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Mad Max: Fury Road

2015, esattamente trent’anni dopo il terzo capitolo della saga di Mad Max, arriva il quarto film, e dal punto di vista commerciale la serie cinematografica è ormai diventata anche un franchise e i soldi che girano sono davvero tanti, è una vera e propria rendita. In questo lasso di tempo il suo creatore George Miller ha diretto solo altri cinque film che, tolto il dramma biografico “L’olio di Lorenzo” che ebbe un ottimo riscontro da pubblico e critica con nomination agli Oscar per la sceneggiatura a Miller e alla migliore protagonista Susan Sarandon, sono tutti film di genere fantasy, genere col quale il regista sembra essere più a suo agio, ma in questi “lavoretti per sbarcare il lunario” mancano i veri elementi fondanti della sua visione cinematografica: l’azione e il noir, per non parlare del catastrofico: ha firmato la fiaba per adulti “Le streghe di Eastwick” e la fiaba per bambini “Babe va in città” sequel di un precedente “Babe” con protagonista un maialino, e poi dirige i due cartoon sui pinguini “Happy Feet” che scrive lui stesso e che gli fa guadagnare il suo primo Oscar nella categoria Miglior Film d’Animazione: sono tutti film di successo che divertono il suo lato bambino ma gli manca il lato oscuro di Mad Max, sul quale però all’epoca pensava di aver detto tutto ma al contempo sentiva che quelle storie polverose di sabbia del deserto avevano ancora molto da raccontare.

Come si dice nel gergo cinematografico il suo progetto era finito nel development hell, il girone infernale in cui finiscono tutti i progetti abortiti o congelati e da cui pochi escono per tornare in vita. E qui la narrazione della produzione è a mio parere più interessante del plot del film, che di fatto ricalca la linea dei precedenti: un percorso forzato per il protagonista sempre di poche parole, e azione, violenza, autoscontro, invenzioni visive – con l’aggiunta stavolta di una vera coprotagonista cui affidare le sorti future del franchising: l’Imperatrice Furiosa. Passeranno dieci anni e nel 1995 Miller fu in grado di riacquistare i diritti di Mad Max che aveva perso per i suddetti dissesti finanziari e concretizza l’idea del nuovo film solo nel 1998: “folli predoni che non lottano per la benzina o per il petrolio, ma per degli esseri umani”. Fra un aggiustamento e l’altro la produzione era pronta a partire con la 20th Century Fox nel 2001 ma l’attacco alle Torri Gemelle fece rimandare il progetto.

George Miller con Tom Hardy e Mel Gibson che gli passa il testimone all’anteprima del film

All’epoca il 45enne Mel Gibson si disse subito pronto a rimettersi nei panni di Mad Max ma George Miller non era più convinto: nella sua storia non erano passati gli stessi anni che nella vita reale e il protagonista che aveva in mente non era perciò invecchiato: per lui era tempo, come accadeva per 007, che subentrasse un altro attore; ma la produzione spingeva per avere di nuovo la star e Mel Gibson fu ingaggiato per il quarto capitolo con inizio delle riprese nel 2003. Ma ancora una volta il progetto finì nel development hell allorché scoppiò la guerra in Iraq e parlare di predoni del deserto alla produzione non sembrò più un affare. Dal canto suo l’attore stava facendo i conti con la mezza età che inesorabilmente avanzava e tirava avanti con film di secondo livello, ma soprattutto combattendo i suoi demoni: l’alcolismo, per il quale è stato costretto a curarsi dopo essere stato arrestato per guida in stato di ebbrezza, passando per la denuncia per maltrattamenti conditi di insulti a sfondo razzista e minacce di morte alla sua compagna Oksana Grigorieva: accuse che portarono a una condanna per la quale Gibson patteggiò 3 anni di libertà vigilata; ma si è macchiato anche di insulti antisemiti a un poliziotto nonché di varie dichiarazioni omofobe per finire col ridicolo epiteto col quale si rivolse a un agente di polizia donna: “sugar tits”. Una persona davvero a modo, Mel Gibson.

Intanto, archiviata anche la guerra in Iraq, nel 2006 Miller si disse pronto a riprendere in mano il film, con o senza Gibson dichiarò, con una nuova sceneggiatura nella quale aveva coinvolto il fumettista inglese Brendan McCarthy che aveva anche disegnato nuovi veicoli e personaggi in uno storyboard di 3500 vignette che raccontava un film tutto azione e poche chiacchere, che avrebbe potuto essere compreso anche in Giappone senza sottotitoli, dichiarò Miller parafrasando Alfred Hitchcock. Allorché fu reso noto che Mel Gibson non era più nel progetto fu fatto il nome di Heath Ledger, ma l’attore morì nel 2008: quando è troppo è troppo e l’esasperato George Miller decise a quel punto di cambiare prospettiva e realizzare un film di animazione in 3D estendendolo anche alla piattaforma dei videogiochi, ma durò poco perché l’autore tornò all’idea originale del film in live action, con un po’ di delusione del fumettista McCarthy che non avrebbe più visto i suoi disegni prendere vita. Nel 2009 cominciarono le ricerche delle location, sempre nell’outback australiano e finalmente il film si avviava alla realizzazione sotto l’egida della Warner Bros.

Cominciarono le indiscrezioni riguardo a un ritorno di Mel Gibson ma le chiacchiere caddero tutte quando fu annunciato che l’inglese Tom Hardy (che quando fu girato il primo film della serie aveva due anni) sarebbe stato il nuovo Mad Max: ottenne la parte grazie all’intesa immediata che ebbe con Miller, scintilla che invece non era scoccata allorquando alla lettura del copione era stato prima chiamato Jeremy Renner. Si vociferava anche di un importante ruolo femminile e fra le preferite dell’autore c’era Uma Thurman finché non firmò per il ruolo la sudafricana Charlize Theron che al suo attivo aveva un Oscar 2004 per “Monster”, e sono dettagli che contano nella composizione di un film super milionario. A quel punto si poteva cominciare a girare – anzi no: le desertiche Broken Hill, già set per Mad Max 2, furono improvvisamente inondate da super tempeste come non si vedevano da decenni e il deserto divenne un giardino fiorito, un verdeggiante Eden che di nuovo gettò nello sconforto il già provatissimo Miller.

Ma la produzione – che oltre allo stesso Miller e allo scomparso Byron Kennedy inserito fra i produttori “ad memoriam”, contava anche Doug Mitchell che era nel pacchetto sin dal terzo capitolo della serie e che ha coprodotto tutti gli altri film di Miller, e P. J. Voeten che qui si piazza anche come regista assistente (e prima o poi farà il gran salto e debutterà come regista) – la produzione, dicevo, contava 150 milioni di dollari americani messi sul piatto dalla Warner Bros. attraverso la RatPac Entertainment, e i signori dollari spingevano perché le riprese avessero inizio, pioggia o meno. Un’ambientazione piovosa e il deserto rifiorito avrebbero però vanificato la storia che Miller voleva raccontare dove il cattivissimo di turno, il signore della guerra Immortan Joe, accumula preziosa acqua nella sua Cittadella nel deserto dove accumula anche belle figliole da stuprare e far figliare. Così i produttori, tutti insieme appassionatamente, elaborarono il nuovo piano che ha spostato i set nel deserto della Namibia, il paese più arido dell’Africa sub-sahariana, e questo ha comportato l’immane sforzo di per trasportare i veicoli post-apocalittici che erano già stati costruiti; ma poiché gli americani si erano dichiarati contrari – pensando forse di risolvere con dei modellini e la computer grafica – Mitchell caricò a loro insaputa una nave e solo dopo che essa aveva preso il largo informò i colleghi a stelle e strisce, e lo scenografo Richard Hobbs – che firma con Colin Gibson e Lisa Thompson – ricorda: “Sulla nave c’erano settantadue container pieni di roba, e questo non includeva i veicoli. Questi veicoli non stanno sul retro dei camion, non stanno nei container. Devi costruire box merci personalizzati per spostarli. E una volta che il trasporto ha avuto successo, la troupe ha iniziato ad arrivare nella città di Swakopmund, dove avrebbero risieduto durante le riprese.” E va detto che il design degli automezzi è davvero spettacolare e il concept più sorprendente mi è parso l’auto-istrice.

L’avventura delle riprese può cominciare, ricordando il resto del cast: nel ruolo del cattivissimo torna, invecchiato e mascherato, Hugh Keays-Byrne, che dopo aver fatto sé stesso, ovvero un motociclista delinquente in “Mad Max: interceptor” e altri film, chiude qui la sua carriera: morirà 73enne nel 2020.

Ma il terzo nome, in termini di star-system, è quello del britannico Nicholas Hoult, ex attore bambino che passando per gli X-Men e altri blockbusters è al momento lanciatissimo. Interessante il parterre femminile in cui ritroviamo nel ruolo secondario di una Valchiria la modell’attrice australiana Megan Gale divenuta nota da noi come testimonial di Omnitel-Vodafone e debuttando poi come sé stessa in due cine-panettoni di Neri Parenti; c’è poi il gruppo delle giovani mogli del cattivone che l’Imperatrice Furiosa rapisce e salva, e fra loro quella che ha fatto più carriera è la figlia d’arte Zoë Kravitz (figlia del cantante Lenny Kravitz e dall’attrice Lisa Bonet); le altre sono Rosie Huntington-Whiteley, Riley Keough, Abbey Lee e Courney Eaton.

Nicholas Hoult
La miniserie a fumetti in cinque volumi di Mark Sexton e Nico Lathouris, che funge da prequel del film.

Nel cast tecnico la costumista Norma Moriceau che fu geniale creatrice del mondo tribal-punk di Mad Max firmando i film 2 e 3, al momento della lavorazione era probabilmente malata, morirà l’anno dopo; viene sostituita dalla londinese Jenny Beavan già premio Oscar per “Camera con vista” di James Ivory (1987) e che lo vincerà di nuovo per questo film, e un terzo Oscar lo vincerà nel 2022 per “Crudelia” di Craig Gillespie, reboot con Emma Stone dei film con Glenn Close di fine-inizio millennio. Alla fotografia John Seale al suo debutto con Miller e già premio Oscar per “Il Paziente Inglese” di Anthony Minghella (1997) e al montaggio Margareth Sixel già collaboratrice di Miller per il maialino e i pinguini che stavolta vince l’Oscar. La colonna sonora, tranne i brani dalla “Messa da Requiem” di Giuseppe Verdi, è dell’olandese Junkie XL. Il film è stato un altro clamoroso successo entusiasmando pubblico e critica: in effetti la visionarietà di George Miller, benché non discostandosi dalla narrativa della saga, e questo è un rassicurante continuum, si serve in modo eccellente delle innovazioni tecnologiche e visive che dal 1985 al 2015 sono entrate nel cinema: e tutto un altro bel vedere.

Dunque, oltre agli Oscar per costumi e montaggio, il film ne ha ricevuti altri quattro tecnici: miglior scenografia, migliori trucco e acconciature, miglior sonoro e miglior montaggio sonoro; era anche candidato come miglior film, miglior regista, migliore fotografia e migliori effetti speciali. Fury Road è il primo film della serie a ottenere delle candidature agli Oscar e a vincerne sei su dieci, piazzandosi come più premiato in quell’edizione del 2016 e secondo film con più candidature dietro alle 12 “Revenant – Redivivo” di Alejandro González Iñárritu; ed è anche il film australiano con più statuette in assoluto togliendo il record a “Lezioni di piano” di Jane Campion del 1993 che ne deteneva tre. A questo punto le aspettative per i sequel e prequel e spin-off che Miller ha in mente si fanno sempre più alte: riuscirà a soddisfarle?

Tornando alla lavorazione del film, sul set non andò tutto liscio, e non fu solo per la sabbia che s’infilava dappertutto: i due protagonisti litigarono furiosamente dando voce alla Fury Road. La precisissima Charlize Theron – preparazione da ballerina classica con il senso del dovere e dell’abnegazione – si presentava sul set al minuto esatto della convocazione e vedeva come il fumo negli occhi, o la sabbia nelle mutande per restare in tema, Tom Hardy che invece arrivava quando voleva, addirittura con ore di ritardo: non è professionale e ha ragione lei. Che all’ennesimo ritardo ha perso le staffe gridandogli contro: “Bene! date a quel fottuto stronzo centomila dollari di multa per ogni minuto di ritardo che ha tenuto ferma la troupe! Tu non sai che cosa sia il rispetto!”, e lui le si fece sotto con aria minacciosa: “Che cosa mi hai detto?!”, talmente minaccioso che lei da quel giorno in poi volle accanto a lei la protezione e il sostegno femminile di una figura della produzione. Poi hanno fatto pace per la stampa.

Anche stavolta Miller ha privilegiato l’azione sui dialoghi tanto che Tom Hardy ha in seguito dichiarato la sua difficolta a stare sul set sia per l’isolamento che comportava che per la mancanza di battute del personaggio. E riguardo a questa sua saga George Miller ha dichiarato: “Non sono realmente collegati in modo rigoroso. Ognuno di essi è un nuovo capitolo di una saga su di un personaggio piuttosto archetipico: il vagabondo nella terra desolata, alla fondamentale ricerca di un significato. Si tratta di un personaggio che vediamo soprattutto nei classici western o nelle storie di samurai, con i ronin. Non si può concretamente mettere insieme una cronologia dei film di Mad Max. Non sono mai stati concepiti in questo modo, perché dopo aver realizzato il primo non avevo alcuna intenzione di girarne un secondo. Mad Max 2 è stato in definitiva un tentativo di fare le cose che non ho potuto fare nel primo e così via. Sono tutti film indipendenti in tanti modi diversi.” Per quel che riguarda le uscite è attualmente nelle sale “Furiosa: a Mad Max Saga” che racconta le origini dell’Imperatrice Furiosa con Anya Taylor-Joy nel ruolo da giovane che fu Charlize Theron. E non finisce qui. Anzi sì. Forse no. Chissà.

Oscar 2022, la sintesi della serata

A inizio serata Daniel Kaluuya, premio Oscar 2021 non protagonista per “Judas and the Black Messiah” di Shaka King, insieme a H.E.R. premio Oscar per la miglior canzone originale per lo stesso film, annunciano il premio alla migliore attrice non protagonista 2022 ma soprattutto, insieme, vestono i colori della bandiera ucraina.

Ariana De Bose riceve l’Oscar come migliore attrice non protagonista per il ruolo di Anita in “West Side Story” remake di Steven Spielberg del musical del 1961 diretto da Robert Wise e Jerome Robbins, dove a ricevere l’Oscar per lo stesso ruolo fu Rita Moreno, che in questo remake è fra i produttori e si ritaglia il piccolo ruolo di Valentina che volge al femminile il personaggio di Doc del musical originale.

Rita Moreno, 91 anni

A seguire “Dune” di Denis Villeneuve si aggiudica tre premi tecnici per l’impianto sonoro, la fotografia e gli effetti speciali.

Viene poi omaggiata la saga di 007 che compie 60 anni, essendo cominciata nel 1962 con “Agente 007 licenza di uccidere”, starring Sean Connery, e conclusa con la morte della spia più longeva iconica e redditizia dell’industria cinematografica nell’ultima interpretazione di Daniel Craig “No Time to Die”. In mezzo possiamo recuperare altre chicche come la parodia del 1967 “Casino Royale” che è anche il titolo del primo film con Daniel Craig, reboot della serie nel 2006. Ma c’è anche uno 007 apocrifo del 1983, o fuori serie, che per complesse azioni legali viene realizzato da una differente produzione, e per l’occasione viene riscritturato un già anziano Sean Connery da mandare in duello al botteghino con lo 007 ufficiale che all’epoca era Roger Moore, del quale abbiamo il primo 007 “Vivi e lascia morire” del 1973. E c’è la parentesi George Lazenby “Agente 007 al Servizio Segreto di sua Maestà” del 1969.

Viene poi premiato il miglior film di animazione, “Encanto”.

Mentre il miglior corto di animazione è “The Windshield Wiper”, sei anni di lavorazione, che è integralmente disponibile su Youtube, in lingua originale, con limitazioni per scene di sesso. La sinossi: all’interno di un bar, mentre fuma un intero pacchetto di sigarette, un uomo di mezza età fa a sé stesso e a noi pubblico una domanda ambiziosa: “Cos’è l’Amore?”. Troverà la risposta in una raccolta di scenette e situazioni animate ma talmente iperrealistiche da sembrare ridisegnate su un film dal vero; in realtà, come racconta l’autore Alberto Mielgo, lui parte da sopralluoghi reali in cui scatta delle fotografie che userà per dipingere i suoi scenari in 2D mentre i personaggi in movimento sono in 3D. Oltre ai dialoghi sceneggiati e riprodotti, sullo schermo compaiono molte scritte che riproducono voci fuori campo, maschili e femminili, che rispondono fuori copione a domande sull’amore. Poi spiega il titolo che in italiano è tergicristallo: “Il titolo è molto importante e molto significativo. Ogni volta che proviamo a definire l’amore, per lo più falliamo, perché è quasi indefinibile. Questo perché la definizione di amore si basa sulle relazioni e ogni relazione è diversa. Uso la metafora di un tergicristallo perché ogni goccia d’acqua crea un motivo su un parabrezza, quindi il tergicristallo pulisce le gocce e poi la pioggia crea uno schema completamente diverso. Non è mai lo stesso. Ogni modello di gocce è una relazione diversa. E questo si riflette anche nel ritmo del film, che è lo stesso di un tergicristallo. Mostra e pulisce e mostra e pulisce. Rivela un modello, ma il modello non viene mai spiegato. È un po’ come un codice che solo le coppie conoscono, ma in realtà nemmeno le coppie ne capiscono il modello.”

La sudcorena Youn Yuh-jung migliore attrice non protagonista lo scorso anno per “Minari” proclama il migliore non protagonista 2022 il non udente Troy Kotsur per il film “I segni del cuore” che è il remake del francese “La Famiglia Bélier” del 2014 diretto da Éric Lartigau, che aveva una marcia in più perché gli interpreti dei ruoli dei genitori sordomuti della protagonista sono due attori normodotati talmente bravi da sembrare realmente sordomuti. Va ricordato che Troy Kotsur è il secondo attore sordomuto premiato con l’Oscar dopo Marlee Matlin che lo vinse nel 1987 per “Figli di un Dio Minore” di Randa Haines e che qui è la madre della protagonista normodotata che vuole fare la cantante. Dispiace che l’attore ringrazi la regista e sceneggiatrice Sian Heder per aver messo insieme, col suo film, il mondo dei non udenti con quello degli udenti, dimenticando clamorosamente che la sceneggiatura originale è francese.

Segue l’Oscar al miglior film internazionale che vedeva schierato il nostro “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino già Oscar nel 2014 con “La grande bellezza” e che è andato al giapponese “Drive my car” di Ryūsuke Hamaguchi che aveva vinto anche il Prix du Scénario a Cannes.

E’ poi il momento di Mila Kunis, che, essendo ucraina di nascita e statunitense d’adozione, era molto atteso il suo intervento come presentatrice di una delle migliori canzoni originali candidate; non delude le aspettative mantenendosi nella traccia obbligatoria della serata e parla, senza fare nomi di luoghi e persone, di eventi totali, forza e dignità, devastazione, resilienza, forza, lotta, buio inimmaginabile; poi presenta il brano “Somehow you do” di Diane Warren eseguita da Reba McEntire per il film “Quattro buone giornate” che Mila Kunis interpreta con Glenn Close.

Dopodiché compare il cartello: “We’d like to have a moment of silence to show our support for the people of Ukraine currently facing invasion, conflict and prejudice within their own borders. While film is an important avenue for us to express our humanity in times of conflict, the reality is millions of families in Ukraine need food, medical care, clean water, and emergency services. And we – collectively as a global community – can do more. We ask to support Ukraine in any way you are able. #standwithukraine”. Il ventilato intervento del presidente Volodymyr Zelens’kyj non c’è stato.

Lupita Nyong’o – l’attrice keniota premiata al suo debutto cinematografico come migliore non protagonista in “12 anni schiavo” del 2013 di Steve McQueen, regista nero inglese omonimo del bianco divo hollywoodiano – entra sul palco accompagnata da Ruth Carter, prima costumista nera a vincere l’Oscar per “Black Panther” del 2018 diretto dal nero Ryan Coogler (un momento di orgoglio nero, dunque); presentano i candidati migliori costumisti, and the Oscar goes to Jenny Beavan per “Crudelia” di Craig Gillespie con Emma Stone, film targato Disney che rinverdisce il mito della cattiva di “La carica dei 101” mettendola al centro di una storia tutta sua dove i dalmata sono solo comprimari, ispirato al mitico cartone animato del 1961 che nel 1996 è stato rifatto in live action, regia di Stephen Herek, in cui una strepitosa Glenn Close ha dato vita al personaggio.

Segue l’ispanico John Leguizamo che dà vita a un suo momento di orgoglio latino raccontando che nel 1928 come modello per la statuetta dell’Oscar è stato preso l’ispanico Emilio Fernandez, e conclude col doppio senso che è “come avere un 30 centimetri di messicano nelle tue mani che si chiama Oscar”; presenta la seconda canzone originale in gara, “Dos Oruguitas” di Lin-Manuel Miranda.

A introdurre i candidati alla miglior sceneggiatura originale arriva il terzetto dei protagonisti del film “Juno” del 2007 diretto da Jason Reitman che vinse proprio in questa categoria con la sceneggiatura di Diablo Cody; il terzetto è formato da J. K. Simmons, Jennifer Garner e Elliot Page che all’epoca del film era ancora anagraficamente donna col nome di Ellen Page. Si aggiudica la statuetta Kenneth Branagh che ha scritto e diretto il semi-autobiografico “Belfast”, primo Oscar dopo ben otto nomination nella sua carriera di attore e regista.

Il cantante Shawn Mendes e la performer (cantante, attrice comica, conduttrice tv, regista) Tracee Ellis Ross (figlia di Diana Ross) con un ardito décolleté, sono chiamati a presentare la migliore sceneggiatura non originale, ovvero tratta da preesistente opera; e vince la Sian Heder (al suo secondo film) che ha riscritto il film francese sulla famiglia di sordomuti e che nel suo discorso di ringraziamento non dice una parola sull’opera originale a cui si è ispirata.

Jason Momoa, nel cast di “Dune”, accetta a nome del compositore Hans Zimmer, che non poteva essere presente alla serata, il premio per la miglior colonna sonora originale.

Subito a seguire Rami Malek, che era il cattivo dell’ultimo 007, presenta la canzone scritta per il film e candidata fra le migliori canzoni originali, “No Time to Die” di Billie Eilish e Finneas O’Connell che a dispetto dei nomi sono sorella e fratello, che più avanti nella serata verrà proclamata vincitrice nella cinquina presentata da Jake Gillenhaal e Zoe Kravitz.

A presentare i candidati per il miglior montaggio è una voce femminile fuori campo mentre scorrono le clip dei cinque film, e vince ancora “Dune” col montaggio di Joe Walker, assiduo collaboratore del regista, Denis Villeneuve, per il quale aveva montato “Arrival” ricevendo una candidatura, e di un altro regista col cui film era stato precedentemente nominato, Steve McQueen, “12 anni schiavo”.

Per annunciare il miglior documentario arriva sul palco il comico Chris Rock che com’è prassi fa un po’ di battute, prima prendendo di mira la coppia Javier Bardem – Penelope Cruz entrambi nominati nelle rispettive sezioni da protagonisti, poi passando a Will Smith e sua moglie Jada Pinkett che notoriamente soffre di alopecia e infatti sfoggia un look testa rasata, e il comico fa un’infelice battuta: non vede l’ora di vederla nel remake di “Soldato Jane”, film in cui Demi Moore sfoggiava il look testa rasata; Jade ha alzato gli occhi al cielo, mentre il comico si commenta da solo dicendosi che la battuta non era male; ma Will Smith si alza dalla platea e sale in palcoscenico a dargli un pugno in faccia, proprio come si fa nei film, e Chris Rock continua a sorridere commentando “Wow! Will Smith mi ha appena dato un bel pugno!” mentre Smith, tornando a sedere gli grida: “Togliti il nome di mia moglie dalla tua cazzo di bocca!” Gelo in sala.

Si prosegue con la presentazione dei documentari candidati e la nomina del vincitore: “Summer of Soul (…Or, When the Revolution Could Not Be Televised)” regia del musicista Questlove.

Il rapper Sean Diddy Combs, noto anche come Puffy Daddy, viene sul palco per ricordare il 50esimo anniversario di “Il Padrino” ma non può fare a meno di parlare, da artista nero, di quello che è appena successo fra altri due artisti neri, e si auspica che nel retropalco tutto verrà chiarito perché si è tutti una grande famiglia. Poi dopo sequenze dei film della seria compaiono insieme sul palco Francis Ford Coppola (83 anni) Robert De Niro (79) e Al Pacino (82) ed è subito standing ovation.

Arriva il sempre commovente momento In Memoriam col tappeto canoro dei The Samples Choir, e Tyler Perry apre la sequenza omaggiando Sidney Poitier; segue l’intervento di Bill Murray per ricordare il regista Ivan Reitman; conclude Jamie Lee Curtis che omaggia Betty White; fra gli altri nomi più noti scomparsi nell’ultimo anno: la nostra Lina Wertmuller, il recentissimo William Hurt, il francese Jean-Paul Belmondo; e poi il musicista Mikis Theodorakis, e i registi Peter Bogdanovich, Richard Donner, Jean-Marc Vallée, e gli attori Ned Beatty, Charles Grodin, Michael K. Williams, Sally Kellerman, Dean Stockwell.

Ancora un’altra statuetta a “Dune” che si aggiudica anche la migliore scenografia di Patrice Vermette e Zsuzsanna Sipos, piazzandosi con 6 Oscar su 10 nomination al primo posto fra i premiati.

Kevin Costner presenta i candidati alla miglior regia che va a Jane Campion per “Il potere del cane” che con 12 nomination era in testa e si aggiudica solo quest’importante premio.

A 28 anni da “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino, arriva sul palco il terzetto formato da Uma Thurman, John Travolta e Samuel L. Jackson – altra standing ovation – per nominare il miglior attore protagonista, che è Will Smith per “Una Famiglia Vincente – King Richard” dove interpreta il padre delle tenniste Serena e Venus Williams. E Will Smith si aggiudica il premio tornando sul palco dove prima era salito a difendere l’onore di sua moglie, ora commosso fino alle lacrime. Dice che è “stato chiamato in questa vita ad amare le persone e a proteggere le persone”. Protegge la memoria di Richard Williams che ha interpretato, la collega Aunjanue Ellis che interpreta sua moglie e le ragazze che interpretano le figlie. E poi cita il beduino interpretato da Anthony Quinn in “Lawrence d’Arabia”: “Io sono un fiume per la mia gente”, consapevole di essere uno degli attori più potenti di Hollywood, nominato dalla rivista Newsweek il più nel 2007. Poi, parlando di lavoro mischia finzione e la realtà e fa un riferimento velato a quanto successo parlando di persone che non portano rispetto, e cita Denzel Washington che gli ha detto: “Nel tuo momento più alto è proprio quello il momento in cui il diavolo viene a tirarti per la manica” e alla fine chiede scusa all’Accademy e a tutti i colleghi fra lunghe pause e lacrime copiose che dicono molto più delle parole, e alla fine ringrazia con una battuta: “Spero che mi invitino di nuovo su questo palco!”

Nel retropalco Will Smith incontra e abbraccia Sir Anthony Hopkins che sta andando a premiare la migliore attrice. Nel frattempo viene premiato il miglior trucco per “Gli occhi di Tammy Faye” di Michael Showalter. Vengono anche annunciati gli Oscar alla carriera: Samuel L. Jackson, Liv Ullmann e Elaine May, e contrariamente agli anni precedenti non vengono premiati in palcoscenico ma solo inquadrati nel salottino in cui sono relegati e senza la possibilità di dire una sola parola. Triste.

L’ingresso di Anthony Hopkins suscita un’altra standing ovation, e comincia dicendo: “Will Smith ha già detto tutto”; poi dopo avere speso belle parole per le attrici della cinquina annuncia la vincitrice Jessica Chastain. Segue Lady Gaga, protagonista del discusso “House of Gucci” per il quale si aspettava una candidatura non arrivata, che sale sul palco a nominare il miglior film 2022 che a sorpresa è l’outsider “I Segni del Cuore” a riprova che quando ci sono disabilità e buoni sentimenti l’Academy non si tira mai indietro, e fra i ben dieci film in concorso ce n’erano di titoli certamente migliori. In ogni caso molta bella roba da vedere, avendone la possibilità.