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Per qualche dollaro in più

Secondo capitolo della trilogia del dollaro di Sergio Leone, una trilogia su cui lo stesso autore non aveva nessun progetto e che è stata così riconosciuta e nominata solo in seguito, ad opera di giornalisti e pubblico. Anzi, di più: archiviato il grande successo di “Per un pugno di dollari”, suo secondo lungometraggio dopo “Il colosso di Rodi”, Leone era davvero sfinito, anche dalle vicende giudiziarie che avevano prosciugato completamente i suoi guadagni. Era creativamente esausto, e paralizzato dalla consapevolezza che ripetere un tale successo sarebbe stato impossibile. Inoltre era molto arrabbiato coi produttori della Jolly Film che lo avevano messo nella posizione di essere citato in giudizio per plagio da Akira Kurosawa: “Il comportamento della Jolly mi aveva nauseato. Così andai a trovare i due produttori. Gli dissi che in effetti il modo in cui si erano messe le cose mi ‘faceva piacere’… Perché significava che non avrei mai più dovuto fare un film con loro. Avrei avviato un procedimento legale, ma non volevo vederli mai più. E fu da lì che nacquero i semi della mia vendetta. Dissi loro: ‘Non so se davvero ho voglia di fare un altro western. Ma lo farò. Solo per farvi dispetto. E si intitolerà…’ In quel momento, il titolo mi balenò nella mente – ‘Per qualche dollaro in più’. Ovvio che in quella fase non avevo idea di quale sarebbe stato il soggetto.”

In realtà pare che quel titolo glielo avesse suggerito lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni, rinomatissimo scrittore di film di qualità noto come lo “script-doctor”, figura ovviamente mediata da Hollywood, per la sua capacità di intervenire sulle sceneggiature altrui, anche in anonimo, per appianare tutte le problematiche riscontrate principalmente dai produttori, una sorta di ottimizzatore. A un’amichevole chiacchierata con Leone che si lamentava della sua situazione, pare che Vincenzoni gli abbia detto: “Hai scritto per un pugno di dollari? Questo sarà per qualche dollaro in più. Molti milioni di dollari in più.”

Nello stesso periodo Leone conobbe un avvocato già bene avviato nella produzione cinematografica, soprattutto di spaghetti-western, il quale era rimasto assai colpito da “Per un pugno di dollari”: era Alberto Grimaldi e Leone, già transfuga dalla Jolly, gli chiese di produrlo; l’avvocato, che aveva l’occhio lungo e si stava già affrancando dagli spaghetti-western, gli fece una rispettabilissima offerta produttiva: il 50 per cento dei profitti oltre a tutte le spese vive pagate. Sul fronte internazionale si riconfermò la casa di produzione tedesca che voleva bissare il primo successo, mentre la Spagna che era ancora in forse salì sul carro con un diverso produttore; ma soprattutto, per la prima volta in un western all’italiana entrò nella produzione nientemeno che l’americana United Artists, già produttrice di “I magnifici sette”, solo per restare nell’ambito western, e che poi distribuì il film di Leone in tutto il mondo; e gli americani erano entrati nel progetto sempre grazie a Vincenzoni che al responsabile europeo della U.A. aveva fatto vedere “Per un pugno di dollari” convincendolo a entrare nell’affare e facendo lievitare il budget fino a 600mila dollari: bazzecole per gli standard americani ma una cifra insperabile per i western nostrani, e già nelle prime inquadrature del film i soldi si vedono nella ricchezza delle ambientazioni… e nell’espressione rilassata di Clint Eastwood! A quel punto lo “script-doctor” si era dimostrato davvero un amico e a Leone venne in mente di proporgli di scrivere insieme la sceneggiatura, però tentennava perché non riteneva che il rinomato Vincenzoni, che l’anno prima era stato premiato col Nastro d’Argento per avere scritto “Sedotta e abbandonata” di Pietro Germi, potesse essere interessato al suo filmetto di serie B: si trattava di mondi diversi; ma come sappiamo Vincenzoni fu ben felice di essere coinvolto nella scrittura, del resto si era già coinvolto nella promozione del progetto, e co-scrisse il film facendo anche di più: si inventò il soggetto del successivo “Il buono, il brutto, il cattivo”; resta da considerare che Sergio Leone fu lungimirante e sanamente opportunista nel volerlo coinvolgere, in quanto essendo lo script-doctor già un uomo di notevole successo, aveva quelle giuste entrature nei “piani superiori” cui lui tanto ambiva ascendere.

A quel punto, avuti tutti i finanziamenti, bisognava ancora scrivere il film e l’autore non aveva ancora che poche idee confuse. Aveva già tenuto una riunione con i co-sceneggiatori del primo film, Duccio Tessari e Fernando Di Leo, con l’idea di rimettere nel titolo la parola dollari e di formare il cast sempre intorno alla coppia vincente Eastwood-Volonté. E ancora una volta Sergio Leone si spinse su un terreno accidentato poco praticato dagli americani nei loro western, immaginando di mettere al centro del nuovo film una figura moralmente controversa come il bounty-killer, letteralmente assassino dietro compenso, che noi traduciamo in cacciatore di taglie, come Leone spiegò: “Gli Americani hanno sempre dipinto il West in termini romantici, con cavalli che corrono al fischio del padrone. Non hanno mai trattato il West seriamente, come noi non abbiamo mai trattato l’antica Roma seriamente. Forse il più serio dibattito sull’argomento è stato fatto da Kubrick in ‘Spartacus’: gli altri film sono sempre stati favole di cartone. È stata questa superficialità che mi ha colpito e interessato.” Si delineò così la storia di un cacciatore di taglie all’inseguimento di un fuorilegge, ma poi per dare più dinamismo alla vicenda i bounty-killer divennero due, dapprima in concorrenza fra loro e, per differenziarli, al Clint Eastwood sempre abbigliato col poncho ne avrebbero contrapposto uno più anziano, e Leone pensava sempre a Henry Fonda che gli era rimasto sul gozzo. Nel frattempo Duccio Tessari si defilò dal progetto perché stava scrivendo e dirigendo ben due film con Giuliano Gemma (“Una pistola per Ringo” e “Il ritorno di Ringo”) e, come si dice a Roma, non sapeva più a chi dare i resti. Questo mentre lo stesso Sergio Leone, impegnato su più fronti nella ricerca dei finanziamenti si distraeva dalla scrittura; e Fernando Di Leo, che era rimasto solo davanti la macchina per scrivere, di sua iniziativa completò un trattamento coinvolgendo l’amico e collega Enzo Dell’Aquila col quale aveva scritto a quattro mani un film a episodi del quale avevano anche co-diretto un episodio debuttando nella regia, “Gli eroi di ieri… oggi… domani”, un filmetto che con quel titolo era voluto andare a strascico del successo di Vittorio De Sica “Ieri, oggi, domani” con Sophia Loren e Marcello Mastroianni: film che però rimase pressoché mai visto nelle sale. Di Leo e Dell’Aquila portarono orgogliosamente a Leone il loro trattamento intitolato “Il cacciatore di taglie” con la speranza di piacere ed entrare di diritto nel progetto, per far salire le loro personali quotazioni sulla scia dell’amico che si trovava un gradino più su nella scalata al successo internazionale. A questo punto le cose si fanno un po’ oscure: a Sergio Leone il trattamento piacque molto, ma consapevole che il successo non può avere molti padri, chiese ad Alberto Grimaldi di acquistare il trattamento con la clausola che i nomi dei due autori sparissero, e i due reietti pur di fare cassa accettarono l’amara condizione – che in certi ambienti e a certi livelli è prassi, e anzi furono fortunati perché furono pagati laddove è anche prassi rubare il lavoro altrui; e Leone, che già aveva nel suo carnet il plagio a Kurosawa – in buona o mala fede non è chiaro – stava seguendo la prassi dell’appropriazione indebita con la ferrea volontà di costruire il suo personale successo: siamo abituati a santificare coloro che hanno fatto grandi cose in vita – dimenticando però che sono stati comuni esseri umani pieni di contraddizioni e difetti come chiunque di noi.

Fernando Di Leo

Una digressione su Fernando Di Leo, sceneggiatore non accreditato per i primi due film della trilogia, che da gran signore, interrogato sul suo reale coinvolgimento nella scrittura di quei successi, dichiarerà in un’intervista: “Il genio viene dopo la fase di scrittura. A cambiare il cinema negli anni ’60 sono state due cose: il montaggio di Godard e i tempi di Leone.” Lui, nonostante le idee e le capacità non avrà le stesse opportunità e passerà dal genere noir ai poliziotteschi, fra i quali va ricordato “Milano calibro 9”, fino a finire nel filone erotico dirigendo quello che oggi è un cult su cui si abbatté una valanga di censure: “Avere vent’anni”. Di certo nella sua carriera non ha avuto fortuna se si pensa che ha addirittura scritto e diretto per la Rai una serie di sei puntate “L’assassino ha le ore contate” che inspiegabilmente non è mai stata trasmessa, nonostante l’impegno produttivo, neanche in tarda serata, e i nostri soldi del canone buttati via; non poteva essere peggio di tante cose che vanno in onda senza vergogna. Di lui rimangono anche due interessanti progetti incompiuti dai quali i produttori si sfilarono per il timore di confrontarsi con quei temi: “Il pederasta”, che sarebbe stato il primo film ad affrontare senza tabù e senza macchiette il tema dell’omosessualità maschile, era il 1972, del quale riuscì a girare una sola scena mentre in seguito alle proteste dei soliti benpensanti il titolo era stato cambiato nel più elusivo e infamante “Uno di quelli” finché la lavorazione fu definitivamente sospesa; un altro progetto era “Il dio Kurt” dall’opera teatrale di Alberto Moravia che trattava il mito di Edipo trasferito in un campo di concentramento, con Henry Fonda e Charlotte Rampling addirittura, film di cui non iniziarono neanche le riprese perché bloccato da produttori e distributori terrorizzati dal tema che trattava.

A quel punto il nostro mise mano alla sceneggiatura vera e propria coinvolgendo, come sappiamo, Vincenzoni, il cui apporto fu soprattutto immettere umorismo nella storia, un’ironia sempre al limite che però non diventa mai parodia – questa è la maestria – e che coinvolge i protagonisti a differenza di quanto accadeva nei classici western americani, dove gli eroi alla John Wayne sono sempre tutti d’un pezzo e la parte ironica, quando c’è, è lasciata a figurine di contorno, come il solito vecchietto con la voce chioccia. Ma anche se lavorò col suo solito impegno Vincenzoni si sentiva però un intruso, da un lato perché non credeva che quel genere di western all’italiana, che Leone stava ancora inconsapevolmente creando, potesse davvero avere un seguito, e dall’altro perché stava antipatico al produttore Grimaldi, produttore sulla carta che chiudeva un pacchetto composito, una specie di notaio insomma, mentre Vincenzoni vantava rapporti personali con i tycoon della United Artists: gelosia da provincialismo.

A seguire, negli anni, a bocce ferme come si dice, in tanti hanno rilasciato dichiarazioni e interviste: Tonino Valerii ha affermato di aver lavorato anche lui alla sceneggiatura e di aver creato lui la figura dell’antagonista, El Indio, e Vincenzoni non nega dicendo però di aver battezzato lui il personaggio: gelosie fra padrini. Lo sceneggiatore Sergio Donati, che già era stato chiamato da Leone alla scrittura del primo film che lui aveva rifiutato perché poco allettante, di nuovo viene chiamato a collaborare e, benché anche lui non accreditato, si attesta la creazione di diverse importanti scene, fra cui quella del treno che presenta il coprotagonista e il finale in cui si contano i cadaveri; continuerà a collaborare con Leone e il primo film in cui compare la sua firma accanto a quella di Sergio Leone è “Giù la testa”, ben quattro film dopo.

Era il momento di formare il cast. Ovviamente l’uomo senza nome che qui verrà indicato come Il Monco perché spara solo con la sinistra avendo la destra parzialmente inabile, era stato scritto per Clint Eastwood ma non era certo che l’attore accettasse anche perché nel frattempo era stato contattato dalla Jolly Film malamente abbandonata da Leone, che voleva rubare al regista il suo protagonista; ma quando l’attore seppe della rottura decise di stare dalla parte di Leone che ora aveva dalla sua anche la United Artists, e firmò un contratto di 50mila dollari dopo i soli 15mila del precedente film, oltre a una piccola percentuale sugli incassi e il biglietto aereo di prima classe mentre precedentemente aveva viaggiato in economica.

Per il ruolo dell’anziano cacciatore di taglie, il colonnello Douglas Mortimer, Leone ancora una volta aveva dovuto rinunciare a Henry Fonda, e allora contattò Charles Bronson, ma anche lui rifiutò la parte e Leone allora si rivolse a Lee Marvin, che si era messo in luce come Liberty Valance in “L’uomo che uccise Liberty Valance” di John Ford; e l’attore era ben disposto a prendere parte al progetto, però qualche giorno prima dell’inizio delle riprese firmò per recitare in “Cat Ballou” di Elliott Silverstein, film che gli fece vincere l’Oscar. Così, a pochi giorni dall’inizio delle riprese il colonnello Mortimer non aveva ancora un volto. Allora il nostro impavido autore fece i bagagli e partì per Los Angeles alla ricerca di un attore di cui possedeva solo una vecchia foto strappata dall’Academy Players, un annuario degli attori della Academy Pictures. A suo dire quello sconosciuto attore, che rispondeva al nome di Lee Van Cleef, assomigliava a un parrucchiere del Sud Italia, ma aveva anche un naso da falco e gli occhi di Van Gogh. “Calcolai che all’epoca della foto doveva avere circa quarant’anni, quindi ora doveva averne quarantotto, quarantanove o cinquanta – proprio l’età giusta per il colonnello. Quando arrivai a Hollywood sembrava che fosse completamente sparito. Finalmente, dopo aver corso in lungo e in largo, riuscimmo a trovare il suo agente di nome Sid. Questo agente mi disse che Lee Van Cleef non faceva più l’attore, che ora era un pittore, che era stato a lungo in ospedale perché aveva avuto un incidente frontale in un canyon a Beverly Hills. Aveva deciso di intraprendere una nuova professione… Ma io dissi: ‘Beh, devo vederlo a ogni costo perché, fisicamente, quando penso a questo personaggio, m’immagino lui’. E poche ore prima che il mio aereo partisse, Lee Van Cleef venne in questo piccolo albergo alla periferia di Los Angeles dove stavo io.”

Lee Van Cleef nel suo studio di pittura

Leone gli propose 10mila dollari di compenso e il biglietto per il prossimo aereo per l’Italia. Van Cleef accettò senza discutere, prendendosi però il tempo di completare un quadro che gli avevano commissionato. Per l’attore, dipendente da alcol e fumo, che per sua stessa ammissione faceva fatica a pagare anche la bolletta della luce, questo film fu una vera e propria ciambella di salvataggio; aveva interpretato decine di film, soprattutto western, anche grandi film come “Mezzogiorno di fuoco” di Fred Zinneman in cui aveva debuttato, o “Sfida all’O.K. Corral” di John Sturges, ma sempre in piccoli ruoli, spesso ucciso dal protagonista, e molto più spesso senza neanche una battuta. Leone gli fece leggere il copione durante il volo e Van Cleef notò che nella complessità della trama dove tutti tradiscono tutti e tutti hanno secondi fini, c’era qualcosa di shakespeariano, e questo inorgoglì ancora di più il nostro Leone. Una volta sul set, che era l’ennesima babele, ebbe qualche problema ad ambientarsi e Eastwood gli consigliò di andare vedere “Per un pugno di dollari” che era ancora nelle sale, e all’uscita del cinema convenne: “Adesso capisco cosa intendi. Il copione è importante ma decisamente secondario rispetto allo stile.” Per il resto, lui che aveva già abbandonato il cinema, per tutto il periodo delle riprese fu nella mani del regista “docile come un agnellino”, parole di Luciano Vincenzoni. E il 50enne Lee Van Cleef, all’anagrafe Clarence LeRoy Van Cleef Jr. che curiosamente aveva ascendenze olandesi come olandese era il pittore Van Gogh con cui Leone aveva trovato somiglianze, grazie a quel film assurse alla notorietà ed ebbe una vera carriera soprattutto in Italia, sua seconda patria artistica. Tranne poche occasionali cose non ha più girato in patria però dopo la sua morte, avvenuta a 64 anni per infarto ma era anche affetto da altre serie patologie, è diventato fonte di ispirazione grazie allo sdoganamento di Quentin Tarantino, cultore di un certo cinema trash nel quale inserire di diritto i nostri poliziotteschi e gli spaghetti-western. Nel film è doppiato da Emilio Cigoli.

Sin dall’inizio il ruolo del cattivo, El Indio, era stato pensato per Gian Maria Volonté, che forte del successo del primo film continua a esagerare non poco con la sua teatralità; ma d’altronde, Leone, che lo conosceva bene, lo assecondava e fa dire del suo personaggio che è un pazzo drogato per giustificare quella sua maschera sempre sopra le righe ma sempre efficace in quel contesto dove le inquadrature, i tempi della regia, l’indugiare sui primi piani, sono di per sé teatrali, da dramma shakespeariano come aveva notato Van Cleef. Per Volonté questo secondo film con Leone fu la loro ultima collaborazione dato che il cinema lo scoprì pienamente e lui si avviò verso tutt’altre interpretazioni, sempre drammatiche, politicamente impegnate come lo è stato lui nel Partito Comunista Italiano, e spesso biografiche: è stato Bartolomeo Vanzetti e Giordano Bruno per Giuliano Montaldo, Enrico Mattei, Lucky Luciano e Carlo Levi per Francesco Rosi, Aldo Moro per Giuseppe Ferrara, Michelangelo e Caravaggio in due serie tv, per dire solo i personaggi più noti. Questo è anche l’ultimo film dove viene doppiato, sempre da Nando Gazzolo, ché dal successivo film in poi reciterà, e di diritto, con la sua voce.

Mara Krupp

Nel resto del cast tornano gli amici Mario Brega, Benito Stefanelli e Edmondo Tieghi, ma ci sono delle interessanti new entries: il teatrale Luigi Pistilli che si avvierà a una brillante carriera ma qui è doppiato da Vittorio Sanipoli perché all’epoca anche se si era dei professionisti e si veniva dal palcoscenico, o forse soprattutto per quello data la diversa enfasi recitativa, si veniva sempre doppiati da professionisti del cinema e del microfono; e uno dei pochi che faceva bene tutto, teatro cinema doppiaggio e presto anche regia cinematografica, era Enrico Maria Salerno qui di nuovo voce di Clint Eastwood. Un’altra interessante presenza è il tedesco Klaus Kinski che quello stesso anno è anche nel cast del colossal “Il Dottor Zivago” e continuerà a lavorare molto in Italia come nel cinema internazionale. Dalla Germania torna il vecchietto Joseph Egger, sempre doppiato da Lauro Gazzolo, qui al suo ultimo film. Il caratterista napoletano Dante Maggio tratteggia il ruolo di un falegname mentre un’altra italiana dal nome teutonico, la caratterista Mara Krupp, è praticamente l’unica donna in un film decisamente al testosterone: c’è ma potrebbe anche non esserci per quanto il suo personaggio sia funzionale alla storia.

Lee Van Cleef con Klaus Kinski

A proposito di testosterone è molto divertente e riuscitissimo il duello fra i due bounty-killer a inizio film, quando ancora non si conoscono e si prendono le misure sparando l’uno al cappello dell’altro per farlo volare il più lontano: metafora del più prosaico e virile “facciamo a chi piscia più lontano”. Curioso è anche l’orologio da taschino con foto dell’amata all’interno del coperchio, gadget in dotazione a El Indio da cui suona un minaccioso carillon ogni volta che lo apre: è il tempo che dà al suo opponente prima di sparargli; è tecnicamente impossibile che un orologio da taschino possa contenere il marchingegno di un carillon, ma il cinema è anche questo, e soprattutto il cinema di Sergio Leone che in questo film sfoggia anche un wanted di El Indio con improbabile maschera ridanciana del pistolero criminale. Ma si tratta di maschere, appunto. In questa messa in scena mi sorprende negativamente la sciatteria, purtroppo molto diffusa all’epoca anche nei poliziotteschi e persino a Hollywood, con la quale il futuro maestro gira le sparatorie: se da un lato sono dinamiche e i mort’ammazzati saltano per aria e ruzzolano e cascano come birilli, dall’altro non si può fare a meno di notare che sui loro abiti non c’è un buco e neanche una macchia di sangue.

Di nuovo con le musiche di Ennio Morricone ancora una volta record di vendite di dischi, il film è un altro clamoroso successo dove non è più necessario nascondersi dietro fittizi nomi americaneggianti: fu il più visto in quella stagione cinematografica e ad oggi detiene il quinto posto nella classifica dei film italiani più visti di sempre.

Per un pugno di dollari

“Quando cominciai il mio primo western dovetti trovare in me stesso una ragione psicologica, perché non avevo mai vissuto in quel tipo di ambiente. E un pensiero mi venne spontaneo: era come se fossi il burattinaio dei pupi siciliani; i loro spettacoli erano leggendari ma anche storici. Tuttavia l’abilità del burattinaio consisteva in una cosa: dare a ciascun personaggio una connotazione ulteriore relativa al paese specifico che i “pupi” stavano visitando. Come cineasta il mio compito era quello di creare una favola per adulti, una fiaba per ragazzi cresciuti; e il mio rapporto col cinema era quello di un burattinaio con i suoi burattini.”

“Da parte dei produttori c’era la ferma sicurezza che sarebbe stato un disastro economico, però con un guadagno in partenza, perché io per farlo dovetti andare a trovare un coproduttore tedesco (la Constantin Film), un coproduttore spagnolo (la Ocean Film), e naturalmente un partecipante italiano. Il preventivo era di 80 milioni circa. Così andai da Constantin in Germania e ci fu subito l’accordo concreto di una cifra, e poi trovammo il coproduttore spagnolo. Io decisi di prendere la metà del mio cachet e di avere però la partecipazione. Dato che loro credevano che di utili non ce ne sarebbero stati, furono ben felici di darmi questa possibilità. Il film veniva girato gratis in partenza.”

1964. Il 35enne Sergio Leone aveva debuttato l’anno prima con un film tutto suo, il peplum “Il colosso di Rodi” dopo una già intensa carriera come assistente alla regia e regista di seconde unità in importanti film hollywoodiani girati a Cinecittà: basti pensare che aveva diretto lui la famosa battaglia delle quadrighe di “Ben-Hur” di William Wyler e sempre lui, co-sceneggiatore e aiuto regista, aveva concluso il film “Gli ultimi giorni di Pompei” che il regista Mario Bonnard aveva abbandonato per correre a dirigere Alberto Sordi in “Gastone”, ma ufficialmente ritiratosi per ragioni di salute.

Insomma, Sergio Leone non si ferma un attimo e pensa a un film tutto suo già da una decina d’anni; per il suo debutto aveva scritto la sceneggiatura “Viale Glorioso”, che a Roma è un luogo simbolo della sua infanzia e della sua giovinezza nel quartiere Monteverde, ma poi vi aveva rinunciato perché Federico Fellini era uscito con “I vitelloni”, film che in qualche modo ricalcava lo stesso spirito della sua storia, e fa riflettere che due registi tanto diversi abbiano pensato a inizio carriera una storia con le stesse atmosfere: un gruppo di giovani che oziosamente riflette sul senso della vita. Di fatto, i produttori di “Gli ultimi giorni di Pompei” soddisfatti dell’aiuto regista che aveva salvato il film, si mettono a disposizione per produrgli la sua opera prima, un altro peplum a basso costo, e Leone, che si era già divertito a scrivere una sceneggiatura come sorta di rivisitazione del genere ma in chiave ironica, propose “Il colosso di Rodi”: il film si fece, l’autore smussò però la parte ironica e mostrò grande talento nel filmare e firmare uno pseudo-colossal girato con un budget ridotto e molta inventiva.

Ricordiamo che in quei primi anni ’60 stava scemando l’interesse per i peplum – che gli americani chiamavano sword-and-sandals e Leone più prosaicamente sandaloni – e gli stessi western che in Europa, Italia e Spagna soprattutto ma anche Germania, si giravano a basso costo fingendo che fossero americani. Preso in quella scia Sergio Leone stava già lavorando alla sceneggiatura del suo terzo film del genere, “Le aquile di Roma” una specie di “I sette samurai” (1954) di Akira Kurosawa ma in sandaloni, film che aveva già avuto un recentissimo remake americano con “I magnifici sette” (1960) di John Sturges. Insomma, nulla si inventa e tutto si ricicla, e se poi il riciclo diventerà a sua volta un capolavoro dipenderà dal reale talento dell’autore. Ma in quel frangente Leone fu distratto da un altro impegno: gli era stata commissionata la sceneggiatura di un western per un regista spagnolo che poi rigettò il suo lavoro; ma al nostro autore era però rimasta in testa l’idea del western, idea che accarezzava da molto pur essendogli venuti a noia le dinamiche e i luoghi comuni di quel genere classico americano; e da innovatore, così come aveva tentato di innovare il peplum senza riuscirci, pensò di cimentarsi con una sua personalissima visione del western all’italiana o spaghetti-western, termine coniato dagli americani per definire i western girati da noi a basso costo, inizialmente col senso spregiativo che proveniva da mangia-spaghetti, definizione che recentemente anche Putin ha inopinatamente rispolverato.

Vale la pena riferire, per chi lo volesse cercare, che il primo western italiano fu “Una signora dell’ovest” del 1942 diretto dal tedesco italianizzato Carl Koch, regista su cui va spesa qualche parola: fu assistente del francese Jean Renoir che nel 1936 lo aiutò ad espatriare insieme alla moglie regista animatrice; a ridosso dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939, Renoir col suo assistente Koch iniziarono a lavorare a Roma a un adattamento cinematografico del dramma in cinque atti fine ‘800 “La Tosca” di Victorien Sardou di cui nel 1900 Giacomo Puccini compose l’opera lirica su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa; film che era stato voluto da Mussolini e caldeggiato dal governo francese per mantenere buoni rapporti con l’Italia onde evitare che entrasse in guerra al fianco della Germania, ma come sappiamo così non fu e dopo appena quattro giorni di riprese l’Italia entrò in guerra contro la Francia e Jean Renoir rientrò precipitosamente in patria lasciando il film in mano al suo secondo, il quale essendo tedesco non aveva problemi logistici, semmai ideologici, ma il lavoro è lavoro, gli venne italianizzato il nome in Carlo Koch e portò a compimento il film, successo al botteghino, avendo come assistente un promettente giovane, Luchino Visconti.

Torniamo a Sergio Leone. Era andato con la moglie al cinema Arlecchino – nomen omen! – a vedere “La sfida del samurai” (Yojimbo) sempre di Akira Kurosawa che a sua volta si era ispirato a un racconto dell’americano Dashiell Hammett, e ne fu folgorato: gli venne l’idea di fare il western che aveva sempre sognato. Si mise subito al lavoro e in breve completò la sceneggiatura insieme ai registi Fernando Di Leo e Duccio Tessari, ricalcando quasi pedissequamente il film del regista giapponese, fatto che diverrà una querelle giudiziaria. Il ronin giapponese diventa per Leone l’Uomo Senza Nome, un pistolero che, mostrate le sue capacità, rinfodera le armi e si mette al servizio di due famiglie rivali che con astuzia conduce allo scontro e all’annientamento reciproco. E Leone, dichiaratamente, si ispira proprio alle maschere di Goldoni benché nel prodotto finale è una finezza che il grosso del pubblico non coglie, un punto di vista che gli fa usare la macchina da presa per indagare gli sguardi dei protagonisti nei primissimi piani, le maschere che esprimono pensieri e sentimenti al di là delle parole che spesso diventano superflue.

Un’interessante intervista di Sergio Leone nonostante la piattezza dell’intervistatore Giuseppe Cereda

In seguito Leone racconterà (in questa intervista e altrove) che il ruolo del protagonista lo aveva scritto ispirandosi a un attore televisivo americano protagonista della serie “Gli uomini della prateria”, Clint Eastwood, ma in realtà lui aveva pensato in prima istanza a uno dei due giovani attori che si erano messi in luce in “I magnifici sette”, James Coburn o Charles Bronson; ma la produzione sparagnina gli negò una di quelle nuove star che ora avevano un ingaggio da 25mila dollari e le attenzioni si puntarono sulla star televisiva che si accontentava di 15mila. A dirla tutta i produttori avevano prima proposto Richard Harrison, cachet da 20mila dollari, che in Italia aveva già girato due peplum ma a Sergio Leone l’attore non piaceva, lui che inizialmente aveva puntato nientemeno che a Henry Fonda, tanto da mandare il copione al manager che neanche lo mostrò all’attore scrivendo nella cortese risposta: “Una cosa del genere non l’avrebbe mai fatta”; ma solo pochi anni dopo Fonda lavorò con Leone, che nel frattempo era diventato a sua volta una star, in “C’era una volta il West”. Leone aveva anche preso in considerazione Cliff Robertson ma non ci pensò più quando seppe che sarebbe costato come l’intero film. Così fra rifiuti e costi troppo alti non c’era ancora il protagonista. Si fece avanti un dipendente dell’agenzia William Morris di Roma con la copia di una puntata della serie “Gli uomini della prateria” nella quale recitava, a suo dire: “un attore giovane e allampanato, che poteva forse interessare Leone.” Ma Leone era ancora riluttante e fu spinto alla scelta dalla necessità di cominciare le riprese e dal costo contenuto dell’attore.

I cinque che non furono: Charles Bronson, James Coburn, Richard Harrison, Henry Fonda e Cliff Robertson

Solo dopo il regista dirà in un’intervista americana quello che parzialmente ripeterà nell’intervista Rai: “Ciò che più di ogni altra cosa mi affascinò di Clint, era il modo in cui appariva e la sua indole. Nell’episodio ‘Incident of the Black Sheep’ Clint non parlava molto… ma io notai il modo pigro e rilassato con cui arrivava e, senza sforzo, rubava a Eric Fleming tutte le scene. Quello che traspariva così chiaramente era la sua ‘pigrizia’. Quando lavoravamo insieme lui era come un serpente che passava tutto il tempo a schiacciare pisolini venti metri più in là, avvolto nelle sue spire, addormentato nel retro della macchina. Poi si srotolava, si stirava, si allungava… L’essenza del contrasto che lui era in grado di creare nasceva dalla somma di questo elemento con l’esplosione e la velocità dei colpi di pistola. Così ci costruimmo sopra tutto il suo personaggio, via via che si andava avanti, anche dal punto di vista fisico, facendogli crescere la barba e mettendogli in bocca il cigarillo che in realtà non fumava mai. Quando gli fu offerto il secondo film, ‘Per qualche dollaro in più’, mi disse: ‘Leggerò il copione, verrò a fare il film, ma per favore ti imploro solo una cosa: non mi rimettere in bocca quel sigaro!’ E io gli risposi: ‘Clint, non possiamo tagliare fuori il sigaro. È il protagonista!‘ e la mitizzazione dei fatti è talmente accattivante che verrà ripetuta come una lezione imparata a memoria.

Ma Clint Eastwood che ne pensava? Lui aveva ricevuto la sceneggiatura di “The magnificent stranger”, una produzione italo-ispano-tedesca, e ovviamente non sapeva niente di Leone ma conosceva gli spaghetti-western e riteneva che nessun europeo potesse essere in grado di girare un western: come dargli torto? cosa avremmo pensato noi di un americano che avesse voluto girare un film neorealista? Però, benché tradotta in uno scadente inglese, fu incuriosito dalla sceneggiatura che si ispirava al film del regista giapponese, al cui precedente film si era già ispirato il successone “I magnifici sette” che gli aveva fatto gola.

Clint nella serie tv CBS

L’offerta era pure allettante: la produzione garantiva il viaggio in Europa anche alla moglie, e l’eventuale insuccesso commerciale non gli avrebbe nuociuto perché nessuno avrebbe visto in patria quello strano western il cui protagonista era sì il classico pistolero ma era anche un furbo manipolatore, oltre che un vagabondo sui generis e dunque un personaggio troppo fuori dagli schemi dei classici western per poter essere apprezzato sul mercato americano; dovette solo questionare con la produzione della serie che non voleva lasciarlo andare, ma garantì che a fine riprese sarebbe tornato a girare per la tv e si accordarono; e quando più avanti la rivista Variety riportò lo straordinario successo di quello spaghetti-western lui quasi non ci fece caso, anche perché non conosceva il titolo finale del film; solo quando gli arrivò una lettera dalla produzione per la proposta di un secondo film si rese conto del valore dell’impresa, dato che gli si spiegava che nel box office italiano, il “suo” era il secondo incasso dopo un film col divo Marcello Mastroianni (“Matrimonio all’italiana”) e fece i bagagli in quattro e quattr’otto.

Per cominciare a lavorare alla sceneggiatura, Leone si era procurato una traduzione del copione del film giapponese con l’intento di evitare, racconterà in seguito, che il suo scritto fosse una copia conforme: “Mi feci fare una traduzione del copione solo per essere sicuro di non ripeterne nemmeno una parola. Tutto ciò che volli mantenere fu la struttura di base del film di Kurosawa. Concepii l’intero trattamento in cinque giorni con Duccio Tessari. Il titolo provvisorio era ‘Il magnifico straniero’. Tessari non capiva bene cosa stavo facendo. Fece girare per Roma la voce che ero diventato un po’ strano. Poi scrissi l’adattamento, da solo, in una quindicina di giorni.” Ma il suo amico e aiuto Sergio Corbucci lo smentirà dicendo che Leone aveva copiato il film di Kurosawa per filo e per segno cambiando solo ambientazione e dialoghi. Posizione confermata da Fernando Di Leo, co-sceneggiatore con Duccio Tessari: “Non so chi disse a Leone — o meglio come si sparse la voce — che Yojimbo aveva stilemi western, sicché quando Sergio ci convocò, Tessari e me, si pensò a come fare la trasposizione. Tessari era per dare una robusta vena d’ironia alla storia, io per differenziarci, Leone era decisamente per il plagio: staccarsi di quel tanto che la diversità del genere comportava. Più io che Duccio lavorai in ‘direzione plagio’ e Sergio ebbe il copione che voleva. Va detto che l’originalità di Leone fu nel modo di ‘girare’, della storia s’era proprio invaghito.”

Ma veniamo alla questione legale. Durante la lavorazione del film dalla produzione arrivò la direttiva che chiunque fosse impegnato sul set doveva “astenersi in ogni circostanza dal menzionare la parola Yojimbo.” Cos’era successo? anzi, con non era successo? i diritti del film giapponese non erano ancora stati pagati e lo stesso Eastwood ha poi ricordato che la produzione aveva assicurato che si trattava di una mera questione burocratica che si sarebbe risolta a breve; ma così non fu perché quando il film venne distribuito nelle sale, l’italiana la Jolly Film non aveva ancora pagato i 10mila dollari di diritti alla giapponese Toho Film. Akira Kurosawa intentò causa e nella produzione italiana nessuno volle prendersi la responsabilità: Leone disse che i produttori erano troppo taccagni per pagare il dovuto, e gli fu risposto che lui non aveva avvertito che ci fossero degli oneri da pagare; poi fu sostenuto che la Jolly avesse contattato la Toho senza però ricevere risposta; ma ci fu anche chi sostenne che i produttori volessero incastrare l’autore: “Fece vedere loro ‘La sfida del samurai’ e disse: ‘Se riuscite a ottenere i diritti per un remake, io farò il film’. Beh, loro gli dissero che avevano preso i diritti, ma in realtà non era vero. E lui andò avanti e fece ‘Per un pugno di dollari’. E partì una causa con Kurosawa, che aveva ragione.” Fu così che Sergio Leone ricevette una lettera direttamente da Akira Kurosawa che rivendicava i diritti del film, e l’azione legale ebbe inizio.

A questo punto entrarono in gioco le sottigliezze legali che ben si sposavano con il genio italico sempre incline all’inganno e al raggiro, come il personaggio che avrebbero scelto per difendersi in tribunale. Gli avvocati della Jolly ritennero che la miglior difesa fosse l’attacco e il futuro regista Tonino Valerii, assistente alla regia non accreditato, fu incaricato di cercare una qualsiasi opera antecedente a “Yojimbo” con la quale poter sostenere che anche Kurosawa avesse copiato. Valerii buttò lì una proposta: l’opera di Carlo Goldoni “Arlecchino servitore di due padroni” che presentava, secondo lui, diverse analogie con il film di Kurosawa: “Gli avvocati consigliarono di sostenere che l’eroe doppiogiochista era ispirato a un personaggio di qualche opera letteraria occidentale e che quindi eventualmente il plagiario era Kurosawa. Io fui incaricato di trovare quest’opera. Mi capitò sotto gli occhi l’annuncio di una rappresentazione della commedia di Goldoni. Telefonai a un amico, fortunato proprietario del ‘Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi‘ e gli chiesi di leggermi la trama. Lo stesso pomeriggio portai l’idea in produzione con una punta di vergogna per l’irriverenza dell’accostamento. Fu riferita agli avvocati che ne furono entusiasti. Ebbi trecentomila lire in premio. Fu così che Goldoni divenne l’ispiratore del western all’italiana.” Questa controffensiva modificò leggermente la questione legale e i giapponesi si resero più inclini a un patteggiamento. Kurosawa e il suo co-autore Kikushima sarebbero stati risarciti col totale dei proventi dei diritti di distribuzione del film in Giappone, Taiwan, e Corea del Sud, più il 15% degli incassi di tutto il mondo. Leone rimase molto contrariato, poiché mai pensava che la questione sarebbe finita in tribunale: “Kurosawa aveva tutte le ragioni per fare ciò che ha fatto. È un uomo d’affari e ha fatto più soldi con questa operazione che con tutti i suoi film messi insieme. Lo ammiro molto come regista.” L’intera causa andò avanti per dieci anni e Sergio Leone perse tutta la sua percentuale sui diritti del film per pagare le parcelle dei suoi avvocati, ma imparò la lezione e da quel momento in poi decise che avrebbe prodotto da sé i suoi film.

Il successo ha molti padri. L’iconico personaggio senza nome si presenta con un look che rinnova quello classico del pistolero, a cominciare dal poncho che era noto da noi per essere stato indossato da Giuseppe Garibaldi di ritorno dal Sud America, ma che il personaggio di Leone-Eastwood, mantenuto per tutta la trilogia del dollaro, aveva rinnovato nell’immaginario e nella moda nostrana dove il poncio era indossato soprattutto dagli alternativi e dagli hippy, i figli dei fiori nostrani, ma c’era pure chi se lo faceva all’uncinetto. Leone ha affermato che furono sue le idee per acconciare il personaggio: “Gli diedi un poncho per ingrossarlo. E un cappello. Nessun problema. Presi una di quelle foto in bianco e nero che mi avevano fornito e aggiunsi a penna una barba, un sigaro toscano e un poncho.” Diversamente Clint Eastwood ha ricordato: “Andai in un magazzino di costumi sul Santa Monica Boulevard, e mi limitai ad acquistare il costume e portarlo là. Era molto difficile, perché in un film hai sempre due o tre cappelli dello stesso tipo, due o tre giacche uguali, nel caso si perda un accessorio del costume, o se qualcosa si bagna o tu ti devi bagnare. Ma per questo film avevo solo uno di tutto: un cappello, una specie di abito di montone, un poncho, e diverse paia di calzoni che erano semplicemente jeans tipo Frisco. Se avessi perso qualcosa a metà film sarei stato veramente nei guai.”

Volonté e Eastwood
Mimmo Palmara

Per il secondo ruolo, quello del vilain Ramón Rojo, fu scritturato Gian Maria Volonté che il regista già apprezzava, benché pare che la parte fosse stata scritta con e per l’amico Mimmo Palmara, già nel cast di “Il colosso di Rodi” che però non prese parte al progetto perché al momento era solo una produzione di riserva della Jolly Film la cui produzione principale era “Le pistole non discutono” a cui Palmara scelse di partecipare: un film che oggi non ricorda più nessuno; e Leone per girare il suo film a basso costo dovette accontentarsi di riciclare location, costumi, troupe e anche parte di attori e figuranti del film principale. Il resto del cast è equamente distribuito fra le tre nazioni che producono: per l’Italia ci sono anche i caratteristi Mario Brega, che da qui in poi sarà in tutti i film di Leone, Benito Stefanelli, anche stuntman prenderà parte a tutta la trilogia del dollaro perché parlando molto bene l’inglese sui set sarà l’interprete di Clint Eastwood; Bruno Carotenuto, figlio del più celebre Memmo; Edmondo Tieghi al suo debutto cinematografico.

José Calvo con Eastwood

Per la Spagna il volto noto José Calvo, che come tenutario del saloon nonché “guida turistica per stranieri” ha il ruolo più importante dopo Eastwood e Volonté; Antonio Prieto, anche lui popolarissimo in Spagna pure come cantante; Margarita Lozano al suo primo western, continuerà a lavorare molto in Italia fino in età matura; il belloccio baffuto Daniel Martìn rifà lo stesso ruolo di tanti western spagnoli.

Eastwood con Joseph Egger

Per la Germania: Marianne Koch (nessuna parentela col regista Carl Koch sopra citato) che all’epoca era molto nota in patria tanto da meritarsi il secondo nome nei titoli, ma questo resterà il suo film più importante; Wolfgang Lukschy noto in Germania per essere il doppiatore di John Wayne e Gary Cooper nei western doc; Sieghardt Rupp, già interprete dei western tedeschi; il vecchio Joseph Egger è doppiato da Lauro Gazzolo che fu la voce chioccia di tanti vecchietti del west. E restando sul parlato c’è da dire che il film fu girato senza traccia sonora, praticamente muto, e sul set ognuno parlava la sua lingua in una sorta di babele cui fu data forma al doppiaggio. Clint Eastwood, che nella versione americana si doppiò da sé, fu doppiato da Enrico Mario Salerno, mentre Volonté fu doppiato da Nando Gazzolo figlio di Lauro. Altri doppiatori di rango: Anna Miserocchi per la Lozano, Rita Savagnone per la Koch, Sergio Graziani per Stefanelli, Mario Pisu per Prieto, i fratelli Luigi e Nino Pavese (padre della doppiatrice Paila Pavese) per Calvo e Martìn.

Per la colonna sonora Leone aveva pensato di affidarsi ad Angelo Francesco Lavagnino già compositore della musica per “Il colosso di Rodi” ma la produzione aveva sotto contratto un certo Ennio Morricone che aveva appena musicato il primo western della Jolly Film, “Duello nel Texas”, e benché restio l’autore andò a trovare il musicista a casa, scoprendo che erano stati compagni di scuola alle elementari: il resto è storia, anche se sulle prime ci furono delle frizioni perché Leone chiese a Morricone di ispirarsi al russo Dimitri Tiomkin che aveva musicato “La battaglia di Alamo” film d’esordio da regista di John Wayne, ma il musicista non aveva nessuna intenzione di copiare, anche per una questione di professionalità: “Mi toccò dire a Sergio: ‘Guarda, se vuoi mettere nel film quel lamento, io non voglio averci niente a che fare’. Allora lui mi disse: ‘Okay, tu componi la musica ma fallo in modo che una parte della partitura suoni come il deguello‘. Anche questa soluzione non la vedevo di buon occhio, così presi un mio vecchio tema, una ninna nanna che avevo scritto per un amico, per una versione teatrale di tre drammi di mare di Eugene O’Neill. La ninna nanna era cantata da una delle Peter Sisters… Ciò che lo faceva somigliare era l’esecuzione, con una tromba suonata un po’ alla zingara.” Terminata la composizione delle musiche per le scene principali, Leone pretese un altro pezzo che accompagnasse l’intero film e Morricone gli propose un altro suo vecchio tema musicale, un brano folk americano ispirato a Woody Guthrie in cui voleva far percepire la solitudine e la nostalgia e al primo ascolto del pezzo il regista ne rimase affascinato e disse al compositore: “Hai fatto il film. Vattene in spiaggia. Il tuo lavoro è finito. È questo che voglio. Ora devi solo procurarti qualcuno che sappia fischiare”. E Morricone contattò il maestro Alessandro Alessandroni, abile col fischio tanto da saperlo rendere un vero e proprio strumento – roba che oggi si farebbe solo in digitale; e degna di nota era anche l’armonica a bocca suonata da Franco De Gemini. Questa colonna sonora fu per Morricone il primo successo internazionale con grande vendita di dischi ma lui la ricordò come la peggior colonna sonora che avesse mai scritto per il peggior film di Sergio Leone. Vinse ai Nastri d’Argento mentre Volonté fu candidato come miglior non protagonista.

Nei titoli di testa Sergio Leone si firma come Bob Robertson in omaggio al padre Vincenzo Leone che come attore aveva usato il nome d’arte Roberto Roberti. Ennio Morricone è Leo Nichols e Volonté è John Wells. Fra le altre curiosità: Clint Eastwood ha successivamente affermato che Leone non sapeva nulla del West, e che molte delle sue innovazioni erano dovute proprio all’ignoranza del regista circa le norme vigenti a Hollywood, a cominciare dalle regole del Codice Hays, secondo il quale quando avveniva uno sparo, l’arma e il personaggio ucciso non potevano trovarsi nello stesso fotogramma: “Dovevi girare la scena separatamente, e poi far vedere la persona che cadeva. Si era sempre pensato che fosse un po’ stupido, ma in televisione facevamo sempre in quel modo… Sergio non ne sapeva niente, e quindi metteva tutto insieme… Si vede la pallottola che parte, si vede la pistola che fa fuoco, si vede il tizio che cade, e non era mai stato così prima.” Fra le innovazioni di Leone c’è il frequente uso di primi piani, dettaglio che divenne un suo marchio di fabbrica e per il quale divenne famoso in tutto il mondo; Secondo Leone, gli occhi “rivelavano tutto quello che c’è da sapere sul personaggio: coraggio, paura, incertezza, morte, eccetera.” Mentre Eastwood rifletteva: “Leone credeva, come Fellini, e come molti registi italiani, che la faccia significasse tutto. In molti casi è meglio avere una gran bella faccia piuttosto che un gran bravo attore.”

Negli Stati Uniti il film uscì tre anni dopo, nel 1967, dopo che si furono appianate le questioni legali; e per il passaggio in tv avvenuto nel 1975 ci fu qualche problema di ordine morale nonostante il Codice Hays fosse decaduto: le azioni del protagonista furono ritenute perverse e immotivate e perciò venne girato un prologo trasmesso prima dei titoli di testa, diretto da Monte Hellman, anche lui autore di western atipici, in cui il personaggio di Eastwood, interpretato da un ignoto attore più basso e con un poncho diverso, insieme a primissimi piani riciclati da altre scene del film, si trova in un carcere statunitense; viene portato dal Direttore, Harry Dean Stanton, il quale gli dice che sarà lasciato libero solo se riporterà la pace nel paese di San Miguel entro sessanta giorni, altrimenti verrà ricercato come qualunque altro prigioniero evaso. Lo informa della situazione tra i Rojo e i Baxter e lo avvisa che non potrà contare su aiuti militari o indigeni, in quanto anche queste fazioni commerciano con i banditi, per poi lasciarlo andare in groppa a un cavallo, anziché di un mulo come Leone fa arrivare l’Uomo Senza Nome a San Miguel. La curiosa scena è oggi disponibile come contenuto extra nell’Edizione Speciale in DVD e Blu-ray disc per il mercato statunitense, insieme a un’intervista al regista sulla sua realizzazione. Noi ce ne faremo una ragione.

La Battaglia di Alamo – opera prima di John Wayne

Non ho mai amato John Wayne e da quando ho potuto scegliere (da adolescente) non ho più visto un suo film, ed estensivamente tutti i film western e di guerra, perché nel mio immaginario portavano tutti il marchio di John Wayne, che da bambino non mi piaceva per istinto e solo da adulto ho saputo trovare le parole per spiegare la mia antipatia: non mi piaceva il suo atteggiamento da super uomo, quello del “so tutto io” e, peggio, da suprematista bianco; ma i miei non erano precoci ragionamenti politici quanto piuttosto, sempre, il mio istinto, la mia natura, il mio personale sentire che mi faceva dubitare che gli indiani fossero così gratuitamente cattivi e feroci, tanto quanto non riuscivo a capire perché i negri dovessero fare gli schiavi. Solo con i film degli anni ’70 – “Corvo rosso non avrai il mio scalpo” “Soldato blu” “Un uomo chiamato cavallo” – per citare i primi tre titoli che mi vengono in mente, film che hanno cominciato a raccontare in modo diverso ragionato revisionista i conflitti con i pellerossa, ho fatto pace con il genere western perché finalmente trovavo alcune risposte ai miei dubbi, e potevo tornare a guardare i vecchi classici sospendendo il mio spirito critico e apprezzandoli per ciò che erano e sono: film spettacolari che raccontano dal punto di vista dei conquistatori l’America da conquistare.

La Battaglia di Alamo sta alla storia degli Stati Uniti d’America come da noi sarebbe, ad esempio, la Battaglia del Piave: una sconfitta territoriale nel percorso bellico di formazione di un’intera nazione. Gli Stati Uniti d’America all’inizio erano 13 colonie inglesi situate sulla costa atlantica, che avevano conquistato l’indipendenza dalla Corona Britannica nel 1776, e non furono tutte rose e fiori dato che i 13 già litigavano fra loro sulla schiavitù dei neri, dividendosi fra abolizionisti a nord e schiavisti a sud. Successivamente si pensò bene di ampliare i territori verso ovest, il selvaggio west, entrando in conflitto con gli abitanti autoctoni che via via gli americani incontravano, ovvero le popolazioni native, che sterminarono in una sorta di vera e propria pulizia etnica che durò fino al 1830, anno in cui fu varata una legge che regolamentava la deportazione dei nativi sopravvissuti in determinate aree di confinamento, dette riserve, e anche quegli stessi territori divennero campi di battaglia per le ricchezze minerarie che nascondevano e perché agli americani sembrava non bastare mai lo spazio conquistato: si sarebbero fermati solo sull’altra sponda, sull’oceano Pacifico.

In questo percorso di conquista, nel 1835 i nostri misero gli occhi sul territorio del Texas che solo pochi anni prima, il 1821, aveva conquistato la sua indipendenza dagli Spagnoli che a loro volta l’avevano strappato ai Francesi, e non dimentichiamo che Francesi e Spagnoli erano anche loro dei conquistatori venuti dall’Europa a soppiantare i nativi. Il Texas faceva gola perché vi erano ricchi giacimenti di argento – il petrolio era di là da venire – e a prescindere dal governo in carica vi si installavano genti di ogni nazionalità europea, compresi i nuovi coloni sedicenti Americani, molti dei quali erano ricchi commercianti possidenti di schiavi che vivevano chiusi nei loro ranch senza rispettare le leggi dello stato che aveva abolito la schiavitù su tutto il territorio messicano. Per contrastarli il presidente Anastasio Bustamante minacciò interventi militari nelle enclave anglo-americane, e per evitare ulteriori colonizzazioni di territori texani da parte dei confederati ne proibì l’immigrazione e, ulteriormente, fece costruire delle fortificazioni lungo il confine: il muro che avrebbe voluto Donald Trump lo avevano già pensato i messicani per difendersi dall’invasione americana. Questo però non fermò l’immigrazione fino al punto che contro 7800 residenti texani si contavano 30000 americani e a quel punto la questione si fece assai spinosa: gli speculatori americani non volevano più dover rendere conto al governo texano e il governo americano già pensava a un’annessione, anche per dare altro spazio a sud agli schiavisti e tenere buoni gli abolizionisti nordisti. Così fra manovre politiche e varie battaglie si giunse ad Alamo.

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La missione di Alamo presso cui si svolse la famosa battaglia raccontata nel film, prima era la missione religiosa di San Antonio de Valero e prese il nuovo nome dalla città Alamo de Parras da cui provenivano le truppe che la trasformarono in presidio militare, poi abbandonato in rovina. All’interno di quelle rovine si erano installati meno di duecento di quelli che la storia chiamerà eroi texani, ma in realtà i veri nativi texani erano solo 13 di cui 11 con ascendenze messicane; 41 combattenti erano di provenienza europea e il restante centinaio o poco più erano coloni americani che provenivano da altri stati dell’unione, e con loro due neri schiavi. Il film ricorda che erano 185 americani che si sono battuti con forze messicane che li superavano in un numero dieci volte superiore. Nel tempo l’evento si è caricato di enfasi e retorica nella memoria statunitense alimentata dalla fiction cine-televisiva, mentre i messicani la ricordano appena come un episodio secondario di tutto il conflitto con gli Stati Uniti.

Il film fortemente voluto da John Wayne tace tutti i retroscena che metterebbero in ombra il fulgido esempio di patriottismo americano, a cominciare dalla realtà dello schiavismo che fu fra le cause principali del conflitto e, in questo senso, l’opera è un classico della cinematografia dell’epoca con i buoni e i cattivi nettamente schierati su fronti opposti. Ma non del tutto perché Wayne (col suo sceneggiatore James Edward Grant) trova il modo di far dire a uno dei personaggi che i messicani sono brave persone che combattono per le loro idee, mentre dopo la battaglia mostra anche i morti sul campo messicano con un primo piano a una donna anziana che piange, in un apprezzabile tentativo di visione totale sul conflitto. Per il resto John Wayne è il John Wayne che ricordavo, quello “so tutto io” che non disdegna a donne e bambini messicani i suoi sorrisi di amabile superiorità.

John Wayne e Richard Widmark

Erano anni che il divo – al tredicesimo posto fra le più grandi star americane, che per un trentennio,1940-1970, è stato fra gli attori più famosi nel mondo ma che aveva già cominciato a recitare nel cinema muto degli anni ’20 – voleva fare questo film, una storia carica di spirito eroico con protagonisti mitici, a cominciare dall’avventuriero Davy Crockett divenuto eroe popolare protagonista di molta letteratura. E poiché nessuna major era interessata a realizzare il suo film, decide di metterci soldi di tasca sua appoggiandosi alla Republic Pictures che fino ad allora aveva prodotto western di serie B; a quel punto va da sé che sarà anche regista oltre che protagonista. Ma il film costò talmente tanto che il grande successo al botteghino gli fece solo recuperare i soldi spesi e per vedere un po’ di guadagno dovette attendere gli introiti dai passaggi televisivi. Vinse un solo Oscar tecnico per il Miglior Sonoro nonostante fosse candidato anche come Miglior Film, premio che quell’anno, il 1961, andò a “L’appartamento” di Billy Wilder. Non fu candidato come Miglior Regia dato che nell’ambiente era noto a tutti, benché non ufficialmente dichiarato, che l’amico John Ford regista di tanti film di Wayne gli aveva dato più di una mano durante le riprese. Il film che circola in tv è la versione corta di quasi tre ore a fronte di quella originale di ben quattro ore che meglio spiegherebbe gli attriti fra i personaggi di Bowie e Travis, nonché l’avventura romantica di Davy Crockett e, in ogni caso, le tre ore di film scorrono velocemente, ancora oggi, a riprova della sua validità anche a sessant’anni di distanza.

Chill Wills

Il film non gli portò neanche la candidatura come Attore Protagonista ma solo quella al Non Protagonista Chill Wills, un vecchio caratterista canterino che nel film ha il compito di alleggerire la vicenda. Nel ruolo dell’altro eroe Jim Bowie a capo di un drappello di volontari irregolari, Wayne avrebbe voluto Charlton Heston che invece rifiutò proprio perché non voleva essere diretto dal collega e, diciamola tutta, in un ruolo secondario rispetto a quello di Wayne, così la parte andò a Richard Widmark, ottimo attore che passava dai protagonisti agli antagonisti e che diede al personaggio quel tono un po’ canagliesco che l’aureo Charlton Heston non avrebbe potuto dare: non dimentichiamo che Jim Bowie fu anche un attivo schiavista. L’altro protagonista, il colonnello dell’esercito regolare William Travis, è interpretato dal meno noto Lawrence Harvey, in quegli anni apprezzato interprete di personaggi freddi e apparentemente senz’anima, dunque un’altra ottima scelta nel terzetto dei protagonisti, fra i quali gigioneggia al suo solito modo il solito John Wayne, quanto mai intriso di tutta la sua retorica, che qui sfoggia il famoso cappello di pelliccia di opossum alla Davy Crockett con tanto di testa dell’animale sulla fronte a mo’ di stemma.

LAURENCE HARVEY & PATRICK WAYNE in "The Alamo" Original
Richard Boone, Lawrence Harvey e Patrick Wayne

Fra gli altri personaggi realmente esistiti Richard Boone interpreta il Generale Sam Houston che non riuscì a inviare gli aiuti per tempo ma sconfisse il generale messicano Antonio López de Santa Anna in una successiva battaglia e poi eletto primo presidente del Texas americanizzato; mentre il Capitano James Butler Bonham lo interpreta il primogenito Patrick Wayne, che dal padre aveva ereditato altezza e fascino ma non a sufficienza da farlo emergere come stella di prima grandezza.

Aissa Wayne e Joan O’Brien

Nel resto del cast il giovane cantant’attore Frankie Avalon (all’anagrafe Francis Avallone) immaginato come unico superstite maschio adulto della battaglia perché inviato a chiedere aiuto al Generale Houston. L’argentina Linda Cristal (Marta Victoria Moya Burges) e l’americana Joan O’Brien hanno il compiuto di alleggerire il film con la loro femminilità, la prima facendo intuire una storia d’amore con Davy Crokett, la seconda come superstite al massacro insieme a uno schiavetto nero e alla bionda figlioletta interpretata da Aissa Wayne, figlia di terzo letto del patriarca John.

La quale, proseguendo negli ideali politici del padre, da anziana bella signora bionda ha appoggiato un altro patriarca della destra americana, Donald Trump, fino a dichiarare che gli attivisti progressisti americani odiano la figura di suo padre perché fu un uomo forte e indipendente, un odio che si estende a tutto il cinema western considerato veicolo di razzismo e suprematismo bianco. E probabilmente ha pure ragione dato che da quelle parti il revisionismo ad alzo zero del politically correct è una piaga che non conosce mezze misure né contestualizzazione dei fatti e dei personaggi nel loro tempo. Di fatto, the Duke, come veniva rispettosamente chiamato John Wayne, era talmente di destra da fondare la “Società Cinematografica per la Salvaguardia degli Ideali Americani” che si poneva lo scopo di difendere l’industria del cinema, e attraverso essa l’intera società, dalla perniciosa infiltrazione del pensiero comunista e, sulla carta, anche fascista. Nel loro statuto, fra le altre cose, si leggeva: “Nel nostro speciale campo della cinematografia, siamo allarmati dalla crescente impressione che questa industria sia composta e dominata da comunisti, radicali e pazzi. Noi crediamo di rappresentare la stragrande maggioranza delle persone che servono in questo grande mezzo di comunicazione. Ma purtroppo essa è stata una maggioranza disorganizzata…” Può sorprendere che vi aderirono beniamini del nostro immaginario cinematografico come Walt Disney, Gary Cooper, Clark Gable, Barbara Stanwyck, Ginger Rogers e, ma lui non sorprende, Ronald Reagan. La società ebbe vita fino al 1974.

The Duke era nato come Marion Robert Morrison e aveva all’incirca quattro anni quando i vicini di casa cominciarono a chiamarlo Big Duke perché andava sempre in giro col suo cagnolino Little Duke, e poiché quel soprannome gli piaceva più del nome Marion, se lo tenne e così si fece conoscere crescendo. Ma il completo nome d’arte John Wayne gli venne dalla casa di produzioni dove aveva cominciato con piccoli ruoli nei film della star del muto Tom Mix. Al suo primo ruolo da protagonista in “Il grande sentiero” del 1930, il regista Raoul Walsh gli suggerì il nome d’arte Anthony Wayne in onore al generale che aveva combattuto nella Guerra d’Indipendenza dall’Inghilterra, e se ne deduce che i due si fossero già riconosciuti come osservanti patrioti; ma poiché al boss dello studio il nome Anthony suonava troppo italiano alla fine scelsero John, John Wayne. Peccato che l’interessato non fosse presente alla scelta del nome che lo avrebbe consacrato star internazionale per i successivi quarant’anni!

La più grande storia mai raccontata – omaggio a Max Von Sydow

Nell’occasione della morte del 90enne grande attore svedese, Sky lo ricorda mandando in onda, piuttosto che uno dei suoi tanti film girati con Ingman Bergman, di cui è stato attore feticcio, il suo grandioso debutto a Hollywood nel ruolo di Gesù, e dunque il primo film in cui recita in inglese. Il film è la versione di 3 ore e 25 minuti, quella media, dato che ne esiste una ridotta di 2,35 e una originale di 4,30. Un pomeriggio davanti la tv che sarà il cinema da vedere nelle prossime settimane di cautela da coronavirus.

1965. Max Von Sydow è già un attore affermato in patria: ha girato nove film sette dei quali con Bergman. E George Stevens, il potente produttore regista hollywoodiano lo sceglie per dare al suo Gesù un volto nuovo, non noto, slegato da inevitabili rimandi ad altri ruoli e pettegolezzi privati.

Bisogna ricordare che a Hollywood erano gli anni dei kolossal epici e biblici: è del 1956 “I Dieci Comandamenti” di Cecil B. De Mille a produzione Paramount, e gli altri studios cercavano progetti simili. Le radici di questo film sono in una produzione radiofonica che con lo stesso titolo mandava in onda puntate di mezz’ora ispirate ai Vangeli, nel già lontano 1947. Il successo della trasmissione fu tale che ne venne ricavato un libro di cui Darryl F. Zanuck, produttore della 20Th Century Fox, acquisì i diritti cinematografici, senza però mai avviare il progetto. Nel frattempo “I Dieci Comandamenti” ha già spopolato in sala, ha ricevuto 7 nomination agli Oscar, e stupito il mondo intero coi suoi originalissimi effetti speciali. E dobbiamo arrivare al 1958, l’anno in cui George Stevens, mentre stava producendo e dirigendo “Il diario di Anna Frank”, si rese conto che lo studio possedeva quei diritti e finalmente avviò il progetto. Passarono altri due anni per la stesura della sceneggiatura e, più o meno in contemporanea, lo studio rivale Metro Goldwyn Mayer, stava lavorando al “Re dei Re” che uscì in sala nel 1961. Questo non scoraggiò George Stevens, certo della maggiore grandiosità del suo film, talmente grandioso che la Metro Goldwyn Mayer si sfilò dal progetto in quanto erano già stati spesi più di due milioni di dollari senza che fosse stato girato un solo metro di pellicola. In effetti il regista-produttore si era fatto prendere la mano dalla sua grandiosa visione e aveva ingaggiato Carl Sandburg, poeta Premio Pulitzer, per collaborare alla sceneggiatura, e l’illustratore-pittore francese André Girard perché realizzasse 352 dipinti a olio da usare come storyboard. Inoltre pare che volò fino a Roma, per andare in Vaticano a chiedere consigli a papa Giovanni XXIII.

In effetti la grandiosità del film, oltre che nella durata e nel cast che annovera numerose star in ruoli secondari se non addirittura figurazioni mute, sta proprio nella sua statica struttura a quadri che sembrano vere e proprie pitture, con una magistrale disposizione delle figure nello spazio e una superba illuminazione, con la scena finale del Monte Calvario che sembra una composizione degna di Bruegel. Questa staticità, però, insieme alla ieraticità del Gesù che per lo più parla secondo le parole attribuitegli nei vangeli, dà al film una solennità lenta, in alcuni casi eccessiva, e anche le scene in movimento come la Via Crucis risultano statiche: ma è evidente che si tratta di una scelta stilistica ben precisa, certamente ispirata dal prezioso storyboard a olio, da apprezzare o meno secondo la personale disposizione dello spettatore. C’è da segnalare che George Stevens si è avvalso del sostanziale aiuto di due altri quotati registi, però non accreditati: David Lean (che aveva già all’attivo “Il ponte sul fiume Kwai” e “Lawrence d’Arabia”) girò il lungo prologo con Erode il Grande (Claude Rains) e il figlio Erode Antipa (José Ferrer); mentre Jean Negulesco, regista di un “Titanic” del 1953 ma più attivo nella commedia, girò le sequenze “mobili” per le vie di Gerusalemme. Alla fine, con 20 milioni di dollari al netto delle spese di edizione e promozione, è il più costoso film girato negli Stati Uniti fino a quel momento. Il piano di lavorazione prevedeva tre mesi di riprese ma alla fine ne occorsero nove, e nel frattempo morì il vecchio attore Joseph Schildkraut, qui nel ruolo di Nicodemo, che con Stevens era stato il papà di Anna Frank, così che alcune scene dovettero essere riscritte; mentre Joanna Dunham, nel ruolo di Maria di Magdala qui unificato con l’Adultera che Gesù salva dalla lapidazione, rimase incinta e i costumi dovettero essere riprogettati così come le inquadrature.

Il resto del cast è spettacolare, proprio da più grande storia mai raccontata. Nei ruoli principali Charlton Heston è Giovanni il Battista e Telly (Aristotelis) Savalas è Ponzio Pilato; Martin Landau è Caifa mentre Giuda, che in questo film ha grande spazio e si suicida buttandosi nel fuoco sacro dei sacrifici, anziché impiccarsi come da Scritture, è interpretato dal giovane scozzese David McCallum arrivato alla fama con la serie tv “Organizzazione U.N.C.L.E.” e che non ha proseguito con una grande carriera cinematografica, per poi tornare alla fama in tempi recenti come l’anziano dottor Ducky Mallard nella longeva serie tv “N.C.I.S.”. Poi ci sono: Donald Pleasence come Diavolo tentatore nel deserto e che continua la sua attività in città; Sal Mineo come storpio risanato, Gary Raymond come Pietro e Roddy McDowall come Matteo; e in ruoli via via sempre più piccoli: Dorothy McGuire come Vergine Maria che nell’arco dei trentatré anni della vita di suo figlio non invecchia di un giorno, e Robert Loggia che come Giuseppe è poco più che un figurante; è ben più visibile la prima star nera di Hollywood, Sidney Poitier, come Simone di Cirene che per un tratto della via Crucis condivide con Gesù il peso della croce, e non dice una sola parola; mentre John Wayne, come centurione Longino, col suo vocione ben noto al grande pubblico, dice solo la celebre frase: “Quest’uomo era davvero il Figlio di Dio”; poco più che comparse sono Angela Lansbury come Claudia Procula moglie di Ponzio Pilato, Carrol Baker come Veronica e Shelley Winters come donna risanata – solo per ricordare i nomi più noti.

Di Max Von Sydow, il protagonista appena scomparso, rest da dire che dopo questo film, pur continuando a collaborare in patria con Bergman, divenne una star holliwoodiana, e vale la pena ricordare la sua partecipazione a “L’Esorcista” 1973, “I tre giorni del Condor” 1975, il fantasy “Flash Gordon” del 1980 dove c’erano anche le nostre Ornella Muti e Mariangela Melato, e in tempi più recenti “Star Wars, il risveglio della forza” 2015 e una partecipazione nella serie tv “Il Trono di Spade”. Negli anni ’70 ha lavorato in Italia in film importanti di importanti registi: “Cuore di cane” di Alberto Lattuada, “Cadaveri eccellenti” di Francesco Rosi e “Il Deserto dei Tartari” di Valerio Zurlini, e conclude l’avventura italiana con il curioso film di Mauro Bolognini “Gran bollito” che ripercorre la vicenda reale della serial killer detta “la saponificatrice di Correggio” per avere sciolto nella soda caustica tre donne; del film era protagonista Shelley Winters e Max Von Sydow vi interpretava il doppio ruolo di una delle tre vittime e del capo della polizia; gli altri due attori en travesti erano Renato Pozzetto e Alberto Lionello, in doppio ruolo come carabiniere e bancario. Della sua tranquilla vita privata non c’è molto da dire: è morto a Parigi accudito dalla seconda moglie francese, matrimonio in seguito al quale ottenne la cittadinanza francese. Come dire: per essere dei grandi artisti non è necessaria la sregolatezza. Rimane di lui un Gesù che coi suoi intensi occhi azzurri ha pervaso l’immaginario americano, come è evidente nelle tre seguenti immagini: nella prima Max Von Sydow, nella seconda il Gesù dell’iconografia popolare, nella terza il Gesù interpretato da Robert Powell nel film del 1977 di Franco Zeffirelli, regista sempre attento al mercato americano.