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I soliti ignoti – e per la prima volta sullo schermo Claudia Cardinale e Tiberio Murgia

Questo film del 1958 è un caposaldo del cinema italiano ma partiamo da più lontano nel tempo e nello spazio, dalla Hollywood dei primi anni ’50 che con film come “Giungla d’asfalto” di John Huston dal genere thriller, o noir per dirla alla francese, sviluppa il sottogenere caper movie detto anche heist movie, ovvero film dove una banda di malviventi organizza un colpa grosso; e se heist è comprensibile in quanto significa rapina, caper è meno chiaro perché letteralmente significa cappero ma in realtà è stato coniato fra i malavitosi italo-americani che hanno anglicizzato l’italiano capriola con riferimento ai salti mortali e a tutte le acrobazie che dovevano fare per sfuggire alle forze dell’ordine. Sta di fatto che il genere piacque molto al pubblico, e fra i principali caper movie bisogna ricordare “Rapina a mano armata” di Stanley Kubrick mentre in Francia ci fu il grande successo di “Rififi” di Jules Dassin, e scavalcando gli anni ’60 in Italia Marco Vicario diresse il dittico “Sette uomini d’oro” e “Il grande colpo dei sette uomini d’oro” al servizio di sua moglie Rossana Podestà; del 1969 è il francese “Il clan dei siciliani” di Henri Verneuil con Jean Gabin, Alain Delon e Lino Ventura; per tornare a Hollywood con “La stangata” di George Roy Hill del 1974 starring Paul Newman e Roibert Redford; poi primeggia il corale “Le iene” di Quentin Tarantino del 1992 fino al trittico di Steven Soderbergh iniziato con “Ocean’s Eleven”, con George Clooney capo brigata, che a sua volta era il remake di “Colpo grosso” del 1960 di Lewis Mileston col Rat Pack Frank Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis jr. Insomma ce n’è per tutti i gusti.

Aldo Reggiani, Loretta Goggi e Arnoldo Foà protagonisti dello sceneggiato Rai

Ma torniamo in Italia alla fine degli anni ’50. Il genere imperante era il neorealismo nato sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale, e ancora resistevano i generi peplum (e vale la pena ricordare il debutto cinematografico di Sergio Leone con “Il colosso di Rodi”) e cappa e spada (nessun film italiano memorabile, supplisce lo sceneggiato Rai “La freccia nera” diretto da Anton Giulio Majano dal romanzo di Robert Luis Stevenson) mentre il cinema spensierato dei telefoni bianchi che imitava le commedie sofisticate hollywoodiane era stato sostituito dalla commedia rosa o sentimentale che abbandonando le ambientazioni scintillanti e irrealistiche si era adattato alla nostra realtà con gli operai e le commesse “Poveri ma belli” di Dino Risi del 1957.

Scena da “I cadetti di Guascogna”, in primo piano da sinistra Riccardo Billi, Mario Riva, Carlo Campanini, Carlo Croccolo e seduto sulla branda Walter Chiari

Sul piano del film comico, film per ridere, si era fermi alle pellicole che derivavano dai palcoscenici dell’avanspettacolo e del varietà (ad esempio “I cadetti di Guascogna” che vide il debutto di Ugo Tognazzi e Carlo Croccolo) con interpreti che da lì venivano con le loro maschere e le loro gag (Mario Riva, Riccardo Billi, Carlo Campanini, Macario, Renato Rascel) di cui Totò era il più prolifico esponente, non amato dalla critica colta per quei suoi filmetti senza spessore. In questa brulicante vivacissima realtà si muoveva un gruppo di soggettisti e sceneggiatori che sentivano l’urgenza di raccontare la realtà, la loro realtà, quella realtà di quel preciso momento storico, il dopoguerra e il boom economico, mettendone in evidenza tutte le contraddizioni, l’impossibilità di conciliare il vecchio con il nuovo, l’ipocrisia e l’effimero: una realtà che autori come Pier Paolo Pasolini (“Accattone”) o Bernardo Bertolucci (“La commare secca”) presero di petto, mentre scrittori dalla penna più leggera e ironica e spesso caustica, e forse per questo più incisiva (ricordiamo l’adagio latino “castigat ridendo mores”) come Age & Scarpelli qui autori del soggetto e sceneggiatori insieme a Suso Cecchi D’Amico e allo stesso regista Mario Monicelli, che aveva esordito come braccio destro di Pietro Germi e fu poi regista di Totò che aveva sdoganato in un ruolo drammatico nella co-regia con Steno “Guardie e ladri” che valse all’attore l’ambito Nastro d’Argento e che lo convinse che poteva abbandonare il genere avanspettacolo che lo aveva reso ricco e famoso, ma con la media di cinque film l’anno in cantiere, il successo del pubblico e le pressioni dei produttori, passò ancora qualche anno fino a che concluse la sua carriera lavorando con Pasolini: “Uccellacci e uccellini”, “La terra vista dalla luna” nel film a episodi “Le streghe” e “Che cosa sono le nuvole?” nel film a episodi “Capriccio all’italiana”.

Monicelli e Totò durante una pausa sul set

Quando il gruppetto di amici si riunì per buttare giù una nuova sceneggiatura non sapevano che stavano cominciando a scrivere una pagina della storia del cinema. Partirono dall’idea di fare una parodia di quel genere tanto di moda, il caper movie, e presero come modello il noir “Rififi” tanto che il primo titolo pensato per il film in scrittura fu “Rufufù”, ma non erano autori da fermarsi al semplice parodistico e come altra ispirazione ebbero il racconto di Italo Calvino “Furto in una pasticceria”.

Memmo Carotenuto con Gassman

Poi c’era la realtà sociale in cui il gruppetto voleva collocare storia e personaggi, e pur condividendo con Pasolini il degrado della periferia romana in cui il boom sarebbe tardato ad arrivare e ancora si sarebbe vissuto di espedienti, i loro ladruncoli non hanno l’innocente cattiveria degli accattoni e dei ragazzi di vita pasoliniani, ma risentendo della leggerezza della Commedia dell’Arte (che i nostri ovviamente conoscono) sono Arlecchino e Brighella e Pulcinella i cui espedienti per procurarsi il tozzo di pane rimangono fallimentari e grotteschi, come certi capitomboli del fanfarone Er Pantera, ma sono qui intessuti dell’umanità di persone reali che soffrono e addirittura – novità assoluta in commedia – muoiono tragicamente, come il personaggio motore della storia interpretato da Memmo Carotenuto. Il risultato è un dolce-amaro, un grottesco patetico venato di tristezza, qualcosa di talmente simile alla vita reale da portare al cinema folle di spettatori che ridevano insieme delle loro stesse sventure, e però non mancano le battute folgoranti come quando Capannelle chiede a un ragazzino di un certo Mario e quello gli risponde che lì nel quartiere ce ne sono cento; sì ma questo è stato in galera, specifica Capannelle, sempre cento sono, risponde il ragazzino.

Tiberio Murgia nell’atrio del cinema dove si proietta il Kean di e con Vittorio Gassman in un corto circuito di citazioni

A scrittura ultimata sarebbe stata fondamentale la scelta del cast. I produttori, Franco Cristaldi in testa, avrebbero voluto scritturare i soliti noti che venivano dal varietà e dall’avanspettacolo, a cominciare da Alberto Sordi nel ruolo del pugile suonato Peppe er Pantera per il quale Monicelli e gli altri sceneggiatori – che avevano creato tutti i personaggi intorno ad un baricentro realistico, senza vezzi e gag, corredandoli però di un patrimonio di battute e situazioni brillanti e folgoranti sulle quale si sarebbe dovuta giocare tutta la comicità del film – si erano impuntati su Vittorio Gassman, in quale venendo dal teatro impegnato nel cinema aveva per lo più interpretato ruoli da cattivo, e con la sua aria da intellettuale non dava ai produttori nessuna garanzia di successo come attore comico, ma alla fine dovettero cedere alle argomentazioni di Monicelli & company, che con l’aiuto del truccatore Romolo De Martino crearono per Gassman un pesante trucco che con una parrucca gli abbassava l’attaccatura sulla fronte, e accentuando il profilo del naso e rendendo le labbra leggermente calanti lo ridisegnarono proprio come quel pugile suonato di periferia che avevano immaginato sulla carta, e l’invenzione poi della sibilante balbuzie completò il personaggio, sdoganando Gassman in un mondo ancora per lui inesplorato. Va segnalato che nel film viene omaggiato ritraendo la locandina del suo “Kean – genio e sregolatezza” che aveva diretto e interpretato a teatro e poi diretto e interpretato anche sullo schermo con l’importante contributo tecnico di Francesco Rosi.

Nel calibratissimo cast Renato Salvatori (doppiato da Marcello Prando) entrò come secondo nome (in percentuale di misura più piccola rispetto a Gassman) e come segno di continuità con la commedia rosa di cui era protagonista, anche qui protagonista di una storia amorosa ovviamente assai contrastata. Il caratterista Memmo Carotenuto, fratello di Mario, faccia da duro e voce roca è al terzo posto nei titoli di testa e probabilmente nel suo ruolo più significativo. Con le lettere che continuano a rimpicciolirsi segue Rossana Rory (Rossana Coppa sui documenti) già fotomodella e foto-attrice per “Sogno” che qui è l’unica componente femminile della banda e anche nel suo ruolo più importante (doppiata da Monica Vitti): nonostante l’impegno, andò a studiare recitazione presso la londinese Royal Academy of Dramatic Art, non riuscì a sfondare e pochi anni dopo, dopo aver partecipato a “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni, si ritirò dalla carriera artistica. Segue nei titoli la 17enne in rapida ascesa Carla Gravina qui al suo terzo film e che aveva debuttato 15enne in “Guendalina” dello scopritore di Lolite Alberto Lattuada. Dopo di lei nei titoli di testa viene la non ancora ventenne Claudia Cardinale (doppiata dalla palermitana Lucia Guzzardi) qui al suo debutto cinematografico italiano e per la quale vale la pena spendere qualche parola in più.

Era nata a Tunisi da genitori altrettanto tunisini per nascita ma di discendenza siciliana. Va ricordato che la Tunisia era un protettorato francese e durante la Seconda Guerra Mondiale (Claudia nata nel ’38 era ancora bambina) l’Italia mussoliniana con la Germania hitleriana occuparono Tunisi con gravi e diverse conseguenze per tutta l’enclave italiana che lì viveva; nello specifico il padre di Claudia che aveva mantenuto rapporti con la famiglia d’origine in Sicilia, non aveva preso la nazionalità francese mantenendo quella italiana, e se in quel frangente ciò poteva giocare a suo favore agli occhi del regime, nei fatti tutti quegli italiani d’Africa furono vittime di un diffuso e paradossale sentimento italiano anti-italiano, con italo-tunisini che sposarono la causa fascista, altri che restarono fedeli alla Francia e altri ancora che volevano restare neutrali come fu per la famiglia Cardinale. Superato il disagio della guerra l’adolescente Claudia parlava solo arabo tunisino, francese e il siciliano trapanese appreso in famiglia, e come tutte le ragazze della sua generazione era una fan della Brigitte Bardot esplosa con “E Dio creò la donna” di Roger Vadim, star con la quale duetterà anni dopo, nel 1971, nel brutto western “Le pistolere” di Christian-Jacque. In ogni caso il cinema la attendeva: a diciotto anni partecipò a un cortometraggio documentaristico che omaggiava l’intraprendenza delle donne tunisine nell’immediato dopoguerra: “Les Anneaux d’or” di René Vautier che al Festival di Berlino vinse l’Orso d’Argento.  Bastò l’unico primo piano di quel film per farla diventare una celebrità locale ed essere richiesta dal regista Jacques Baratier che la volle per un ruolo secondario in “I giorni dell’amore”, ruolo che accettò con riluttanza perché aspirava a quello della protagonista nel quale la produzione volle un’attrice di pura nazionalità tunisina; protagonista maschile il giovane egiziano Omar Sharif in un film candidato per la Palma d’Oro al Festival di Cannes che per la nostra riluttante Claudia fu il primo vero impegno come attrice cinematografica, per il quale in ogni caso aveva ottenuto la dicitura in cartellone “e la partecipazione di” essendo ancora in pratica una sconosciuta. Claudia avrebbe duettato da protagonista con Sharif nel 1991 in “Mayrig” del franco-armeno Henri Verneuil, che l’anno dopo ebbe il seguito “Quella strada chiamata paradiso”, film che raccontano il genocidio armeno che però hanno avuto scarsa diffusione.

Momentaneamente accantonata la non del tutto per lei soddisfacente, benché di qualità, esperienza cinematografica, la giovane scalpitava e non sapeva come uscire dall’impasse della sua vita borghese tunisina, così non le parve vero quando a Tunisi si tenne la “Settimana del Cinema Italiano” organizzata da “Unitalia FilmRivista trimestrale dell’Unione nazionale per la diffusione del film italiano all’estero”, durante la quale vinse – “in modo del tutto involontario e inconsapevole” recitano le cronache – il concorso “La più bella italiana di Tunisia” dove probabilmente si era iscritta in modo del tutto altrettanto involontario e inconsapevole: ma la ragazza, come vedremo, era fortemente motivata e consapevole.

Claudia Cardinale in quel fatale 1957 a Venezia

Il premio del concorso consisteva in una vacanza spesata alla Mostra del Cinema di Venezia in cui seppe mettersi in mostra agli occhi dei tanti pigmalioni, registi e giornalisti e soprattutto produttori lì presenti, Franco Cristaldi in testa. Dicono sempre le cronache che accettò l’invito da parte del produttore Salvatore Argento (padre del regista Dario Argento) e del giornalista Lidio Bozzini l’offerta di fermarsi a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia, che la ragazza accettò – non si sa a che titolo: chi pagava cosa e per cosa? Probabilmente oggi è lecito immaginare che i due fossero i prestanome del produttore Cristaldi, che di 14 anni più anziano della ragazza e già sposato, non si poteva esporre in quell’epoca in cui il divorzio era illegale in un Paese ultra cattolico in cui le relazioni extraconiugali creavano scandalo e condanna sociale: oggi sappiamo che Franco Cristaldi e Claudia Cardinale avevano già cominciato una relazione. Ma gli studi di recitazione e dizione, sua insegnante al Centro fu Tina Lattanzi, misero in evidenza la sua scarsa attitudine sia alla recitazione che all’apprendimento e dopo appena un trimestre abbandonò l’impresa per tornare a Tunisi… ma dato che la sua fotogenia era indiscutibile e la sua relazione con Cristaldi solida, si fece di necessità virtù e fu dato eco sulla stampa, con copertina sul settimanale “Epoca”, a quel suo inconcepibile rifiuto di continuare la carriera cinematografica: anche gli handicap se ben gestiti posso diventare vantaggi nelle mani di un solido ufficio stampa. Del suo stile recitativo, una volta diventata famosa, coerentemente dirà: “Io non mi sono mai considerata un’attrice. Sono solo una donna con una certa sensibilità: è con quella che ho sempre lavorato. Mi sono accostata ai personaggi con grande umiltà: cercando di viverli dal di dentro, usando me stessa, e senza far ricorso a nessun tipo di tecnica.”

Moglie e marito, produttore e protagonista, sul set di “La tenda rossa” diretto da Michail Kalazotov

Ancora di quell’intenso periodo è un’altra pagina che resterà oscura nella vita dell’attrice: la gravidanza del suo primogenito Patrick che partorirà a Londra, lontano da occhi indiscreti, dopo la fine della lavorazione del film. Durante la lavorazione ha tenuto segreta la gravidanza, come segreta rimarrà la genesi: verrà raccontato in seguito che rimase vittima di uno stupro da parte di uno sconosciuto ma alla luce dei fatti è lecito pensare che il figlio fosse del produttore e che l’invenzione dello stupro servisse anche, ancora una volta, a far di necessità virtù – ma questa è mia personale speculazione essendo a tutt’oggi la vicenda narrata così come fu data sin dall’inizio. E se dal lato professionale questo ruolo di siciliana illibata ritagliato su di lei la portò all’immediato successo, sul piano privato fu per lei un periodo assai difficile: era consapevole che la relazione con Cristaldi non poteva essere ufficiliazzata e soffriva lo stereotipo dell’immagine della giovane avventura del produttore attempato. Con l’avvio della sua carriera la famiglia la raggiunge a Roma e durante i primi anni mostrerà in pubblico suo figlio presentandolo come un fratellino.

In seguito, anni dopo, dichiarerà di non essersi mai sentita davvero la compagna di Cristaldi, quanto piuttosto un trofeo da tenere sotto vetro, una “Cenerentola gratificata dalla sua generosità” per l’aiuto dato nel difficile momento della gravidanza segreta e per, va da sé, l’impegno profuso per costruirle una carriera e un’immagine professionale adeguata; ma per il resto si era sentita in trappola: per il doppio legame, personale e professionale, si sentiva schiacciata e costantemente sotto controllo attraverso lo staff – il responsabile stampa, la segretaria e l’autista personali – che facevano riferimento a Cristaldi che probabilmente aveva perso la testa per la ragazza e finì col rinchiuderla in una gabbia dorata, una torre d’avorio, sempre ricordandole e rinfacciandole che lui l’aveva creata e che dunque gli apparteneva. Conducevano sempre vite separate, tranne qualche breve viaggio, e anche dopo il matrimonio che nel 1966 lui organizzò negli Stati Uniti avendo ottenuto l’annullamento della precedente unione dalla Sacra Rota, lei non lo chiamò mai Franco ma sempre e solo Cristaldi, fino alla definitiva rottura avvenuta nel 1975, allorché Claudia si era innamorata del regista Pasquale Squitieri conosciuto sul set di “I guappi”. Col matrimonio Cristaldi aveva adottato legalmente il primogenito dell’attrice. E sarebbe ancora lunga la narrazione su Claudia Cardinale se non fosse che devo rientrare nei ranghi del film che l’ha lanciata.

il gruppo dei ladruncoli al completo: Totò, Tiberio Murgia, Carlo Pisacane, Renato Salvatori, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman. Di spalle l’agente di controllo per il Dante Cruciani di Totò, attore non accreditato.

Al suo nome seguono nei titoli di testa i primi tre insieme dopo i nomi da solisti: Carlo Pisacane, Tiberio Murgia e Gina Rovere, lei nel ruolo secondario della moglie in galera di Marcello Mastroianni, è una caratterista romana che avrà i suoi ruoli più importanti nei prossimi “Nella città l’inferno” di Renato Castellani e “Adua e le compagne” di Antonio Pietrangeli. Il napoletano Pisacane viene invece dalla gloriosa filodrammatica partenopea e aveva cominciato a fare cinema già in gioventù all’epoca del muto per poi proseguire come caratterista generico e qui è al suo primo personaggio importante, quel Capannelle che gli porterà talmente fortuna e fama da venire accreditato nelle produzioni future anche come solo Capannelle; il suo riuscitissimo accento bolognese è dovuto al doppiaggio del friulano Nico Pepe.

I debuttanti Claudia Cardinale e Tiberio Murgia come sorella e fratello.

Il sardo Tiberio Murgia è al suo debutto cinematografico diventando siciliano col doppiaggio del napoletano Renato Cominetti e anche il suo personaggio ha talmente fortuna che proseguirà la carriera continuando a essere scritturato come siciliano. Prima di approdare al cinema ha un passato rocambolesco: di famiglia povera emigra in Belgio per andare a fare il minatore a Marcinelle dal cui disastro scampa perché si era dato malato per stare con la moglie di un collega di cui era divenuto amante, ma l’intera storia è oggi ritenuta falsa perché viene da un articolo della rivista “Gente” di genere scandalistico-propagandistico per favorire la carriera del neo-attore. Di fatto Murgia fu veramente minatore in Belgio e poi lavapiatti in un ristorante di Roma dove fu notato da un assistente di Monicelli e da lì si avviò la sua carriera di caratterista siciliano.

Va dato merito al regista e al suo staff di co-sceneggiatori l’avere inserito nel cast dei coprotagonisti due piccoli caratteristi, Carlo Pisacane di antica scuola teatrale e Tiberio Murgia preso dalla strada: due personaggi veramente costruiti a tavolino che nulla avevano e avranno a che fare col carisma dell’interprete; due facce che già da sé erano maschere, ma personaggi creati col supporto di altri due professionisti a dare loro la voce: in pratica per ogni personaggio due attori, uno davanti e l’altro dietro la macchina da presa, perché senza quelle voci e quegli accenti le due maschere non sarebbero mai esistite. Pratica oggi irrealizzabile per fortuna, per la dignità professionale degli interpreti, ma che allora era prassi comune se si pensa che anche molti dei protagonisti venivano doppiati e la cosa non creava scandalo. Qui c’è Renato Salvatori che praticamente sarà sempre doppiato in tutta la sua carriera e se ciò non fosse stato consentito probabilmente si sarebbe impegnato a studiare recitazione e dizione laddove la fotogenia non sarebbe bastata più; per molti anni Claudia Cardinale fu doppiata, però si è battuta per recitare con la sua voce, e anche Totò che verso la fine era ormai quasi cieco e aveva come doppiatore ufficiale Carlo Croccolo. I titoli di testa continuano col resto dei generici fra i quali bisogna ricordare Elisa Fabrizi che è un errore di trascrizione trattandosi in realtà di Elena Fabrizi, sorella di Aldo Fabrizi, che dopo la scomparsa del fratello diverrà nota come Lella Fabrizi o più semplicemente Sora Lella, attrice intrattenitrice e proprietaria di una trattoria sull’isola Tiberina a Roma. I titoli si concludono “con” Marcello Mastroianni le cui lettere riprendono la misura massima che Gassman aveva avuto in apertura, “e con la partecipazione straordinaria” di Totò. Non è accreditato il prevalentemente radio-televisivo Mario Feliciani nel ruolo del commissario di polizia che tornerà nel sequel dell’anno dopo messo in cantiere a tambur battente.

Sul momento nessuno si rese conto di cosa era accaduto: il fatto più evidente fu il clamoroso successo del film che fu distribuito praticamente in tutto il mondo: negli USA e nel Regno Unito col titolo “Big Deal on Madonna Street” e lì avrebbe avuto grande risonanza soprattutto fra gli addetti ai lavori tanto che nei decenni a seguire avrebbero realizzato ben due remake; mentre in Spagna fu ripreso il primo titolo provvisorio “Rufufù” e in Francia si optò per “Le Pigeon” il piccione, vai a capire perché, mentre in Argentina e Brasile fecero una fedele traduzione del titolo: “Los desconocidos de siempre” e Os eternos Desconhecidos“.

Dovette passare qualche anno perché ci si rendesse conto che “I soliti ignoti” era diventato il capostipite di un nuovo genere cinematografico: la commedia all’italiana. Che era un po’ quello che era successo secoli prima nel teatro quando dalla Commedia dell’Arte si passò alla commedia brillante borghese dove i caratteri avevano perso la fissità delle maschere per diventare esseri umani a tutto tondo con i loro chiaroscuri. Da quel film in poi tutti dovettero fare i conti con quel modo di scrivere e realizzare pellicole brillanti e in un paio di decenni si realizzarono grandi film, molti dei quali a episodi, fino a che la commedia all’italiana non morì verso la fine degli anni Settanta stretta fra le spire della commedia sexy. Mario Monicelli fu candidato agli Oscar nella categoria Miglior Film Straniero e vinse lo spagnolo Festival di San Sebastian; ai Nastri d’Argento vinse Vittorio Gassman come miglior protagonista e l’intera squadra degli scrittori fu premiata per la miglior sceneggiatura.

L’anno dopo uscì il sequel “Audace colpo dei soliti ignoti” con Nanni Loy che prese il controllo dell’impresa, e un secondo tardivo nostalgico seguito si ebbe nel 1985 diretto da Amanzio Todini: “I soliti ignoti vent’anni dopo”. Del 2020 è l’adattamento teatrale andato in scena al Teatro La Pergola di Firenze, diretto e interpretato da Vinicio Marchioni su copione di Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli. Altro adattamento teatrale ma in musical fu quello che Bob Fosse realizzò nel 1986, “Big Deal”, che non vide praticamente nessuno: 6 anteprime e 69 repliche, a Broadway. Due i remake americani, dicevamo: il primo è “Crackers” del 1984 diretto da Louis Malle con Donald Sutherland e Sean Penn, mentre del 2002 è “Welcome to Collinwood” diretto dai fratelli Anthony & Joe Russo e prodotto da George Clooney che si è collocato nel ruolo che fu di Totò. Nel 2000 Woody Allen fece un’importante citazione-omaggio nel suo “Criminali da strapazzo”. Un altro importante omaggio è nel film “A/R Andata + Ritorno” del 2004, terza regia di Marco Ponti.

Fra le curiosità: il film sarebbe dovuto uscire col titolo “Le Madame” che era il soprannome con cui i criminali chiamavano i poliziotti e che venne rigettato dalla censura perché non si poteva ironizzare sulle forze dell’ordine. La Via delle Madonne in cui viene tentato il colpo, ripreso dal titolo americano, in realtà non esiste, trattandosi della scalinata di Via della Cordonata che scende su Via delle Tre Cannelle, dietro Piazza Venezia. La ragazza che litiga col fidanzato sotto il lucernario su cui restano appesi i ladruncoli è l’ungherese Edith Bruck, scampata ai campi di concentramento nazisti, che si era stabilita a Roma dopo aver tentato di rientrare in patria, dove non aveva più nessuno, per poi di trasferirsi in Israele nel 1948 a ridosso della formazione del nuovo stato, immaginato “di latte e miele”, come scriverà, ma percorso da altri insopportabili conflitti. Come ancora oggi è. A Roma frequenta ovviamente l’ambiente intellettuale dove conosce e poi sposerà il poeta-regista Nelo Risi, fratello di Dino, e debutterà come scrittrice nel 1959 con “Chi ti ama così” scrivendo in lingua italiana, una lingua non sua, come spiegherà, che le consente il necessario distacco per descrivere la sua esperienza nei campi di concentramento. Ultima curiosità: i nomignoli Capannelle e Ferribotte erano stati orecchiati nella vita reale: a Capannelle c’è l’ippodromo di Roma ed era il soprannome di un assiduo scommettitore sulle corse dei cavalli, caratteristica che nel personaggio del film non c’è, mentre Ferribotte è la storpiatura di ferry boat, il traghetto che i siciliani prendevano per raggiungere il continente e come molti ancora lo chiamavano: ferribotte o ferribotto. Entrambi i personaggi torneranno nel prossimo sequel mentre solo Ferribotte sopravvivrà vent’anni dopo.

Edith Bruck

Il film è disponibile su RaiPlay e YouTube.

Il grande addio – l’ultimo film sui bambini afro-italiani del dopoguerra

Renato Polselli nel film come regista di un musicarello

Il film è del 1954, a dieci anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, ed è un tentativo di raccontare quei fatti e quegli anni attraverso la lente deformante degli stili che si accavallavano all’epoca, il neorealismo e lo strappalacrime come detto dal pubblico, o melodramma, o neorealismo d’appendice come definito più recentemente; sta di fatto che l’autore, Renato Polselli, anche soggettista e sceneggiatore, non rinuncia proprio a nulla e ci mette dentro di tutto, anche il siparietto musicarello con un intero balletto pseudo esotico con ballerini dipinti di marrone a rappresentare un accampamento di negri in cui arriva lo schiavista bianco armato di frusta. Per il resto è tutto un fiorir di retorica e luoghi comuni spinti fino all’eccesso, che però non danneggiano la scorrevolezza di un film di mestiere assai ben eseguito e piacevole alla visione: è il documento di un’epoca, di un modo di fare cinema di serie B che invano aspira alla serie A dei Rossellini e dei De Sica, perché sempre alla ricerca di troppo facili espedienti narrativi sempre volti a emozionare lo spettatore, senza dargli tregua, ammirevoli per la fantasia narrativa che esprime in un film corale che non si sofferma su nessuna delle sequenze di cui è composto e procede per accumulo di scene strappalacrime che oggi fanno sorridere per l’ingenuità dell’intento e dell’assunto. Come si può vedere nella locandina che ritrae tutti i protagonisti, si contano ben sei momenti distinti di un film che non vuole deludere nessuno.

L’intento, almeno all’inizio, è quello di raccontare la realtà dei bambini mulatti che sono nati dagli amori tempestivi e passeggeri di certe italiane – la maggior parte donne di facili costumi, non necessariamente prostitute per mestiere, come anche ingenue e illuse ragazze di quartieri sottoproletari che vedevano come ricchi principi azzurri i sottoproletari americani che portavano in dono caffè e cioccolata, e nello specifico parliamo dei neri perché i frutti dei loro lombi furono più scandalosamente evidenti, ma anche i bianchi ebbero la loro parte. Nel film l’intento di narrare il dramma di quei bambini, spesso ripudiati e lasciati negli orfanotrofi perché troppo ingombranti da portare in giro, si perde però in una narrazione più complessa per meglio appassionare le platee cinematografiche, che però accolsero sempre tiepidamente questo genere di pellicole; è chiaro che i cineasti dell’epoca, anzi meglio definirli cinematografari in quanto gente di mestiere, produttori sceneggiatori e registi – che non aspiravano, e neanche potevano, all’arte – hanno cavalcato una realtà senza riuscire a produrre film esemplari in una produzione che si è conclusa nel giro di pochi anni, quando la curiosità delle masse per i bambini afro-italiani andò scemando.

Come si legge dal logo in basso a destra, il film è passato in prima assoluta su Cine34 del pacchetto Mediaset, un film di cui sul web sono quasi introvabili notizie e dettagli, e men che meno immagini; tutte le foto del film che pubblico in questo articolo sono scatti dello schermo tv.

Nei titoli di testa Angelo, senza cognome, è il primo nome, da protagonista assoluto, come in realtà non è; seguono Luisa Rossi, da sola, e poi Dante Maggio e John Kitzmiller insieme, chiudono l’elenco dei coprotagonisti le straniere Virginia Belmont e Ludmilla Dudarowa, e infine con Jacques Sernas. Il film, nella sua finzione narrativa, lascia invariati i nomi di alcuni personaggi-interpreti sfiorando anche la realtà biografica: il piccolo Angelo, nato a Napoli nel 1945, è realmente un figlio del peccato inter-etnico abbandonato alla nascita; l’attore Dante Maggio, che con la sorella Pupella è il più famoso di una famiglia di teatranti che conta anche Enzo Beniamino e Rosalia, adottò il trovatello, cosa che fa anche nel film dove lui rimane col suo nome Dante, e interpreta un attore di successo il cui figlio maggiore che trova il piccolo trovatello si chiama Enzo, come realmente si chiama suo figlio Enzo Maggio; c’è poi l’aviatore americano John interpretato dal vero militare John Kitzmiller, e la realtà che si sovrappone alla finzione finisce lì.

L’antefatto del film racconta che l’aviatore sgancia per errore una bomba su una giostra piena di bambini scambiandola per un accampamento nemico e poi, benché tormentato dal rimorso, si accompagna alla facile Wanda, evidentemente sganciando ben diverso ordigno che con un salto temporale di dieci anni si personifica nello sciuscià Angelo che, nonostante la madre vesta dignitosamente e sfoggi addirittura un abito elegante quando va in balera, lui è inopinatamente ed esageratamente coperto di stracci rattoppati perché nelle intenzioni dell’autore deve suscitarci estrema pietà. Angelo, per il colorito della sua pelle, è ovviamente deriso dagli altri bambini, tranne dalla piccola Lalla che gli è amica e lo vuole sposare.

Quando Tonio, lo sfruttatore di Wanda torna dalla macchia e trova in casa il bambino, dichiaratamente lo odia e lo maltratta, e poiché è anche un malvivente dedito a furti e intrallazzi finisce in galera insieme a Wanda accusata di favoreggiamento. Il piccolo, trovatello cencioso che vaga per le vie, viene così accolto in casa da Dante e da sua moglie Franca, e quando Wanda esce di prigione va subito a recuperare il bambino, ma già nella prima inquadratura la vediamo che tossisce ed è chiaro che “la tisi non le accorda che poche ore” per dirla col dottore de “La Traviata”. In un duro, si fa per dire, confronto con la madre adottiva, Wanda decide di lasciare il figlio in quella famiglia benestante e va via dicendo: “Se domandasse chi è la madre risponda che è morta, non è una bugia, mi rimane poco tempo… Non si faccia chiamare mamma, mi lasci almeno questo!” e a quel punto noi pubblico dovremmo già versare copiose lacrime; e da questo punto di vista al personaggio di Wanda è scritto il meglio del meglio: quando il bambino le aveva chiesto con le lacrime agli occhi “Perché mi chiamano bastardo, mamma?” lei aveva risposto “Era il nome di tuo padre!”. Queste due battute per esemplificare l’intero tono del film. Renato Polselli non rinuncia neanche a fare documento inserendo certe inquadrature in cui il soldato John, diventato frate John per espiare il senso di colpa, passeggia fra i ruderi della città distrutta dai bombardamenti ma anche con le gru delle ricostruzioni in lontananza; e quando nel finale – che non svelo – l’uomo è preso da un parossismo nervoso che gli fa perdere il controllo, il regista spinge l’attore in esagerate risate nervose e malefiche manco fosse un mostro da B movie americano.

Angelo, divenuto legalmente Angelo Maggio, dai 5 ai 9 anni compare in cinque film e nei primi due è protagonista: “Il mulatto” e “Angelo tra la folla” entrambi diretti da Francesco De Robertis, già sottotenente di vascello della Regia Marina, che per i suoi trascorsi artistici e teatrali venne nominato direttore del centro cinematografico del Ministero della Marina col compito di girare documentari di propaganda, e scrive e supervisiona il debutto alla regia di Roberto Rossellini “La nave bianca”; nel 1949 De Robertis abbandona la carriera militare e da civile prosegue come regista cinematografico facendo debuttare il piccolo afro-italiano. Per Angelo questo “Il grande addio”, nomen omen, è l’ultimo film e darà l’addio al mondo cinematografico. La sua parabola è simile a quella di un altro bambino di colore, il somalo Ali Ibrahim Sidali, che fu il primo attore bambino di colore che partecipò a due soli film del periodo fascista coloniale incarnando il buon selvaggio che di buon cuore accetta l’opera civilizzatrice di cultura italica. In Germania ci fu la piccola Elfie Fiegert, anch’ella abbandonata e adottata, che divenne famosa per un film ispirato alla sua vera vicenda e che anche da adulta ebbe una breve carriera cinematografica.

L’americano John Kitzmiller era giunto in Italia nel luglio del 1943 partecipando allo sbarco in Sicilia con le Forze Alleate, ed avendo una laurea in ingegneria era sbarcato con il grado di capitano. Durante la guerra, in patria erano morti entrambi i suoi genitori e per questa ragione, unitamente alle difficoltà presenti all’epoca (come oggi e sempre) negli USA per gli afroamericani, si convinse a prolungare la ferma nell’esercito, e dopo la fine della guerra restò in Italia partecipando da ingegnere, sotto il comando americano, alla ricostruzione di strade e ponti distrutti dai bombardamenti. Fu il produttore Carlo Ponti a coinvolgerlo nel cinema allorché stava cercando l’interprete di un soldato americano fuggito da un campo di prigionia tedesco per il film “Vivere in pace” del 1947 diretto da Luigi Zampa; e poiché il non-attore si dimostrò un buon attore cominciarono a fioccargli altre proposte, anche in ragione del fatto che essendo da noi l’unico attore di colore aveva praticamente il monopolio di quei ruoli, e di conseguenza si stabilì definitivamente in Italia, mentre sul piano professionale arrivò addirittura a ottenere nel 1957 il Gran Premio per il migliore attore a Cannes con il film “la valle della pace” dello sloveno France Štiglic, battendo la concorrenza di star come Gary Cooper (“La legge del Signore” di William Wyler) e Max Von Sydow (“Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman), premio che gli valse l’attenzione internazionale e un ruolo nel primo 007; il suo ultimo film fu “La capanna dello zio Tom” dell’ungherese Géza von Radványi. Morì 51enne di cirrosi epatica.

La milanese Luisa Rossi già 16enne si trasferì a Roma per inseguire il sogno della carriera cinematografica, e le andò bene, e sono maligno nel volere immaginare come: debuttò subito dopo un provino fatto con Giovacchino Forzano, che era amico di Mussolini il quale gli aveva fornito mezzi e aiuti perché acquistasse gli stabilimenti cinematografici della toscana Tirrenia Film che lui ribattezzò Pisorno unendo i nomi di Pisa e Livorno dato che gli studi vi si trovavano a metà strada, e che in quel 1934 fu la prima città del cinema italiana poiché Cinecittà sarebbe stata costruita nel 1937. Luisa Rossi, come tanti altri coetanei, segue i corsi di recitazione di Alessandro Fersen e poi recita anche in teatro e in televisione; con gli anni della maturità la si ritrova in film prevalentemente brillanti con ruoli di secondo piano, fino alla sua ultima interpretazione dove è madre di Nanni Moretti in “Ecce bombo”. Muore 59enne per cause non specificate dalla cronaca, ma data l’età è intuibile un tumore.

Dante Maggio in una scena del film dove il teatrino dei pupi diventa allegoria della vita

Di Dante Maggio resta ancora da dire che fu un giovane scapestrato che finì anche in riformatorio ma che poi mette la testa a posto e si avvia al lavoro in palcoscenico anche come tecnico nella compagnia del padre Mimì. Ri-debutta in cinema nel dopoguerra dopo un fallimentare esperimento nel 1940, ritagliandosi una carriera da caratterista che, essendo ben assai remunerata, lo allontana dal palcoscenico, dove tornerà in sempre più rare occasioni; partecipa anche a qualche spaghetti-western col nome, secondo la moda americaneggiante, di Dan May, esatta traduzione del suo vero nome. Muore 83enne.

Sernas con la moglie

Il quarto nome di peso è quello del naturalizzato francese Jacques Sernas lituano di nascita col nome Jokūbas Bernardas Šernas. A un anno rimase orfano del padre, Jokūbas Šernas, che era stato uno dei firmatari nel 1918 dell’atto d’indipendenza della Lituania dall’allora impero teutonico. La madre, col piccolo, si trasferì in Francia e si risposò, e fu quando Jacques era adolescente che la Francia fu invasa dalla Germania nazista, così il ragazzo entrò nel movimento di resistenza partigiana; venne anche arrestato e condotto nel campo di concentramento di Buchenwald da dove uscirà solo grazie alla liberazione degli alleati. Tornato a casa riprese poi gli studi in medicina e per mantenersi svolse diversi lavori compreso quello di corrispondente per il giornale Combat durante il processo di Norimberga. Il giovanotto a tempo perso si allenava nelle palestre di boxe e lì venne notato da Jean Gabin che lo fece debuttare con lui in un piccolo ruolo nel noir “Maschera di sangue”; ancora una volta fu notato da un grande del cinema, l’italiano Pietro Germi, che lo volle fra i protagonisti di “Gioventù perduta” un noir italiano del 1948, film per quale ottenne il Nastro d’Argento; nel frattempo non si lasciò sfuggire l’occasione dei facili guadagni posando per i fotoromanzi, attività che portò avanti fino agli anni Settanta e, va da sé, si accasò da noi sposando la giornalista Maria Stella Signorini. Nonostante il debutto italiano di qualità si impegnò nei filoni peplum e avventurosi, all’esaurirsi dei quali si proiettò nelle produzioni internazionali senza più ottenere grandi successi, così che 45enne si mise, diciamo così, in aspettativa, rallentando l’attività e cominciando a lavorare in tv. Morì poco prima di compiere 90 anni.

Nel ruolo di Franca, la madre adottiva, Ludmilla Dudarowa che era nata in Turchia da genitori romeni e anche lei giunta in Italia per prendere parte al luminoso mondo della cinematografia prendendo parte a una ventina di film; delle notizie frammentarie sulla sua vita si ignorano tutte le date, si sa che raggiunta la maturità lasciò il cinema e l’Italia, salvo poi ritrovarla nel 1970 colo ruolo di una russa nel cast di “Lettera al Kremlino” di John Huston. Virginia Belmont nel ruolo della seconda donna gestita da Tonio, all’anagrafe era Virginia Califano arrivata in California da bambina coi genitori; dopo aver fatto la sigaraia al Mocambo, come ne abbiamo viste nei film, intraprende la carriera di attrice con piccoli ruoli; nel 1941 sposa il ristoratore italo-americano Albert Califano, probabilmente cugino, e dopo la guerra, sempre probabilmente a causa dei dissesti economici in cui li crisi mondiale li aveva coinvolti, la coppia si traferisce a Roma dove lei comincia a lavorare nelle nostre produzioni strappalacrime mentre il marito si reinventa come corrispondente di The Hollywood Reporter; alla fine degli anni ’50 lascia la recitazione, e probabilmente anche il marito, per tornare negli USA dove trovò lavoro come addetta alle vendite alla United Airlines.

Dell’autore Renato Polselli resta da dire che dopo aver realizzato diversi melodrammi, negli anni ’60 alterna i film drammatici agli horror-gotici per passare negli anni ’70 al genere erotico con titoli esemplari come “Rivelazioni di uno psichiatra sul mondo perverso del sesso” film falso documentaristico e pseudo-sociologico con l’inserto di una vera orgia probabilmente recuperando il materiale da un porno che deve aver girato sotto altro nome, e Polselli vanta diversi pseudonimi; nel 1973 gira un film con Marina Lotar che a causa della censura esce solo nel 1980 col titolo “Oscenità” direttamente nel circuito a luci rosse. Nel 2000 esce il suo ultimo film “Frida – professione manager”, ed è facile immaginare che tipo di manager fosse Frida, un erotico girato con pochissimi soldi e pochissimo senso del cinema, di qualsiasi genere esso potesse essere. Recentemente, come sempre accade, la sua filmografia è stata oggetto di rivisitazione da parte della critica, che si è focalizzata sulle produzioni horror e barocche degli anni settanta, tanto da assegnargli la fama di “autore maledetto”. E per uno che aveva cominciato coi film strappalacrime è assolutamente un bel divenire, della serie: dopo morti c’è per tutti un posto in paradiso.

Moby Dick la balena bianca

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Ho un ricordo assai personale di questo film grandioso che devo aver visto due volte o più nella televisione in bianco e nero di quando ero bambino e ragazzo, e oggi che lo rivedo dopo decenni, a colori, rimane immutata la fascinazione, riaccendendo quelle emozioni che sono depositate in me profondamente. Il capitano Achab di Gregory Peck, un personaggio che mi ha intimorito e attratto al contempo, intrappolato fra i cordami degli arpioni infitti sul corpo dell’enorme balena bianca che lo trascina via per sempre nei flutti senza che la vendetta umana sia compiuta, è rimasto impresso nella mia memoria di cinefilo insieme a tanti altri momenti di tanti altri film diversi.

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L’idea di rivedere oggi il film a colori, io assai più maturo e disincantato, mi suscitava il timore della delusione per una antica emozione che non avrei più ritrovato. Ma non è così, il film è potente ancora oggi, dinamico e moderno, e quel colore polveroso, grigiastro e a tratti cupo, aggiunge un’emozione nuova.

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L’unica delusione è l’invecchiamento che subisce il doppiaggio italiano dell’epoca con toni troppo enfatici; anche nella lingua originale che oggi è possibile selezionare, qua e là affiora un’enfasi evidentemente tipica dello stile recitativo dell’epoca, ma sempre in misura assai più contenuta della versione italiana che arriva a rendere ridicolo il personaggio del selvaggio Queequeg mettendogli in bocca solo verbi all’infinito: io fare questo tu dire quello noi andare là, senza neanche un tentativo di accento per caratterizzare l’alterità del personaggio, mentre nell’originale, l’interprete che era austriaco, parla un inglese molto semplificato e con un vago quanto indefinito accento straniero.

La storia del film è nota, come il romanzo di Herman Melville da cui è tratto con molte libertà, e la più importante è l’ultima scena: la spettacolare morte di Achab trascinato via sul corpo della balena, che nel romanzo accade a un altro importante personaggio completamente ignorato nel film, il misterioso parsi Fedallah, mentre Achab muore trascinato negli abissi perché impigliato per il collo alla corda dell’ultimo rampone che ha scagliato contro Moby Dick.

Moby Dick, definito balena anche nel romanzo, è in realtà un capodoglio, come i due avvenimenti che hanno ispirato il romanziere: nel primo un enorme capodoglio affonda una baleniera, il secondo è l’uccisione del mostruoso e tristemente noto capodoglio albino Mocha Dick; e vale la pena ricordare che il nomignolo Dick non è solo il casuale diminutivo di Richard, perché nello slang inglese sta anche per cazzo e associato a un altro nome proprio, Mocha o Moby che sia, diventa un insulto tipo Moby Testadicazzo.

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Detto questo, Melville semplifica la natura del cetaceo perché la balena è narrativamente più comune, a cominciare dalla balena che inghiotte Giona, racconto biblico al centro dell’omelia dell’ex baleniere Padre Mapple che nel romanzo e nel film benedice e terrorizza i marinai, per finire col racconto della balena che inghiotte Pinocchio. La differenza fondamentale fra i due cetacei sta nella dentatura: la balena, del sottordine dei misticeti, è fornita solo di fanoni, lamine che filtrano l’acqua trattenendo i minuscoli organismi marini di cui si nutre; il capodoglio, del sottordine degli odontoceti, ha invece quei veri e propri denti che hanno potuto staccare la gamba di Achab.

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Sulla lavorazione del film circola una leggenda metropolitana secondo cui il modello della balena realizzato in gomma dalla Dunlop, lunga 23 metri, pesante 12 tonnellate e munita di 80 batterie ad aria compressa che la facevano galleggiare e muovere mediante congegni idraulici, si staccò dagli ormeggi e prese il largo perdendosi nella nebbia, poi probabilmente affondando per esaurimento dell’energia; da lì in poi il 90% delle riprese fu fatto utilizzando diversi modelli, anche parziali, di varie dimensioni.

bradbury huston
John Huston e Ray Bradbury

Ma i problemi nacquero fin dalla stesura della sceneggiatura, per la quale il regista e anche produttore John Huston aveva ingaggiato lo scrittore Ray Bradbury, innovatore del genere fantascientifico, già noto nel mondo con le sue “Cronache marziane” e con “Fahrenheit 451”. La collaborazione fu conflittuale sin dall’inizio, con lo scrittore che dice al regista che “non era mai stato in grado di leggere quella dannata cosa” e che prosegue anche con liti sui set già allestiti e operativi, tipici dei due galli nello stesso pollaio: Huston stimava Bradbury che ne ricambiava la stima, ma col il suo carattere forte e e la visione autoritaria del lavoro non poteva fare a meno di metterne in discussione il lavoro e ci furono molte scintille.

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1949. Walter e John Huston con i loro Oscar per “Il tesoro della Sierra Madre” diretto dal figlio, il padre come Miglior Attore non protagonista e il figlio premiato per la sceneggiatura.

Non tutti sanno che lo stesso John Huston inizialmente avrebbe voluto interpretare Achab dato che il romanzo era da sempre una sua passione; aveva probabilmente visto i due precedenti film, il muto “Il mostro del mare” del 1926 con John Barrymore, che poi reinterpretò Achab nel remake sonoro del 1930 “Moby Dick, il mostro bianco”. Ma prima che a se stesso come interprete, e fra i tanti ruoli basta ricordare che interpretò anche Noè nel suo “La Bibbia” del 1966, John Huston avrebbe voluto avere in quel ruolo suo padre, Walter, morto per un aneurisma a 67 anni nel 1950, nella stessa villa di Beverly Hills e nel giorno in cui lui, John, stava festeggiando il suo 44° compleanno insieme ai suoi amici, fra i quali Spencer Tracy. Da qui l’attaccamento emotivo al personaggio.

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Dopo l’uscita del film Gregory Peck litigò col regista perché scoprì di non essere stato la prima scelta per quel ruolo e che anzi era stato imposto come nome di punta (a quel tempo aveva già accumulato quattro candidature all’Oscar) dai finanziatori che partecipavano alla produzione. Un peccato d’orgoglio che Peck scontò fino alla fine: anni dopo, essendosi reso conto di avere esagerato, cercò di riappacificarsi col regista, il quale però, ferito nell’intimo per il forte significato che quel film aveva avuto per lui, rifiutò di incontrarlo e non si parlarono mai più. Solo in tempi recenti è giunto un messaggio pacificatore dalla figlia del regista, l’attrice Anjelica Huston che quattrenne aveva incontrato Peck vestito da Achab sul set, e che ha dichiarato che suo padre aveva sempre adorato l’attore nonostante tutto. Dell’attore si sa che non restò contento di quella sua interpretazione: probabilmente aspirava all’Oscar ma l’intero film fu ignorato. Nonostante questo fu un grande successo e oggi è inserito dal National Board of Review nella lista dei dieci migliori film del 1956; se non l’Oscar vinse il nostro Nastro d’Argento come Miglior Film Straniero e altri premi secondari.

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L’io narrante del film, come nel romanzo, è il marinaio avventuriero Ismaele in cui Herman Melville riversa molte delle sue reali esperienze, che si presenta con il noto “Chiamatemi Ismaele” che nei riferimenti culturali del romanziere, non immediatamente leggibili, è come dire: chiamatemi vagabondo, dato che l’Ismaele biblico, figlio della schiava Agar, è stato scacciato dal padre Abramo insieme alla madre nel deserto. Stesso riferimento biblico per il nome Achab, riportato nel film, che nel Primo Libro dei Re è colui che “commise molti abomini, seguendo gli idoli” e che nella narrazione commetterà l’abominio di condurre tutti i suoi uomini alla morte nell’inseguire il suo idolo, la balena bianca.

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Lo interpreta Richard Basehart, un ottimo attore che non è mai diventato una star assoluta, e che per un periodo ha vissuto in Italia dove ha seguito la sposina Valentina Cortese conosciuta sul set di “Ho paura di lui” di Robert Wise; Il matrimonio non durerà molto ma nel frattempo ha avuto l’opportunità di lavorare con Federico Fellini in “La strada” e “Il bidone” accanto a Giulietta Masina. Friedrich Von Ledebur è Queequeg; Leo Genn è il primo ufficiale Starbuck, e Harry Andrews è il secondo Stubb.

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Orson Welles sul set del suo Moby Dick

Nel ruolo del predicatore, una sola scena ma molto significativa, un altro maestro del cinema statunitense, Orson Welles, che Valentina Cortese ricorda sempre con un bicchiere di whisky in mano e sempre alla ricerca di finanziamenti per i suoi film, non stupisce quindi che accettasse quelle partecipazioni straordinarie pur di fare cassa. Ma c’è di più: Welles è fresco reduce di una sua riduzione teatrale di Moby Dick andata in scena a Londra, dove era ovviamente Achab, esperienza da cui in futuro avrebbe tentato invano di farne un film nel 1971, che purtroppo rimase incompiuto, purtroppo anche per noi spettatori: un film sperimentale in cui lui leggeva il romanzo davanti a un blue screen su cui sarebbero state proiettate delle immagini che non sapremo mai.

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La mia giovanile impressione di Gregory Peck nel ruolo di Achab, mi diede la confusa sensazione – ero uno spettatore assai giovane – che l’attore, a differenza di tutti quegli altri divi hollywoodiani che passavano nella tivù in bianco e nero – Spencer Tracy, Clark Gable, James Sterwart, Gary Cooper – fosse un attore con un lato oscuro, come il personaggio che aveva interpretato. Nei film americani dell’epoca, western commedie drammi, quei protagonisti erano sempre i buoni e i finali erano quasi tutti positivi, mentre lui, Gregory Peck, con Achab aveva mostrato i tormenti di un’animo esasperato e distruttivo che, con segrete fascinazione e paura, trovavo assai più congeniali alla mia natura. Poi da ragazzo divenni adulto e cominciai ad andare al cinema da solo, a scegliermi i miei film, e mentre gli altri divi americani morivano o si ritiravano, lui, Gregory Peck continuava a interpretare quei suoi personaggi problematici se non addirittura agghiaccianti: il noir demoniaco “Il Presagio” 1976; la controversa figura del generale in “Mac Arthur, il generale ribelle” 1977; il nazista Joseph Mengele in “I ragazzi venuti dal Brasile”; fino al suo ultimo film, il remake di “Il promontorio della paura” del 1991 regia di Martin Scorsese, film di cui era stato protagonista nel 1962 con Robert Mitchum nel ruolo del cattivo, e adesso entrambi, Peck e Mitchum, in ruoli secondari nel remake, anche con Martin Balsam che nell’originale era il capo della polizia e nel remake un giudice. Così, oggi, anche rivedendo Gregory Peck nel rassicurante “Vacanze romane” resto sempre sul chi vive.

Casino Royale – la parodia

1967. la serie su James Bond 007 è al quinto film e il suo interprete, Sean Connery, vuole lasciare perché comincia a preoccuparlo l’eccessiva immedesimazione, da parte del pubblico, del personaggio con l’interprete, e teme di restare intrappolato in quel chiché. E a creare scompiglio arriva questo film parodia che il produttore Charles Feldman mette su con la “Famous Artists Productions” per approfittare del vuoto di diritti che si era creato su “Casino Royale”, già realizzato come telefilm per la serie americana “Climax!” (nell’articolo precedente) e che non era nel portafoglio di Albert Broccoli per la “United Artist”. In realtà la vicenda che porta alla realizzazione di questo film è più complessa…

1955. L’anno dopo che era stato realizzato il telefilm “Climax!” Ian Fleming vende i diritti di “Casino Royale” al produttore-attore-regista Gregory Ratoff, che nel 1950 aveva interpretato proprio un produttore in “Eva contro Eva” di Joseph L. Mankiewicz con Bette Davis e Anne Baxter. Ratoff affida la sceneggiatura a un giovane scrittore che tira fuori dal suo cilindro la trovata di trasformare James Bond in Jane Bond, magari affidando il ruolo a una diva che adorava, Susan Hayward. Ovviamente venne silurato. In seguito Ratoff non riuscì mai a mettere insieme i soldi per la produzione del film, e nel 1960 morì lasciando il progetto nel cassetto. Qui arriva Charles Feldman che acquista i diritti dalla vedova e subito l’Albert Broccoli futuro produttore degli 007 con Sean Connery, arrivato tardi alla compravendita si offre di acquistare a sua volta i diritti; ma Feldman, che già si prefigurava una produzione con Cary Grant protagonista, se li tiene stretti.

Nel 1962 esce il primo film prodotto da Broccoli: “Dr No” da noi intitolato “Agente 007 – Licenza di uccidere”, e dato il successo del film, Feldman accantonò il suo progetto. Ma, fra una cosa e l’altra, ci aveva già speso circa 550.000 dollari, qualcosa come 5 miliardi di dollari attuali, e non potendo permettersi il lusso di lasciarlo ancora in un cassetto, si guardò in giro per mettere insieme una produzione, tentando anche di soffiare al nemico Sean Connery, che gli chiese un milione di dollari per il disturbo. Arrivederci e grazie.

Passando di mano in mano la sceneggiatura arriva a Billy Wilder che la riscrive completamente ma anche il suo nome non è accreditato fra gli sceneggiatori che alla fine firmano il film. Un passamano che ciclicamente veniva riportato anche dalla stampa e sembra che la vicenda della pre-produzione abbia divertito più del film: era diventata la favola dello show-biz. Alla fine viene fuori che sarebbe stata una parodia e che ci sarebbero stati tanti James Bond. Ma non si sapeva ancora che ci sarebbero stati anche tanti registi oltre a tante intromissioni nello script: il disastro era nell’aria.

Intanto venivano fuori i nomi delle star scritturate, ed erano talmente tante, anche per apparizioni fugaci, che la ricchezza del cast, unitamente al personaggio 007, decretarono un enorme successo al botteghino, nonostante il film sia stato durante la lavorazione, e anche a prodotto finito, un grande pasticcio.

David Niven, che era già stato in predicato per il ruolo ufficiale di James Bond, qui interpreta l’agente segreto già in pensione, Sir James Bond, che nella sua residenza di campagna riceve la visita di quattro capi spia: “M” a capo dell’MI6 britannico, interpretato da John Huston, anche regista; William Holden in rappresentanza della CIA; Charles Boyer come rappresentante dei servizi francesi, e Kurt Kasznar per il KGB. Lo implorano di rientrare in servizio per combattere contro la misteriosa SMERSH, un’organizzazione criminale che sta uccidendo tutte le spie sul pianeta. Sir Bond rifiuta e “M” gli fa saltare in aria la residenza, per vendetta, restando però ucciso nell’attentato. Bond si mette in viaggio per la Scozia, per consegnare le spoglie mortali alla vedova, Deborah Kerr, divertita e divertente matrona “hilander” che nell’originale parla con accento scozzese, adattato dal doppiaggio italiano alla bell’e meglio, raddoppiando le erre, ma perdendo la gran parte del divertimento che era dovuto proprio al confronto del duro scozzese con lo scivoloso londinese. Un preambolo scozzese che nella sua comicità non resa dalla lingua, diventa per noi molto lungo, anche troppo. Sir Bond va quindi a rimpiazzare “M” nel posto vacante di capo dell’MI6 e la sua prima trovata è quella di rinominare tutti gli agenti come “James Bond 007” per confondere il nemico; ulteriormente, aiutato dalla sua assistente Moneypenny, interpretata da una giovanissima Barbara Bouchet che ancora non sapeva che sarebbe diventata una star della commedia sexy all’italiana, Bond decide di fare addestrare un agente maschio, Terence Cooper, a resistere a tutte le tentazioni femminili cui uno 007 va sempre incontro: una digressione che ammicca al sexy, piena di belle figliole, inutile dal punto di vista narrativo e che oggi definiremmo anche sessista: il film lo è ampiamente, pieno di belle ragazze, atletiche armate e pericolose ma sempre ammiccanti, un ben studiato campionario per guardoni anni ’60. A seguire, Sir Bond ingaggia la spia Vesper Lynd, interpretata da quella statuaria Ursula Andress che era già stata la prima Bond Girl all’epoca del primo 007; che a sua volta ingaggia l’esperto giocatore di baccarat Evelyn Tremble come ulteriore 007, per incastrare il famigerato Le Chiffre agente della SMERSH. E qui casca l’asino.

Per il personaggio di Tremble era stato scritturato Peter Sellers che con “La Pantera Rosa” di Blake Edwards e “Il Dottor Stranamore” di Stanley Kubrick era diventato una star. Ma l’attore era un maniaco depresso, sempre insicuro del proprio talento, e questo si fece risentire sul set di “Casino Royale”. Tanto per cominciare, oltre a riscriversi da sé le battute, ingaggiò un proprio sceneggiatore per riscrivere le scene solo dal suo punto di vista, per mettere in ombra i colleghi coi quali avrebbe dovuto recitare: Orson Welles, da cui era seriamente intimorito per la mole del personaggio, anche fisica, e Woody Allen, un altro maniaco depresso che però dalle sue nevrosi era riuscito a creare un personaggio e il conseguente successo; aveva recitato con lui in “Ciao, Pussicat” diretto da Clive Donner ma scritto dallo stesso Allen, e ne temeva il confronto. Allen, dal canto suo, stava anche lui mettendo mano alle sue scene. Inoltre Sellers era intrattabile anche perché il suo matrimonio con Britt Eckland stava naufragando e spesso spariva dal set, tanto da costringere sceneggiatori e registi a inventarsi nuove soluzioni. Si narra inoltre che la principessa Margareth, in visita sul set, sia stata monopolizzata dall’affabulatorio Orson Welles a discapito di Peter Sellers che non riuscì neanche a stringerle la mano. Sellers e Welles riuscirono a girare insieme solo un paio di inquadrature, poi a causa dell’odio reciproco, la scena clou al tavolo da gioco venne girata con controcampi separati, dato che nessuno dei due voleva recitare con l’altro; Welles definì Sellers un attore amatoriale e approfittò della sua assenza per arricchire la sua scena con surreali giochi di prestigio, per mettere in ombra il già ombroso collega. Il risultato è che la scena più importante del film, il duello con carte da gioco, scorre via insignificante. Dunque Orson Welles ha cannibalizzato quel Le Chiffre che Peter Lorre aveva tratteggiato con grande maestria nel telefilm. Woody Allen interpreta il nipote sciocco di Sir Bond, che alla fine si rivela la mente comicamente malefica dell’intero plot. E’ davvero notevole il suo apporto al film e in una lunga sequenza mimata e acrobatica è impareggiabile, degno dei divi del muto Chaplin e Buster Keaton.

Completano il pasticcio Joanna Pettet nei panni di Mata Bond, figlia di Mata Hari e James Bond, e in ruoli minori Jacquelin Bisset come agente SMERSH che tenta di uccidere Evelyn Tremble, Jean-Paul Belmondo che fa una rapida apparizione come legionario francese, George Raft, come se stesso che lancia una moneta sul tavolo da gioco, come aveva fatto nello “Scarface” del lontano 1932. Non accreditato appare anche Peter O’Toole che si è inserito sul set per il piacere di scherzare con i colleghi, visto che la lavorazione del film era già diventata una farsa dove ognuno faceva quel che voleva: veste il kilt di uno zampognaro di banda nell’incubo di Tremble, e di sfuggita gli chiede: “Lei è Richard Burton?” “No sono Peter O’Toole” gli risponde Peter Sellers; “Ah, un brav’uomo!” replica O’Toole: un “non sense” da teatro dell’assurdo. In ultimo: la sequenza che si svolge a Berlino viene chiusa con un primo piano a una guardia americana del “check point” accanto al Muro, un primo piano a un figurante che mi è parso sospetto, e nella fotografia del fotogramma non si riconosce forse quel Barry Nelson che fu il primo 007 in tv?

Oltre a John Huston, sono accreditati come registi Ken Hughes, Val Guest, Robert Parrish, Joseph McGrath. Con l’aggiunta di scene di raccordo filmante dall’attore-stuntman Richard Talmadge, per dire di quanto fu complessa e accidentata la lavorazione del film.