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Hair – omaggio a Treat Williams, con la storia del musical e uno sguardo al Greenwich Village degli anni ’60

Il 12 giugno 2023 Treat Williams è stato investito da un’auto mentre cavalcava la sua moto e in condizioni disperate è stato trasportato in ospedale dove è morto poco dopo, all’età di 71 anni. Un testimone dell’incidente ha dichiarato, precisando che l’attore indossava il casco: “Era totalmente vigile, rispondeva alle domande dei paramedici. l’ho visto volare in aria.”

Richard Treat Williams ha usato per la sua carriera artistica il secondo inusuale nome che letteralmente significa trattare, con tutti i suoi sinonimi, maneggiare, aver cura, nome che gli viene dal lontano avo Robert Treat Paine che fu uno dei firmatari della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Cominciò da adolescente a calcare il palcoscenico nelle recite scolastiche ma anche la squadra di football se lo contendeva: “Amavo molto il football – ebbe modo di raccontare – ma non pensavo che si potesse essere un jock (termine intraducibile che definisce l’archetipo di studente più interessato allo sport che allo studio, sintesi di jockstrap, il sospensorio che usano gli sportivi) e al contempo far parte della compagnia teatrale… Ho iniziato a prendere sul serio l’idea di imparare il più possibile sul mestiere di recitare nel mio primo anno.” E si impegnò talmente che a un certo punto si ritrovò contemporaneamente in tre spettacoli universitari: una commedia, uno Shakespeare e un musical. E sarà il musical a dargli la fama.

Cominciò come sostituto in panchina dei tanti protagonisti di “Grease” in scena a Broadway, e fra i vari sostituti che attesero il loro momento ci fu anche Patrick Swayze; finché Treat ebbe il ruolo da protagonista nelle tournée in provincia. Nel 1974, 23enne, era stato protagonista insieme al 20enne John Travolta del musical “Over Here!” e ciò gli era valsa l’attenzione per tornare da protagonista ufficiale nel cast di “Grease” dove Travolta era uno degli amici prima di essere protagonista del film nel 1978. E tanto per restare nel gioco del chi c’era anche Richard Gere fu nelle varie versioni del cast. Treat ha debuttato al cinema nel 1975 prima di assurgere a fama mondiale con quest’altro musical nel 1979.

Jerome Ragni e James Rado

Il film fu sviluppato dal musical teatrale che aveva debuttato nel 1967 e il cui titolo completo era “Hair: The American Tribal Love-Rock Musical” storia e canzoni di Gerome Ragni e James Rado musicate da Galt MacDermot. Ragni e Rado avevano cominciato a scrivere il loro musical tre anni prima, dopo essersi conosciuti in palcoscenico in un altro musical off-Broadway, veicolando nei testi la loro visione politica del momento fatta di controcultura hippy, antimilitarismo e rivoluzione sessuale, e va da sé che i due personaggi principali, che avevano scritto per sé, erano autobiografici: il Claude di Rado era un pensoso romantico mentre il Berger di Ragni era un estroverso. I due scrivono un genere di musical che non si era mai visto sui palcoscenici dove fino a quel momento lo spettacolo più rivoluzionario era stato “West Side Story” con le sue romantiche gang e amori inter-etnici.

“Hair” che da noi sarebbe tradotto in capelloni, porta sul palcoscenico i personaggi e gli umori che vengono dalla strada, di quell’East Village dove vivevano quelli che oggi definiremmo alternativi, che era confinante col Greenwich Village dove avevano casa intellettuali e artisti di sinistra. Una curiosità per inquadrare gli umori di quell’epoca e in quegli ambienti: nel 1968 un certo Louis Abolafia, performer artist, presentò la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, contro Richard Nixon, con il suo Partito Nudista e lo slogan “Che cosa ho da nascondere?”, slogan profetico col senno di poi sapendo che fine ha fatto Nixon.

Un gruppo di hippies che suona e canta a Washington Square Park, il luogo e il tempo in cui Bob Dylan, Allen Ginsberg, Andy Warhol, The Velvet Underground e altri protestavano contro la guerra in Vietnam.
Ma al Greenwich Village c’erano anche Paul Newman e sua moglie Joanne Woodward che tranquillamente facevano colazione leggendo i quotidiani.
Bob Dylan al Bitter End, cantautore che sarà una delle punte di diamante delle prossime proteste sessantottine

Insomma da quelle parti, fra hippies e intellettuali e artisti e star-system, viveva varia umanità. C’erano quelli che bruciavano le cartoline precetto e c’erano quelle che non sapevano di chi fossero incinte, e proprio da quelle strade vennero anche alcuni elementi del primo cast originale del musical: le tematiche e il linguaggio esplorati sono, fino a quel momento, inauditi: parolacce e volgarità varie, canzoni che inneggiano all’uso di droghe e alla libertà sessuale, e poi l’irriverenza per sua maestà la bandiera americana, e infine la scena di nudo collettivo che chiude lo spettacolo. Anche musicalmente è una novità: i due autori erano stati messi in contatto col canadese Galt MacDermot che qualche anno prima aveva vinto un Grammy Award e che fino a quel momento non aveva mai sentito parlare di hippies ma sposò il progetto con molto entusiasmo e partendo dall’idea rock dei due autori sviluppò un suo proprio sound con influenze afro e funk. A lavoro completato presentarono il progetto a molti produttori di Broadway ricevendo solo rifiuti, finché alla fine non trovarono l’attenzione di Joe Papp, un produttore che sembrava il meno adatto essendo il gestore del New York Shakespeare Festival e che fino a quel momento non aveva mai prodotto spettacoli di autori viventi; ma Papp stava costruendo il nuovo Public Theatre nell’East Village, proprio il quartiere hippie in cui Ragni e Rado avevano trovato le loro ispirazioni, e dove Papp aveva l’intenzione di produrre e sostenere proprio artisti emergenti, decidendo che quel musical di capelloni fumati avrebbe inaugurato la nuova struttura. Il debutto fu caotico per l’assoluta novità di quel musical di rottura, per il cast inusuale e confuso e lo staff tecnico del teatro che non comprendeva l’operazione: la critica fu tiepida ma non negativa e al pubblico era piaciuto; così venne sviluppata la versione che nel 1968 vide l’aggiunta di 13 canzoni e i testi più ammorbiditi con un finale più edificante da portare a Broadway, finalmente. E successo fu.

Già nel 1973 era stato offerto al 30enne George Lucas non ancora famoso l’adattamento del musical, che lui rifiutò perché impegnato a girare il suo primo grande successo “American Graffiti” che altrettanto raccontava la gioventù dei recenti anni ’60 ma da un punto di vista borghese e nostalgico da commedia per tutte le famiglie. A quel punto si interessò il cecoslovacco naturalizzato statunitense Miloš Forman, forte del grande successo del 1975 “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, film che vinse cinque Oscar, sei Golden Globe, sette BAFTA e altro ancora; per Forman era un proseguo del suo lavoro nel cinema di denuncia iniziato col suo primo film americano “Taking Off”. Ma il progetto che prese in mano in quella seconda metà degli anni ’70 era già datato perché l’esplosione del fenomeno dei figli dei fiori si era già esaurito e si andava verso un altro tipo di proteste, meno floreali e psichedeliche ma più concrete, come le lotte contro il razzismo, che pur coetanee di quei primi anni ’60 esplosero con l’assassinio del reverendo Martin Luther King nel 1968.

Forman si affidò per la sceneggiatura al drammaturgo Michael Weller e insieme spostarono l’azione nel loro tempo presente e il film fu girato nell’autunno del 1977 stravolgendo completamente la trama del musical: alcuni personaggi furono eliminati e altri nuovi furono introdotti, di conseguenza furono eliminate anche alcune canzoni mentre altre furono assegnate ad altri personaggi; il protagonista Claude fu totalmente reinventato così come il finale in cui nell’originale era lui a morire. Va da sé che Ragni e Rado non ne furono affatto contenti e dichiararono drasticamente, forse non a torto, che la versione cinematografica del loro musical non era ancora stata realizzata; ma il film ebbe un enorme successo di pubblico e la critica elogiò le invenzioni di Weller che resero la trama molto più avvincente. Fu candidato ai Golden Globe come Miglior Film con Treat Williams candidato come Nuova Star dell’Anno che però quell’anno andò al più rassicurante bambino piagnucoloso Ricky Schroeder per “Il Campione” di Franco Zeffirelli.

Il cast comprendeva John Savage nel ruolo dell’altro protagonista: biondo come l’originale James Rado tanto quanto Treat Williams sembrò la copia perfetta, in bello, di Gerome Ragni, e ricordiamoci che Savage era reduce dall’aver partecipato a un altro grande successo: “Il Cacciatore” di Michael Cimino. Anche Beverly D’Angelo nel ruolo della giovane borghese è al suo primo ruolo importante. Negli altri ruoli di rilievo Annie Golden, Don Dacus, Dorsey Wright e Cheryl Barnes. Ai provini si presentò anche una certa Madonna Louise Veronica Ciccone, da poco sbarcata a New York per fare fortuna come ballerina ma venne scartata probabilmente perché ancora acerba. Si presentò anche Bruce Springsteen che venne scartato probabilmente perché troppo preparato: era già una star del rock con diversi dischi e concerti all’attivo. Come altra curiosità c’è da riportare che il film, praticamente tutto in esterni, fu girato nel freddo ottobre del 1977 e per evitare che agli interpreti uscisse il vapore di bocca quando mimavano il canto, fu messo loro del ghiaccio in bocca, altrettanto quando dovevano solo recitare si rinfrescavano prima la bocca.

Da quello che leggo oggi sui social con la sua folgorante interpretazione in “Hair” Treat Williams fece innamorare molte donne, e perché no anche molti uomini, con quella sua aria da ribelle dal gran cuore, e oggi moltissimi lo compiangono. Ma la sua folgorante carriera fu con quel film all’apice per poi assestarsi in una lunga fruttuosa sequenza di titoli dove fu comprimario senza più avere l’opportunità di brillare in un ruolo di prima grandezza, ma sempre apprezzato dalla critica. Fu tra i protagonisti di “C’era una volta in America” del nostro Sergio Leone ed ebbe pure l’opportunità di fare una marchetta in Italia partecipando a “La stangata napoletana” di Vittorio Caprioli. Nel 2007 lavorò anche con Pupi Avati in “Il nascondiglio”, uno di quegli horror americani che ogni tanto il nostro autore si concede. Ebbe una seconda ma altrettanto infruttuosa nomination al Golden Globe per la sua intensissima interpretazione da protagonista in “Il principe della città” di Sidney Lumet del 1981, e una terza nomination la ebbe per l’adattamento televisivo, mai visto in Italia, di “Un tram che si chiama desiderio” dal dramma di Tennessee Williams già film nel 1951 per la regia di Elia Kazan che aveva lanciato Marlon Brando.

Negli anni Novanta era nei suoi 40 e rinverdì la carriera che stava stagnando tornando al teatro con interpretazioni applauditissime, e critiche sempre eccellenti per le sue partecipazioni in film mai di prima grandezza benché diretti da grandi registi e al fianco di altre grandi star. Nei primi anni 2000 un grande successo di pubblico gli venne dalla serie tv “Everwood” e poi ebbe ruoli ricorrenti in altre importanti serie oltre a vari film televisivi. In un’intervista del 1995 confessò la sua dipendenza da cocaina negli anni ’80 quando era etichettato come “il prossimo” Al Pacino o Robert De Niro e non reggeva la pressione del confronto; la sua carriera cinematografica “è stata interrotta – disse – dalla mia mancanza di concentrazione e dall’uso di cocaina. Voglio dire, volevo festeggiare più di quanto volessi concentrarmi sul mio lavoro… Non ti rendi conto, purtroppo, finché non è troppo tardi, di quanto siano fugaci la fama e il potere a Hollywood…” Il suo ultimo lavoro ancora inedito è la partecipazione alla seconda stagione del televisivo “Feud” che racconta la rivalità di Bette Davis e Joan Crawford durante la lavorazione di “Che fine ha fatto Baby Jane?” interpretate da Susan Sarandon e Jessica Lange. Treat Williams interpreta uno dei capi del network televisivo CBS. La sua ultima partecipazione al cinema è nel crime “American Outlaws” del 2023 inedito da noi. Lascia la moglie Pam Van Sant ex attrice e i loro due figli Gill Treat Williams, avviato a seguire le orme paterne, e Ellinor (Ellie) Williams, influencer. E lascia anche tanti che l’hanno sempre ammirato e amato.

Oscar 2022, la sintesi della serata

A inizio serata Daniel Kaluuya, premio Oscar 2021 non protagonista per “Judas and the Black Messiah” di Shaka King, insieme a H.E.R. premio Oscar per la miglior canzone originale per lo stesso film, annunciano il premio alla migliore attrice non protagonista 2022 ma soprattutto, insieme, vestono i colori della bandiera ucraina.

Ariana De Bose riceve l’Oscar come migliore attrice non protagonista per il ruolo di Anita in “West Side Story” remake di Steven Spielberg del musical del 1961 diretto da Robert Wise e Jerome Robbins, dove a ricevere l’Oscar per lo stesso ruolo fu Rita Moreno, che in questo remake è fra i produttori e si ritaglia il piccolo ruolo di Valentina che volge al femminile il personaggio di Doc del musical originale.

Rita Moreno, 91 anni

A seguire “Dune” di Denis Villeneuve si aggiudica tre premi tecnici per l’impianto sonoro, la fotografia e gli effetti speciali.

Viene poi omaggiata la saga di 007 che compie 60 anni, essendo cominciata nel 1962 con “Agente 007 licenza di uccidere”, starring Sean Connery, e conclusa con la morte della spia più longeva iconica e redditizia dell’industria cinematografica nell’ultima interpretazione di Daniel Craig “No Time to Die”. In mezzo possiamo recuperare altre chicche come la parodia del 1967 “Casino Royale” che è anche il titolo del primo film con Daniel Craig, reboot della serie nel 2006. Ma c’è anche uno 007 apocrifo del 1983, o fuori serie, che per complesse azioni legali viene realizzato da una differente produzione, e per l’occasione viene riscritturato un già anziano Sean Connery da mandare in duello al botteghino con lo 007 ufficiale che all’epoca era Roger Moore, del quale abbiamo il primo 007 “Vivi e lascia morire” del 1973. E c’è la parentesi George Lazenby “Agente 007 al Servizio Segreto di sua Maestà” del 1969.

Viene poi premiato il miglior film di animazione, “Encanto”.

Mentre il miglior corto di animazione è “The Windshield Wiper”, sei anni di lavorazione, che è integralmente disponibile su Youtube, in lingua originale, con limitazioni per scene di sesso. La sinossi: all’interno di un bar, mentre fuma un intero pacchetto di sigarette, un uomo di mezza età fa a sé stesso e a noi pubblico una domanda ambiziosa: “Cos’è l’Amore?”. Troverà la risposta in una raccolta di scenette e situazioni animate ma talmente iperrealistiche da sembrare ridisegnate su un film dal vero; in realtà, come racconta l’autore Alberto Mielgo, lui parte da sopralluoghi reali in cui scatta delle fotografie che userà per dipingere i suoi scenari in 2D mentre i personaggi in movimento sono in 3D. Oltre ai dialoghi sceneggiati e riprodotti, sullo schermo compaiono molte scritte che riproducono voci fuori campo, maschili e femminili, che rispondono fuori copione a domande sull’amore. Poi spiega il titolo che in italiano è tergicristallo: “Il titolo è molto importante e molto significativo. Ogni volta che proviamo a definire l’amore, per lo più falliamo, perché è quasi indefinibile. Questo perché la definizione di amore si basa sulle relazioni e ogni relazione è diversa. Uso la metafora di un tergicristallo perché ogni goccia d’acqua crea un motivo su un parabrezza, quindi il tergicristallo pulisce le gocce e poi la pioggia crea uno schema completamente diverso. Non è mai lo stesso. Ogni modello di gocce è una relazione diversa. E questo si riflette anche nel ritmo del film, che è lo stesso di un tergicristallo. Mostra e pulisce e mostra e pulisce. Rivela un modello, ma il modello non viene mai spiegato. È un po’ come un codice che solo le coppie conoscono, ma in realtà nemmeno le coppie ne capiscono il modello.”

La sudcorena Youn Yuh-jung migliore attrice non protagonista lo scorso anno per “Minari” proclama il migliore non protagonista 2022 il non udente Troy Kotsur per il film “I segni del cuore” che è il remake del francese “La Famiglia Bélier” del 2014 diretto da Éric Lartigau, che aveva una marcia in più perché gli interpreti dei ruoli dei genitori sordomuti della protagonista sono due attori normodotati talmente bravi da sembrare realmente sordomuti. Va ricordato che Troy Kotsur è il secondo attore sordomuto premiato con l’Oscar dopo Marlee Matlin che lo vinse nel 1987 per “Figli di un Dio Minore” di Randa Haines e che qui è la madre della protagonista normodotata che vuole fare la cantante. Dispiace che l’attore ringrazi la regista e sceneggiatrice Sian Heder per aver messo insieme, col suo film, il mondo dei non udenti con quello degli udenti, dimenticando clamorosamente che la sceneggiatura originale è francese.

Segue l’Oscar al miglior film internazionale che vedeva schierato il nostro “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino già Oscar nel 2014 con “La grande bellezza” e che è andato al giapponese “Drive my car” di Ryūsuke Hamaguchi che aveva vinto anche il Prix du Scénario a Cannes.

E’ poi il momento di Mila Kunis, che, essendo ucraina di nascita e statunitense d’adozione, era molto atteso il suo intervento come presentatrice di una delle migliori canzoni originali candidate; non delude le aspettative mantenendosi nella traccia obbligatoria della serata e parla, senza fare nomi di luoghi e persone, di eventi totali, forza e dignità, devastazione, resilienza, forza, lotta, buio inimmaginabile; poi presenta il brano “Somehow you do” di Diane Warren eseguita da Reba McEntire per il film “Quattro buone giornate” che Mila Kunis interpreta con Glenn Close.

Dopodiché compare il cartello: “We’d like to have a moment of silence to show our support for the people of Ukraine currently facing invasion, conflict and prejudice within their own borders. While film is an important avenue for us to express our humanity in times of conflict, the reality is millions of families in Ukraine need food, medical care, clean water, and emergency services. And we – collectively as a global community – can do more. We ask to support Ukraine in any way you are able. #standwithukraine”. Il ventilato intervento del presidente Volodymyr Zelens’kyj non c’è stato.

Lupita Nyong’o – l’attrice keniota premiata al suo debutto cinematografico come migliore non protagonista in “12 anni schiavo” del 2013 di Steve McQueen, regista nero inglese omonimo del bianco divo hollywoodiano – entra sul palco accompagnata da Ruth Carter, prima costumista nera a vincere l’Oscar per “Black Panther” del 2018 diretto dal nero Ryan Coogler (un momento di orgoglio nero, dunque); presentano i candidati migliori costumisti, and the Oscar goes to Jenny Beavan per “Crudelia” di Craig Gillespie con Emma Stone, film targato Disney che rinverdisce il mito della cattiva di “La carica dei 101” mettendola al centro di una storia tutta sua dove i dalmata sono solo comprimari, ispirato al mitico cartone animato del 1961 che nel 1996 è stato rifatto in live action, regia di Stephen Herek, in cui una strepitosa Glenn Close ha dato vita al personaggio.

Segue l’ispanico John Leguizamo che dà vita a un suo momento di orgoglio latino raccontando che nel 1928 come modello per la statuetta dell’Oscar è stato preso l’ispanico Emilio Fernandez, e conclude col doppio senso che è “come avere un 30 centimetri di messicano nelle tue mani che si chiama Oscar”; presenta la seconda canzone originale in gara, “Dos Oruguitas” di Lin-Manuel Miranda.

A introdurre i candidati alla miglior sceneggiatura originale arriva il terzetto dei protagonisti del film “Juno” del 2007 diretto da Jason Reitman che vinse proprio in questa categoria con la sceneggiatura di Diablo Cody; il terzetto è formato da J. K. Simmons, Jennifer Garner e Elliot Page che all’epoca del film era ancora anagraficamente donna col nome di Ellen Page. Si aggiudica la statuetta Kenneth Branagh che ha scritto e diretto il semi-autobiografico “Belfast”, primo Oscar dopo ben otto nomination nella sua carriera di attore e regista.

Il cantante Shawn Mendes e la performer (cantante, attrice comica, conduttrice tv, regista) Tracee Ellis Ross (figlia di Diana Ross) con un ardito décolleté, sono chiamati a presentare la migliore sceneggiatura non originale, ovvero tratta da preesistente opera; e vince la Sian Heder (al suo secondo film) che ha riscritto il film francese sulla famiglia di sordomuti e che nel suo discorso di ringraziamento non dice una parola sull’opera originale a cui si è ispirata.

Jason Momoa, nel cast di “Dune”, accetta a nome del compositore Hans Zimmer, che non poteva essere presente alla serata, il premio per la miglior colonna sonora originale.

Subito a seguire Rami Malek, che era il cattivo dell’ultimo 007, presenta la canzone scritta per il film e candidata fra le migliori canzoni originali, “No Time to Die” di Billie Eilish e Finneas O’Connell che a dispetto dei nomi sono sorella e fratello, che più avanti nella serata verrà proclamata vincitrice nella cinquina presentata da Jake Gillenhaal e Zoe Kravitz.

A presentare i candidati per il miglior montaggio è una voce femminile fuori campo mentre scorrono le clip dei cinque film, e vince ancora “Dune” col montaggio di Joe Walker, assiduo collaboratore del regista, Denis Villeneuve, per il quale aveva montato “Arrival” ricevendo una candidatura, e di un altro regista col cui film era stato precedentemente nominato, Steve McQueen, “12 anni schiavo”.

Per annunciare il miglior documentario arriva sul palco il comico Chris Rock che com’è prassi fa un po’ di battute, prima prendendo di mira la coppia Javier Bardem – Penelope Cruz entrambi nominati nelle rispettive sezioni da protagonisti, poi passando a Will Smith e sua moglie Jada Pinkett che notoriamente soffre di alopecia e infatti sfoggia un look testa rasata, e il comico fa un’infelice battuta: non vede l’ora di vederla nel remake di “Soldato Jane”, film in cui Demi Moore sfoggiava il look testa rasata; Jade ha alzato gli occhi al cielo, mentre il comico si commenta da solo dicendosi che la battuta non era male; ma Will Smith si alza dalla platea e sale in palcoscenico a dargli un pugno in faccia, proprio come si fa nei film, e Chris Rock continua a sorridere commentando “Wow! Will Smith mi ha appena dato un bel pugno!” mentre Smith, tornando a sedere gli grida: “Togliti il nome di mia moglie dalla tua cazzo di bocca!” Gelo in sala.

Si prosegue con la presentazione dei documentari candidati e la nomina del vincitore: “Summer of Soul (…Or, When the Revolution Could Not Be Televised)” regia del musicista Questlove.

Il rapper Sean Diddy Combs, noto anche come Puffy Daddy, viene sul palco per ricordare il 50esimo anniversario di “Il Padrino” ma non può fare a meno di parlare, da artista nero, di quello che è appena successo fra altri due artisti neri, e si auspica che nel retropalco tutto verrà chiarito perché si è tutti una grande famiglia. Poi dopo sequenze dei film della seria compaiono insieme sul palco Francis Ford Coppola (83 anni) Robert De Niro (79) e Al Pacino (82) ed è subito standing ovation.

Arriva il sempre commovente momento In Memoriam col tappeto canoro dei The Samples Choir, e Tyler Perry apre la sequenza omaggiando Sidney Poitier; segue l’intervento di Bill Murray per ricordare il regista Ivan Reitman; conclude Jamie Lee Curtis che omaggia Betty White; fra gli altri nomi più noti scomparsi nell’ultimo anno: la nostra Lina Wertmuller, il recentissimo William Hurt, il francese Jean-Paul Belmondo; e poi il musicista Mikis Theodorakis, e i registi Peter Bogdanovich, Richard Donner, Jean-Marc Vallée, e gli attori Ned Beatty, Charles Grodin, Michael K. Williams, Sally Kellerman, Dean Stockwell.

Ancora un’altra statuetta a “Dune” che si aggiudica anche la migliore scenografia di Patrice Vermette e Zsuzsanna Sipos, piazzandosi con 6 Oscar su 10 nomination al primo posto fra i premiati.

Kevin Costner presenta i candidati alla miglior regia che va a Jane Campion per “Il potere del cane” che con 12 nomination era in testa e si aggiudica solo quest’importante premio.

A 28 anni da “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino, arriva sul palco il terzetto formato da Uma Thurman, John Travolta e Samuel L. Jackson – altra standing ovation – per nominare il miglior attore protagonista, che è Will Smith per “Una Famiglia Vincente – King Richard” dove interpreta il padre delle tenniste Serena e Venus Williams. E Will Smith si aggiudica il premio tornando sul palco dove prima era salito a difendere l’onore di sua moglie, ora commosso fino alle lacrime. Dice che è “stato chiamato in questa vita ad amare le persone e a proteggere le persone”. Protegge la memoria di Richard Williams che ha interpretato, la collega Aunjanue Ellis che interpreta sua moglie e le ragazze che interpretano le figlie. E poi cita il beduino interpretato da Anthony Quinn in “Lawrence d’Arabia”: “Io sono un fiume per la mia gente”, consapevole di essere uno degli attori più potenti di Hollywood, nominato dalla rivista Newsweek il più nel 2007. Poi, parlando di lavoro mischia finzione e la realtà e fa un riferimento velato a quanto successo parlando di persone che non portano rispetto, e cita Denzel Washington che gli ha detto: “Nel tuo momento più alto è proprio quello il momento in cui il diavolo viene a tirarti per la manica” e alla fine chiede scusa all’Accademy e a tutti i colleghi fra lunghe pause e lacrime copiose che dicono molto più delle parole, e alla fine ringrazia con una battuta: “Spero che mi invitino di nuovo su questo palco!”

Nel retropalco Will Smith incontra e abbraccia Sir Anthony Hopkins che sta andando a premiare la migliore attrice. Nel frattempo viene premiato il miglior trucco per “Gli occhi di Tammy Faye” di Michael Showalter. Vengono anche annunciati gli Oscar alla carriera: Samuel L. Jackson, Liv Ullmann e Elaine May, e contrariamente agli anni precedenti non vengono premiati in palcoscenico ma solo inquadrati nel salottino in cui sono relegati e senza la possibilità di dire una sola parola. Triste.

L’ingresso di Anthony Hopkins suscita un’altra standing ovation, e comincia dicendo: “Will Smith ha già detto tutto”; poi dopo avere speso belle parole per le attrici della cinquina annuncia la vincitrice Jessica Chastain. Segue Lady Gaga, protagonista del discusso “House of Gucci” per il quale si aspettava una candidatura non arrivata, che sale sul palco a nominare il miglior film 2022 che a sorpresa è l’outsider “I Segni del Cuore” a riprova che quando ci sono disabilità e buoni sentimenti l’Academy non si tira mai indietro, e fra i ben dieci film in concorso ce n’erano di titoli certamente migliori. In ogni caso molta bella roba da vedere, avendone la possibilità.

Carrie, lo sguardo di Satana – rivisto in tv

1976. Brian De Palma (che nei titoli di questo film è Depalma) è già un regista acclamato e con una sua precisa linea narrativa: è passato per la commedia ma la sua strada, è ormai chiaro, saranno il thriller e l’horror: è di due anni prima il grandioso (incompreso alla sua prima uscita) horror rock “Il fantasma del palcoscenico” e l’attesa per questo “Carrie” è tanta. L’ispirazione è il romanzo di un 29enne al suo debutto letterario: Stephen King, che all’inizio non credeva nella qualità della sua scrittura e fu spinto dalla moglie a mandare il manoscritto agli editori: da allora non si è più fermato ed è autore di più di 80 titoli; dopo Shakespeare, Agatha Christie e Conan Doyle, è l’autore più adattato per il cinema, oltre a essere il più censurato nelle scuole statunitensi.

Il romanzo, c’è da dire, ha le sue ingenuità che si trasferiscono al film il quale, visto oggi, sembra un B movie. Salta subito all’occhio che il perverso e malato puritanesimo della madre di Carrie, da cui nasce il disagio emotivo della ragazza, non è spiegato, se non frettolosamente alla fine; tutti i dialoghi sono superficiali e retorici, tipici dei romanzetti d’appendice e dei film di second’ordine e il talento che il regista ha mostrato nei suoi lavori precedenti qui sembra al servizio di una scrittura approssimativa che insegue solo il sensazionalismo di una trama ben congegnata ma rozzamente realizzata. Di fatto il film fu un successo clamoroso, candidatura all’Oscar per Sissy Spacek e al Gonden Globe per Piper Laurie nel ruolo della madre, e si impose come capostipite di un genere maleficamente assai proficuo: il teenager horror.

Perché alla fine questo è: un film per teenager con al centro del racconto il famigerato ballo di fine anno, evento che non appartiene alla nostra cultura e che abbiamo imparato a conoscere dal cinema statunitense: momento topico della cultura adolescenziale americana e topos narrativo in cui ne succedono sempre di ogni – come direbbe un adolescente oggi.

Anche l’adolescenza dell’epoca è visibilmente fasulla: Sissy Spacek all’epoca aveva ben 27 anni, e poteva essere credibile anche come 18enne, ma non certo come ragazzina più o meno 14enne alla quale vengono le prime mestruazioni sotto la doccia della scuola, dopo la partita di basket, fra compagne che la ridicolizzano e tormentano, oggi si dice bullizzano. Lunga sequenza, questa della doccia, che deve aver contribuito al successo in sala: Depalma indugia a lungo sul corpo efebico della protagonista, ammicca con riprese da preambolo erotico, così come prima si è aggirato a lungo fra i vapori dello spogliatoio dove vagano nude e complottiste lolite. Anche gli effetti speciali horror del gran ballo sembrano abbastanza ridicoli: non per rudimentalità dei mezzi dell’epoca ma per la già nota creatività del regista.

Il bello del ballo è William Katt, che due anni dopo è stato protagonista del successo internazionale “Un mercoledì da leoni” di John Milius e ha poi avuto una carriera in discesa. La super cattiva era Nancy Allen che ha continuato con De Palma, che nel frattempo ha sposato, nei suoi film successivi ed è stata protagonista dei primi tre Robocop. La cattiva pentita che cede il suo bello a Carrie per il ballo era Amy Irwing che sarà di nuovo con De Palma in “Fury” ma soprattutto sarà per tre anni compagna di Steven Spielberg, col quale rompe giusto in tempo per perdere il ruolo della coprotagonista in “I predatori dell’arca perduta” e successivi tre sequel; salvo poi rimettersi insieme e sposarsi nel 1984, fare un figlio e divorziare nell’89 con una buonuscita di 100 milioni di dollari: niente male. Nel 1988 è stata la voce del cartoon Jessica Rabbit in “Che fine ha fatto Roger Rabbit?” di Robert Zemeckis. Completa il quartetto degli amici-nemici il giovane John Travolta che aveva debuttato l’anno prima con un ruolo secondario in un horror secondario “Il maligno” con Ernest Borgnine, e l’anno dopo diventerà una star con “La febbre del sabato sera” di John Badham. Betty Buckley, al suo debutto cinematografico, è la comprensiva insegnante di educazione fisica, che difende e sostiene la maltrattata ragazza, ma che non si salva dalla telecinetica furia distruttiva di Carrie, il cui “sguardo di Satana” è solo il sottotitolo italiano in un film che non ha niente a che vedere con Satana.

Carrie ha avuto un sequel nel 1999 “Carrie 2 – La furia” dove ritroviamo Amy Irving, che era sopravvissuta, che più di vent’anni dopo fa la psicologa nella stessa scuola dove in pratica si ripetono gli stessi eventi con un’altra studentessa telecinetica con madre pazza e bullizzata dai compagni di scuola. Nel 2002 esce un altro “Carrie” film tv e nel 2013 un remake per il quale il distributore italiano ha la trovata di anteporre il vecchio sottotitolo al titolo: “Lo sguardo di Satana – Carrie”, film che l'”Alleanza delle donne giornaliste cinematografiche” lo nominò come “remake che non avrebbe dovuto essere fatto”. C’è di buono che la protagonista Chloë Grace Moretz ha 16 anni, e che la psicopatia della madre è stata sviluppata e approfondita tanto da attirare come interprete Julianne Moore. Anche il romanzo, con l’occasione, è uscito in una versione aggiornata. Il film, di certo migliore dell’originale per composizione e realizzazione, non ebbe il successo sperato perché i film cult non si toccano. E basta.