il momento in cui il diavolo viene a tirarti per la manica” e alla fine chiede scusa all’Accademy e a tutti i colleghi fra lunghe pause e lacrime copiose che dicono molto più delle parole, e alla fine ringrazia con una battuta: “Spero che mi invitino di nuovo su questo palco!”

Nel retropalco Will Smith incontra e abbraccia Sir Anthony Hopkins che sta andando a premiare la migliore attrice. Nel frattempo viene premiato il miglior trucco per “Gli occhi di Tammy Faye” di Michael Showalter. Vengono anche annunciati gli Oscar alla carriera: Samuel L. Jackson, Liv Ullmann e Elaine May, e contrariamente agli anni precedenti non vengono premiati in palcoscenico ma solo inquadrati nel salottino in cui sono relegati e senza la possibilità di dire una sola parola. Triste.

L’ingresso di Anthony Hopkins suscita un’altra standing ovation, e comincia dicendo: “Will Smith ha già detto tutto”; poi dopo avere speso belle parole per le attrici della cinquina annuncia la vincitrice Jessica Chastain. Segue Lady Gaga, protagonista del discusso “House of Gucci” per il quale si aspettava una candidatura non arrivata, che sale sul palco a nominare il miglior film 2022 che a sorpresa è l’outsider “I Segni del Cuore” a riprova che quando ci sono disabilità e buoni sentimenti l’Academy non si tira mai indietro, e fra i ben dieci film in concorso ce n’erano di titoli certamente migliori. In ogni caso molta bella roba da vedere, avendone la possibilità.