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I magnifici sette – con un ritratto di Yul Brynner

All’inizio c’è “I sette samurai” del 1954 di Akira Kurosawa con Toshiro Mifune che fu un successo internazionale candidato ai BAFTA nel 1956 e agli Oscar nel 1957 ma già vincitore del Leone d’Argento al Festival di Venezia del 1954. Poi ci fu Yul Brynner.

Yul Brynner in una foto del 1943

Julij Borisovič Briner all’epoca era già la star Yul Brynner ma vediamone un ritrattino, a cominciare dalla data della sua nascita sulla quale ha inspiegabilmente mentito invecchiandosi, forse per darsi più autorevolezza e restiamo nell’ambito delle ipotesi perché le sue motivazioni non sono mai state chiarite; sulla sua tomba è riportato come anno di nascita il 1920 ma lui aveva dichiarato alla stampa di essere nato nel 1915 sull’isola russa di Sachalin col nome di Tadje Khan cercando di vantare una discendenza da Gengis Khan: nulla di strano in un ambiente, Hollywood, dove le biografie s’inventavano a tavolino, solo che lui non lasciò che altri lo facessero per lui. In realtà era nato a Vladivostok da padre russo ingegnere minerario di origine svizzera e da madre con ascendenze nomadi Buriati e Rom, tanto che lui fu sempre molto vicino a quei popoli fino a diventare presidente onorario dell’Unione Mondiale Rom. Quando Julij aveva sette anni la madre si separò dal marito fedifrago e se lo portò in Manciuria, Cina, all’epoca sotto il controllo giapponese dove, avviando un fiorente commercio internazionale, iscrisse lui e la sorella maggiore Vera alla sede locale della londinese YMCA, Young Men’s Christian Association, sigla che fu un grande successo dei Village People del 1978 che hanno ironizzato sullo stare in una scuola cattolica e che ancora oggi fa ballare chiunque, cattolici e non.

Julij e Vera studiarono anche musica e canto e impararono il cinese, ma temendo l’aggravarsi delle tensioni col Giappone la madre ritrasferì la famiglia, stavolta a Parigi, dove tutti impararono anche il francese, e dove il ragazzo esercitò vari mestieri, debuttando quattordicenne come chitarrista al cabaret “Hermitage” cantando canzoni russe e rom: la conoscenza della musica che aveva studiato con la sorella sarà fondamentale nella sua carriera.

Fu anche eccezionalmente trapezista nel “Cirque d’Hiver”, a riprova delle sue capacità ginniche, dove però in seguito a una caduta, ancora 17enne divenne dipendente da oppioidi per sedare il dolore costante alla spina dorsale. Ma non tutti i mali vengono per nuocere se si è nati sotto una buona stella: una sera mentre acquistava oppio da uno spacciatore conobbe un altro consumatore abituale, il poeta scrittore drammaturgo e artista visuale Jean Cocteau che lo introdusse nel bel mondo bohemien facendogli conoscere Pablo Picasso, Salvador Dalì, Marcel Marceau e il giovane bell’attore Jean Marais con cui Cocteau aveva una relazione, frequentazioni che lo incuriosirono al mondo dell’arte recitativa, e non si esclude che anche il giovanissimo aitante Julij abbia sperimentato all’epoca l’omoerotismo; di fatto lui e Cocteau restarono amici per la vita e nel 1960 parteciperà al film sperimentale e autobiografico dell’autore francese “Il testamento di Orfeo”. Intanto, per la sua dipendenza il giovanotto fu mandato in Svizzera dove guarì definitivamente dagli oppioidi, che però sostituì col vizio del fumo che lo condurrà alla morte per un cancro ai polmoni.

Il futuro divo hollywoodiano tornò a Parigi riprendendo a frequentare i bohemien fra i quali conobbe un amico americano di Cocteau, il fotografo George Platt Lynes che ritroverà a New York quando a vent’anni raggiunse, insieme alla madre, la sorella che si era già trasferita negli USA per inseguire la carriera di cantante lirica: nel 1950 Vera fu nel cast dell’opera “Il Console” di Gian Carlo Menotti e fu anche la protagonista della “Carmen” di Georges Bizet in una produzione tv: la loro madre che da giovane aveva studiato come attrice e cantante si realizzò attraverso i figli.

Erano gli anni in cui gli Stati Uniti furono coinvolti dal Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, e i timori di quel conflitto avevano fatto arrivare in America, insieme a tantissimi altri artisti europei, anche un altro russo, l’attore regista Michail Čechov, nipote del drammaturgo Anton Čechov, nella cui compagnia Brynner iniziò a studiare recitazione mentre lavorava come speaker in francese per le trasmissioni dell’esercito USA alla Resistenza europea. Alla fine della guerra, mentre il suo maestro veniva candidato all’Oscar come non protagonista per “Io ti salverò” di Alfred Hitchcock, Julij, che ancora parlava uno scarso inglese con forte accento russo, in cerca di soldi facili poserà per la collezione privata di nudi maschili del fotografo Platt Lynes – all’epoca gli omosessuali danarosi andavano spesso in giro armati di macchine fotografiche… – foto che poi verranno pubblicate solo dopo la morte dell’attore e che ancora oggi sono oggetto di collezionismo. Cominciò a calcare le scene a Broadway finché nel 1949 debuttò nel poliziesco “Il porto di New York” noto da noi anche come “La belva di New York” dell’ungherese László Benedek. Nel 1951 arriva il momento di svolta: è protagonista del musical “The King and I” musicato da Richard Rodgers su libretto di Oscar Hammerstein II, dove per interpretare il Re del Siam si rasò a zero la testa, dato che peraltro stava già perdendo i capelli, e per la sua interpretazione vinse il Tony Award.

Arrivarono anche i produttori cinematografici sempre alla ricerca di successi e macchine per far soldi: Charles Brackett Darryl F. Zanuck acquisirono i diritti della pièce per trarne un film, affidando la regia a Walter Lang e confermando nel ruolo del protagonista maschile l’ancora sconosciuto ma già premiato Brynner, anche insostituibile per la sua specificità. “Il re ed io” fu un altro grande successo e lanciò l’attore fra le stelle del cinema procurandogli l’Oscar nel 1957 per la migliore interpretazione maschile, battendo calibri come James Dean e Rock Hudson per “Il gigante” diretto da George Stevens, Kirk Douglas che era stato Vincent Van Gogh in “Brama di vivere” diretto da Vincent Minnelli, e Laurence Olivier anche regista di “Riccardo III” da William Shakespeare. Nel ricevere la statuetta dalle mani di Anna Magnani, che aveva vinto l’anno prima con “La Rosa Tatuata” di Daniel Mann, Brynner pronunciò una battuta che diverrà famosa: “Spero non sia un errore, perché non lo darò indietro per nulla al mondo”. Fu anche il primo divo a sfoggiare la testa pelata e anche per questa novità, oltre al suo indubbio fascino, divenne un sex symbol e molti altri uomini rinunciarono a toupet e parrucchini sfoggiando orgogliosi la pelata “alla Yul Brynner”: aveva lanciato non una moda ma uno stile di vita, e anche se per esigenze produttive in alcuni film sfoggiò di nuovo la chioma, personalmente mantenne lo stile per il resto della vita. Il film ispirò anche una serie televisiva del 1972 intitolata “Anna ed io” in cui Brynner riprese il suo ruolo.

Quel 1956 fu per l’ormai 36enne attore un anno magico perché interpretò altri due grandi successi: nel congeniale ruolo di un russo in “Anastasia” dell’ucraino Anatole Litvak accanto a una Ingrid Bergman in gran spolvero per il suo ritorno a Hollywood dopo la pausa italiana col marito Roberto Rossellini che ne aveva appannato l’immagine internazionale, film che le fece vincere l’Oscar lo stesso anno in cui lo vinse Brynner; ma soprattutto lui fu il crudele faraone Ramses nel kolossal “I dieci comandamenti” di Cecil B. De Mille starring Charlton Heston nel ruolo di Mosè, un ruolo e un film che lo confermarono come star internazionale.

E di film in film duetta anche con la nostra Gina Lollobrigida sostituendo in corsa Tyrone Power che era morto durante le riprese in “Salomone e la Regina di Saba” diretto da King Vidor che dopo questo film abbandonerà il cinema, salvo dirigere un documentario nel 1980; l’improvviso coinvolgimento in quel film fece posticipare all’attore il suo progetto di un film su Spartacus, e se ne avvantaggiò Kirk Douglas che a sua volta c’era rimasto malissimo perché William Wyler gli aveva preferito Charlton Heston per “Ben-Hur”, e accelerando i tempi Douglas interpretò il suo “Spartacus” con la veloce sceneggiatura di Dalton Trumbo e la regia di Stanley Kubrick: in quei giochi di potere fra star Yul Brynner, che era l’ultimo arrivato, restò col cerino più corto in mano, ma lui non era tipo da cerino corto.

I magnifici sette in una foto promozionale: Yul Brynner, Steve McQueen, Horst Buchholz, Charles Bronson, Robert Vaughn, Brad Dexter, e James Coburn.

Poco male. L’attore, che aveva già messo su una propria casa di produzioni, stava già lavorando a un altro progetto: “I magnifici sette” come remake di “I sette samurai”. L’attore aveva acquisito i diritti di una sceneggiatura con la quale aveva deciso di debuttare come regista avendo Anthony Quinn come protagonista; erano amici sin da quando Quinn aveva debuttato come regista in “I bucanieri” e ora progettavano uno scambio di ruoli e di cortesie: Brynner alla regia con Quinn protagonista: troppo bello per essere vero, perché il nostro decise di prendersi il ruolo del protagonista abbandonando la regia per la quale non si sentiva pronto – e non fu mai regista – affidandola a Martin Ritt dal quale era già stato diretto l’anno prima in “L’urlo e la furia”. Questo improvviso cambio di programma mandò su tutte le furie Anthony Quinn che citò in giudizio l’amico Brynner asserendo che loro due insieme avevano sviluppato il progetto ed elaborato molti dettagli del film, ma poiché non c’era nulla di scritto il querelante perse la causa: fine di un’amicizia. Nel frattempo “L’urlo e la furia” si era rivelato un fiasco al botteghino e questo raffreddò i rapporti fra il regista e l’attore-produttore che affidò la regia a John Sturges, il quale aveva infilato una serie di successi a cominciare dal western “Sfida all’O.K. Corral”. Anche la sceneggiatura fu oggetto di contese ma tralasciamo i dettagli tecnici per andare diretti a un’altra ben più sostanziosa contesa: quella con Steve McQueen.

Sturges lo voleva nel cast essendo rimasto entusiasta della sua performance in un ruolo secondario nel suo precedente film bellico “Sacro e profano” con Frank Sinatra e Gina Lollobrigida; l’attore era un nome emergente che da protagonista al cinema aveva solo interpretato l’horror fantascientifico di serie B “Blob, fluido mortale” perché al momento era sotto contratto come protagonista per la serie tv “Ricercato vivo o morto”, 1958-1961, prodotta da Dick Powell che aveva lasciato la carriera di attore cinematografico per passare alla regia e alla produzione televisiva dove era al momento impegnato con l’ultima sua prova d’attore “I racconti del west”, 1956-1961, e alla morte di Powell nel ’61 le serie vennero chiuse; ma intanto, poiché la lavorazione del western si sarebbe accavallata con le riprese televisive, Powell non volle liberare McQueen dall’impegno; ma lui, che era già noto per le sue intemperanze, essendo notoriamente anche un provetto pilota, su consiglio del suo agente inscenò un finto incidente automobilistico per il quale si fece rilasciare un finto referto medico secondo il quale avrebbe dovuto indossare un tutore cervicale: la lavorazione della serie fu messa in pausa e nel suo periodo “di recupero” McQueen fu libero di girare con Sturges e Brynner, tanto il film sarebbe stato girato in Messico lontano da occhi indiscreti: allora non c’erano gli smartphone e i social a sputtanarci.

Durante le riprese, però, si creò una notevole tensione tra lui e Yul Brynner che era di fatto l’unico vero protagonista, e a McQueen non andava giù che il suo personaggio avesse solo sette battute nella sceneggiatura originale e a nulla era valsa la rassicurazione del regista che gli aveva promesso di inserirlo il più possibile in ogni inquadratura anche se non aveva battute: e infatti nel film lo vediamo che gigioneggia di lato o appena dietro mentre il protagonista fa la sua scena; come i peggiori guitti del palcoscenico fece di tutto per disturbare il protagonista e attirare l’attenzione su di sé, come lanciare una moneta durante uno dei discorsi di Brynner o facendo tintinnare le cartucce del suo fucile; c’era poi che Brynner, essendo più basso di lui, costruiva un piccolo cumulo di terra per sembrare alto quanto lui, dandogli l’opportunità di scalciare via quel cumulo di terra quando gli passava accanto. Finché Brynner esasperato una volta non lo afferrò per le spalle e da qui in poi si riconosce lo stile dei due: Brynner disse alla stampa, che era venuta a conoscenza delle tensioni, che lui non aveva mai litigato con i colleghi ma semmai con le produzioni. Mentre McQueen non si trattenne e dichiarò: “Non andavamo d’accordo. Una volta mi è venuto contro, davanti a tante altre persone, e mi ha afferrato per le spalle. Era arrabbiato per qualcosa. Lui non cavalca bene e non sa niente di armi, quindi deve aver pensato che io rappresentassi per lui una minaccia. Io ero nel mio elemento, lui no. Quando lavori in una scena con Yul, dovresti stare assolutamente immobile e a tre metri di distanza… beh io non lavoro così.” Era evidente che non lavorasse così. La parola definitiva la appose Robert Vaughn nella sua autobiografia del 2008, allorquando era l’ultimo superstite di quei magnifici sette: “Steve era estremamente competitivo. Non gli bastava avere solo successo: doveva avere più successo di chiunque altro.”

Robert Vaughn festeggia col suo amico James Coburn il riconoscimento della stella sulla Hollywood Walk of Fame nel 1998.

Robert Vaughn fu scritturato per il ruolo del pistolero tormentato che indossa sempre i guanti come simbolo del distacco che vuole mettere fra sé e quello che fa; fin lì era stato un attore con molta televisione nel curriculum e che era stato appena candidato a Oscar e Golden Globe per il suo primo ruolo importante accanto a Paul Newman in “I segreti di Filadelfia” diretto da Vincent Sherman, e come l’attore dichiarerà l’aiuto del più importante collega era stato determinante: i due frequentavano la stessa palestra e Vaughn, che aveva appena ricevuto la proposta per un provino, gliene parlò sapendolo scritturato come protagonista; Newman si disse entusiasta, lo vedeva perfettamente nel ruolo, e si offrì di fargli da spalla al provino: cosa inaudita dato che i provini si facevano e si fanno con qualcuno dello staff che legge fuori campo, e ovviamente il sostegno del divo fu determinante. Sturges lo aveva scelto proprio per quella sua interpretazione e al colloquio gli disse: “Non abbiamo una sceneggiatura, solo il film di Kurosawa su cui lavorare. Ti dovrai fidare. Ma gireremo a Cuernavaca, ci sei mai stato? la adorerai: è la Palm Springs del Messico.” Ovviamente l’attore ci stava e il regista continuò: “Ottima scelta, giovanotto. E conosci altri bravi giovani attori? ho altri quattro posti da riempire.” Vaughn suggerì l’amico ed ex compagno di studi James Coburn che venne scritturato come l’esperto lanciatore di coltelli, ma essendo praticamente uno sconosciuto avrà il nome per ultimo e in piccolo sul cartellone. In ogni caso il tormentato ruolo di Robert Vaughn, dopo quello del protagonista è il più definito e interessante, e l’attore ha reso magnificamente la lotta interiore del personaggio in tensione fra la codardia e l’eroismo. Per Coburn, invece, che era un fan accanito di “I sette samurai” avendolo già visto per ben 15 volte, essere dentro il remake era per lui come realizzare un sogno e avrebbe accettato qualsiasi ruolo, e gli toccò quello che era stato rifiutato dal più anziano e già protagonista di altri western Sterling Hayden.

Charles Bronson e Brad Dexter

Anche per Charles Bronson il film fu una svolta: faccia da duro ma dall’atteggiamento mite aveva avuto numerosi ruoli secondari in decine film fra cinema e televisione compreso quel “Sacro e profano” da cui il regista avrebbe cooptato anche McQueen, e da “I magnifici sette” in poi fu considerato una star. Anche Brad Dexter aveva alle spalle decine di partecipazioni con ruoli secondari ma al contrario degli altri “magnifici” rimase un caratterista generico oggi dimenticato, qui alla sua apparizione più significativa.

A completare il cast dei “sette” venne chiamato dalla vecchia Europa il giovane tedesco emergente Horst Buchholz su cui i produttori hollywoodiani avevano appuntato gli occhi dopo averlo apprezzato come protagonista del film “Le confessioni del filibustiere Felix Krull” tratto da un romanzo di Thomas Mann e diretto da Kurt Hoffmann, vincitore nel 1958 del Golden Globe come miglior film straniero. Dopo il ruolo del protagonista Chris Adams di Brynner e quello del tormentato Lee di Vaughn il suo Chico è il personaggio più accattivante, anche perché a lui sono assegnate – fra i vari siparietti che raccontano i diversi personaggi – le scene romantiche del nascente amore fra il giovane pistolero e la chicana Petra di Rosenda Monteros. E se Rosenda restò perlopiù a recitare in Messico film e telenovelas, Horst si avviò a una carriera internazionale che lo vide spesso anche sui set italiani.

Ma non dimentichiamo il cattivissimo contro cui si battono tutt’e sette gli eroi malgrado loro: il non più giovanissimo – ha 45 anni – Eli Wallach che all’epoca aveva nel curriculum solo tre film in cui si era messo benissimo in luce, e che avrà una lunghissima carriera come comprimario spesso in ruoli da cattivo e caratterista di lusso, anche lui spesso in Italia a cominciare dagli spaghetti-western di Sergio Leone. Nel ruolo del vecchio messicano saggio e filosofo Brynner ha voluto il già vecchio conterraneo Vladimir Sokoloff che da giovane aveva studiato recitazione a Mosca proprio insieme a quel Kostantin Stanislavskij il cui metodo diverrà il nuovo vangelo degli attori di qua e di là dell’Atlantico; fu un eccellente caratterista che per la sua maschera vagamente esotica ha interpretato nella sua carriera più di una trentina di etnie diverse.

Quando Akira Kurosawa vide questo remake del suo “I sette samurai” si complimentò con John Sturges che rimase assai impressionato e commosso per i complimenti del maestro giapponese. Ma in chiusura non dimentichiamo la musica di Elmer Bernstein che s’impone sin dalle prime note all’inizio del film e che oggi è diventata un classico da riascoltare fra le migliori colonne sonore: nel 2005 l’American Film Institute l’ha inserita all’ottavo posto fra le 25 migliori colonne sonore, così come il film stesso è divenuto un classico da vedere e rivedere, che ebbe tre sequel (1966-69-72) una serie televisiva (1998-2000) e il remake in chiave fantascientifica “I magnifici sette nello spazio” diretto da Jimmy T. Murakami e dal non accreditato Roger Corman, in realtà remake non ufficiale in quanto il titolo originale era “Battle Beyond the Stars”, esplicitato nella distribuzione italiana; in entrambe le produzioni c’è il ritorno di Robert Vaughn con differenti personaggi. Del 2016 è il remake col nero Denzel Washington nel ruolo del protagonista per quanto fosse assai improbabile che nell’epoca narrata un nero avesse un ruolo così di rilievo.

Di quei magnifici sette il primo a lasciarci fu Steve McQueen a 50 anni nel 1980, a causa di un tumore da esposizione all’amianto, materiale che era impiegato negli ambienti da lui frequentati: studi cinematografici, navi, ambienti motoristici. Era scampato a morte violenta quando l’8 agosto del 1969, invitato dall’amico Jay Sebring sarebbe dovuto andare a casa della comune amica Sharon Tate la notte in cui furono uccisi dagli hippies psicopatici della cosiddetta Manson Family di Charles Manson che non partecipò all’agguato in quanto solo mandante. L’attore ne rimase così scosso che da quel momento in poi portò sempre con sé una pistola. Le sue ceneri sono state disperse nell’Oceano Pacifico.

Il 10 ottobre 1985 a 65 anni morì Yul Brynner per cancro ai polmoni e alcuni mesi prima volle registrare un breve video da rendere pubblico dopo la sua morte in cui esortava a non fumare: “Adesso che non ci sono più ti dico: non fumare. Qualunque cosa tu faccia, non fumare.” E’ sepolto in Francia e a Vladivostok la sua casa natale è stata trasformata in museo e gli è stata eretta una sua statua a grandezza naturale, che lo ritrae con i costumi del Re del Siam, nella classica posa più volte assunta nel film: gomiti larghi, pugni chiusi sui fianchi. Il suo stesso giorno morì anche Orson Welles con cui aveva recitato nel 1969 in “La battaglia della Neretva” diretto dal montenegrino Veljko Bulajić.

Nel 2002 se ne sono andati in tre: l’82enne Charles Bronson per una polmonite, benché negli ultimi anni la sua salute andasse peggiorando velocemente su più fronti: prima aveva subito un intervento per una protesi all’anca e alla fine gli erano stati diagnosticati l’Alzheimer e un carcinoma del polmone. È sepolto in un cimitero nel Vermont, vicino a casa sua. il 74enne James Coburn se n’è andato a causa di un arresto cardiaco, e le sue sue ceneri sono state interrate in un cimitero di Los Angeles. E Brad Dexter, morto a causa di un enfisema, all’età di 85 anni. Il 2003 è l’anno di Horst Buchholz che morì 69enne a causa di una polmonite contratta dopo un intervento chirurgico all’anca in un ospedale di Berlino. L’ultimo ad andarsene è stato l’84enne Robert Vaughn per leucemia nel 2016. Ma il bello del cinema è che saranno sempre vivi.

Gioventù bruciata – e per la prima volta sullo schermo Dennis Hopper

Appena due anni prima, nel 1953, Michelangelo Antonioni aveva composto il suo film a episodi “I vinti” ispirandosi a fatti di cronaca, un film rigorosamente specchio della realtà nell’intenzione dell’autore, ma poco apprezzato da pubblico e critica che solitamente amano essere solleticati con prodotti più accattivanti; là Antonioni parlava di “generazione bruciata” ed era un concetto che girava nell’aria se due anni dopo, appunto, i distributori italiani intitolarono “Gioventù bruciata” il film che nell’originale è “Rebel Without a Cause” il cui titolo rimanda al libro che lo psichiatra Robert Lidner aveva pubblicato nel ’44, “Ribelle senza causa: analisi di uno psicopatico criminale” in cui studiava lo psicopatico come qualcuno “incapace di compiere sforzi per il bene altrui”, non empatico diremmo oggi, riferendosi al caso reale di un ragazzo di nome Harold allora detenuto in Pennsylvania. La Warner Bros. aveva subito acquisito i diritti per svilupparne un film che nel corso degli anni e delle riscritture aveva alla fine una narrazione che più nulla conservava del libro se non il titolo, e il progetto finì momentaneamente in un cassetto. Ma l’argomento “giovani ribelli” era nell’aria e furono messi in cantiere vari progetti fra cui spiccarono in quella prima metà degli anni ’50 “Il selvaggio” con Marlon Brando diretto dall’ungherese László Benedek e “Il seme della violenza” con Glenn Ford diretto da Richard Brooks. Così Nicholas Ray, attento agli umori del botteghino, rispolverò il suo soggetto la cui sceneggiatura conclusiva la firmò Stewart Stern qui alla sua prima prova importante: era amico di James Dean e in qualche modo veicolò la sua scrittura attorno alla figura del giovane attore emergente, chiamando James-Jimmy il suo personaggio. Stern due anni dopo l’improvvisa morte di Dean scrisse il documentario “La storia di James Dean” diretto da un giovane Robert Altman già sceneggiatore per la tv ma non ancora regista cinematografico.

Primo giorno di lettura della sceneggiatura. In senso orario da sinistra in basso: di spalle dietro al paralume Nicholas Ray e Stewart Stern, poi James Dean con gli occhiali (era fortemente miope), accanto lui un uomo non identificato, poi l’attore Jim Backus e Natalie Wood. Saltando un uomo e una donna, con la camicia a quadri Sal Mineo.

Il film di Ray si distingue dagli altri perché per la prima volta esamina il contesto dei giovani ribelli non più come espressione delle classi disagiate ma anche all’interno dell’alta borghesia, un contesto in cui gli adulti erano colpevoli quanto e forse più dei ragazzi. Con la scrittura di Stern si definirono le influenze chiavi del film: Ray auspicava un tono classico e senza tempo per la sua storia, guardando a “Romeo e Giulietta”“la migliore commedia scritta su giovani delinquenti” aveva detto, mentre lo sceneggiatore dal canto suo considerava il film una rilettura di Peter Pan; di fatto entrambi hanno attinto alle proprie vite, e Stern in particolare prese ispirazione dal rapporto conflittuale con i suoi genitori: “Ray aveva terribili rimorsi di coscienza su sé stesso come padre, e io ero terribilmente furioso con me stesso come figlio” ha ricordato lo sceneggiatore. Il resto del cast: Edward Platt è il poliziotto assai comprensivo, Jim Backus, Ann Doran e la veterana Virginia Bissac sono i genitori e la nonna del protagonista; William Hopper e Rochelle Hudson sono i genitori della ragazza; Marietta Candy è la mamie, e Corey Allen è il capo dei “bravacci” che sfida il protagonista nella corsa mortale; nel gruppo debutta Dennis Hopper.

Mentre il film era in scrittura, nel 1947 venne convocato negli studios il 23enne Marlon Brando, già giovane ribelle emergente nelle produzioni teatrali, a cui furono date alcune pagine di una sceneggiatura incompleta per sostenere un provino col regista, al quale bastarono solo cinque minuti per decidere che il ruolo sarebbe andato a lui, facendolo debuttare sul grande schermo; senonché, non essendoci ancora una vera sceneggiatura completa da valutare, il giovanotto che aveva già le idee molto chiare preferì continuare a fare teatro e quell’anno trionfò in “Un tram che si chiama Desiderio” di Tennessee Williams, dramma che avrebbe poi recitato al cinema nel suo secondo film del 1951: aveva debuttato l’anno prima con “Il mio corpo ti appartiene” di Fred Zinneman. Per gli appassionati di Brando quel provino è inserito in un’edizione speciale del DVD del 2006 di “A Streetcar Named Desire”. Quando nel 1950 fu conclusa la sceneggiatura definitiva Marlon Brando era ormai irraggiungibile, oltre a essere fuori parte per ragioni anagrafiche dato che aveva 31 anni e il personaggio ne aveva 16, e produzione e regista appuntarono la loro attenzione sul 24enne James Dean già star con “La valle dell’Eden” di Elia Kazan.

Natalie Wood già attrice bambina

La vera 17enne Natalie Wood (all’anagrafe Natal’ja Nikolaevna Zacharenko, figlia di immigrati ucraini) era all’epoca un’ex attrice bambina che con questo film rilanciò la sua carriera come adulta, benché avesse seriamente rischiato di non ottenere la parte perché secondo il regista aveva l’aria da brava ragazza per niente ribelle e, come ella stessa raccontò nella sua autobiografia, solo quando finì in ospedale per un incidente d’auto dopo una serata con gli amici e Nicholas Ray andò a trovarla – e c’è molto di romanzato a mio avviso in questo racconto: il dottore l’aveva apostrofata “dannata delinquente giovanile” e lei urlò subito al regista: “Hai sentito come mi ha chiamato, Nick?! Mi ha chiamato un dannata delinquente giovanile! Ora me la dai la parte?!”

Il 16enne Sal Mineo, figlio di immigrati siciliani (il padre Salvatore senior era un costruttore di bare) aveva debuttato lo stesso anno in “La rapina del secolo” interpretando Tony Curtis da ragazzo; anche sua sorella Sarina e i fratelli Michael e Victor erano stati avviati al palcoscenico dalla madre che evidentemente covava sogni artistici, e il ragazzino si era fatto notare nelle messa in scena del 1951 di “La rosa tatuata” di Tennessee Williams, dramma che l’autore aveva scritto per la nostra Anna Magnani che però declinò l’offerta perché non riteneva il suoi inglese abbastanza buono da potersi esibire in teatro, e avrebbe recitato il personaggio nel film di quattro anni dopo diretto da Daniel Mann; Sal continuò in teatro come principino nel musical “Il Re ed Io”, libretto di Oscar Hammerstein II e musiche di Richard Rodgers, con Yul Brinner nel ruolo del protagonista che avrebbe ripreso nel film diretto da Walter Lang nel 1956.

Nella prima inquadratura vediamo che Plato, il personaggio di Sal Mineo, portava i calzini scompagnati: nel sinistro senza scarpa ha un calzino rosso…
…nell’inquadratura successiva il piede sinistro col calzino rosso ha la scarpa ed è il destro col calzino blu ad essere scalzo.

Il film, venduto come un torbido dramma generazionale, riscosse grande successo in patria e all’estero, ma in realtà è un gran pasticcio pieno di superficialità e retorica che sfiorano il ridicolo, nonché di madornali errori. Comincia presentando i tre giovani ribelli che si incontrano a un posto di polizia: James Dean, fermato per ubriachezza molesta, rivela un tormentato rapporto con la famiglia ultra borghese, ma poi a casa si attacca un paio di volte alla bottiglia del latte, espediente narrativo per far capire al pubblico che in fondo è un bravo ragazzo; Natalie Wood, fermata perché coinvolta in una rissa dei suoi amici definiti dal doppiaggio italiano “bravacci” con memoria leopardiana, perché i bulli e il bullismo sono di là da venire; anche la ragazza è in piena crisi generazionale: essendo divenuta adolescente non è più la cocca di papà del quale cerca ancora imbarazzanti baci e abbracci, e il pover’uomo fatica a staccarsela di dosso per non sembrare un maniaco; Sal Mineo è stato abbandonato da entrambi i genitori alle cure della mamie negra e poverino fa il ribelle sparando agli animaletti. Psicologia da strapazzo e caratteri sbozzati con l’accetta, e la critica non fu tutta benevola: il film, altrove lodatissimo, fu tacciato di superficialità e rozzezza espressiva, i personaggi e le situazioni quasi da cartone animato, mentre di James Dean si arrivò a dire che aveva copiato lo stile recitativo di Marlon Brando con una malignità che pescava nei retroscena della vita segreta dei due…

Mineo ha un ruolo fortemente ambiguo: il suo personaggio si lega a quello del protagonista, spinto a parole da una forte ammirazione prossima all’idolatria, ma nei fatti sembra spinto da una forte attrazione omoerotica e Nicholas Ray preme il pedale in questo senso e in molte inquadrature, come del resto in tutta la sceneggiatura, il ragazzino è sempre lì a fare da terzo incomodo fra James Dean e Natalie Wood, quasi un ménage à trois.

In un’intervista del 1972, quattro anni prima della sua tragica morte, l’attore – che aveva già dichiarato la sua bisessualità (come compromesso per non dichiararsi pienamente omo) in un’epoca ancora fortemente omofoba – spiega che quel suo personaggio “è stato, in un certo senso, il primo adolescente gay nei film. Lo guardi ora, sai che aveva una cotta per James Dean. Lo guardi ora, e tutti sanno della bisessualità di Jimmy, quindi è come se lui avesse avuto una cotta per Natalie e me. Ergo, io dovevo essere fatto fuori”. Fu tristemente profeta: aveva 37 anni e stava interpretando in teatro il ruolo di un ladro omosessuale in “P.S. Your Cat Is Dead!” spettacolo che da San Francisco si stava spostando a Los Angeles: fu accoltellato al cuore mentre rientrava a casa dalla prova generale; l’immediata supposizione fu quella di un reato omofobo ma venne arrestato un fattorino di pizze a domicilio colpevole di diversi rapine nella zona il quale dichiarò di non sapere chi fosse la vittima; ma Mineo non era stato derubato quindi di suppose ancora che il delitto fosse maturato nell’ambiente della droga di cui l’attore era consumatore abituale; in ogni caso il movente restò insoluto.

Il film fu censurato nel Regno Unito e addirittura bandito in Nuova Zelanda, e Spagna dove poi uscì nel 1964. Ricevette tre nomination agli Oscar del 1956: miglior soggetto a Nicholas Ray e migliori non protagonisti Sal Mineo e Natalie Wood che però si aggiudicò il Golden Globe, mentre quell’anno James Dean ebbe una candidatura postuma – la prima nella storia degli Oscar – nella sezione protagonisti per il precedente dello stesso anno “La valle dell’Eden”. Nomination ai britannici BAFTA per il miglior film e il protagonista. Con tutte le sue imperfezioni il film è stato inserito fra i 100 migliori americani ed è diventato un cult grazie anche alla sua fama di film maledetto per la tragica fine dei suoi tre protagonisti: di Mineo ho detto; e come si sa Dean era morto in un incidente sulla sua Porsche 550 Spyder “Little Bastard” mentre finiva di girare il suo ultimo film “Il gigante” che uscì postumo, e anche quando uscì “Gioventù bruciata” nell’ottobre del ’55, Jimmy era già morto da un mese.

Natalie Wood morì 43enne in un incidente nautico che tutt’oggi rimane misterioso: all’epoca l’autopsia rivelò che l’attrice era morta annegata cadendo dal gommone del suo yacht, e nel suo sangue furono ritrovate importanti tracce di alcol e psicofarmaci; la sera prima aveva litigato col marito Robert Wagner perché lei flirtava col collega Christopher Walken, ospite sull’imbarcazione, col quale lei stava girando il fantascientifico “Brainstorm” diretto da Douglas Trumbull e uscito postumo; diverse circostanze e dettagli fecero pensare che si trattasse di uxoricidio passionale, e le indagini sono state riaperte un paio di volte in anni più recenti però senza mai giungere a ulteriori risultati specifici. Nel 2004 Peter Bogdanovich diresse la miniserie TV “Il mistero di Natalie Wood”.

Appena finite le riprese del film Dean, Mineo e il debuttante Dennis Hopper saranno di nuovo scritturati per “Il gigante”. Hopper, benché in ruoli secondari si fece notare come ribelle e come tale continuò per qualche anno, passando per la factory di Andy Warhol e partecipando a un suo filmetto sperimentale, prima di posare per una delle sue opere photo-pop. Hopper aveva davvero un animo da ribelle, da ribelle secondo la borghesissima morale dell’epoca, e per il breve periodo hippie che percorse gli anni ’60 ne fu esponente, prima di debuttare in regia con “Easy Rider” nel 1969 in cui esprime proprio quella cultura, controcorrente e assolutamente pacifista.

E ora le chiacchiere e i pettegolezzi. Nel 2016 è stato pubblicato il libro, scandalistico sin dallo stile della copertina, “James Dean: Tomorrow Never Come”, scritto da Darwin Porter e Danforth Prince, entrambi abitualmente scrittori di libri e guide per viaggiatori che qui pare abbiano tentato il salto “Hot, Unauthorized, and Unapologetic!” nel mondo delle biografie più o meno bollenti, non autorizzate e men che meno apologetiche. Nel libro parla a ruota libera un vecchio amico di Dean, Stanley Haggart, altro autore di libri di viaggi e vacanze, che ha riferito che Jimmy Dean aveva incontrato per la prima volta il suo idolo Marlon Brando allorché quello era andato a New York perché curioso di sentirlo durante un incontro col pubblico e la stampa. I due si incrociarono per pochi istanti, sufficienti perché Jimmy dichiarasse a Marlon la sua grande ammirazione e anche il suo amore, e gratificato da tanta attenzione Marlon rispose baciandolo sulla bocca: fu l’inizio di una relazione bollente dai risvolti sadomaso col più anziano e macho che si divertiva a manipolare e umiliare il più giovane e fragile, usandolo come oggetto sessuale, e pare anche che gli spegnesse addosso le cicche di sigarette, e più Jimmy gli mostrava di aver perso completamente la testa, più Marlon lo umiliava in un cortocircuito di omofobia all’interno di un rapporto omosessuale. “Avevo l’impressione che Jimmy avesse una relazione da gatto e topo con Brando, Brando era il gatto, ovviamente. Sembrava giocare con Jimmy per divertimento, lo usava sadicamente e Jimmy lo seguiva come un cane, con la lingua fuori” ha rivelato Haggart che ha aggiunto che Brando costringeva Dean a fare da spettatore passivo mentre lui se la spassava con altri, oppure lo lasciava “come un cucciolo di cane” ad aspettare fuori dalla porta che lui si decidesse a farlo entrare. Marlon amava solo sé stesso: “Mi comandava sempre mentre facevamo l’amore” confessava Jimmy agli amici. Nel libro parla anche il compositore Alec Wilder che fu amico di entrambi gli attori: “Erano sicuramente una coppia. Ma si potrebbe dire che la ‘fedeltà sessuale’ non facesse parte del loro vocabolario”. In età matura Brando ha dichiarato: “Come un gran numero di uomini, ho avuto esperienze gay e non me ne vergogno. Non ho mai prestato molta attenzione a ciò che la gente pensa di me”.

Brando mostra il dito medio ai fotografi che lo immortalano accanto a Dean.

La stella di James Dean brillò con tre soli film in un solo anno e la sua morte tragica e improvvisa contribuì a creare il suo mito fra i giovani, e anche fra i meno giovani, che all’epoca non volevano sentir parlare di omosessualità. Jonathan Gilmore, ex attore bambino diventato giornalista scandalistico, fu il primo a parlare pubblicamente dell’omosessualità di Jimmy nel suo libro “The Real James Dean” ma nessuno gli credette e anzi fu etichettato come uno sporco profanatore di tombe. La giovane sfortunata star ebbe un solo amore femminile: l’italiana Anna Maria Pierangeli, adottata a Hollywood come Pier Angeli, la quale aveva avuto un affaire sentimentale col collega Kirk Douglas incontrato sul set dell’episodio “Equilibrio” nel film a episodi “Storia di tre amori”.

I due, disadattati ognuno a suo modo, si incontrarono nell’estate del 1954 mentre lei stava girando “Il calice d’argento” nel set della Warner accanto a quello dove lui girava “La valle dell’Eden”. Elia Kazan, regista di lui, dichiarò in un’autobiografia di averli sentiti fare l’amore nel camerino di lui. Lei, emigrata a Hollywood, non si era ancora del tutto integrata; lui era di suo fragile e disadattato, in cerca di un amore assoluto che sapesse accoglierlo con tutte le sue imperfezioni: “Sono un essere malvagio, altrimenti mia madre non sarebbe morta (era morta di cancro all’utero quando lui aveva 9 anni e il padre lo aveva mandato a vivere presso parenti) e mio padre non m’avrebbe abbandonato” aveva confessato a un sacerdote che poi, tanto per cambiare, si era approfittato sessualmente di lui. Jimmy e Pier si intesero subito, e subito lui avrebbe voluto sposarla. Ma la madre di lei, cattolicissima, si oppose perché lui era di famiglia quacchera, oltre a tutte le altre chiacchiere di corridoio; la rigidissima signora, che metteva bocca su tutto nella vita della figlia, avrebbe voluto invece accasarla col macho Marlon Brando, ignorando le intime digressioni del divo. Come fu, come non fu, alcuni mesi dopo lei sposò il cantant’attore italo-americano Vic Damone, e la rottura improvvisa che seguì all’improvviso matrimonio, contribuirono ad acuire il senso di auto distruzione dell’attore, che finì come finì: fra i documenti personali trovati nel cruscotto dell’auto c’era un foglio con la formula matrimoniale e sopra, scritto a penna, il nome di Anna Maria Pierangeli. Alla morte di lui, lei cadde in una profonda depressione tanto che fu ricoverata in una clinica in Italia e per lei seguì una vita sentimentale fatta di fallimenti, così come la carriera andò via via in discesa. Morì suicida a 39 anni per overdose da psicofarmaci, quindici anni dopo la morte di lui. Subito dopo la sua morte venne ritrovata una sua lettera destinata a James Dean che si concludeva: “A te, mio unico, grande amore”.

Oggi diventa illuminante ciò che Jimmy aveva detto di sé: “Essere un attore è la cosa più solitaria del mondo. Sei completamente da solo con la tua concentrazione e con la tua immaginazione, e quello è tutto ciò che hai… Credo ci sia una sola forma di grandezza per l’uomo. Se un uomo può colmare il vuoto tra la vita e la morte. Voglio dire, se riesce a vivere anche dopo che è morto, allora forse quello era un grand’uomo. Per me l’unico successo, l’unica grandezza, è l’immortalità”. 

La Porsche 550 Spyder sulla quale Dean perse la vita fu prodotta fra il 1953 e il 1957, e fu proprio lui a soprannominarla affettuosamente “Little Bastard” per le sue performance. Inizialmente fu impiegata dalla Porsche nelle corse professionali come Le Mans e poi con alcune modifiche fu proposta agli acquirenti privati, quei ragazzacci come James Dean o Steve McQueen in cerca del brivido delle corse più o meno legali su strada. La Warner Bros. aveva espressamente vietato all’attore sotto contratto, che amava anche scorrazzare in moto, di fare corse: aveva appena finito di girare “Gioventù bruciata” era già impegnato sul set di “Il gigante” – ma Dean disattese il divieto. George Barris, il suo meccanico, si incaricò di recuperare la vettura gravemente danneggiata e mentre veniva caricata su un rimorchio un sostegno si spezzò e finì per fratturare l’anca e una gamba a un meccanico: comincia lì la sinistra ma affascinante fama di auto maledetta intorno alla quale sorsero chiacchiere e leggende, ma alcuni fatti sono reali, riportati dalla stampa con tanto di nomi e cognomi. Barris aveva tenuto in garage telaio e carrozzeria rivendendo alcuni pezzi. Il motore venne acquistato da un altro di quei piloti dilettanti in cerca di fama ed emozioni, e ne ebbe a sufficienza quando durante una gara perse il controllo dell’auto e finì per travolgere e uccidere un commissario tecnico e ferire un medico. Un altro pilota dilettante montò un semiasse della Little Bastard e finì coinvolto in un gravissimo incidente; un altro ancora, che acquistò gli pneumatici rischiò di perdere la vita. Pare che addirittura un ragazzino avesse tentato di rubare un pezzo dell’auto dal garage di Barris ma col telaio si tagliò un braccio in modo così da grave da dover essere amputato, storia non documentata dai giornali quest’ultima, ma le vere storie raccapriccianti continuarono: la “bastardina” fu utilizzata per una campagna itinerante di sensibilizzazione contro la velocità: pagando un biglietto si poteva salire sull’auto accartocciata, dove un cartello con la scritta “questo incidente poteva essere evitato” fungeva da ulteriore scoraggiamento; ma giunta a Sacramento, il telaio dell’auto cedette e fracassò l’anca di un visitatore. Poi, durante la trasferta verso la tappa successiva, il camion che la trasportava venne tamponato, i portelloni si aprirono e la Porsche scivolò fuori uccidendo un uomo a bordo di un’altra auto. Ma non finisce qui: giunta a New Orleans, in seguito alla rottura della pedana di sostegno l’auto si spaccò in undici pezzi: ce n’era abbastanza e terrorizzati gli addetti ai lavori decisero di rispedire i rottami a Los Angeles tramite un mezzo più sicuro: il treno. E la macabra storia si conclude con un mistero: l’auto scomparve nel nulla durante il viaggio e non fu mai più ritrovata. Vennero anche ingaggiati degli investigatori privati e addirittura fu messa una taglia di un milione di dollari che molti cercarono di incassare con delle imitazioni, ma ancora oggi dove sia finita la Little Bastard rimane un mistero. Un mito macabro all’interno di un mito romantico.

I vinti – a proposito di mostri

1952. Terzo film di Michelangelo Antonioni dopo “Cronaca di un amore” e “La signora senza camelie”. L’autore, già quarantenne, aveva cominciato ad interessarsi al teatro già da universitario, finché poco meno che trentenne si trasferì a Roma attratto dal sogno della celluloide e cominciò a scrivere per la rivista “Cinema” mentre frequentava pure il Centro Sperimentale di Cinematografia e collaborando alla sceneggiatura del film bellico propagandistico del 1942 di Roberto Rossellini “Un pilota ritorna”. Dopodiché andò in Francia a offrirsi come assistente a Marcel Carné nel film favola “L’amore e il diavolo” sempre del ’42, e l’anno dopo rientrò in Italia a causa della guerra che vedeva le due nazioni su fronti opposti. Lavorò a dei cortometraggi e con Luchino Visconti ad altri progetti che non videro mai la luce, e a guerra terminata partecipò, insieme a Carlo Lizzani e Cesare Zavattini alla sceneggiatura del post-bellico “Caccia tragica”, opera prima di Giuseppe De Santis, la cui opera seconda sarà il capolavoro “Riso amaro”. Antonioni, che non è più un ragazzino, freme, e forte della sua esperienza tecnica dietro la macchina da presa, nonché portatore di messaggi molto personali, debuttò con la storia noir di una coppia in “Cronaca di un amore” in cui lucidamente, e a suo modo, raccontò dei mostri. Con “La signora senza camelie” raccontò il mondo del cinema graffiando via la patina luccicante con la quale il mezzo si era fin lì raccontato, ambiente di mostri esso stesso, e al contempo l’autore introduce uno dei temi che caratterizzeranno la sua cinematografia: la crisi dei sentimenti, lo squallore oltre il sentimentalismo. Qui scrive soggetto e sceneggiatura insieme a Giorgio Bassani, Diego Fabbri, Suso Cecchi D’Amico e Turi Vasile.

Segue questo strano film moraleggiante fatto di tre episodi che nelle filmografie ufficiali di Antonioni viene spesso dimenticato: eppure non è un film secondario o brutto, tutt’altro. La sua debolezza sta forse nella lunga spiegazione in apertura del film, voce fuori campo di Mario Pisu su immagini di repertorio e titoli di giornali che spiegano la poetica del film che vuole raccontare il dramma sociale della violenza gratuita perpetrata da bravi ragazzi di buone famiglie: l’orrore dei mostri che una decina di anni dopo, prendendosi meno sul serio e attraverso la lente deformante del paradosso e del grottesco, Dino Risi racconterà nel suo capolavoro a episodi sfruttando le maschere di Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. Ma non tutti sono portati alla commedia e la grandezza di Antonioni sta tutta nella sua poetica, oltre che nel suo stile lucido e tagliente. Ha viaggiato e ha lavorato in Francia ed è subito evidente che le sue aspirazioni guardano già fuori dai confini nazionali e, benché potendo raccontare storie di crimini tutti italiani che certo non mancavano in cronaca, sceglie di raccontare i tre episodi così come li ha letti sulla stampa internazionale e dedica un episodio alla Francia, uno all’Italia e l’ultimo all’Inghilterra, girati in loco e con troupe tecniche e artistiche locali. E ricordiamoci che in quel 1952 la guerra è finita da appena sette anni.

Francia, Parigi. I bravi ragazzi borghesi covano braci ardenti: la bella Simone cova disprezzo per i genitori e sogna una vita da favola; Pierre è un mitomane megalomane che si racconta come un parvenu, senza vergogna quando favoleggia di essere ricco oltre che desiderato dalle donne, le più anziane delle quali pagherebbero per averlo; i fratelli André e Georges che si fingono studenti modello ma architettano di uccidere l’amico ricco per fare anche loro una vita da favola possibilmente all’estero. Nel gruppo di giovani attori l’unico che ha avuto una brillante carriera è stato Jean-Pierre Mocky che cominciò come attore e poi facendosi assiduo aiuto di Antonioni imparò il mestiere e proseguì come regista, talmente prolifico da riuscire a girare anche tre film in un anno – qui nel ruolo di Pierre, la vittima. Non c’è un ruolo per il 45enne Alain Cuny, che aveva già lavorato con Antonioni in “La signora senza camelie”, e qui l’attore si accontenta di affiancare il maestro italiano come aiuto regista, anche se non farà mai il regista. Alla sceneggiatura si aggiunge la firma del francese Roger Nimier. L’episodio ebbe seri problemi di censura in patria tanto che non fu distribuito fino al 1963.

Questi i fatti: nel settembre del 1952, un uomo che resterà identificato solo come Monsieur I. intentò causa per chiedere che il governo francese sequestrasse il film che all’epoca era ancora in produzione. Il titolo francese del film era “Sans Amour” ed era composto da tre parti, tutte basate su storie vere, una delle quali era un famigerato affair del 1948 in cui un ragazzo di sedici anni aveva sparato a un compagno di classe, apparentemente a causa di una ragazza. Monsieur I. era il padre di quella ragazza, citata come Nicole I. che era stata condannata per complicità nel crimine, ma in quanto minorenne il suo nome restò secretato. Monsieur I. accusava il regista Michelangelo Antonioni e il suo assistente alla regia Alain Cuny di aver girato una storia in cui la ragazza sarebbe stata identificabile. Il governo francese prese le sue severe misure contro l’episodio: In primo luogo l’esportazione del negativo in Italia, dove Antonioni risiedeva, fu vietata; ma il divieto non divenne esecutivo e allora il governo pensò bene di vietare l’episodio in Francia, perché – come scrisse il critico Jean de Baroncelli su Le Monde dieci anni dopo, nel 1963, quando l’episodio fu distribuito sul territorio francese: – “Il Ministero della Giustizia si oppone alla realizzazione di qualsiasi sceneggiatura che evochi una vicenda giudiziaria che coinvolga persone ancora in vita”.

Italia, Roma. Protagonista è il 22enne Franco Interlenghi che aveva debuttato 15enne in “Sciuscià” di Vittorio De Sica, film premiato con l’Oscar. È il bravo ragazzo di buonissima famiglia che non accontentandosi del lusso in cui vive, c’è la servitù che lo chiama “il signorino”, invece di andare all’università si dà al contrabbando di sigarette: perché la gioventù gli brucia dentro e vuole tutto e subito. Ma il trasbordo delle sigarette allo scalo di San Paolo, allora periferia della città, viene interrotto dalla polizia e seguono fuggi fuggi e sparatorie, in una delle quali il giovane mostro uccide un uomo, ma poi nella fuga fa una brutta caduta in cui batte la testa. Rinviene, è sonnolento, raggiunge la sua ragazza e le confessa il delitto in un monologo un po’ troppo retorico, e a rendere ancora meno plausibile il dialogo che segue c’è che lei alla confessione del delitto non batte ciglio: vabbè che è ciecamente innamorata, ma un minimo di sana reazione sarebbe stato logico. È l’episodio meno riuscito e forse anche per questo non ebbe alcun problema con la censura. La ragazza è Anna Maria Ferrero che aveva debuttato nel 1950 nell’opera prima di Claudio Gora “Il cielo è rosso” e da allora è stata attivissima fino a tutti gli anni Sessanta, quando si ritirò per fare la moglie a tempo pieno del francese Jean Sorel, salvo poi pentirsene quando era troppo tardi. Nei ruoli dei genitori la signora del teatro Evi Maltagliati e l’ex baritono Eduardo Cianelli; il caratterista cine-televisivo Mario Feliciani è il commissario di polizia; Francesco Rosi è l’aiuto regista che debutterà come autore sei anni dopo con “La sfida”. Ah dimenticavo: il protagonista muore nel suo letto per le conseguenze del trauma cranico.

Inghilterra, Londra. Il mostro è uno psicopatico egomaniaco megalomane e anche lui vuole fama e ricchezza senza onesto sudore della fronte; è un poeta frustrato e frustrante e poiché il quotidiano scandalistico Daily Witness paga chiunque porti una storia da prima pagina – questa è l’altra mostruosità creatrice di mostri – va a vendere la sua notizia: ha ritrovato il cadavere di una donna e pretende di scrivere lui stesso l’articolo con tanto di sua foto in quanto anche autore del pezzo. Ma la cronaca trita e passa oltre, così dopo qualche giorno, di nuovo in cerca di soldi facili e di fama, confessa l’omicidio, credendo di aver commesso un crimine perfetto per il quale non potrà mai essere condannato. Ovviamente si è sopravvalutato e viene condannato a morte.

L’episodio è riuscitissimo, tanto che incorre nelle ire della censura italiana e tagliato fino a renderlo incomprensibile. Verrà recuperato integralmente e inserito in un altro film a episodi “Il fiore e la violenza” del 1962, che mette insieme, oltre all’episodio di Antonioni girato dieci anni prima, uno girato da Jean Renoir addirittura nel 1937, e uno completamente nuovo di François Reichenbach, poliedrico autore francese che fra le altre cose scrisse delle canzoni per Édith Piaf. Il centratissimo protagonista è interpretato da Peter Reynolds qui certamente nel suo ruolo più importante dato che il resto della sua carriera fu tutta una carrellata di caratterizzazioni in film di serie B; il giornalista lo interpreta il caratterista Patrick Barr. L’anziana patetica vittima è interpretata dall’ex attrice del muto Fay Compton; mentre la ventenne Eileen Moore, che interpreta la passione non corrisposta del protagonista, avrà una carriera di genere.

Il film, che fu presentato senza alcun esito al Festival di Venezia, benché considerato minore nella produzione dell’autore, e anche imperfetto, è certamente molto interessante e sicuramente da recuperare. Ciò che colpisce è che dalla sua analisi in poi, quel tipo di mostri urbani, di generazione bruciata come li definisce nel discorso di apertura, non hanno più smesso di esistere e quei giovani senza valori, o il cui unico valore è la soddisfazione personale a tutti i costi anche attraverso il crimine, sono ancora oggi in cronaca. Antonioni li racconta come figli della guerra, ragazzi nati durante il conflitto, che nella ritrovata pace non hanno più i valori fondanti delle generazioni precedenti e aspirano a un benessere, informe e indistinto, che con il boom economico avverrà solo dieci anni più tardi. Solo due anni dopo la distribuzione italiana re-intitolerà “Rebel Without a Cause” di Nicholas Ray come “Gioventù bruciata”: fu un caso? Sta di fatto che quel film divenne il manifesto di una generazione, di tanti giovani che si videro rappresentati e che si immedesimarono nel protagonista che, al contrario dei giovani frammentati nei tre episodi di Antonioni, è anche accattivante, affascinante. Antonioni avvertiva che avrebbe raccontato la realtà senza abbellirla ma il suo film è stato praticamente dimenticato mentre l’antieroe di James Dean ancora vive: segno che la realtà, al cinema, non può mai essere reale.

Un posto al sole, per un “ribelle” introspettivo

Il film è uscito nel 1951 ma è stato girato nel ’49, quando la Taylor aveva ancora solo 17 anni, e pochi oggi ricordano che è stata un’attrice bambina per la Universal – due film col cane Lassie e “Gran Premio”, fra gli altri – in stretta competizione con la piccola diva della 20th Century Fox, Shirley Temple, sulla quale ha avuto la meglio nel costruirsi una carriera da adulta. Restava però intrappolata in commedie sentimentali per famiglie – “Piccole Donne”, “Il padre della sposa” con Spencer Tracy – e scalciava per ruoli più impegnativi. In quel fatidico 1949 interpretò anche il suo primo ruolo drammatico, assai lodato dalla critica, come giovane sposa di una spia nel flop “Alto tradimento” che però le aprì la strada verso questo “Un posto al sole” dove conobbe Montgomery Clift divenendone amica per la vita. Qui è una giovane ereditiera dalla bellezza davvero mozzafiato che si innamora del giovane spiantato di bell’aspetto e belle speranze.

L’altra star femminile è Shelley Winters, attrice già affermata e con un curriculum già impressionante che sceglie di interpretare questo ruolo di donna dalla bellezza dimessa e rassicurante, una semplice operaia alla catena di montaggio, per soddisfare la sua esigenza di personaggi con più profondità; questa interpretazione le vale una candidatura all’Oscar e la sua carriera continuerà ricca di ruoli principali sapientemente alternati ad altri da coprotagonista e antagonista.

Ma le due donne, nel film, fanno da ala al protagonista assoluto che è la star in ascesa Montgomery Clift che a 15 anni se ne va dalla provincia a New York per studiare teatro e divenire nei dieci anni successivi uno dei protagonisti di Broadway, dove diventerà amico del drammaturgo omosessuale Tennessee Williams, e proprio la sua omosessualità, nota nell’ambiente ma non al grande pubblico, fu il suo personale dramma al quale si devono però il suo tormento e la sua profondità interpretativa che lo imposero all’attenzione generale; ma era anche l’epoca dei “giovani leoni ribelli”, definizione che lo accomunava a Marlon Brando e James Dean. In particolare col primo fu legato, sin dai tempi dell’Actor’s Studio, da un’altalena di sentimenti che vanno dall’ammirazione all’invidia, in sana competizione; ma mentre Clift era il ribelle tormentato introverso e passivo, Marlon era il ribelle estroverso ed esplosivo. Entrambi oggetto erotico dell’immaginario femminile. James Dean, di poco più giovane dei due, ebbe a dire della sua carriera: “Come potrei non avere successo io, che ho in una mano il vaffanculo di Brando e nell’altra il midispiace di Clift?”

La ribellione di Montgomery Clift si spingeva al punto da mettere in discussione sceneggiature e dialoghi, sui quali interveniva, o improvvisava sul set, per renderli più veri e meno letterari, meno costruiti a tavolino. Quando girò questo film ne aveva solo quattro all’attivo e già una candidatura all’Oscar, e con quest’altra candidatura si consacrò a Hollywood, verso la quale rimase però diffidente, continuando a vivere a New York.

La storia del film viene da lontano, da un fatto di cronaca del 1906: l’omicidio di una giovane donna incinta da parte del suo fidanzato che sognava per sé un futuro migliore. Una vicenda che impressionò l’opinione pubblica americana, un’opinione pubblica – non sono io il primo a dirlo – che ha la morale bloccata allo stato infantile, che si scandalizza con le storie di sesso ma poi ama giocare con le pistole. Da noi italiani, resi cinici dal nostro feroce Rinascimento con le sue storie di incesti, omicidi, avvelenamenti, trabocchetti e tradimenti, una storia così sarebbe passata quasi inosservata. Non nella sensibile America, e nel 1925 la storia ispira il romanzo “Una tragedia americana” di Theodore Dreiser, che a sua volta ispira l’opera teatrale omonima di Patrick Kearney, e nel 1931 Joseph Von Sternberg ne fa un film. Nel 1962 diventerà anche uno sceneggiato Rai con la regia di Anton Giulio Majano e interpretato da Warner Bentivegna, Virna Lisi e Giuliana Lojodice.

Accantonando il termine “tragedia” che per noi Mediterranei ha un significato più preciso e profondo, il film è interessante per il suo punto di vista: ci invita all’attenzione, e subito a parteggiare, per questo bravo ragazzo di bell’aspetto, gran lavoratore, che legittimamente aspira a un futuro migliore, definitivamente fuori dalle privazioni dell’infanzia. Non ci stupisce che rimanga folgorato dalla bellezza di un’irraggiungibile ereditiera, né che gli ormoni in subbuglio lo facciano cadere fra le braccia accoglienti della bella operaia, contravvenendo al codice di comportamento aziendale che vieta relazioni fra colleghi. Non ci stupisce neanche che la bella ereditiera si accorga di lui e, qui entra in gioco la pregnante tormentata interpretazione di Monty Clift, siamo con lui e patiamo il suo stesso dilemma quando si trova a dover scegliere fra le due donne: chi di noi, come lui, rinuncerebbe a una brillante carriera al fianco di una ricca bellissima ragazza, a costo di dispiacere la generosa pacata ragazza che ci aspetta a casa? Cominciamo a sentire il vero disagio quando il nostro protagonista comincia a pensare all’omicidio della brava ragazza che gli ha anche rivelato di essere incinta – ma ormai per noi spettatori è troppo tardi: sceneggiatura, regia e interpretazione ci hanno attirati in quel cerchio concentrico di scelte morali da cui anche noi, come lui sullo schermo, non sappiamo come uscirne. Non a caso sceneggiatura e regia si aggiudicano l’Oscar, insieme a fotografia – un tagliente bianco e nero – montaggio, costumi e colonna sonora.

Il protagonista è perduto, e noi con lui siamo o delusi o colpevolmente ancora complici. E l’antipatia che ci suscita il freddo procuratore legale interpretato dal “Perry Mason” tv Raymond Burr (altro omosessuale nascosto) non ci aiuta nella nostra scelta: se schierarci con il povero protagonista vittima delle circostanze, o prendere le distanze dal freddo calcolatore assassino. La forza del film è tutta qui, nel fare del dramma – altrimenti quasi banale del personaggio – un dramma esistenziale che richiede il nostro coinvolgimento morale. Non è poco. Del regista George Stevens ho scritto anche sul suo “La più grande storia mai raccontata”.

Montgomery Clift in seguito rifiutò film come “Moby Dick” che andò a Gregory Peck, “La gatta sul tetto che scotta” dove avrebbe recitato con la sua amica Liz e che andò a Paul Newman: la storia era un velato melodramma su una velata omosessualità, e pare che non volle esporsi; rifiutò anche “Viale del tramonto” e “Fronte del porto” che fruttò all’amico-nemico Marlon Brando la candidatura all’Oscar, e “La Valle dell’Eden” che segnò il debutto di James Dean. Quest’ultimo, altro gay non dichiarato, dei tre “ribelli” ebbe la vita più breve, tre film in tre anni e poi l’incidente mortale. Su di lui viene ritagliata la definizione di “bello e dannato”.

Monty sopravvisse al suo incidente avvenuto nel 1956 durante la lavorazione di “L’albero della vita” di nuovo accanto a Liz – mai lei preferiva il nome per esteso – Elizabeth Taylor; riportò la frattura della mandibola e altre gravi ferite al volto che segnarono la sua espressività e, a causa della depressione e della dipendenza da farmaci e alcol, sprofondò in un vortice di autodistruzione che il suo amico Robert Lewis, fondatore dell’Actor’s Studio, definì “il più lungo suicidio della storia del cinema”. Pian piano la sua credibilità professionale venne meno e la sua amica Liz si impose per farlo assumere nel cast di “Improvvisamente l’estate scorsa” ancora un dramma di Tennesse Williams che di nuovo aveva al centro del racconto un’altra storia di omosessualità che però non riguardava il suo personaggio; entrambi i film, “improvvisamente” e “la gatta”, nella costrizione delle regole per la morale del cinema dettate dal Codice Hays, vennero pesantemente purgati da riferimenti espliciti all’omosessualità.

Col senno di poi va considerato il clima oppressivo e colpevolizzante dell’epoca: omosessuali come lo stand-up comedian Lenny Bruce – poi impersonato da Dustin Hoffman in “Lenny” del 1974 di Bob Fosse – erano perseguitati per oscenità, insieme a scrittori del calibro di Henry Miller e poeti come Allen Ginsberg. Ma era anche il tempo esplosivo del bebop e del rock’n’roll, del corpo femminile che cominciava a liberarsi dai vitini di vespa e i seni a balconcino, della prima timida rivoluzione sessuale, e Montgomery Clift si teneva tutto dentro, costretto e inesploso. Rifiutava i copioni e gli studios rifiutavano lui, però girò ancora “Gli spostati” e “Freud, passioni segrete” per John Huston, e “Vincitori e vinti” con Stanley Kramer. Ancora una volta Liz lo impose poi come suo coprotagonista in “Riflessi in un occhio d’oro”, altro torbido dramma omosessuale in barba al morente Codice Hays, dove all’ultimo momento Monty fu sostituito da Marlon Brando: Clift morì improvvisamente di attacco cardiaco, a 46 anni, in un periodo in cui i rotocalchi non parlavano ancora di mix letali di alcol e farmaci.

Dei tre “ribelli” del cinema hollywoodiano Brando è stato l’unico ad invecchiare e a sformarsi – o trasformarsi – in un grasso ricco signore sempre goloso di soldi, giovani donne e isole tropicali. Ma questa è un’altra storia.