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Barry Lyndon – ricordando Ryan O’Neal

Lo scorso 8 dicembre 2023 abbiamo detto addio all’82enne Ryan O’Neal che i più giovani ricordano già anziano e acciaccato come padre della protagonista nella serie tv “Bones” ma per i meno giovani O’Neal richiama alla mente film epocali come “Love Story” del 1970 di Arthur Hill che lo lanciò nel panorama internazionale: per quel film da noi vinse il David di Donatello e in patria fu candidato a all’Oscar e al Golden Globe per il quale fu tre anni dopo candidato ancora per “Paper Moon” di Peter Bogdanovich dove recitò con la figlia decenne Tatum O’Neal che si aggiudicò sia l’Oscar che il Golden Globe come migliore debuttante, e il nostro David di Donatello, surclassando così il padre che nella sua carriera non vinse mai nulla. Dalla parte di Tatum, c’è da dire, all’epoca giocò in suo favore la giovane età, e difatti della sua carriera cinematografica, che pur continuò, non ricordiamo più nulla. Dalla parte del padre, ottimo attore e questo “Barry Lyndon” lo dimostra, giocò forse a sfavore l’essersi speso in commedie che, tranne qualche preziosa perla, anch’esse non sono memorabili. Era anche il periodo in cui Robert Redford, che fu in lizza per il ruolo ed era l’attore più fisicamente simile a lui, rastrellava per sé il meglio delle produzioni poiché non aveva il timore di impegnarsi in film più difficili. Anche il suo fascino, da belloccio della porta accanto, mancava del magnetismo dei vari Paul Newman, Marlon Brando, Alain Delon e via dicendo. Insomma, agli inizi col botto non seguì un’adeguata carriera. Quando il geniale Stanley Kubrick lo scelse come protagonista del suo capolavoro storico, il 33enne Ryan, che si era fatto conoscere dal grande pubblico televisivo nella soap opera “Peyton Place” accanto a Mia Farrow, aveva già dato il meglio di sé appunto con “Love Story” di cui tenterà l’inutile sequel “Oliver’s Story”, e con la commedia di Peter Bogdanovich “Ma papà ti manda sola?” dove fece coppia con Barbra Streisand, coppia che si riformò qualche anno dopo con “Ma che sei tutta matta?” di Howard Zieff, e la similitudine dei titoli e solo dovuta al genio della distribuzione italiana.

Come il protagonista irlandese del romanzo “Le memorie di Barry Lyndon” di William Makepeace Thackeray, l’attore losangelino aveva origini irlandesi (il cognome è evidente) e ascoltando il sonoro originale del film (disponibile su Sky Cinema) è altrettanto evidente che Ryan ha studiato l’accento irish-british. Del film è protagonista assoluto (e anche per questo l’ho scelto per ricordarlo, oltre all’importanza del film stesso) benché nei titoli di testa faccia coppia con la modella passata al cinema Marisa Berenson che appare sullo schermo esattamente dopo mezzo film per poi ritrovarla in scene occasionali con un ruolo più decorativo che altro, ma che resterà impresso nella memoria dei cineamatori anche perché lei pure non girerà più nulla di memorabile. Nonostante la grandiosità del film di Stanley Kubrick che oltre a dirigere, scrisse e produsse, esso deluse le aspettative non ottenendo un gran successo al botteghino – e forse questo contribuì a creare in Ryan O’Neal una certa freddezza per i film cosiddetti “importanti” e “impegnati”. Ma il film è davvero notevole e visto oggi, a mezzo secolo di distanza, sembra girato appena ieri e le tre ore passano velocemente, magari con una pausa accentata (caffè-pipì). Difatti, benché apprezzato dalla critica già alla sua uscita, oggi è stato ampiamente rivalutato e comunemente ritenuto fra i migliori film o anche il migliore di Kubrick, e Martin Scorsese ha dichiarato di essere stato ispirato da questo film per girare il suo “L’età dell’innocenza” (1993) mentre all’epoca furono diversi i registi e le produzioni che si ispirarono: uno fra tutti “I Duellanti” del debuttante (alla grande) Ridley Scott del 1977.

Kubrick, del cui debutto “Paura e desiderio” abbiamo parlato, si era fatto conoscere dalle grandi platee come regista di “Spartacus” nel 1960, kolossal in cui il protagonista Kirk Douglas lo volle di nuovo alla regia dopo la felice collaborazione in “Orizzonti di gloria”; era seguito il film scandalo “Lolita”, il grottesco “Il Dottor Stranamore”, il fantascientifico-filosofico “2001: Odissea nello spazio” e il disturbante “Arancia Meccanica”: tutti capolavori, e di genere sempre diverso che l’autore maneggia in modo personalissimo sempre allontanandosi dai canoni cinematografici imperanti e sempre creando film personalissimi. Il suo successivo film avrebbe dovuto essere su Napoleone con Jack Nicholson (chissà quale altro capolavoro avrebbe potuto essere) ma l’autore lo accantonò in seguito all’insuccesso del simile “Waterloo” di Sergej Bondarčuk del 1970 con Rod Steiger, Christopher Plummer e Orson Welles a produzione dell’italiano trasmigrato a Hollywood Dino De Laurentiis che sempre alternò blockbusters a clamorosi flop. Accantonando Napoleone gli era però rimasto il gusto per il film storico che non aveva ancora esplorato e rivolse la sua attenzione al romanzo di Thackeray: “Ho avuto l’intera collezione delle opere di Thackeray sulla libreria, a casa, per anni. Dovetti leggere i libri svariate volte prima di arrivare a Barry Lyndon. Prima, ad esempio, mi interessava “La fiera della vanità” ma la storia era troppo intricata per essere spiegata solo in un film. Oggi ci sarebbero le miniserie televisive, ma non avevo assolutamente l’intenzione di girarne una.” Difatti accantonò “La fiera della vanità” quando seppe che era in scrittura una miniserie televisiva che poi però non venne mai realizzata.

Parla ancora Kubrick: Barry Lyndon offriva l’opportunità di fare una delle cose che il cinema può realizzare meglio di qualunque altra forma d’arte: presentare cioè una vicenda a sfondo storico. La descrizione non è una delle cose nelle quali i romanzi riescono meglio, però è qualcosa in cui i film riescono senza sforzo, almeno rispetto allo sforzo che viene richiesto al pubblico.” Inizialmente Kubrick aveva proposto il film alla Metro-Goldwyn-Mayer che volle nel ruolo del protagonista Robert Redford ma l’attore, che in un primo momento si era detto interessato, poi declinò l’invito per tornare a lavorare con George Roy Hill che dopo il clamoroso successo di “La Stangata”, in coppia con Paul Newman, aveva pensato solo per lui “Il Temerario” che però non ottenne altrettanto successo. Anche la collaborazione con la MGM prese la via dell’aceto perché la produzione cominciò a pretendere da Kubrick un maggiore controllo sul progetto, così che l’autore ruppe la collaborazione e produsse il film da sé. Con l’uscita della MGM e di Redford entrò nel progetto la star in ascesa Ryan O’Neal, che comunque era già nel pacchetto dei papabili che oltre a lui e Redford comprendeva Steve McQueen, Paul Newman e Marlon Brando: solo voci di corridoio e nessun contatto specifico pare. O’Neal era anche etnicamente più appropriato avendo ascendenze irlandesi come il cognome dichiara, e anni dopo Kubrick spiegherà in un’intervista: “Era l’attore migliore per la parte. Aveva l’aspetto giusto ed ero sicuro che avesse più dote di quanto non ne aveva mostrato sino ad allora. Penso di averci visto giusto, data la sua performance, e non riesco ancora neanche a concepire uno che avrebbe interpretato meglio Barry. Ad esempio, nonostante siano grandi attori, Al Pacino, Jack Nicholson o Dustin Hoffman sarebbero sicuramente stati errati in quel ruolo.”

Per il ruolo di Lady Lyndon scelse Marisa Berenson che qualche anno prima, in linea col suo primo lavoro di modella, avrebbe dovuto debuttare in “Blow-up” di Michelangelo Antonioni che però le preferì la più pepata Jane Birkin; la Berenson debuttò poi come attrice, praticamente muta, in “Morte a Venezia” di Luchino Visconti, film pochissimo parlato a dire il vero, e poi ebbe un ruolo secondario ma significativo in “Cabaret” di Bob Fosse; a seguire pur di fare la protagonista accettò un filmetto della commedia sexy all’italiana, “Un modo di essere donna” di Pier Ludovico Pavoni (chi ricorda il film e il regista?) e finalmente approda sul set di Kubrick dove è assai funzionale col suo fascino gelido e fragile insieme.

La lavorazione del film si rivela assai complessa perché il maestro al suo solito è assai pignolo e non tralascia alcun dettaglio; per dirne una: ideò lui stesso le candele con tre stoppini – per avere più fiamma e più luce – che insieme ai lumi a olio avrebbero reso l’illuminazione naturale degli interni-notte, riproducendo la luce dei dipinti cui si ispirò per la composizione delle sue scene nella scenografia firmata da Ken Adam, Roy WalkerVernon Dixon. E poiché per l’illuminazione interno-notte le candele potenziate non bastavano, Kubrick portò sul set le telecamere progettate da Carl Zeiss e utilizzate dalla Nasa per filmare lo sbarco sulla Luna dell’Apollo 11 nel 1969. La location principale, la tenuta dei Lyndon, era la Powerscourt Estate in Irlanda: era, perché alcuni mesi dopo la fine della lavorazione fu completamente distrutta da un incendio e questo film rimane l’unico documento visivo degli interni del palazzo che fu. A metà lavorazione ci fu un’escalation di attacchi terroristici da parte dell’IRA che combatteva per un’Irlanda unificata fuori dal dominio britannico e lo stesso Kubrick fu minacciato di morte per l’essersi impegnato in quel film; ricevette una telefonata anonima che gli intimava di lasciare l’Irlanda entro 24 ore e il maestro non se lo fece ripetere: la lasciò entro 12 ore, trasferendo i suoi set in Inghilterra, e anche questo aggiunse ritardi sulla tabella di marcia. La lavorazione si protrasse per 300 giorni, 10 mesi, in un arco complessivo di due anni, dal 1973 al 1975 con un costo che levitò fino agli 11 milioni di dollari, e all’uscita nelle sale americane fu un flop che parzialmente si riprese sul mercato internazionale arrivando a incassare una ventina di milioni: 9 milioni di dollari di incasso lordo, da cui togliere tasse e spese, sono ben meno della cifra iniziale spesa.

Sotto alcuni dei quadri cui si ispirò Kubrick

Benché la fotografia porti la firma di John Alcott, già suo collaboratore, in realtà ci lavorò anche Kubrick che, ricordiamolo, nasceva fotografo: la sua carriera cominciò quando 17enne vendette alla rivista Look uno scatto in cui ritraeva un edicolante che rattristato legge la notizia della morte del presidente Roosevelt – e vale la pena farsi una passeggiata sul web a scoprire gli scatti giovanili che Kubrick pubblicò sulla rivista.

Tornando al film: anche la musica è un elemento fondante e usa e riadatta esclusivamente brani di classica: Bach, Händel, Mozart, Paisiello, Schubert e Vivaldi. “Per quanto i compositori di colonne sonore possano essere bravi, non saranno mai un Beethoven, un Mozart o un Brahms. Perché usare una colonna sonora discreta quando c’è dell’ottima musica disponibile dal nostro passato più recente? Quando completai il montaggio di “2001” avevo fatto registrare alcune musiche originali che volevo usare nel film. Lo stesso compositore, però, davanti al ‘Bel Danubio blu’ rimase esterrefatto e allora cambiò idea e inserì queste tracce nelle scene. Con ‘Barry Lyndon’ non ricaddi nell’errore e usai direttamente musiche non originali. La musica del XVIII secolo non è però molto drammatica. Sentii il tema di Händel, che fa da sottofondo a molte scene del film, suonato con una chitarra, e stranamente, mi faceva pensare a Ennio Morricone. Allora aggiungemmo i bassi e la musica si adattò perfettamente alla drammaticità della pellicola.” E le musiche gliele ha riscritte e riorchestrate Leonard Rosenman, mentre l’autore faceva ascoltare agli attori sul set i brani originali per ispirarli. Nelle foto sotto: Dominic Savage con la “madre” Marisa Berenson, e Leon Vitali fra il “patrigno” Ryan O’Neal e la “madre” Marisa Berenson, dietro la cui spalla sinistra s’intravede come figurante la figlia dell’autore Vivian Kubrick.

Nel resto del cast principale Patrick MaGee interpretò lo “Chevalier” di Balibari, ricordandoci che in passato come oggi si definiva elegantemente e genericamente “cavaliere” un individuo di oscure origini e dai traffici poco chiari: noi abbiamo recentemente avuto il cavaliere Silvio Berlusconi. Hardy Krüger era il capitano tedesco che cooptò Redmond Barry non ancora Lyndon alla sua causa; Steven Berkoff e Gay Hamilton nel parterre dei nobili, la caratterista irlandese Marie Kean come madre di Barry e Murray Melvin era il reverendo precettore del giovane Lord Bullington interpretato prima dall’intenso debuttante 13enne Dominic Savage che crescendo preferì darsi alla regia; personaggio che da adulto fu interpretato da Leon Vitali, il quale affascinato dalla personalità di Kubrick preferì diventare suo braccio destro nei successivi film salvo avere un ruolo secondario nell’ultimo poco riuscito film del maestro “Eyes Wide Shut”.

Giancarlo Giannini, riconoscibilissimo, doppia il protagonista mentre Lady Lyndon ha la voce della tedesca naturalizzata italiana (senza alcun accento) Solvi Stübing, che all’epoca divenne da noi popolarissima con la pubblicità in cui sussurrava agli italiani “Chiamami Peroni, sarò la tua birra”, e tutti di corsa a comprare la birra sognando di bersi la bella tedesca. Alberto Lionello doppiò lo Chevalier, Oreste Lionello (nessuna parentela con Alberto) il precettore e la teatrale Gianna Piaz diede voce alla madre di Barry; Rodolfo Traversa fu la voce di Lord Bullington mentre all’importante voce fuori campo del narratore ci fu Romolo Valli che nell’originale aveva la voce di Michael Hordern.

Il film ottenne gli Oscar per Fotografia, Scenografia, Colonna Sonora, Costumi della danese Ulla-Britt Soderlund in coppia con l’italiana Milena Canonero che aveva debuttato da costumista solista nel precedente film di Kubrick “Arancia meccanica”. Tre nomination all’autore per il film, la regia e la sceneggiatura. Kubrick si aggiudicò però il Golden Globe sia come regista che nella categoria Film Drammatico e nel Regno Unito il BAFTA alla regia e alla fotografia, e fra gli altri premi minori in giro per gli Stati Uniti e il mondo ebbe anche il nostro David di Donatello sotto forma di David Europeo. Resta da dire che Kubrick, economicamente scottato dall’impresa, pensò per il film successivo di rivolgersi a un genere che andava molto fra le masse: l’horror, e tirò fuori dal suo cilindro quell’altro capolavoro che fu “Shining”.

Tornando al compianto Ryan O’Neal, a seguire lavorò di nuovo con Peter Bogdanovich in “Vecchia America” che non ebbe lo stesso esito di “Ma papà ti manda sola?” e “Paper Moon”, e dopo il corale bellico “Quell’ultimo ponte” di Richard Attenborough, andò a infilarsi nella bislacca commedia “Jeans dagli occhi rosa” di Andrew Bergman (nessuna parentela col maestro svedese) in coppia con la nostra Mariangela Melato in una delle sue poche e poco riuscite incursioni a Hollywood (compreso il suo ultimo film, duole dirlo). In quegli anni ’70 Ryan fu in lizza insieme ai soliti noti (Robert Redford, James Caan, Burt Reynolds) come protagonista per “Rocky” (i produttori non credevano in Sylvester Stallone come attore benché il film l’avesse scritto lui) e per il ruolo di Michael Corleone in “Il Padrino” insieme al solito Redford, ma in lizza c’erano anche Jack Nicholson e Dustin Hoffman (sempre i produttori non volevano Al Pacino che definirono “un nanerottolo”). E per il nostro, fra vita privata burrascosa (si definì un pessimo padre che non avrebbe dovuto avere figli: ne ebbe quattro da tre donne diverse e tutti entravano e uscivano dai centri di riabilitazione) e scelte professionali sbagliate, per lui non ci fu più nulla di memorabile, se non l’arresto in tarda età, a 63 anni, per possesso di stupefacenti insieme all’ultimogenito Redmond, chiamato così in onore del suo più importante personaggio Redmond Barry Lyndon, e avuto con la sua ultima compagna Farrah Fawcett. Nel 2001 gli fu diagnosticata la leucemia mieloide cronica, e mentre lottava con la sua malattia è sempre stato vicino a Farrah che intanto combatteva contro un cancro che l’ha portata via nel 2009. Nel 2012 l’attore ha dichiarato che gli era stato diagnosticato un cancro alla prostata. Con lui se ne vanno molti bei ricordi cinematografici tutti concentrati negli anni ’70 del secolo scorso.

Una delle ultime foto di Ryan con il terzogenito Patrick (cronista sportivo) avuto con l’attrice Leigh Taylor-Young

Sotto con la figlia Tatum sul set di “Paper Moon” e ancora con lei adulta

Con le colleghe Ali McGrow, Mariangela Melato e Barbra Streisand

Il cast della soap opera che lo rese famoso insieme a Mia Farrow l’ultima a destra e sul set di “Quell’ultimo ponte” secondo da sinistra dopo Gene Hackman, seguono Michael Caine, Edward Fox e Dirk Bogarde

con Farrah Fawcett nel momento del massimo splendore