Archivi tag: james withmore

Le pistole dei magnifici sette

Dopo il clamoroso successo de “I magnifici sette” del 1960 starring Yul Brynner promotore del progetto e anche produttore, e il travagliato e incerto sequel del 1966 “Il ritorno dei magnifici sette” dove Brynner si piega a imitare il silenzioso Clint Eastwood rilanciato in patria dal nostro Sergio Leone con la “Trilogia del Dollaro”, il produttore esecutivo Walter Mirisch – cui si devono anche film come “L’appartamento” di Billy Wilder e “West Side Story” di Robert Wise – non vuole rinunciare a quella macchina per far soldi e mette in cantiere questo terzo capitolo al quale però la star Brynner – che restando cinematograficamente in Messico stava nel frattempo interpretando il rivoluzionario Pancho Villa in “Viva! Viva Villa!” (titolo che richiama sfacciatamente “Viva Zapata” dei primi anni ’50) – dice definitivamente di no. Dopo un momento di sconforto il produttore decide di andare avanti e si guarda intorno per sostituire il primo pelato dello star system hollywoodiano (seguirà a breve Telly Savalas) e chi meglio dell’astro nascente George Kennedy fresco di Oscar come non protagonista in “Nick mano fredda” accanto a Paul Newman diretto da Stuart Rosenberg. Non si preoccupò neanche che il nuovo Chris Adams fosse almeno lontanamente somigliante all’originale e Kennedy sfoggerà la sua fitta chioma bionda spesso anche ben pettinata nonostante le lunghe cavalcate.

George Kennedy
Michael Ansara

Era evidente che con un volto nuovo a capo dei nuovi magnifici sette bisognasse avere un cast forte e anche la sceneggiatura di Herman Hoffman andava in quel senso: abbandonando la ripetitività del mercenario di buon cuore che si mette al servizio delle buone cause – nei primi due film difende dai cattivi dei villaggi di contadini messicani – il plot fa un salto di qualità e dall’impegno sociale passa dritto dritto all’impegno politico irrompendo nella Storia, quella con la S maiuscola: stavolta il cattivo è nientepopodimenoché il tirannico presidente messicano Porfirio Diaz, il cui braccio armato nel film è l’immaginario Colonel Diego – interpretato dal caratterista di lungo corso Michael Ansara, nato in Siria ma emigrato bambino negli States con i genitori; un colonnello che dal suo fortilizio militare opprime il popolo, dove si muove il rivoluzionario Quintero interpretato da Fernando Rey che paradossalmente è l’unico dopo Brynner a tornare nel cast per la seconda volta, benché qui con un ruolo diverso.

Fernando Rey

Imprigionato Quintero, il giovane attivista Maximiliano – interpretato dal mediterraneo (metà corso e metà spagnolo per origini) ma americanissimo Reni Santoni, qui in uno dei suoi ruoli primi ruoli importanti in una carriera in cui sarà sempre ottimo supporto – andrà alla ricerca del mitico Chris Adams da ingaggiare con la considerevolissima, all’epoca, somma di 600 dollari: 100 a testa, predisporrà il capobanda, offrendo la somma ad amici e conoscenti che mette insieme i nuovi magnifici sette insieme a Maximiliano ribattezzato Max perché gli ispanici hanno i nomi troppo lunghi.

Reni Santoni

E anche il reclutamento dei diversi tipi è in questo terzo film più interessante perché proprio diversi sono gli uomini, ancora ognuno con un proprio passato che però stavolta non ci viene più raccontato: sappiamo che c’è e questo basta a dare spessore ai personaggi. Per la prima volta c’è un nero, il debuttante Bernie Casey ex star del football che avrà una buona carriera anche come attore cine-televisivo.

Bernie Casey

E argutamente nella banda dei sette stavolta entra anche un uomo di mezza età interpretato dal caratterista di lusso James Whitmore già insignito del Golden Globe e della candidatura agli Oscar come non protagonista per il bellico “Bastogne” di William Wellman nell’ormai lontano 1949.

James Whitmore

In questo casting attentissimo alla qualità degli interpreti e alla loro immediata riconoscibilità, come braccio destro del protagonista – il ruolo che inizialmente fu dell’irritante Steve McQueen che non fece che litigare con Yul Brynner – viene scritturato un altro emergente di qualità, Monte Markham, che indossando proprio il costume di McQueen in qualche modo ne imiterà l’interpretazione dando un suo spessore interno al personaggio e un divertimento in più a chi ne sa riconoscere le sfumature.

Monte Markham

Altro nome di spicco è e sarà quello di Joe Don Baker che interpreta il pistolero dall’oscuro e tormentato passato, qui al suo vero debutto cinematografico dopo una piccolissima apparizione in “Nick mano fredda” che aveva lanciato George Kennedy: pur se mai in ruoli da protagonista l’attore sarà un punto di forza di molte produzioni – comparirà tre volte nella saga di 007 – e oggi 88enne è uno degli ultimi membri onorari a vita dell’Actors Studio.

Joe Don Baker

L’ultimo dei sette è l’ignoto 19enne Scott Thomas che aveva debuttato l’anno prima con un piccolo ruolo in un film di serie B e che non farà molto altro: non tutte le ciambelle riescono col buco. P.J. è il suo personaggio senza un vero nome ma che accenna una storia d’amore, non necessaria a dire il vero e inserita lì per restare nella tradizione, con la chica Tina atteggiata da Wende Wagner, un’ex modella americana provetta nuotatrice e sportiva che si è riciclata come attrice e l’anno prima era stata nel cast di “Rosemary’s Baby” di Roman Polanski, mentre questa sarà la sua ultima apparizione sullo schermo.

Scott Thomas

In questa storia che incontra la Storia c’è fra le fila dei rivoltosi un ragazzino che risponde al nome di Emiliano Zapata e sappiamo già, per lo meno chi lo sa, che da grande sarà un importante rivoluzionario messicano che nel 1952 era stato raccontato nel film “Viva Zapata!” di Elia Kazan con Marlon Brando; l’interprete ragazzo è Tony Davis, un attore bambino già attivo in tv che diventato adulto perdiamo di vista.

Alla regia il professionista di lungo corso Paul Wendkos che il produttore aveva già sotto contratto per le sue produzioni televisive e il film che confeziona è solido e assai gradevole. Questo secondo sequel è senz’altro migliore del primo e nella ricerca di una diversa complessità non fa rimpiangere la mancanza di Yul Brynner come star trainante e, quello che più conta, si comportò talmente bene al botteghino, soprattutto sul mercato internazionale, che venne messo in cantiere il terzo e ultimo sequel “I magnifici sette cavalcano ancora” che ancora una volta cambierà protagonista. Alla critica però il film non piacque: “È lo stesso vecchio film di cowboy con la mascella di ferro, con nuovi attori e tutta la magnificenza di un asino morto” scrisse il New York Times. Più generoso Variety: “Si eleva al di sopra di una trama di routine grazie a una scrittura solida e in un crescendo dell’azione con un finale di sparatorie scoppiettanti.” Di certo andare a rivederlo, o vederlo per la prima volta magari in sequenza con gli altri film, non è una perdita di tempo.

Faustina – opera prima di Luigi Magni

il film completo

Nel 1968 il 40enne Luigi Magni è già in attività da più di dieci anni avendo cominciato come soggettista e sceneggiatore sotto la guida della coppia Age & Scarpelli e si distinse subito lavorando con e per i migliori registi dell’epoca e a film di successo come “Le voci bianche” di Pasquale Festa Campanile ambientato in quella Roma papalina che sarà il marchio di fabbrica di Magni; e proprio lo stesso anno del suo debutto come regista esce un con un’altra sceneggiatura di successo: “La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli. Per la sua opera prima scrive e dirige una commedia che, benché ambientata nella Roma moderna (ovviamente di quel 1968) già si colloca per gusto e ispirazione nella Roma storica di cui lui è grande studioso e cultore: un triangolo amoroso che sembra uscito dai sonetti romaneschi di Giuseppe Gioachino Belli, il quale a proposito della sua produzione aveva scritto: “Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col concorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca.” E Magni, supportato dalla moglie Lucia Mirisola, che sarà costumista e scenografa di tutti i suoi lavori, ambienta la vicenda in una Roma ancora più antica, quella dei siti archeologici a cielo aperto, coi Mercati di Traiano in testa, dove colloca scenografiche strutture posticce per creare le abitazioni dei suoi romani di borgata su quell’antica Via Biberatica, direttamente con affaccio sugli scavi e con libertà di movimento, anche di automezzi, oggi assai improbabili data la rigorosa protezione di cui quei siti attualmente godono; una sorta di periferia romana molto idealizzata e di nobili ascendenze, assai diversa dalle periferie fatiscenti dei primi film di Pier Paolo Pasolini che raccontavano storie di turpi borgatari; il popolino di Luigi Magni, benché altrettanto sinceramente romanesco e altrettanto dedito agli intrallazzi, è più gioioso e romantico e piuttosto che muoversi solo nella violenza dell’ignoranza e della fame, si ispira alla storia antica, quella gloriosa e imperiale cui il recente fascismo si era ispirato con ben altri intenti e risultati; uno dei protagonisti di Magni è un tombarolo che ben conosce la materia che tratta disquisendo con ricettatori e collezionisti stranieri di etruschi e Roma antica; l’altro è uno stornellatore da osteria che però avendo perso la chitarra in un incidente non può più esibirsi ed è alla fame assoluta. Fra loro l’autore colloca un’ambigua figura femminile, ambigua perché d’impatto ma poi poco definita: una ragazza mulatta frutto dell’amore estemporaneo fra una romana e uno di quei soldati di colore del vittorioso esercito americano che lasciarono su tutto il suolo italiano, e specialmente da Roma in giù, stuoli di nascituri dal colorito scuro, fatto che già nel 1944 aveva ispirato la napoletana “Tammuriata nera” al giornalista e paroliere Edoardo Nicolardi che era anche direttore amministrativo dell’ospedale Loreto Mare e lì vide nascere decine di bambini neri; la musica è del suo consuocero E. A. Mario che fu anche autore della “Canzone del Piave”: “È nato nu criaturo, è nato niro, / e ‘a mamma ‘o chiamma Ciro, / sissignore ‘o chiamma Ciro.”

La Tammuriata Nera nella personalissima interpretazione di Peppe Barra
Il debuttante Luigi Magni posa con la debuttante Vonetta McGhee
Enzo Cerusico e Vonetta MacGhee
Vittoria Febbi a 10 anni nel suo film di debutto “Campane a martello” del 1949 diretto da Luigi Zampa

Il personaggio della mulatta di Luigi Magni è d’impatto perché il nostro cinema ha raccontato molto poco quell’esperienza sociale, ma è un’occasione che lui spreca e, benché raccontando la storia della ragazza, non ne esplicita le implicazioni socialogiche e i drammi personali, che pure ci furono, e la sua protagonista è solo una bella ragazza mulatta che parla romanesco col doppiaggio di Vittoria Febbi, ex attrice bambina dal colorito altrettanto scuro in quanto figlia di un italiano e di un’eritrea. L’interprete della Faustina che dà il titolo al film dell’autore, fuorviando lo spettatore poiché il personaggio non è la chiave di volta del film, è un’altra debuttante, l’americana Vonetta MacGee, molto efficace sul piano espressivo, che quello stesso anno sarà anche protagonista dello spaghetti-western di Sergio Corbucci “Il grande silenzio”; tornata in patria sarà brevemente una star in film del genere blaxploitation e nel 1975 lavorerà con e per Clint Eastwood in “Assassinio sull’Eiger” in mezzo a un carriera di film di serie B. Morirà 65enne per attacco cardiaco.

Anche Enzo Cerusico è un ex attore bambino figlio di un direttore di produzione che debutta a 10 anni e nei successivi cinque anni recita in ben undici film. Svoltando l’adolescenza si ferma per un paio d’anni e studia recitazione col russo italianizzato Alessandro Fersen (nato Aleksander Fajrajzen che con la famiglia era giunto in Italia a 2 anni) e da lì in poi i suoi ruoli si fanno più impegnativi e recita anche in teatro dove già 30enne si mette in luce nella commedia musicale “Meo Patacca”: viene notato da due funzionari della rete tv americana NBC che cercavano il protagonista di un telefilm, e così il giovanotto pel di carota è andato alla scoperta dell’America dove con il personaggio di Tony Novello ha preso parte accanto a James Whitmore a una puntata della serie “The Danny Thomas Hour” dove ogni puntata era una storia auto conclusa; il suo episodio ebbe un tale successo che divenne il pilot di una nuova serie che poi arrivò in Rai col titolo “Il mio amico Tony” e Cerusico divenne un protagonista della televisione italiana dove, insieme al teatro, si svolgerà la gran parte della sua carriera. Per un tumore al midollo spinale muore a 54 anni. Qui è doppiato da Massimo Turci, probabilmente perché impegnato a registrare per la Rai e la regia di Ugo Gregoretti le sei puntate di “Il Circolo Pickwick” da Charles Dickens.

Renzo Montagnani in un raro scatto col figlio Daniele

Il terzo protagonista è il toscano Renzo Montagnani, attore di rango che ha speso il resto della sua carriera prevalentemente nel filone della commedia sexy; di lui, Indro Montanelli che da debuttante regista lo aveva diretto come debuttante attore cinematografico in “I sogni muoiono all’alba” da un suo testo teatrale, disse: “Come attore ha sacrificato il suo talento, che era grande, accettando qualsiasi cosa. Una vita disgraziatissima, la sua, da questo punto di vista.” Mentre Mario Monicelli ha ribadito: “Uno straordinario professionista, molto attento e intelligente come attore; purtroppo sottovalutato. Purtroppo per ragioni di famiglia non poteva rinunciare a lavorare, e doveva accettare qualunque proposta gli arrivasse.” “I film grossolani sono una scelta remunerativa, ma io uso definirmi migliore dei miei film.” è quanto Montagnani si è sentito di dichiarare. Nei fatti lui ha lavorato per gran parte della sua carriera, in cui non sono mancati i film importanti, nelle commedie trash proprio perché gli portavano lauti e facili guadagni per poter coprire le ingenti spese per le cure del figlio Daniele segnato da una lesione subita durante la nascita a causa del forcipe, e ricoverato in permanenza presso una clinica di Londra; inglese era la moglie Eileen Jarvis che aveva conosciuto quando lei ballava nelle Bluebell Girls, che nell’epoca del loro splendore furono anche trampolino di lancio per showgirl come Gloria Paul o le Gemelle Kessler. Renzo Montagnani è morto 66enne per un tumore ai polmoni ed è sepolto nel cimitero del paesello inglese Stockton-on-Tees insieme al figlio che lo ha raggiunto sette anni dopo e alla moglie che si è spenta 90enne nel 2021.

Il film di Magni è una favola sugli affamati del dopoguerra, che sintetizza nel sognatore stornellatore, un po’ alla Charlot, Enea Troiani (così lo nomina dato che il mitologico principe Enea era troiano) e nell’intrallazzista Quirino (insieme a Faustina altro nome tipico dell’antica Roma) che per tirarsi fuori dalla miseria fa di mestiere il tombarolo e che, al contrario del principe dei poveri puro di spirito, è un uomo dall’indole violenta, sempre in chiave di commedia; chiude il terzetto, come detto, la figlia del peccato e dell’amore inter-etnico (termine che dovremmo imparare a usare sostituendo l’inappropriato inter-razziale dato che non di razze si tratta ma di diverse etnie all’interno della stessa razza umana). E Magni, con la precisione della sua messa in scena di una romanità di nobili ascendenze ma corrotta dai tempi, si fa notare da quella critica e da quel pubblico che decreteranno la sua definitiva affermazione col suo successivo film “Nell’anno del Signore” col quale inizierà la sua proficua collaborazione con Nino Manfredi. Nel resto del cast Franco Acampora come aiutante di Quirino, Clara Bindi come madre di Faustina ed Ernesto Colli come patrigno; una giovane Ottavia Piccolo è impegnata nel ruolo di una ragazza che sospira d’amore per il bel cantastorie morto di fame. Produce Gianni Buffardi, prevalentemente produttore di film con Totò e autore di un unico curioso film, “Number One”, che raccontò il malaffare attorno ai locali notturni romani con precisi riferimenti alla cronaca; anche lui morto prematuramente a 49 per una leptospirosi contratta durante un bagno nel Tevere. Musiche importanti fin dalle prime note di Armando Trovajoli.

Per tentare un’indagine sul disagio dei nostri primi bambini mulatti bisogna andare a un altro film del 1954, il melodramma “Il grande addio” di Renato Polselli.