Archivi tag: jacqueline bouvier

Il giardino dei Finzi Contini – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Sarò controcorrente: secondo me questo film non è fra i migliori di Vittorio De Sica. Tratta un argomento importante, è vero, è tratto da un importante romanzo, è altrettanto vero, ed ebbe grande successo anche oltreoceano dove notoriamente sono assai sensibili riguardo al tema dell’ebraismo: il film negli Stati Uniti si aggiudicò l’Oscar come miglior film straniero ed ebbero la candidatura per la miglior sceneggiatura non originale Ugo Pirro e Vittorio Bonicelli; e poi candidatura al Grammy per la musica di Manuel De Sica, figlio maggiore del regista, qui alla sua terza colonna sonora; Vittorio De Sica vinse anche l’Orso d’Oro a Berlino e il britannico BAFTA dove ci fu la candidatura di Ennio Guarnieri per la miglior fotografia. Premi in Italia: David di Donatello come miglior film e David Speciale al protagonista Lino Capolicchio; Nastro d’Argento a Romolo Valli come miglior attore non protagonista e a Giancarlo Bartolini Salimbeni per la miglior scenografia; e per finire Globo d’Oro a Fabio Testi come miglior attore rivelazione. Elencati per dovere di cronaca premi e riconoscimenti specifico che nel mio essere controcorrente sono in buona compagnia perché all’epoca non tutta la critica fu d’accordo nell’elogiare il film e Morando Morandini sul quotidiano milanese “Il Giorno” scrisse che era eccessivamente melenso. Be’ lo è.

Secondo me questo stile, melenso per Morandini, eccessivamente patinato aggiungo io, non è in linea con la miglior produzione di De Sica che nasce nel neorealismo e anche quando si trasforma in commedia mantiene certe radici veristiche e veraci, popolari e popolane, mentre la vita agiata di questa oziosa famiglia altoborghese, tutti leccati in abiti fra il bianco e il color crema, non appartiene al regista e dunque la racconta per luoghi comuni dove la quotidianità si fa cicaleccio e birignao: una leggiadria certo necessaria a far risaltare la tragedia incombente delle persecuzioni nazi-fasciste, ma non fosse stato per il risvolto drammatico questo ritratto di famiglia in un esterno sarebbe potuto diventare parodia: i Finzi-Contini, con trattino come nel romanzo di Giorgio Bassani, che sono “altro” nella comunità ebraica della Ferrara dell’epoca, restano “altro” anche nella cinematografia di De Sica.

Già l’inizio è imbarazzante dal punto di vista sonoro: Livia Giampalmo, che effettivamente era agli inizi in sala di doppiaggio, doppia Dominique Sanda quasi facendo il verso alle querule doppiatrici d’antan delle sofisticated comedies hollywoodiane, come dandosi un tono perché sta dando voce a una signorina di buonissima famiglia: stonatissima e fasulla; più avanti ci si fa l’orecchio, giocoforza, ma arriva subito anche il doppiaggio altrettanto stonato di Roberto Del Giudice che dà voce a Helmut Berger: l’atmosfera generale è che stiano giocando a fare le persone fini.

Alessandro D’Alatri, recentissimamente morto 68enne dopo una lunga malattia, recita nel film il ruolo del protagonista da adolescente, ma aveva debuttato 14enne l’anno prima da protagonista nel piccolo film di avventura e formazione (di cui non rimane traccia) “Il ragazzo dagli occhi chiari” di Emilio Marsili (due soli film nel portfolio e anch’egli sparito senza lasciare traccia) e poi in Rai con un piccolo ruolo nella miniserie “I fratelli Karamazov” diretta da Sandro Bolchi, dopodiché smette di recitare e da giovane adulto negli anni ’80 è al top come regista di pubblicità, debuttando come regista cinematografico solo nel 1991, 36enne, con “Americano Rosso” che gli varrà il David di Donatello come miglior regista esordiente; era una commedia sentimentale guarda caso ambientata nel 1934 con lo stesso entroterra fascista di questo film di De Sica cui resta legato il suo nome come giovane attore. Nel ruolo di Micol da giovane c’è l’ex attrice bambina Cinzia Bruno che aveva debuttato a tre anni proseguendo la carriera di giovane attrice anche in radio e nel doppiaggio ma per un problema alle corde vocali ha dovuto abbandonare la carriera artistica ed ha aperto un’agenzia di viaggi.

Proprio per il ruolo di Micol, De Sica aveva seriamente considerato Patty Pravo ma non se ne fece niente perché Patty era troppo impegnata, era appena arrivata al successo con “La bambola” (canzone che odiava perché dava l’immagine di una donna totalmente dipendente dall’uomo), inoltre la sua casa discografica stava battendo il ferro ben caldo: in quel 1970 era al successo con “La spada nel cuore” e poiché stava costruendosi una brillante carriera come cantante non volle distrarsi col cinema, tanto che in seguito rifiutò anche “Professione: reporter” di Michelangelo Antonioni: oggi se ne dice pentita. Però l’anno prima aveva doppiato Jacqueline Kennedy nel documentario di Gianni Bisiach “I due Kennedy”.

Alla sceneggiatura del film, come detto firmata da Bonicelli e Pirro, inizialmente partecipa anche l’autore del romanzo, Giorgio Bassani, che però abbandona il progetto per insanabili divergenze col regista, tanto da chiedere, e ottenere, che il suo nome venisse tolto dai titoli. Pare che il punto di rottura fu l’esplicitazione nel film della relazione fra Micol e il comunista milanese Malnati, che nel romanzo è solo accennata da Giorgio che è l’io narrante. E non si può dire che per lo scrittore sia stato il capriccio autorale di uno che non comprende le esigenze cinematografiche, perché egli stesso era da tempo attivo sia come soggettista che sceneggiatore, per non dire che aveva anche doppiato Orson Welles diretto da Pier Paolo Pasolini nell’episodio “la ricotta” del film “Ro.Go.Pa.G.”.

Lino Capolicchio è il protagonista Giorgio, nome autobiografico dell’autore che in qualche modo si rispecchia nel personaggio, ebreo come lui, che narra le vicende reali di una famiglia ferrarese cui nel romanzo sono stati cambiati i nomi (tranne quello del cane Jor) e alcuni dettagli: da qui forse il suo attaccamento a certi passaggi della sua narrativa che nel film non sono stati rispettati. Micol è interpretata dall’ex modella francese Dominique Sanda che dopo un’intenso debutto il patria con Robert Bresson che la diresse in “Così bella, così dolce”, subito viene adottata dai cineasti italiani a quell’epoca sempre affascinati dalle bellezze straniere, tanto c’era il doppiaggio: lo stesso anno gira con Bernardo Bertolucci “Il conformista” e si avvia a una carriera in film d’autore con personaggi tormentati e ambigui. Oggi è una bella signora 71enne che si dedica principalmente al teatro. Mentre ricordiamo che Capolicchio è morto 79enne lo scorso anno: la sua scomparsa ha creato un’impennata di visioni di questo film che fino a quel momento era in chiaro su Sky Cinema e che dopo la sua morte è passato a pagamento su Sky Primafila per sfruttare commercialmente la grande richiesta, e infine scompare del tutto; oggi è visibile a pagamento su Prime Video. Restaurato nel 2015 è reperibile in chiaro su YouTube una vecchia versione per il mercato anglofono con titolo e sottotitoli in inglese.

Ferrara, con Roma e Venezia, era una delle città con maggiore popolazione ebraica, e anche dopo la chiusura del ghetto in epoca fascista rimase un importante centro per la comunità, tanto che alle prime restrizioni vi confluirono ebrei da altre province pensando di trovare un ambiente più favorevole grazie alla presenza del deputato fascista ferrarese Italo Balbo e del suo amico Renzo Ravenna che fu uno dei due soli ebrei (l’altro fu il triestino Enrico Paolo Salem) a ricoprire il ruolo di podestà, fino all’emanazione delle leggi razziali che non risparmiò neanche loro. Ferrara dunque fu un centro nevralgico che anche il regista ferrarese Florestano Vancini racconterà nei suoi film.

Il giardino del titolo è quello della villa che realmente a Ferrara, e poi nel romanzo e infine del film, divenne ritrovo e porto franco per tutti gli ebrei e chiunque altro fosse inviso al regime fascista che aveva cominciato le persecuzioni e le restrizioni sociali; metafora di un sogno bello e impossibile che la realtà andrà a dissacrare. Romanzo e film raccontano come la comunità ebraica non si rese conto di quanto stava accadendo; ci fu chi reagì cercando di mimetizzarsi e si iscrisse al Fascismo, come il suddetto podestà della città e come il padre del protagonista interpretato da Romolo Valli, chi davvero senza poter comprendere, perché si era tutti italiani e da secoli, a memoria umana, non c’erano più state divisioni per ragioni religiose e men che meno razziali. Come detto a Romolo Valli, gran signore del teatro sempre in ruoli di supporto al cinema, è andato il riconoscimento del Nastro d’Argento. A Fabio Testi nel ruolo di Malnate è andato il Globo d’Oro come unico premio in una lunga carriera iniziata appena quattro prima come controfigura sul set di “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone che in seguito gli affida un ruolo in “C’era una volta il west” che però taglia in post-produzione perché non ottimale; ma è un aitante belloccio e dopo una serie di piccoli ruoli è protagonista in un paio di film di serie B; è qui alla sua prima occasione in un film importante e l’industria cinematografica che sta puntando su di lui lo premia per sdoganarlo fra quelli che contano. Conclude il cast dei ruoli principali l’altro bello e possibile già ex modello austriaco Helmut Berger che Luchino Visconti aveva diretto proprio come ragazzaccio austriaco in un episodio del film “Le streghe” e che lancerà come protagonista in “Ludwig” un paio d’anni dopo.

Curiosità letteraria, nel romanzo c’è un prossimamente: Giorgio racconta a Malnate di un’episodio accaduto in città poco tempo prima, che riguarda un otorinolaringoiatra coinvolto in uno scandalo omosessuale per il quale si tolse la vita; nomina il personaggio come Athos Fadigati, personaggio protagonista di un altro romanzo al quale stava lavorando: “Gli occhiali d’oro” che con la regia di Giuliano Montaldo diverrà film nel 1987. Una lettura integrale del romanzo “Il Giardino dei Finzi-Contini” a più voci, è stata realizzata dalla Rai di Torino, e poi una riduzione radiofonica e andata in onda su Radio 3. La New York City Opera e il National Yiddish Theatre Folksbiene ne hanno realizzato lo scorso anno un adattamento operistico presso il Museo del Patrimonio Ebraico di Manhattan.

Number One – instant movie del 1973 su uno scandalo di cocaina, jet-set, servizi segreti e terrorismo

“Un’inchiesta cominciata nel cesso non può che finire nella merda.” La notevolissima battuta è attribuita a uno dei tanti avvocati difensori del bel mondo che fu coinvolto nello scandalo del night-club romano Number One, sito in via Lucullo a pochi passi da quella Via Veneto dove si era consumata la Dolce Vita raccontata da Federico Fellini, scandalo cui seguì un’inchiesta assai paparazzata che nel 1971 vide sfilare davanti agli inquirenti ben 25 esponenti di quel jet-set, quelli che oggi chiamiamo sia vip che svippati, che nell’intimo – si fa per dire – cesso del locale citato dall’avvocato sciavano su piste di cocaina, e che poi nell’aula del tribunale scivolarono su accuse e querele reciproche perché erano tutti innocenti e la colpa era sempre di un altro.

Il playboy Gigi Rizzi con la sua conquista Brigitte Bardot e l’amico Johnny Hallyday al Number One

Alla fine degli anni Sessanta avevano aperto in Italia i primi night-club sull’esperienza di come ci si divertiva all’estero: quelli che viaggiavano, e che dunque avevano soldi e tempo da spendere, volevano trovare sotto casa lo stesso tipo di divertimento e le metropoli italiane si adeguarono: a Roma la dolce vita cedette il passo alla mala vita della nascente Banda della Magliana cui facevano da sfondo i servizi segreti deviati e corrotti; il Number One fu fra i night più in voga, gestito nell’illegalità delle connivenze e con l’inventiva tutta italiana nell’aggirare restrizioni e divieti, e tanto per dirne una: nei suoi documenti contabili il locale era dichiarato come un semplice ristorante vegetariano per smussare la mannaia fiscale; ne era proprietario l’imprenditore e, va da sé anche playboy, Paolo Vassallo, che però stava sempre sul chi vive, pover’uomo, perché sapeva di che pasta erano fatti i suoi occulti compagni d’impresa, e perciò sapeva pure che il suo locale poteva avere vita breve restando vittima di vendette incrociate: in molti bar e ristoranti e night andarono in scena risse di facinorosi come pezzi di teatro il cui scopo era far chiudere i battenti, oppure furono definitivamente incendiati da ignoti alla legge ma ben noti alle vittime. Nel Number One si materializzò tutto questo.

È difficile districarsi in quelle vicende perché i lati oscuri sono tanti e tanti rimasero anche all’epoca. Di sfuggita bisogna ricordare che l’anno prima, era il 1970, erano stati arrestati per possesso e spaccio di droga l’attore Walter Chiari e il musicista entertainer Lelio Luttazzi, e a seguire il francese Pierre Clémenti. Era il decennio in cui si sarebbero costituite le cellule terroristiche e in una decina d’anni avremmo avuto: nel 1969 la strage di Piazza Fontana presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano, nel 1970 la strage di Gioia Tauro, nel 1972 la strage di Peteano a Gorizia, nel 1973 la strage in una questura sempre a Milano, nel 1974 la strage di Piazza della Loggia a Brescia, sempre nel ’74 la strage del treno Italicus diretto da Roma a Monaco di Baviera, nel 1976 la strage di Alcamo Marina in provincia di Trapani, e nel 1980 ci fu la strage alla stazione di Bologna. Solo per ricordare le stragi, ché innumerevoli furono gli attentati senza vittime o con soli feriti, o i singoli assassinii o le sole gambizzazioni.

La Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano dopo l’attentato

Fu un periodo che dall’inglese Observer venne definito “strategy of tension” secondo le carte che l’agenzia segreta inglese, l’ineffabile MI6 – l’em-ai-six di tanti film – avevano sottratto all’ambasciatore greco in Italia: si era in piena Guerra Fredda e gli Stati Uniti, in quanto guardiani del mondo, stavano mettendo in pratica nell’area mediterranea una strategia per metterci in sicurezza dall’influenza sovietica: a livello popolare si fece passare la colorita immagine dei cosacchi che venivano ad abbeverare i loro cavalli in Vaticano; di fatto destabilizzando i nostri equilibri sociali anche attraverso eventuali colpi di stato volti a instaurare governi di matrice conservatrice, destrorsa e fascista: i giovani terroristi italiani che si coinvolsero non furono altro che bassa manovalanza senza reale consapevolezza del disegno generale; i tanti innocenti che furono sacrificati negli attentati erano il danno collaterale di una politica volta alla marginalizzazione dei partiti di estrema sinistra e contemporaneamente alla criminalizzazione dell’estrema destra, i classici due piccioni con una fava che avrebbero condotto al rafforzamento dell’unica area centrista: la Democrazia Cristiana che in quella strategia della tensione sacrificò il suo esponente più possibilista, Aldo Moro.

Appena al di sopra di quel fangoso pantano, la bella vita di chi se la poteva permettere procedeva senza intoppi e anzi veniva incoraggiata, e nei nostri night-club fiumi di american whiskey scorrevano ecumenicamente insieme a fiumi di russkaya vodka e di apolide cocaina; ovviamente, non tutto essendo legale, bisognava dotarsi di opportuni soci in affari e di illecite frequentazioni: anche oggi, chi si concede una striscetta di cocaina il sabato sera, non si chiede certo chi o cosa sta finanziando. Il buon Walter Chiari, abituale consumatore, pare che finì in prigione e sulle pagine di tutti i giornali per scandalizzare il popolo bue, modo di dire che sembra provenire da un generale romano che così si era rivolto a Giulio Cesare: “Il popolo non deve pensare ma solo eseguire come fa il bove” e come mandria di bovi gli italiani del 1970 andavano pascolati con gustosissime notizie scandalistiche per distrarli da altri titoli che all’epoca comparivano su quegli stessi giornali e che riguardavano il primo processo sulla strage di Piazza Fontana. In seguito fu accertato che Lelio Luttazzi era completamente pulito: era stato coinvolto nell’inchiesta solo perché aveva ricevuto una telefonata dall’amico Walter (il cui telefono era sotto intercettazione) che gli chiedeva di chiamare un tizio per suo conto, uno che poi si rivelò essere uno spacciatore, perché lui non riusciva a prendere la linea – mentre per chiamare Luttazzi c’era riuscito: probabilmente Chiari già temeva di essere intercettato ma non pensò che avrebbe inguaiato l’ignaro Luttazzi.

L’attore si fece tre mesi a Regina Coeli e poi fu scarcerato pagando una cauzione di tre milioni di lire, nove mila euro odierni, e al successivo processo venne scagionato dall’accusa di spaccio e condannato con la condizionale per il solo uso privato della sostanza stupefacente. Mentre Lelio Luttazzi si fa 27 giorni di carcere prima di venire totalmente prosciolto ma quell’errore giudiziario gli rovinò la carriera perché perse le conduzioni della radiofonica Hit Parade e della televisiva Ieri e Oggi; espone la sua breve esperienza carceraria nel libro “Operazione Montecristo” che ispirerà Alberto Sordi per il suo “Detenuto in attesa di giudizio”. Anche il francese Pierre Clémenti finì a Regina Coeli per detenzione e uso ma dopo 18 mesi fu scarcerato per insufficienza di prove e costretto a lasciare l’Italia dopo aver dato belle prove attoriali diretto da Bernardo Bertolucci, Liliana Cavani e Pier Paolo Pasolini. Ma intanto il popolo bue era già stato allegramente condotto sui sempre verdi pascoli della disinformazione.

Gianni Buffardi con la moglie Liliana De Curtis, i due figli e il suocero Totò

In questo clima matura la vicenda del Number One. Gianni Buffardi, produttore di diversi film con Totò di cui sposò la figlia Liliana De Curtis, e che produsse anche l’opera prima di Luigi Magni “Faustina”, volle farsi autore scrivendo e dirigendo questo suo primo film che rimane anche l’unico perché morì prematuramente a causa di una leptospirosi contratta tuffandosi nel biondo Tevere. L’onesto intento è quello di fare un film inchiesta, o di denuncia che dir si voglia, sulla scia dei modelli Francesco Rosi o Elio Petri senza però neanche arrivare a sfiorarne la pregnanza. Sceneggiato su un suo soggetto da Sandro Continenza, suo collaboratore di fiducia dai tempi dei film con Totò, ma poi anche rimaneggiato su consiglio di Renzo Montagnani che gli consigliò di dare un respiro più ampio alla vicenda – forse di questo troppo ampio respiro il film soffre. L’intenzione dell’autore era inizialmente quella di attenersi rigorosamente ai fatti che riguardarono il night-club e già a quella dichiarazione di intenti si misero in moto, secondo Buffardi, delle oscure manovre per impedire la realizzazione del film: “È un film che non si dovrebbe fare perché può dare fastidio a molti, ma nonostante ciò lo realizzo ugualmente. Ritengo di essere la persona più indicata per fare questo film per vari motivi: primo fra tutti perché sono l’unico amico di Pier Luigi Torri; poi perché conosco molto bene coloro che frequentavano il Number One; quindi, perché sono stato interrogato in qualità di testimone dalla magistratura.”

Pier Luigi Torri con Marisa Mell

Pier Luigi Torri, produttore cinematografico e altro tombeur de femmes che all’epoca si accompagnava a Marisa Mell, viene indicato come la gola profonda che diede inizio all’indagine sull’allegro girotondo di bustine di cocaina, e non parve vero a paparazzi e giornalisti di buttarsi sulla vicenda, perché nella narrativa di un certo giornalismo c’è sempre l’ansia di scoprire l’illecito e l’intrallazzo nel bel mondo degli eroi patinati, i belli i ricchi i potenti, dove l’invidia di classe si fa vendetta sociale; per non dire della distrazione che veniva operata su un piano diverso: l’aula del tribunale dove sfilarono i moderni Dei dell’Olimpo era accanto a quella dove Franco Valpreda era imputato per la strage di Piazza Fontana, ma mentre lì si discuteva noiosamente di bombe e di 17 vittime innocenti, qui era un via vai di bei nomi tutti potenzialmente colpevoli di essersi divertiti troppo. All’uscita della notizia della realizzazione di quel film venne fuori che Torri, in carcere anche lui, aveva confidato ad altri due detenuti che proprio Buffardi aveva materialmente consegnato la cocaina: Torri era stato assai probabilmente manovrato con la promessa di uno sconto di pena ma l’inganno fu svelato e si prese un’ulteriore condanna per calunnia, e il produttore poteva continuare a fare il suo film, anzi no, perché subito a seguire venne accusato di estorsione dal figlio del pittore Massimo Campigli: secondo la sua denuncia, il produttore gli avrebbe chiesto 5 litografie del padre per sé e 18 milioni da versare ad alcuni “amici” per fargli riavere le 6 grandi tele, sempre paterne, e una preziosa collezione di vasi precolombiani che erano stati trafugati da ignoti dalla loro villa a Saint-Tropez. La Stampa titola: “È il tramonto della Roma ‘dolce vita’ – l’arresto del produttore Gianni Buffardi”, che secondo l’articolo firmato da Silvana Mazzocchi “entra a Regina Coeli con la camicia di seta munita di cifre ricamate in blu, come ci si recasse in visita. Nonostante tutto, il protagonista di questa storia non ha ancora capito come sono cambiate le regole della vita romana di cui lui resta uno degli ultimi misconosciuti esponenti pittoreschi.” E ancora lo apostrofa: “Gianni Buffardi, produttore cinematografico, cinquantenne, ideatore di film di cassetta, squattrinato «vitellone» della Via Veneto Anni Sessanta, poi scommettitore e trafficante di oggetti d’arte. (…) Nel mondo del cinema è sempre stato una figura di terzo piano, un produttore con scarse possibilità; ma vivendo al margine del «mondo che conta» ne aveva orecchiato i segreti.” Nei fatti Buffardi fu poi scagionato dall’accusa mossa dall’amico Torri.

Sia come sia, il produttore si fece autore cinematografico e girò il suo imperfetto e scomodissimo film, tanto scomodo che fu presto consegnato all’oblio e a tutt’oggi non è mai stato reso disponibile né in VHS né in DVD, e solo dopo decenni ne è stata rinvenuta una copia – si riteneva perduto – nei magazzini di una casa di distribuzione e così restaurato dal Centro sperimentale di cinematografia e dalla Cineteca Nazionale in collaborazione con la rete tv Cine34 dove, dopo la prima del dicembre 2021, il film ciclicamente torna in programmazione. L’opera prima e unica di Gianni Buffardi si apre subito, con accattivante e beffarda marcetta di Giancarlo Chiaramello, sul montaggio veloce di una serie di articoli giornalistici che parlavano del night-club, e subito segue un’ancora veloce sequenza di fotografie con gli esponenti di quel jet-set allora coinvolti, e fra gli altri si riconoscono in ordine sparso: Carla Gravina, Gina Lollobrigida, Monica Vitti, Florinda Bolkan, Omar Sharif, Liz Taylor e Richard Burton, le già dette Brigitte Bardot e Marisa Mell e Jacqueline Bouvier già vedova Kennedy e ancora per poco signora Onassis; e senza apparire nelle foto dei titoli del film si possono per certo aggiungere come abituali frequentatori la modella Verushka, Helmut Berger, Marina Ripa di Meana, Johnny Hallyday, Gianni Agnelli… Subito dopo la parata di foto un cartello avverte: “Fin qui la cronaca e la realtà. Ora l’immaginazione e la fantasia di un racconto, il cui eventuale riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti, è puramente casuale” solo per mettersi al riparo dalle querele ma il casuale e ben più causale.

La marcia di Giancarlo Chiaramello
Talitha Pol e Paul Getty sui Fori Romani della capitale dove erano venuti a sposarsi

Negli spettatori dell’epoca dev’esserci stato il gioco dell’indoviniamo chi è chi anche se la maggior parte dei personaggi, coi nomi cambiati, non erano noti al grande pubblico trattandosi di attricette, playboy, malviventi, affaristi, nobili e innominati; l’unico personaggio vagamente riconoscibile, anche a cinquant’anni di distanza, è il magnate americano Paul Getty III la cui bellissima moglie Talitha Pol morì per un’overdose di eroina e barbiturici, subito spacciato per un suicidio, tragico evento che dette il via a indagini degli inquirenti e sotterranei movimenti tellurici negli ambienti dell’illegalità che fecero altre vittime. Il film, assai ben documentato per la vicinanza dell’autore a quel mondo, affastella decine di personaggi fra i quali ci si perde, oggi come all’epoca, e procede seguendo le indagini di un commissario di polizia interpretato da Renzo Montagnani e di un comandante dei carabinieri che è Luigi Pistilli; alla loro lineare indagine si contrappongono i troppo disarticolati depistaggi che conducono anche a un furto di opere d’arte e altri morti ammazzati. Leo Pestelli sulla Stampa commentò: “La pellicola è documentatissima, rivela la preparazione di un naturalista. Ma noi che non fummo mai in quel luogo di perdizione, restiamo all’oscuro di troppe circostanze che qui si danno per intese, non sappiamo sostituire ai nomi falsi i nomi veri, agli episodi truccati gli episodi autentici, e insomma annaspiamo nel generico. Ma che cosa importa se intanto abbiamo assistito, sia pure di sbieco e per enimmi, alle messe nere della cafe-society romana, con polverine, morti ammazzati, lenoni, bari e dovizia di donne nude? In fatto di grosse e un po’ provincialesche emozioni, si ripigliano i soldi del biglietto.”

Nel resto del cast Paolo Malco è il magnate americano; l’ex divo dei melodrammi Massimo Serato è un editore e sarebbe bello capire chi fosse la controparte reale, Venantino Venantini è il proprietario del locale Paolo Vassallo, il romeno italianizzato Chris Avram rifà il playboy Pier Luigi Torri, Il belloccio Guido Mannari (che di sfuggita passò fra le lenzuola di Liz Taylor) fa l’altro playboy Gigi Rizzi, la teatrale Rina Franchetti impersona una principessa della cosiddetta nobiltà nera, Josiane Tanzilli che quello stesso 1973 fu la volpina in “Amarcord” di Federico Fellini qui esala l’ultimo respiro come Talitha Pol, e sfilano nei vari ruoli Howard Ross, Renato Turi, Bruno Di Luia, Emilio Bonucci, il direttore della fotografia Roberto D’Ettorre Piazzoli come gallerista, una giovanissima Eleonora Giorgi figura come attraente e compiacente arredamento del night, e per finire c’è l’ex pilota automobilistico datosi alla recitazione Guido Lollobrigida, che nella scheda info del film rilasciata da Cine34 figura solo come G. Lollobrigida facendoci illudere che nel cast ci sia sua cugina Gina: inutili scorrettezze di redazione. Luca Pallanch della Cineteca Nazionale ebbe a dire alla presentazione del film restaurato: “I protagonisti di quella oscura vicenda sono tutti scomparsi e, con loro, si è inabissato quell’effimero mondo riunito sotto le luci di una Roma by night, che non aveva nulla da invidiare alle altre metropoli del divertimento e del vizio.” Con riferimento alle indagini nel film passa l’espressione muro di gomma che decenni dopo è stata rispolverata per la vicenda dell’aereo caduto-abbattuto a Ustica nel 1980 da cui il film “Il muro di gomma” di Marco Risi del 1991.