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Il signore delle formiche

Forse casualmente, nel centenario della nascita di Aldo Braibanti, Gianni Amelio esce con questo film, di certo cominciato a pensare quando Braibanti morì nel 2014. Un film in cui salta subito agli occhi, vivaddio, una recitazione di altissimo livello con un cast che mischia grandi professioni a molti debuttanti, in pratica tutti gli emiliani i cui nomi sono accompagnati dalla scritta per la prima volta sullo schermo: Leonardo Maltese, che regge alla grande un lunghissimo primo piano durante il processo, è il giovane compagno del processato e vittima sacrificale; Davide Vecchi è il tormentato fratello tormentatore; l’anziana Rita Bosello è la palpitante madre di Braibanti; Roberto Infurna regge un altro lungo primo piano come ragazzo accusatore; la cantante lirica Anna Caterina Antonacci debutta come attrice nel ruolo dell’addolorata ottusa madre. Fra i professionisti, tutti centratissimi, Luigi Lo Cascio è Braibanti, Elio Germano è il giornalista, Sara Serraiocco è l’attivista Graziella, Giovanni Visentin è l’ambiguo direttore del giornale, Valerio Binasco e Alberto Cracco impersonano il pubblico ministero e il giudice. L’autore tira fuori da ognuno il meglio e si riconferma gran scopritore di talenti.

Ma chi era quest’uomo, una figura sconosciuta ai più, me compreso? Assurse alle cronache quando la stampa riportò in cronaca il caso Braibanti. Aldo Braibanti, impropriamente detto il professore poiché di fatto non ha mai insegnato, è stato un intellettuale a tutto tondo, in un’epoca in cui, fra le cose buone, le doti dell’intelletto erano ancora tenute da conto e definire qualcuno un intellettuale non era divenuto spregiativo; fu poeta, drammaturgo, e si occupò di arte in genere, cinema e letteratura, si cimentò nei collage e negli assemblage e viene ricordato, il titolo del film lo richiama, come mirmecofilo ovvero studioso delle formiche, passione che sviluppa sin dalla prima infanzia, quando accompagnava il padre medico condotto nelle visite spesso in zone rurali del loro nativo piacentino: dimostrò una precoce attenzione alla natura da ecologista in calzoncini corti, e in particolare fu incuriosito dalla vita degli insetti sociali come api e formiche e, protetto da una famiglia illuminata che in pieno periodo fascista rifiutò qualsiasi tipo di pensiero autoritario, e anche clericale, il piccolo Aldo cominciò a scrivere versi già a otto anni: il suo destino di intellettuale è segnato. Qui di seguito quattro opere di assemblaggio di Braibanti dall’esposizione allestita dal suo comune natio, Fiorenzuola d’Arda, presso l’ex macello a lui intitolato nel 2016.

L’adolescente Braibanti

Aldo, crescendo come studente modello ottiene l’esonero del pagamento delle tasse scolastiche, e ancora adolescente scrive e distribuisce clandestinamente a scuola un manifesto rivolto a “tutti gli uomini vivi” in cui invita i compagni di liceo a mobilitarsi contro la dittatura fascista, così anche la sua rottura con l’autorità è segnata: 18enne prende parte alla resistenza partigiana e partecipa alla nascita dei primi movimenti intellettuali antifascisti; nel 1943 aderisce al Partito Comunista che è clandestino, e viene arrestato due volte, rischiando la prima volta di essere fucilato, e la scampò grazie all’ordine di Pietro Badoglio che, alla caduta del fascismo, fece prima scarcerare docenti e studenti, la classe pensante, mentre il resto dei comunisti comuni ancora in attesa di giudizio furono prontamente giustiziati dai tedeschi: oggi si può interpretare la scelta di Badoglio come una scelta di classe, ma nella sostanza salvò delle vite piuttosto che condannarle tutte; la seconda volta Aldo fu arrestato per un ultimo colpo di coda della polizia investigativa fascista che sequestrò tutti i suoi scritti antecedenti al 1940 che vennero distrutti per sempre. Nell’immediato dopoguerra, dopo aver fatto l’importante e formativa esperienza fra gli organizzatori del Festival Mondiale della Gioventù, sarà anche collaboratore dell’ormai sdoganato Partito Comunista Italiano come responsabile delle attività giovanili in Toscana: prende forma il suo mondo. Ma presto lascia la politica attiva per dedicarsi alla sua visione culturale artistica e filosofica: seguendo l’esempio di vita comunitaria delle sue formiche aderisce alla comunità che si era installata nel Torrione Farnese di Castell’Arquato, nella provincia della sua terra natia, creata fra gli altri dall’eclettico Sylvano Bussotti, principalmente compositore ma artista a tutto tondo; una comunità dove si svolgeva un laboratorio artistico e artigiano le cui opere sono state esposte anche all’estero.

Collage di Sylvano Bussotti

Il Torrione fu una fucina di talenti e sperimentazioni in cui si esercitarono artisti concettuali e musicisti post-dodecafonici, teatranti e cineasti sovversivi, i più dotati dei quali invaderanno la scena romana e nazionale; anche un giovane Carmelo Bene si è affacciato in quella realtà ed è poi divenuto amico di Braibanti; il quale aveva lì ricreato i suoi formicai in teche, scrivendo e teorizzando opere teatrali e cinematografiche di sperimentazione, e raccogliendo intorno a sé un cenacolo di giovani attirati da una vita comunitaria in cui poter sperimentare se stessi e le proprie tendenze, umane sociali e artistiche.

Giovanni Sanfratello fotografato al processo, mostra chiaramente i segni delle torture subite

il professore conosce un 17enne che qualche anno dopo, con la raggiunta maggiore età, porta con sé nella capitale, a formare una coppia gay come oggi ce ne sono tante ma che all’epoca non poteva avere dignità pubblica (a dire il vero neanche oggi date le tante aggressioni che si registrano) perché motivo di scandalo e riprovazione; e quando si dava il caso che nella coppia ci fosse una sostanziale differenza di età ci si presentava come zio e nipote: tutti capivano, ma la facciata imposta dall’ipocrisia sociale restava intatta. “Mi sono spostato a Roma, – scrisse in seguito Braibanti – e Giovanni Sanfratello mi accompagnò, perché venendo a Roma poteva difendersi meglio dalle pressioni assurde del padre, dovute a ragioni religiose, ideologiche e politiche. I Sanfratello, anche loro piacentini, erano ultraconservatori, cattolici e tra i più fascisti, e non riuscivano ad accettare che il loro figlio potesse scegliere una vita tanto diversa dalla loro.” Il padre voleva per Giovanni una carriera in medicina ma il ragazzo voleva dipingere e nella comunità trovò la sua via di fuga, via già percorsa dal fratello Agostino di poco maggiore: figura assai ambigua, mosso dalla gelosia di non essere più il preferito o di non aver saputo accentrare su di sé l’interesse del professore, reazionario a tal punto e vendicativo sul piano morale ed esistenziale, che negli anni a seguire fonderà un gruppo lefebvriano, aderendo al movimento cattolico ultra tradizionalista fondato dall’arcivescovo francese Marcel Lefebvre in seguito sospeso a divinis e poi scomunicato da Giovanni Paolo II che sciolse il movimento; Lefebvre era contrario alle aperture operate dalla Chiesa durante il Concilio Vaticano II, e nelle sue istanze si riconosceranno i fascisti, sempre in cerca di sponde morali, tanto che sarà un sacerdote ex lefebvriano che pietosamente nel 2014 celebrerà una messa in suffragio dell’anima di Erich Priebke (il criminale di guerra che partecipò all’eccidio delle Fosse Ardeatine di cui si è parlato nel film “Rappresaglia”), una messa svolta nella cappella privata di una villetta nella provincia di Treviso, alla quale partecipò il sindaco leghista Loris Mazzorato.

Agostino Sanfratello fra il pubblico del processo, nella foto che apparve su L’Unità che erroneamente nomina come Giovanni Sanfratello

Gianni Amelio racconta la vicenda prendendosi delle libertà narrative, come si fa sempre: nessun film è fedele al romanzo da cui è tratto così come ogni storia vera o biografia è sempre adattata al linguaggio cinematografico che ha altre esigenze narrative; dunque il film di Amelio non è cronaca né documentario, ma il punto di vista, e come tale discutibile, di un grande autore. Di cui personalmente ho visto e apprezzato quasi tutti i film, con l’eccezione dell’ultimo, l’altro biografico “Hammamet” che racconta gli ultimi mesi di Bettino Craxi, figura che non ho amato sia umanamente che politicamente, e ammetto la debolezza di aver smesso di vedere il film dopo circa un quarto d’ora perché mi annoiava e dava ai nervi; film che a tutt’oggi rimane il maggiore incasso dell’autore.

Restando dunque sul filone proficuo delle biografie, Amelio ritorna a riempire le sale: non vedevo tanta gente seduta tutta insieme dal marzo del 2020: unica differenza le mascherine a propria discrezione su un quarto della platea. Il regista rispolvera per l’occasione un filone che da noi sembrava estinto, quello del cinema di impegno civile, o politico, i cui esponenti di punta sono stati Elio Petri, Carlo Lizzani e Francesco Rosi, un genere che nel cinema internazionale è sempre attivo con Ken Loach o Michael Moore. La seconda parte del suo film, il processo, è praticamente fedele a quanto accaduto, con le testimonianze e i dibattimenti, dove l’unico personaggio che compare col suo vero nome è il protagonista e tutti gli altri sono reinventati per ragioni legali o di opportunità, o di libertà narrativa appunto. La prima libertà che si prende l’autore è quella di sostituire l’ingombrante figura paterna con una rigorosissima mater dolorosa che colpisce, e mette a segno in noi pubblico un forte disagio: perché non è cattiva ma solo fermamente convinta delle sue ragioni e del suo amore nel voler salvare il figlio dalla perdizione. Qui sta il genio di Amelio nel disporre i suoi personaggi: non ci sono vittime e carnefici, buoni e cattivi, ma solo controparti, ognuna delle quali con le sue proprie ragioni, convinzioni, punti di vista: una tragedia greca sull’ineluttabilità. Sulla stessa linea sono tratteggiati il pubblico ministero e il giudice, cattivissimi certo per la nostra moderna sensibilità, ma portatori di istanze che hanno la loro ragione di essere nella loro epoca: l’omosessualità era un reato e prima ancora un peccato. Con cascami su certe mentalità odierne.

In una delle scene in cui Braibanti corteggia il ragazzo volando alto fra poesia e filosofia, ho sentito mormorare dal pubblico “Che viscido!” e non mi ha sorpreso che il commento venisse da un ragazzo di un piccolo gruppo orgogliosamente e rumorosamente gay: non era un insulto ma una constatazione. Perché è cambiato il corteggiamento. Quando le cose non si potevano dire, e non erano ovvie e men che meno legali, omo o etero che fosse il corteggiamento, ci si sottoponeva a dei rituali che oggi non esistono più, minuetti e giri di parole ai quali si finiva col cedere per sfinimento e in cui lo sfinimento reciproco era anche parte del piacere: oggi il corteggiamento, se ancora lo si può definire così, è fagocitato dalla velocità e da un linguaggio, anche corporeo, sempre più espliciti. Il processo definì quel corteggiamento – plagio.

“Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da 5 a 15 anni”. Era il reato di plagio secondo l’articolo 603 del codice penale. Plagio viene dal latino plagium, sotterfugio, che nel diritto romano indicava la vendita di un uomo libero come schiavo, dunque la sottrazione dei diritti di quell’individuo tramite persuasione o corruzione; allorquando alla fine del ‘700 si andò via via accettando il principio di uguaglianza fra persone e la progressiva abolizione della schiavitù, il reato di plagio fu traslato come delitto contro la libertà dell’individuo. La norma applicata nel processo a Braibanti era stata inserita nel nostro codice penale (pacchetto tutto ancora in vigore, tranne qualche spunta) nel 1930 per volontà dell’allora governo fascista e, come si dice nel film, per punire con altro nome gli eventuali reati di manifesta omosessualità, perché nella visione fallocratica di Benito Mussolini in Italia non esistevano, e non dovevano esistere neanche sul piano giuridico, quel genere di deviati. Una norma attivata nonostante i pareri contrari della Commissione Parlamentare e delle Commissioni Reali degli avvocati e procuratori di Roma e Napoli; norma assai spinosa per argomenti assai scivolosi, tanto che non venne mai applicata, fino a quel 1964.

Dopo il caso Braibanti il reato di plagio fu invocato di nuovo nel 1978 contro Emilio Grasso, sacerdote appartenente al Movimento Carismatico, accusato da alcuni genitori di aver fatto il lavaggio del cervello ai loro figli minorenni; la sentenza scagionò il religioso e con l’occasione si avviò la messa in discussione della norma che venne abrogata nel 1981. A seguire, e siamo nel 1988, i ministri Rosa Russo Iervolino (Democrazia Cristiana) e Giuliano Vassalli (Partito Socialista Italiano) cercarono di far reintrodurre nel nostro codice penale il reato di plagio psicologico, ma il parlamento ha saggiamente accantonato l’iniziativa perché argomento sempre spinoso e scivoloso: il reato non è accertabile secondo criteri e metodi scientifici ed espone l’eventuale accusato ad eventuali abusi dell’autorità giudiziaria.

L’altra libertà che si prende Amelio, che ha scritto il film con Edoardo Petti e Federico Fava, è quella di creare due coprotagonisti fittizi assai funzionali al suo racconto: l’attivista Graziella che in pratica sostituisce un giovane Marco Pannella che già nel 1955 era stato fra i fondatori del Partito Radicale, il quale seguendo giorno per giorno il processo avviò una martellante campagna con le sue “Notizie Radicali” chiamando pesantemente in causa i magistrati tanto da farsi citare in giudizio lui stesso, avviando così un ulteriore processo che, nella tradizione radicale, diventò a sua volta processo agli inquisitori. Ma questo nel film non c’è. In una delle sequenze in cui Graziella arringa la piazza, Amelio riempie improvvisamente lo schermo, in un corto circuito temporale, col primissimo piano di Emma Bonino che osserva il suo passato: “I Radicali hanno fatto forti battaglie per Braibanti e la società italiana. – ha dichiarato Amelio – Hanno fatto cancellare il reato di plagio nel 1981. Mi è sembrato giusto far vedere la Bonino di oggi piuttosto che un sosia di Pannella ragazzo.”

Ulteriormente, si inventa come cugino di Graziella (i legami fra personaggi servono a dare alla storia una solida struttura) il giornalista incaricato di seguire il processo e che ne fa una battaglia personale, perché forse anche lui è un omosessuale non dichiarato in cerca di segnali di chiarezza e di libertà espressiva; e come sua controparte viene inventato un direttore dell’Unità temporeggiatore e ostile, ambiguo sulla posizione che il giornale deve prendere, addirittura arrivando a licenziare il giornalista troppo schierato in difesa di Braibanti – cosa che pare non fu nella realtà: dopo un primo momento di sbandamento, l’Unità scese in campo sostenendo l’intellettuale sotto processo, anche sulla spinta – emotiva no, opportunistica forse sì – dei tanti intellettuali che sin da subito si schierarono con Braibanti: quel Pier Paolo Pasolini che a inizio carriera era stato cacciato dal PCI “per indegnità morale e politica”, Elsa Morante, Umberto Eco, Alberto Moravia, i giovani Carmelo Bene e Marco Bellocchio che oggi del film è coproduttore; è un dato di fatto che il partito comunista fosse, in linea con gli umori dell’epoca, tendenzialmente conservatore e bacchettone tanto quanto i cattolici e la destra, e forse Amelio si è voluto togliere qualche sassolino dalla scarpa, o più semplicemente ha operato una sua sintesi, inventandosi quella redazione dell’Unità divisa su come schierarsi, e la polemica che ne è seguita non è da poco. Io ritengo che, così come si è inventato le figure del giornalista e del direttore senza riferirsi ai personaggi reali, altrettanto avrebbe potuto evitare di chiamare in causa l’Unità col suo nome, e avrebbe potuto restare sul vago così come ha fatto per il nome e i simboli del Partito Radicale di cui nel film non c’è traccia. Avrebbe evitato la polemica – che però torna utile al botteghino – e mantenuto la linea del suo intero film ispirata e a tratti lirica, simbolica.

Pasolini scrisse: “Se c’è un uomo ‘mite’ nel senso più puro del termine, questo è Braibanti: egli non si è appoggiato infatti mai a niente e a nessuno; non ha chiesto o preteso mai nulla. Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l’accusa, pretestuale, di plagio?” Carmelo Bene lo ricordò così in un suo libro di memorie: “Un genio straordinario. M’insegnò con quella sua vocetta a leggere in versi, come marcare tutto, battere ogni cosa. Gli devo questo, tra l’altro. Non è poco.” Braibanti in vecchiaia dichiarò: “Quel processo, a cui mi sono sentito moralmente estraneo, mi è costato due nuovi anni di prigione, (oltre a quelli passati come prigioniero dei nazi-fascisti) che però non sono serviti a ottenere quello che gli accusatori volevano, cioè distruggere completamente la presenza di un uomo della Resistenza, e libero pensatore, ma tanto disinserito dal mondo sociale da essere l’utile idiota adatto a una repressione emblematica.” E ancora: “Qualunque siano gli strumenti accusatori che si utilizzano per mettere in moto un’accusa di plagio, l’accusa è sempre fondamentalmente politica, perché riguarda essenzialmente i rapporti tra il privato e il sociale.”

A 83 anni gli venne notificato lo sfratto dall’appartamento romano in cui abitava da quarant’anni, vivendo con la pensione minima. L’anno dopo, a seguito dell’iniziativa della senatrice Tiziana Valpiana (Rifondazione Comunista) col sostegno attivo di Franca Rame e di alcuni parlamentari della fugace “Unione” (idealmente “delle sinistre”) di Romano Prodi, con in testa Franco Grillini e Giovanna Melandri, gli viene assegnato il vitalizio della Legge Bacchelli. Lo sfratto diventa esecutivo tre anni dopo e l’86enne Braibanti, con le migliaia di volumi che aveva accumulato, si trasferisce nella natia Emilia Romagna, a Castell’Arquato, dove morirà 91enne. Di Giovanni Sanfratello non si è saputo più nulla, si sa solo che è morto: una vita sprecata, forse un talento, chissà, sacrificato sull’altare della rispettabilità e della cristianità. Suo fratello Agostino è tutt’oggi vivente, da qui i nomi cambiati nel film.

Dal Lido di Venezia dove il film è stato presentato, Gianni Amelio, che ha fatto coming out nel 2014, dice del suo lavoro: “È limitativo dire che è un film sul caso Braibanti, è una grande storia d’amore tra un uomo e un ragazzo, molto autobiografica: durante le riprese ho vissuto una storia d’amore molto tormentata. Ho scoperto le stesse fragilità di Aldo: Braibanti si è innamorato, io anche. Non sono andato in galera come lui ma sono chiuso in un carcere mio. Sono felicissimo del film, probabilmente è la cosa più bella che abbia mai fatto, ma intimamente non sono felice. Vi auguro di essere più felici di me.” Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Spirano venti di Destra e l’aspirazione a cancellare questi ultimi sessant’anni è forte.

11 settembre 2001

Lo ripetono tutti i media ed è vero: tutti ci ricordiamo il momento, e dove eravamo, in cui abbiamo appreso, in diretta o in differita, di quella tragedia che davvero ha cambiato il mondo. Il cinema non poteva non raccontarla, e lo ha fatto con diversi film il primo dei quali, che è anche il più rappresentativo, è uscito esattamente un anno dopo, l’11 settembre 2002, col titolo originale 11’09″01 – september 11. Un film di 11 episodi della durata simbolica di 11 minuti 19 secondi e un fotogramma, scritti e diretti da 11 registi provenienti da 11 nazioni diverse, ognuno raccontando una propria storia ambientata nel proprio Paese in assoluta libertà espressiva e secondo la propria coscienza, ognuno con un budget di 400.000 dollari, ognuno senza sapere cosa stessero facendo gli altri. Il film è stato acclamato in tutto il mondo, suscitando critiche e polemiche solo da noi, giudicato da alcuni dei nostri critici fuori dal coro come “irrispettoso” e “poco pertinente” in alcuni segmenti, con conseguente indignazione in diretta tv dell’iraniana Samira Makhmalbaf ospite a “Porta a porta”. Di mio posso affermare che avendolo visto al cinema mi è rimasto impresso, nel cuore e nella mente, solo l’episodio firmato da Sean Penn, proprio uno di quelli messi in discussione.

Il primo cortometraggio, Iran, è proprio quello di Samira Makhmalbaf che è stata premiata al Festival di Venezia con il premio Unesco per questo suo episodio che lei aveva intitolato “God, Construction and Destruction”. Non è certo un caso che ad aprire il film sia questo iraniano, dato l’impegno militare degli USA in quell’area. Ambientato presso una comunità di iraniani rifugiati in Afghanistan, nello specifico racconta di un gruppo di bambini che aiutano a impastare la malta con la quale verranno fatti dei mattoni per costruire dei rifugi che, come va ripetendo loro la maestra che li viene a raccogliere per portarli a scuola, non fermeranno certo le bombe atomiche degli americani che verranno a vendicare la tragedia appena subita. L’autrice è figlia di un altro regista, Mohsen Makhmalbaf, sotto la cui scuola si è formata cinematograficamente, ed oggi è ritenuta fra i migliori registi in attività, benché la sua filmografia, per ragioni politiche, sia molto scarna.

Per la Francia, nazione promotrice dell’intera iniziativa produttiva da un’idea originale di Alain Brigand, firma Claude Lelouche, che secondo la linea della maggior parte della sua cinematografia racconta una storia d’amore, qui fra due francesi che vivono a New York, lei sordomuta e lui normodotato che però conosce il linguaggio dei segni avendo un fratello sordomuto, e che per i sordomuti fa la guida turistica a New York, e quella mattina esce per condurre il gruppo alle torri gemelle. Sono protagonisti l’attrice sorda dalla nascita Emmanuelle Laborit, già protagonista di “Marianna Ucria” diretto da Roberto Faenza nel 1997, e Jérôme Horry. Il fascino di questo piccolo film sta nel silenzio, dei dialoghi e delle azioni, con le tragiche sequenze che passano in tivù che la protagonista però non vede e non sente perché sta scrivendo al suo amato una lettera d’addio: a meno che un miracolo… E il miracolo accade quando lui si ripresenta alla porta completamente coperto della polvere dei detriti. L’ultimo film di Lelouche “I migliori anni della nostra vita” del 2019, una storia sentimentale nella terza età con Anouk Aimée e Jean-Louis Trintignant.

Molto più complessa la visione di Yusuf Shahin che firma per l’Egitto. Regista scomodo, politicamente impegnato, critico verso le azioni militare del suo Paese contro Israele nella “guerra dei sei giorni”, e attivo anche nella denuncia della corruzione e del fondamentalismo islamico, ha fatto anche molto discutere per le sue posizioni progressiste, anche in campo sessuale, perché dichiaratamente bisessuale ne ha parlato in una serie di quattro film autobiografici. Fra l’altro è stato lui a far debuttare il divo egiziano Omar Sharif. Qui lui si racconta in prima persona interpretando il suo cortometraggio che si apre con una carrellata dal basso verso l’alto di una delle torri gemelle, ricreata virtualmente, perché lì sta girando un film la cui lavorazione viene interrotta, il giorno prima della tragedia, per una banale mancanza di permessi. Con un doppio salto mortale narrativo lo ritroviamo sulla scogliera davanti casa sua dove gli compare il fantasma, una sua proiezione mentale, di un soldato statunitense (interpretato da un attore arabo decolorato) morto nel 1983 in Libano (terra originaria dei genitori del regista) nell’attentato alle forze multinazionali di stanza nel territorio. La storia si complica quando con un ulteriore salto mortale si sposta, insieme al fantasma, a casa del kamikaze colpevole di quell’azione, e intercorrono veloci conversazioni – bisogna restare entro gli 11 minuti! – sulle origini dello scontro fra il mondo arabo e quegli Stati Uniti depositari di una propria visione del mondo che al mondo impongono: tema non facile da sviluppare in così poco tempo e l’impressione che se ne trae è quella di un assaggio nell’attesa di un ulteriore sviluppo. Yusuf Shahin è morto 82enne nel 2008.

Anche Danis Tanović per la Bosnia-Erzegovina riporta il dramma alla storia del suo territorio e racconta di una ragazza che come ripete sua madre, “ogni 11 del mese è sempre la stessa storia”, preferisce ignorare la drammatica notizia, che arriva da una radio nello spazio comune dove sono riunite le donne che hanno perso i loro uomini e le loro famiglie nel massacro della popolazione locale da parte dei soldati serbo-bosniaci, l’11 luglio 1995: come ogni 11 del mese la ragazza guida in piazza il corteo muto delle sopravvissute. Il messaggio è che le tragedie personali, e locali, hanno la priorità anche davanti a tanta eclatante insensatezza.

Idrissa Ouédraogo per il Burkina-Faso (ex colonia francese denominata Alto Volta fino al 1984) racconta una storia che rientra nei ranghi del classico cinema di narrazione: Adamà è un ragazzo che smette di andare a scuola per guadagnare dei soldi per potere pagare le cure alla madre gravemente malata. Due settimane dopo l’attacco alle Torri Gemelle crede di vedere Osama Bin Laden sul quale gli Stati Uniti hanno messo una taglia di 25 milioni di dollari; con l’intento di guadagnare quei milioni, sia per guarire sua madre che tanti altri bisognosi della nazione sofferenti di aids e dissenteria, insieme ai suoi ex compagni di scuola comincia a pedinarlo e a filmarlo per documentarne l’esistenza in loco, ma “Osama” parte e un poliziotto blocca i ragazzi all’ingresso dell’aeroporto e alle loro spiegazioni e proteste li sbeffeggia ché non c’è nessun Osama Bin Laden. Il film non chiarisce se Osama fosse davvero lui, ed è un dato di fatto che è stato avvistato in diverse parti del mondo, così come accadde per Hitler alla fine della Seconda Guerra Mondiale, e il cortometraggio ha comunque un lieto fine allorché i ragazzi decidono di vendere la videocamera, trafugata al padre di uno di loro, per pagare le cure alla mamma di Adamà che così potrà tornare a scuola. Idrissa Ouédraogo, morto 64enne nel 2018, è stato uno dei più significativi autori cinematografici della regione e dell’Africa in generale.

Ken Loach per il Regno Unito, come Danis Tanović, parte dalla data dell’11 settembre per andare a un’altra data, l’11 settembre del 1973, quando Augusto Pinochet attuò in Cile, sostenuto dagli Stati Uniti, un colpo di stato contro il presidente regolarmente eletto Salvador Allende, colpevole di essere marxista e per questo inviso all’amministrazione USA, allora guidata da Richard Nixon, sempre patologicamente terrorizzata dai comunisti e sempre impegnata ad imporre nel mondo la propria visione di democrazia. Ken Loach, attivista politico della sinistra dura e pura e autore notoriamente impegnato sul sociale che sistematicamente mette in film le problematiche della classe operaia inglese, per raccontare questa operazione di confronto storico, con l’ennesima denuncia delle malefatte americane, si fa portavoce di un’altra nazione e immagina che un profugo cileno a Londra, interpretato da Vladimir Vega anche compositore della ballata che esegue, scriva una lettera ai familiari delle vittime degli attentati. La lettera si fa narrazione dei fatti cileni con video di repertorio accompagnati dalla voce del protagonista che narra le nefandezze e i sanguinosi accanimenti sulla popolazione, e alla fine unendosi al dolore delle famiglie nel ricordo delle vittime dell’11 settembre 2001, conclude auspicando che loro, altrettanto, si uniranno a lui nel ricordo delle vittime dell’11 settembre 1973: mettendo in atto un ricatto morale. Personalmente trovo specioso e gratuitamente provocatorio, come per l’episodio di Tanović, utilizzare un rimando di date, pure coincidenze, per spostare l’attenzione su fatti diversi: in un calendario di 365 giorni che si ripete da duemila anni è facile trovare qualsiasi coincidenza a volerla cercare, e poi collocarci significati e richiami che per distanza di spazio e di tempo non sono altro che azzardi. Differente è quando la coincidenza viene cercata a posteriori, come quando undici anni dopo, l’11 settembre del 2012, i talebani hanno attaccato il consolato USA a Bengasi e ucciso, fra gli altri, l’ambasciatore Chris Stevens; o come oggi, 11 settembre 2021, data che era stata significativamente scelta dai talebani che hanno occupato l’Afghanistan (poi dilazionata all’ultim’ora) per instaurare il loro governo. Tornando alla commemorazione di Danis Tanović e alla denuncia di Ken Loach che spara a zero sulle malefatte statunitensi, sono argomenti che sempre meritano discussioni e approfondimenti, ma a parer mio in altri contesti e in altro modo, con più spazio magari, dove le denunce in atto possano essere protagoniste di fatto senza dover rubare la scena all’evento immediato, perché sostituire forzosamente delle vittime con altre toglie solo dignità a tutti.

Più sintetico e drammaticamente coraggioso, oltre che efficace, il contributo del talentuoso pluri-Oscar Alejandro González Iñárritu per il Messico. Con la consapevolezza che tutti avevamo visto e rivisto fino allo sfinimento le immagini dell’attacco alle Torri Gemelle, utilizza i suoi 11 minuti e rotti per montare un documentario in cui sceglie di mostrarci uno schermo nero commentato da un sonoro indistinto di voci quotidiane; poi il nero si squarcia ogni tanto per pochi secondi mostrandoci le più dolorose immagini di repertorio, quelle delle persone che si sono lanciate nel vuoto, e al sonoro indistinto si sostituiscono gli annunci tivù, le urla delle vittime e dei testimoni, il sonoro delle telefonate dalle torri alle famiglie; poi tutto questo, il nero e i frammenti di video con il tragico sonoro, viene interrotto dalla sequenza del crollo delle torri, in agghiacciante silenzio; riprende il parlottio indistinto che si stempera in un’armonia sinfonica mentre lo schermo da nero si fa bianco e compare una scritta, prima in arabo e subito dopo in inglese, che chiede: “La luce di Dio ci guida o ci acceca?” Una domanda che resta come un monito mentre una luce accecante si leva dallo schermo bianco.

Anche Amos Gitai per Israele fa il gioco delle coincidenze di date ma lo fa con spirito critico e, benché senza sapere a cosa stessero lavorando gli altri suoi illustri colleghi nel mondo, intuisce che una delle tracce sarà proprio quella, e se ne tira fuori con un caustico spirito critico, spirito critico che ha sempre dichiarato verso la politica del suo Paese, dove non è ben visto; negli anni ottanta, proprio per l’impossibilità di continuare a lavorare in Israele dove era ostacolato, si reca all’estero in auto esilio, prima a Berkeley, USA, dove si laurea, e poi a Parigi, Francia. Forte di diversi riconoscimenti internazionali torna in patria dove però continua a essere osteggiato. Gira i suoi 11 minuti in un unico piano sequenza con decine di attori figuranti e comparse perfettamente coordinati, raccontando di un attentato a Tel Aviv e mettendo in scena il caos che segue e che coinvolge forze dell’ordine, soccorritori, curiosi, testimoni e troupe televisive tempestivamente arrivate. E’ la reporter tv, in ansia di andare in onda e con scarse informazioni raccolte, che partendo dal quel suo 11 settembre con un kamikaze che si è fatto esplodere, comincia a snocciolare tutta una serie di altri 11 settembre di anni e luoghi diversi in cui sono accaduti fatti, a dir suo, eclatanti, come ad esempio un gruppo di persone uccise da un fulmine in India, facendo così pessimo giornalismo pur di continuare a parlare e a filmare. Viene interrotta dalla voce in cuffia del regista che le dice che non la manderà in onda perché qualcosa di davvero terribile è accaduto a New York, avvisandola, e ammonendola, “Ricorda questa data, 11 settembre, perché è una data che nessuno più dimenticherà”. Ma la giornalista, che non capisce, ancora protesta, e il regista le risponde: “Non ti sto parlando dell’11 settembre del 1944 o del 1997, ti sto parlando dell’11 settembre di oggi”. Che è quello che conta in questo film.

Mira Nair per l’India opera una sintesi culturale che supera le divisioni religiose che hanno fatto di India e Pakistan due nazioni distinte e due popoli in eterno conflitto, e per l’occasione racconta una storia vera, quella di una famiglia pakistana trapiantata negli Stati Uniti che ha perso il figlio nelle Torri Gemelle. Ma CIA ed FBI indagano sul ragazzo, perché di fede musulmana, e questo crea un clima di sospetto attorno alla famiglia prima ben vista e rispettata nel vicinato e ora tenuta a distanza. Sei mesi dopo, i resti del ragazzo vengono individuati fra le macerie e si ristabilisce la verità: il giovane musulmano è morto nel tentativo di prestare soccorso e il suo nome viene ora inserito fra quello degli eroi. Nell’elogio funebre la madre considera, e accusa, che se Salman, suo figlio, si fosse chiamato Gesù o David non sarebbe stato considerato un terrorista a priori.

L’episodio che Sean Penn immagina per gli Stati Uniti è una piccola favola dolceamara che da vent’anni non ho più dimenticato. Sarà per la presenza di Ernest Borgnine, unica star in tutto il film, o per il racconto in sé? Ciò che allora mi colpì, e ancora oggi mi colpisce, è il punto di vista del racconto, originale e spiazzante come dovrebbe essere il punto di vista di ogni racconto. Anche in conflitto col sentire comune ma comunque onesto. Sean Penn, attore da Oscar, non è un regista della domenica e i suoi film li possiamo tranquillamente definire impegnati: politicamente socialmente artisticamente. Per il suo 11 settembre immagina un vecchio che vive in un appartamento buio e parla da solo con la moglie morta come se ancora fosse lì con lui, e continua imperterrito a innaffiarle sul davanzale della finestra un vaso di fiori secchi per la mancanza di luce. Finché il giorno della tragedia, mentre dalla tv vediamo il crollo della prima torre, fuori dalla finestra crolla un sipario d’ombra e finalmente la luce del sole illumina il vaso ed entra nell’appartamento. Rose di tanti colori fioriscono all’istante, proprio come nelle favole, ed è ambiguo il sorriso che l’autore ci strappa: alla tragedia di migliaia di persone corrisponde un attimo di fuggevole felicità di un singolo individuo. Felicità che poi si spegne perché con la luce arriva anche la consapevolezza che la moglie non è più con lui a vivere nell’ombra del loro appartamentino. Ernest Borgnine dà spessore e credibilità a una storia simbolica che ci fa interrogare sui punti di vista e sulla relatività di ogni punto di vista. Questo episodio, insieme al successivo nonché ultimo, è stato quello che più ha fatto discutere i nostri critici.

Conclude per il Giappone il regista Shōhei Imamura, uno dei pochi ad aver vinto per due volte la Palma d’Oro al Festival di Cannes. La sua partecipazione a questo film collettivo chiude la sua carriera, poiché muore di cancro 80enne nel 2006. Nel suo cortometraggio, antimilitarista, denuncia in chiave tragicamente grottesca e simbolica, disturbante, le guerre coloniali in cui il Giappone si è impegnato in passato. Colloca il suo racconto nel 1945, alla fine della Seconda Guerra Mondiale che vide il Giappone annientato dalle bombe atomiche, e ci mostra un soldato, un reduce, che affetto da disturbo post traumatico si comporta come un serpente: ingoia persino un topo e viene cacciato di casa, mentre la moglie si consola con un altro uomo. In un flashback viene chiarito il suo comportamento: poiché durante una battaglia si era nascosto viene picchiato da un commilitone che gli chiede perché non stia prendendo parte alla loro “guerra santa”. Quando in seguito la moglie gli chiede: “Ti disgusta così tanto essere uomo?” lui per tutta risposta striscia via ignorandola e in chiusura viene mostrato un serpente sopra un sasso mentre appare la scritta in caratteri giapponesi che un voce fuori campo legge “Le guerre sante non esistono”. Tutto molto simbolico, dunque, con solo un riferimento alle guerre sante e nessun richiamo diretto all’11 settembre. Un cortometraggio che rimane comunque assai ermetico per la ricchezza di simboli, certo più espliciti per la cultura giapponese che per la nostra.

A questo film ne sono seguiti altri, a cominciare dal documentario del sempre scomodo Michael Moore “Fahrenheit 9/11”, che nel titolo richiama il romanzo “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury da cui il film del 1966 di François Truffaut che Ramin Bahrani ha inutilmente rifatto e aggiornato nel 2018; Moore nel suo documentario fa le pulci alla famiglia Bush in affari con gli arabi e la famiglia di Osama Bin Laden. Segue nel 2006 “World Trade Center” di Oliver Stone. Dello stesso anno “United 93” di Paul Greengrass che ricostruisce, dalle telefonate dei passeggeri ai parenti, ciò che è accaduto sul volo United Airlines 93 dirottato da terroristi ai quali i passeggeri e il personale di volo si sono ribellati, facendo schiantare l’aereo in aperta campagna, mentre era destinato ad abbattersi sul Campidoglio o sulla Casa Bianca. “Molto forte, incredibilmente vicino” del 2011 di Stephen Daldry dal romanzo di Jonathan Safran Foer che parte da quella tragedia per una narrazione di più ampio respiro. “La 25ª ora” diretto da Spike Lee e uscito nel 2002 è uno dei primi film girati a New York dopo la tragedia e il primo a mostrare Ground Zero; il film interpretato da Edward Norton avrebbe dovuto avere come protagonista Tobey Maguire che però rinunciò per interpretare “Spider-Man” diretto da Sam Raimi e girato a New York poco prima dell’attacco, tanto che in una sequenza comparivano le Torri Gemelle: la clip e il trailer vennero censurati dalla produzione, le Twin Towers sparirono dal film la cui l’uscita, essendo un block-buster di pura evasione, venne anche rimandata. Solo lo scorso anno la Sony ha rilasciato il trailer originale che era stato oscurato.