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Mad Max: Interceptor – opera prima di George Miller

Questo film del 1979 è l’inizio di una trilogia che appassionerà il mondo intero, cui si aggiungerà un tardivo quarto capitolo “Mad Max: Fury Road” nel 2015 e un quinto è in uscita nell’estate 2024 col titolo “Furiosa: A Mad Max Saga”. È l’opera prima di George Miller, regista che in seguito pur mantenendosi fedele a stile e tematiche non mancherà di misurarsi anche con altri generi. È anche erroneamente indicato come il debutto di Mel Gibson che però era avvenuto un paio d’anni prima con “Summer City – Un’estate di fuoco” dopo tanti piccoli ruoli nella tv australiana, poiché protagonisti e film vengono tutti da lì: periferia estrema delle produzioni cinematografiche che nei decenni successivi ha dato molte star al cinema internazionale: in fondo all’articolo la lista dei nomi.

Ma come cinematografia specifica quella australiana faticherà sempre a decollare nonostante le molte eccellenti produzioni che verranno. È nel 1978 che si registrò l’anno di svolta per un’industria cinematografica ancora inesistente con ben 13 film piazzati al Festival di Cannes (rimando all’ultimo paragrafo chi volesse approfondire i titoli e i nomi di Cannes ’78) e possiamo affermare che la cinematografia australiana arriva per la prima volta al mondo intero grazie a questo film del 1979, il primo di una saga che viene definita post-apocalittica fantascientifica e distopica ma che effettivamente in questo debutto a bassissimo costo c’è ancora ben poco di quello che verrà. Ma andiamo con ordine partendo dall’autore debuttante.

Byron Kennedy e George Miller al missaggio del sonoro del film

George Miller si è appassionato al cinema mentre ancora studiava medicina e risalgono a quel periodo i suoi primi esperimenti: durante il suo ultimo anno all’Università del Nuovo Galles del Sud realizza insieme a uno dei suoi fratelli un cortometraggio di un minuto che vince il primo premo di un concorso studentesco, e il premio era un corso di cinema all’Università di Melbourne dove conosce Byron Kennedy, insieme al quale gira il corto “Violence in cinema: part 1” molto splatter e molto satirico sulla violenza nei film che ottenne consensi anche fuori dall’Australia e questo spinse i due a creare una propria casa di produzioni, la “Kennedy Miller” con la quale si avvieranno verso questo progetto: insieme scrivono la sceneggiatura ispirati dal film australiano “Stone” di Sandy Harbutt del 1974 che raccontava le gang di motociclisti che terrorizzavano gli isolati abitanti dell’outback e che aveva nel cast molti di quegli stessi criminali.

All’inizio del film una scritta ci avverte: “Few years from now…” a pochi anni da adesso, un futuro assai prossimo e senza effetti speciali: c’era la fantasia ma non c’erano i soldi e il grosso dello sforzo produttivo è andato nella realizzazione delle auto che insieme alle motociclette creano spettacolari scene d’azione su strada che sono l’hard-core del film – che oggi va visto come documento di quell’epoca: un ipotetico futuro che per noi è già vintage.

la V8 Interceptor

Maxwell Rockatansky, che poi si meritò l’appellativo di Mad Max, è un poliziotto che guida una V8 Interceptor per la realizzazione della quale sin dal 1976 durante la fase di pre-produzione, George Miller, consapevole che l’automobile sarebbe stata insieme agli attori una protagonista del suo film d’azione, incaricò lo scenografo Jon Dowding di realizzare una vettura che fosse “nera australiana e cattiva”; l’attenzione andò subito a un’auto di costruzione esclusivamente australiana, la Ford Falcon XB GT Coupé prodotta in un numero esiguo e che oggi è un rarissimo esemplare da collezione; e Dowding incaricò una società di personalizzazione di auto per modificarla; lì Peter Arcadipane, Ray Beckerley e John Evans, con il decoratore di carrozzerie Rod Smithe, hanno trasformato l’auto secondo le esigenze cinematografiche.

Fra le altre variazioni di vetture c’è una versione di side-car con la seduta laterale coperta da una mezza sfera che gli conferisce un aspetto un po’ spaziale: la saga di “Star Wars” era cominciata nel ’77 e aveva già cominciato a influenzare l’immaginario collettivo. Mentre le motociclette usate dalla gang sono delle Kawasaki che la produzione era riuscita a ottenere in dono assicurando un rientro in pubblicità, come fu, e che sono state appositamente scenografate da una ditta specializzata che sfortunatamente fallì subito dopo l’uscita del film, mentre un’altra azienda giapponese, dato il successo delle Kawasaki modificate, ne ha ricreato delle copie per il mercato dei collezionisti fino ai primi anni 2000.

James Healey

Era il momento di comporre il cast. Miller avrebbe voluto un noto attore americano per garantire al film più ampia visibilità e andò anche a Hollywood per prendere contatti, ma resosi conto che l’attore da solo gli sarebbe costato l’intero budget tornò a Melbourne deciso a scritturare giovani sconosciuti a basso costo. La prima scelta fu l’irlandese lì trasferito con la famiglia James Healey che aveva già avuto dei ruoli in una serie tv ma che al momento lavorava in un macello aspettando di debuttare sul grande schermo: quale migliore occasione? ma l’attore lesse la sceneggiatura e rifiutò la parte perché la trovò “poco accattivante” e soprattutto il personaggio parlava poco mentre lui si riteneva un grande interprete: finirà col recitare sempre in soap opera come “Dinasty” e “Santa Barbara”.

Mel Gibson e Steve Bisley

A quel punto entra in scena Mel Gibson con la classica narrazione dell’amico che accompagna un amico e ottiene la parte al posto suo. La produzione si era rivolta agli insegnanti del NIDA, National Institute od Dramatic Art, specificando che cercavano dei giovani “con i capelli a punta”: era esplosa l’epoca punk; si presentò Steve Bisley accompagnato da Mel: entrambi avevano debuttato in “Summer City” ed entrambi furono scritturati ma Steve, da buon amico, ebbe il ruolo del buon amico. Gibson accettò un contratto secondo cui sarebbe stato pagato solo dopo l’uscita, e la buona riuscita, del film: fu lungimirante, al contrario di James Healey. Ma se Gibson divenne una star internazionale il suo amico Bisley si è mantenuto fermo su una carriera di tutto rispetto anche se in secondo piano. Nel ruolo della moglie del protagonista Joanna Samuel che resterà un’attrice di genere australiana.

Hugh Keays-Byrne

Più interessante il casting della banda di motociclisti: la maggior parte furono scritturati fra i veri fuorilegge che sulle moto battevano le superstrade australiane, appartenenti al clan dei Vigilanties e tre di essi, Hugh Keays-Byrne, Roger Ward e Vincent Gil avevano già recitato, come detto, in “Stone”. Il primo è qui nel ruolo del capobanda Toecutter, il tagliaditadeipiedi, e nel cinema troverà il suo futuro fino a concludere la sua carriera nel sequel di Mad Max del 2015. Ma intanto, data la scarsezza dei mezzi produttivi tutti la banda si era spostata a proprie spese da Sydney a Melbourne: cosa non si fa per l’arte.

Come sappiamo il film fu un clamoroso successo internazionale ma con un sostanziale distinguo: il film che era costato fra i 200mila e i 400mila dollari australiani (fonti diverse danno cifre diverse) incassò in patria più di 5 milioni raggiungendo in poco tempo il record mondiale di 100 milioni entrando nel Guinness dei Primati come il miglior film col minor costo e il maggior incasso, superato solo vent’anni dopo nel 1999 da “The Blair Witch Project”; ma per le manipolazioni subite l’unico Paese in cui il film non ebbe successo furono proprio gli Stati Uniti d’America. Vinse tre premi tecnici all’Australian Film Institute Awards per montaggio, sonoro e colonna sonora firmata da Brian May, compositore che aveva debuttato al cinema l’anno prima col B movie “Patrick” che ebbe un curioso sequel: avendo avuto successo nelle sale italiane, il regista di B movie italiani Mario Landi ne firmò un sequel apocrifo col titolo “Patrick vive ancora” in una deriva sexy come suggerisce la presenza di Carmen Russo nel cast. Tornando al film: vinse anche il premio speciale della giuria al Festival internazionale del film fantastico di Avoriaz.

Visto oggi il film, senza conoscerne il contesto, è un filmetto che sente il peso degli anni ed è davvero il documento di un’epoca e lo specchio di chi lo ha portato al successo, e va visto come il capostipite di una saga che ha avuto ben altro spessore. In ogni caso, dato il suo clamoroso successo che ha portato la cinematografia australiana nel mondo, esso è ancora oggi celebrato sul continente con feste e parate, tributi e anche ritrovi. Con i suoi sequel Mad Max è diventato un fenomeno culturale e con il suo futurismo distopico e apocalittico ha ispirato film come “1997: Fuga da New York” (John Carpenter 1981), la saga di “Terminator” (James Cameron 1984), “The Hitcher” e “I banditi della strada” (Robert Harmon, 1986 e 2004), oltre ai videogiochi “Fallout” e al manga “Ken il Guerriero”. Il prossimo capitolo “Interceptor – Il guerriero della strada” porterà la narrazione a un livello decisamente superiore… e da qui in poi non si parla più del film.

Richiami e rimandi bikexploitation

Vale la pena ricordare che inserendosi di diritto nel filone dei film con motociclette e motociclisti si può addirittura cominciare dal cinema muto che Miller ha detto di amare con “Lo spaventapasseri” dove Buster Keaton cavalca un sidecar Harley Davidson.

Un altro caposaldo è “Il selvaggio” con Marlon Brando che cavalcava una Triumph Thunderbird 6T del 1950, film diretto da Laszlo Benedek nel 1954 che è considerato un capostipite del genere bikexploitation che è esploso a metà degli anni ’60, e fra i film più noti c’è “I selvaggi” del 1966 che è considerato uno dei più grossi successi commerciali di Roger Corman: con un budget stimato di soli 360.000 dollari, il film ne incassò, solo negli Stati Uniti, circa 14 milioni; anche Corman, come Miller più di un decennio dopo, scritturò come comparse alcuni Hell’s Angels che però durante le riprese crearono non pochi problemi alla troupe. Sempre incentrato su quei terribili Hell’s Angels ci fu l’anno dopo “Angeli dell’inferno sulle ruote” di Richard Rush con Jack Nicholson in uno dei suoi primi ruoli da protagonista.

Si arriva al 1969 con un film che resterà nella storia: “Easy Rider” di e con Dennis Hopper, Peter Fonda e ancora Nicholson, un film il cui merito è andare oltre le narrazioni più o meno fuorilegge dei motociclisti, che al contrario qui sono degli innocui pacifisti che raccontano l’avanzata della contro cultura americana, la contestazione giovanile e l’antimilitarismo; il titolo viene da “Easy Life” che fu il titolo americano per il nostro “Il sorpasso” di Dino Risi a cui il film si ispira. E restando in Italia voglio ricordare la Moto Guzzi “Falcone Sport” che Alberto Sordi cavalca in “Il vigile” di Luigi Zampa del 1960.

Un po’ di star internazionali provenienti dal nuovo continente

In elenco Judy Davis, Cate Blanchett, Nicole Kidman con la sua amica Naomi Watts, Margot Robbie e Toni Collette fra le attrici; fra gli attori Hugh Jackman, Jason Clarke, Joel Edgerton, Guy Pearce, Geoffrey Rush, i fratelli Chris e Liam Hemsworth, il compianto Heath Ledger e Russell Crowe e Sam Neill che per correttezza sono neozelandesi; come neozelandese è Jane Campion fra i registi, con gli australiani Peter Weir, Phillip Noyce e Gillian Armstrong che proprio lo stesso anno di questo film firmò il più artistico “La mia brillante carriera” con Judy Davis che andò a vincere il BAFTA nel Regno Unito e Sam Neill che da lì in poi ha sviluppato una sua brillantissima carriera.

Approfondimento sul Festival di Cannes del 1978

Fra i titoli australiani vanno ricordati “The Chant of Jimmie Blacksmith” di Fred Schepisi e “Il sapore della saggezza” di Bruce Beresford. Quell’anno c’erano in concorso e fuori concorso molti grandi sui quali è interessante dare un’occhiata: “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi che vinse la Palma d’Oro e che si aggiudicò anche in ex aequo con “La spirale” di Krzystof Zanussi il Premio Ecumenico, mentre il Grand Prix Speciale della Giuria è stato assegnato ex-aequo a “Ciao maschio” di Marco Ferreri e “L’australiano” (che non è un film australiano ma è il titolo italiano per “The Shout”) del polacco Jerzy Skolimowski con produzione britannica; altro ex aequo per la migliore attrice a Jill Clayburgh per “Una donna tutta sola” di Paul Mazursky e Isabelle Huppert per “Violette Nozière” di Claude Chabrol; miglior attore Jon Voight per “Tornando a casa” di Hal Ashby; miglior regista Nagisa Ōshima per “L’impero della passione”; Gran Prix tecnico a “Pretty Baby” del francese Louis Malle che si era spostato negli Stati Uniti perché legatosi a Susan Sarandon protagonista di questo suo primo film americano; e per finire il premio FIPRESCI a “L’uomo di marmo” di Andrzej Wajda. Ma erano presenti anche titoli come il grandioso “Molière” di Ariane Mnouchkine, “Ecce Bombo” di Nanni Moretti, “Fuga di mezzanotte” di Alan Parker, “L’ultimo valzer” di Martin Scorsese, “Nel regno di Napoli” di Werner Schroeter. Non c’è da stupirsi se in questo contesto gli australiani venissero considerati degli alieni.

Oppenheimer – Miglior Tutto (o quasi) Oscar 2024

7 premi su 13 nomination sia agli Oscar che ai BAFTA per le medesime categorie, 5 Golden Globe, 4 Critics Choise Awards, 3 SAG-AFTRA, un Grammy Award alla colonna sonora di Ludwig Göransson, e l’inserimento nel National Board Rewiew fra i 10 migliori film dell’anno. Per non dire degli incassi record, anzi lo stiamo dicendo. Tutto questo nonostante il film sia sostanzialmente ostico trattando di materie astratte come la fisica e la quantistica e raccontando un protagonista non particolarmente simpatico in un contesto storico e accademico fatto di nomi e circostanze che dicono poco o nulla al grande pubblico: tolti i rassicuranti (perché conosciuti) Albert Einstein e il presidente Harry Truman, sono tutti personaggi alcuni dei quali Premi Nobel che fanno solo girare la testa. Ma la forza del film, scritto dallo stesso regista dalla biografia “Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica” di Kai Bird e Martin J. Sherwin che già vinse il Premio Pulitzer, sta nella sua struttura che mescola i generi spy thriller e legal drama interpuntati da accattivanti veloci effetti che visualizzano l’astrusità (per noi comuni spettatori) della materia quanto mai oscura, e la confezione è talmente perfetta che ci tiene incollati allo schermo nonostante le tre ore di visione. Gli Oscar vinti sono Miglior Film, Miglior Regista, Miglior Protagonista, Miglior non Protagonista, Miglior Fotografia a Hoyte Van Hoytema e Miglior Montaggio a Jennifer Lame.

Ma c’è da aggiungere che molto del merito va anche alle superlative interpretazioni dell’insieme, sin nei ruoli più piccoli dove spesso ritroviamo nomi di prim’ordine, e questo fa la differenza: la grandezza di un film, e conseguentemente del suo autore, si vede anche dall’adesione che al progetto viene da conclamati protagonisti che pur di esserci si accontentano di ruoli secondari: ci sono i già premi Oscar Matt Damon (miglior sceneggiatura originale nel 1998 insieme all’amico Ben Affleck per “Will Hunting – Genio Ribelle”) il quale non ha mai disdegnato i ruoli da comprimario se ne vale la pena e che qui ha uno dei ruoli più corposi, il fratello del suo amico Casey Affleck (miglior non protagonista nel 2017 per “Manchester by the Sea”) ed entrambi già con ruoli secondari nel cast di “Interstellar” sempre di Christopher Nolan.

Gary Oldman

In ruoli davvero minori Rami Malek (miglior protagonista nel 2019 per “Bohemian Rhapsody” dove ha impersonato Freddy Mercury), Sir Kenneth Branagh (7 candidature e un solo Oscar nel 2022 per la miglior sceneggiatura originale del biografico “Belfast”) e Gary Oldman (miglior attore nel 2018 per “L’ora più buia” dove è stato Winston Churchill) che qui con una sola scena lascia la sua impronta come presidente Truman il quale pensa basti pulirsi le mani con un fazzoletto di seta dal sangue versato dalla bomba atomica che rivendica come sua.

Ci sono poi i già candidati all’Oscar Florence Pugh (nel 2020 per “Piccole Donne”) che qui pervade la prima parte del film come tormentata amante segreta di Oppenheimer, e soprattutto Robert Downey Jr. che come vero antagonista complottista si aggiudica l’Oscar best supporting actor dopo aver ricevuto le candidature per “Charlot” nel 1993 e “Tropic Thunder” nel 2009.

Robert Downey Jr.

E ci sono a vario titolo i già protagonisti o noti comprimari sia di film che di serie tv: Emily Blunt nel ruolo della moglie del fisico che qui si aggiudica la sua prima nomination all’Oscar come best supporting actress; Josh Hartnett, Jason Clarke, James D’Arcy, Dane DeHaan, Alden Herenreich, Tony Goldwin, David Krumholz, Scott Grimes, Gregory Jbara, Tim DeKay, Jeff Hephner, James Remar, Gustaf Skarsgård, James Urbaniak, Josh Zuckerman e per ultimo, anche nei titoli, il quasi irriconoscibile Matthew Modine che fu giovane promessa hollywoodiana: Coppa Volpi al Festival di Venezia per “Streamers” (1983) di Robert Altman e poi protagonista assieme a Nicholas Cage (che al contrario ha saputo mantenersi sulla breccia) dello struggente “Birdy” (1984) di Alan Parker e in “Full Metal Jacket” (1987) di Stanley Kubrick; ma dopo qualche altro film la sua carriera è tutta in discesa fino a venire quasi del tutto dimenticato.

Come generosamente ha titolato MoviePlayer

Chiudo l’elenco del fitto cast con gli ex attori bambini ormai divenuti interpreti di rango Alex Wolff, Michael Angarano e Josh Peck; ci sono poi il figlio d’arte Jack Quaid (di Dennis Quaid e Meg Ryan) e i meno noti al grande pubblico Dylan Arnold come fratello del protagonista, Tom Conti che veste i panni di Einstein, Danny Deferrari come Enrico Fermi e Benny Safdie che è principalmente regista indipendente in coppia col fratello Josh.

Cillian Murphy a confronto con il vero Robert Oppenheimer

Protagonista assoluto l’intenso Cillian Murphy premiato con la statuetta più ambita alla sua prima candidatura. Ricordando che ha già lavorato con Nolan in “Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno” e in “Dunkirk”, bisogna notare che il regista londinese preferisce lavorare con interpreti britannici suoi conterranei: qui oltre a Murphy, Emily Blunt, Florence Pugh, Kenneth Branagh, James D’Arcy e Tom Conti oltre ad altri, non dimenticando anche il Christian Bale della trilogia sul Cavaliere Oscuro. Ma se l’autore è riconoscibile nella composizione del casting lo è soprattutto per il suo stile: ama raccontare i tormenti interiori passando per le ossessioni e gli inganni – in quest’ottica è davvero magistrale l’interpretazione di Robert Downey Jr. – e i confini della realtà anche solo come percezione interiore dei suoi personaggi – qui ben esplicitati nella figura di Oppenheimer con le sue visioni e i suoi tormenti.

Christopher Nolan sul set

Da ricordare anche la polemica dell’autore con la Warner Bros. che aveva prodotto i suoi precedenti film: “Alcuni dei più grandi registi e delle star più importanti della nostra industria sono andati a dormire pensando di lavorare per lo studio più prestigioso e si sono svegliati scoprendo di lavorare per il peggior servizio streaming.” aveva dichiarato polemicamente Nolan allorché la major aveva deciso di distribuire tutto il suo catalogo 2021 (la pandemia ha rilanciato l’home video) in contemporanea sia nelle sale che in streaming su tv e pc; e difatti, passato con questo film alla Universal, si legge nei titoli che il film è scritto e diretto “per il cinema”. E la Warner Bros. per fargli dispetto fece uscire il suo blockbuster su “Barbie” proprio in contemporanea all’uscita di “Oppenheimer”, ma gli attori di entrambi i cast, più lungimiranti e accoglienti delle case produttrici, invitarono il pubblico ad andare a vedere i due film in un solo pomeriggio come un doppio spettacolo, l’evasione e l’impegno, e tra le celebrity a fare da apripista seguendo il consiglio e fare da traino al grosso del pubblico ci sono stati Tom Cruise, che era già nelle sale con “Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte uno” e che non ha perso l’occasione per parlare anche del suo film, e lo sfaccendato cineamatore Quentin Tarantino; e a quel punto si è creato un altro dibattito: in che ordine vederli? la stampa chiamò il fenomeno Barbernheimer e il merchandising si buttò a capofitto nell’impresa creando magliette e ogni altra sorta di gadget… che poi uno dice: le americanate!

Terminator Genisys – James Cameron is back

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2015, siamo al numero 5, che in realtà è il 3° di James Cameron, il papà del cyborg più famoso del mondo. Sono passati 24 anni dal suo secondo terminator, una generazione intera è cresciuta con altri miti cinematografici, gli X-Men, gli Avengers, e le pallide repliche di un fenomeno che ha avuto senso solo nella sua epoca, veicolato da una star del culturismo che nel frattempo ha lasciato il cinema per darsi alla politica, diventando governatore della California; un fenomeno che ha imposto nella cinematografia il nome di James Cameron che si farà onore con clamorosi blockbusters.

Come spesso accade, la casa di produzione che deteneva i diritti di Terminator, fallì, e finalmente Cameron, dopo i soliti svariati passaggi di mano, riesce a riprendersi il suo terminator e si arriva a questa nuova produzione di cui però l’autore non sarà produttore né sceneggiatore e neanche regista, benché tutto proceda col suo beneplacito e controllo del pacchetto. “Terminator Genesys” asfalta i due precedenti capitoli e torna al secondo di cui si propone come reboot: sono uguali l’epoca, le circostanze e i personaggi, ma complica la trama di ulteriori viaggi temporali e realtà parallele che mettono a dura prova l’attenzione dello spettatore. I vecchi fan sono delusi e i nuovi fan… beh non ci sono nuovi fan. Il film, anch’esso come i precedenti immaginato come il primo di una trilogia, non avrà un seguito perché al botteghino è andato malissimo, oltre a essere stato stroncato dalla critica. Così la stampa: “Terminator Genisys cerca di spremere il sangue da un cadavere, viene fuori come il peggiore di tutti i risultati”; “Spende metà del suo tempo a mostrare dei personaggi cyborg impossibili da uccidere che vengono colpiti per poi guarire prontamente e l’altra metà nel cercare di spiegare una trama che riscrive l’intera serie.” e “Sono solo affari, e affari smorti”.

Dirige Alan Taylor, molto attivo in tv, il cui film precedente è il successo “Thor: the Dark World” ma che dopo questo terminator non ha diretto altri film. Arnold Schwarzenegger, che nel frattempo ha concluso la sua esperienza politica, torna a riprendersi il suo ruolo e lo vediamo in tutte le salse: invecchiato (dato che la pelle umana che ricopre il cyborg naturalmente invecchia, gran bella trovata per allungare la vita cinematografica di Schwarzy-Terminator), ringiovanito con la computer grafica e addirittura in lotta con se stesso, ovvero due terminator che indossano la sua faccia: un film a servizio della star che ha contribuito a creare il fenomeno.

Terminator: Genisys Split - H 2015
Arnold Schwarzenegger giovane ricostruito sulla controfigura Brett Azar
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Scwarzy-Terminator invecchiato come è lui nella realtà

Sarah Connor è stavolta interpretata da Emilia Clarke – star di “Il Trono di Spade” dove è Daenerys Targaryen la Khaleesi Madre dei Draghi – che subito, all’insuccesso del film, ha dichiarato che non avrebbe partecipato ai sequel. Condivide il film, da protagonista, con Jai Courtney – diventato famoso come il gladiatore Varro nella serie tv “Spartacus” – qui nell’ambito ruolo di Kyle Reese. John Connor, che spedisce nel passato Kyle affinché diventi suo padre, è interpretato da Jason Clarke (nessuna parentela con Emilia Clarke) arrivato alla fama con la serie tv “Brotherood – Legami di Sangue” e il cui personaggio subisce un profondo restyling, facendolo diventare il cattivo, perché infettato con il nano-terminator T-3000 da Skynet, che in questo film vediamo in sembianze umane, interpretato da Matt Smith, star del televisivo “Doctor Who”. Il sudcoreano Lee Byung-hun è l’immancabile T-1000 e in ruoli secondari ci sono J. K. Simmons e Courtney B. Vance.

Mi rimane da dire che il film mi sembra un peccato di orgoglio. Lo stesso James Cameroon aveva dichiarato che il ciclo naturale del terminator si era concluso coi suoi primi due film, e questo tardivo fallimentare ritorno su un personaggio caro, e vincente, equivale a un riappropriarsi della creatura. Una creatura che aveva dato il meglio di sé già tanti anni prima e che non andava resuscitata. Ma errare è umano e perseverare è demoniaco: ci sarà un altro Terminator, Destino Oscuro: un sottotitolo che è già un programma?

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Apes Revolution, il Pianeta delle Scimmie

Il Pianeta delle Scimmie, 1968
Il Pianeta delle Scimmie, 1968

Prima di perdermi in tecnicismi e divagazioni dico subito che il film mi è piaciuto molto e che se dovessi dargli un voto gli darei un bel sette, anzi sette e mezzo va’. Dura due ore abbondanti, 130 minuti per l’esattezza, e non cala mai la tensione su questo racconto fantascientifico in cui ritorna la paura degli uomini che i loro cugini più prossimi e meno evoluti, le scimmie, possano un giorno superarli in intelligenza e potenza. E’ figlio di quel PIANETA DELLE SCIMMIE del 1968 con Charlton Heston tratto dal romanzo del francese Pierre Boulle e che generò ben quattro sequel: L’ALTRA FACCIA DEL PIANETA DELLE SCIMMIE del 1970, FUGA DAL PIANETA DELLE SCIMMIE del 1971, 1999 CONQUISTA DELLA TERRA del 1972 e ANNO 2670 ULTIMO ATTO del 1973. Come si vede dalle date un film dietro l’altro ogni anno a tambur battente. E per spremere il limone fino alla fine ci furono anche una serie tv del 1974 e un’altra animata del 1975.

Planet of the Apes, 2001
Planet of the Apes, 2001

Una decina di anni dopo, e siamo alla metà degli anni ottanta, da più parti fu ripresa l’idea di un remake o di altri sequel e si ebbero vari progetti con differenti sceneggiature e diverse ipotesi di regia, non ultima quella dell’allora sconosciuto Peter Jackson che sarà l’autore della grandiosa saga de IL SIGNORE DEGLI ANELLI e che lancerà nello star system Andy Serkis, acclamato interprete della motion capture su cui tornerò più avanti. Dobbiamo arrivare al 2001 perché Tim Burton si presti a fare un suo remake con Mark Wahlberg, Tim Roth e Helena Bonham-Carter che però non ha avuto il successo auspicato.

Passano altri dieci anni e nel 2011 esce il cosiddetto “reboot” che consiste nel fare piazza pulita dei precedenti film per ricominciare dall’inizio: L’ALBA DEL PIANETA DELLE SCIMMIE che scrive il prequel e racconta come tutto ebbe inizio: un farmaco sperimentale studiato per curare l’Alzheimer e testato sui primati, a causa di un incidente viene inalato da un tecnico di laboratorio sul quale ha però effetti letali e che sarà il “paziente zero” di un’epidemia che, come i grafici raccontano nei titoli di coda, infetterà l’intero pianeta.

L'Alba del Pianeta delle Scimmie, 2011
L’Alba del Pianeta delle Scimmie, 2011

Contemporaneamente all’uscita in sala di APES REVOLUTION Sky lo ha rimesso tempestivamente in onda fornendo un servizio, eccellente e non dovuto, ai suoi abbonati: l’ho dunque rivisto per rinfrescarmi la memoria. Diretto da Rupert Wyatt è protagonista James Franco che interpreta il ricercatore farmaceutico e che testa il prototipo del farmaco sperimentale sul padre affetto d’Alzheimer (John Lithgow) mentre si prende cura di un neonato scimpanzé per sottrarlo all’abbattimento dopo che tutti i test sono stati cancellati a causa dell’incidente in cui è morta sua madre, la quale gli ha però passato gli effetti del farmaco del quale era cavia: una straordinaria intelligenza. Il piccolo cresce amorevolmente accudito nella famiglia cui si è unita la fidanzata del ricercatore (Freida Pinto) imparando il linguaggio dei segni e molte altre cose… ma ben presto è evidente che il mondo degli umani non è fatto per lui e lo scontro con la conseguente fuga è inevitabile, proprio mentre comincia a diffondersi il virus fra gli umani e Cesare (nome che proviene dai sequel degli anni settanta) pronuncia la sua prima parola: No.

The Hobbit: An Unexpected Journey - Portraits
Andy Serkis

Tre anni dopo esce, dunque, la seconda parte di RISE OF THE PLANET OF THE APES col titolo DOWN OF THE PLANET OF THE APES contrapponendo all’alba il tramonto, che però la Fox ha cambiato per il mercato italiano in “Apes revolution”… misteri della distribuzione. E se Andy Serkis lì era citato solo alla fine dei titoli ancorché nobilitato da un “con” qui si accaparra addirittura il primo nome. E direi meritatamente. La sua strana carriera cinematografica comincia quando Peter Jackson cercava un attore-mimo per mettergli addosso e sulla faccia dei sensori che trasferissero alla computer grafica i suoi movimenti e le sue espressioni, per rendere umano e credibile il personaggio che si andava a creare: il Gollum/Smeagol del quale Serkis diventò via via interprete-creatore assoluto dandogli anche la voce sullo schermo. Il personaggio creato con questo nuovo sistema, il “motion capture”, fu talmente straordinario e impossibile da disgiungere dall’interpretazione dell’attore-mimo che ci fu una campagna trasversale, fatta di fans e addetti ai lavori e critici cinematografici, affinché Andy Serkis potesse essere nominato agli Oscar… ma la cosa non avvenne in quanto la faccia non era la sua, benché costruita sulla sua interpretazione. In seguito Jackson si avvalse di Serkis anche per dare vita al suo remake di “King Kong” dove premiò l’attore affidandogli anche un ruolo secondario in cui potesse recitare coi suoi connotati. Dell’attore Andy Serkis c’è da dire che purtroppo la sua faccia non corrisponde al suo talento: capace di spaziare dal brillante al drammatico, dal buono al cattivo in tutte le sfumature, ha però una faccia che lo inchioda al carattere brillante e neanche tanto simpatico, e su questo versante si possono contare le sue interpretazioni cinematografiche “dal vero”.

Apes Revolution, 2014
Apes Revolution, 2014

APES REVOLUTION si apre e si chiude con un primissimo piano degli occhi di Cesare ed è chiaro che ci sarà un altro seguito. Sono passati dieci anni dal capitolo precedente e la Terra, annientata dal virus scatenato dieci anni prima, è uno scenario post-apocalittico in cui gli umani sopravvivono a stento nei fortini ricavati dalla macerie delle città mentre le scimmie prosperano libere in natura, intelligenti forti e bene organizzate. Causa una spedizione umana in cerca di soluzioni energetiche le due popolazioni entrano di nuovo in contatto ma Cesare, kaiser della comunità quadrumane, non ha dimenticato di essere stato cresciuto da un uomo buono ed ora è un capo equilibrato ancorché attento e severo: rintuzza i tentativi e le tentazioni di scendere in guerra con gli umani ma, come dimostrano i fatti, non ci sono umani cattivi e scimmie buone, bensì buoni e cattivi da entrambe le parti e lo scontro diventa inevitabile in un film affascinante per gli effetti speciali e la trama ricca di tensioni drammatiche e anche intimistiche.

Fatto fuori dalla produzione il regista Rupert Wyatt che aveva da ridire sulla sceneggiatura, si chiama fuori anche James Franco che qui compare solo come cartolina memoria. Chiamato alla regia Matt Reeves la superproduzione fa fuori anche ogni altra ipotesi di star dato che questo genere di film si regge da sé sull’evento che crea. Tolta l’intensa partecipazione di Gary Oldman nel ruolo secondario del capo della comunità umana – e spendo poche parole per elogiare la sua interpretazione: quando chiamato a fare un discorso alla sua gente per sostenerla e incoraggiarla lo fa con parole inevitabilmente retoriche che lui riesce però a far filtrare attraverso la sua personale angoscia e il suo sperdimento: in questo sta la grandezza di un interprete, quando trova la via per emozioni che nel copione non erano previste. Un altro sarebbe stato solo tronfio e banale. A fronteggiare il Cesare di Andy Serkis stavolta c’è il semisconosciuto ancorché bravo attore australiano Jason Clarke, uno di quei volti che dici: dove l’ho visto? dato che si è visto in ruoli secondari in decine di film ma anche come protagonista di serie televisive. Dalla televisione provengono anche la sua compagna, Keri Russell che in tv è stata recentemente protagonista di “The Americans”, Kirk Acevedo che interpreta il violento perché stupido ed Enrique Murciano che qui quasi neanche parla. La regola data è dunque chiara: non c’è spazio per divi sul pianeta delle scimmie.

E per finire una breve carrellata sui veri volti degli altri interpreti che hanno prestato il loro talento al motion capture per creare le altre creature coprotagoniste del film.

Toby Kebbell / Koba
Toby Kebbell / Koba
Nick Thurston / Occhi Blu
Nick Thurston / Occhi Blu
Karin Konoval / Maurice
Karin Konoval / Maurice
Judy Greer / Cornelia
Judy Greer / Cornelia