Archivi tag: italo calvino

I soliti ignoti – e per la prima volta sullo schermo Claudia Cardinale e Tiberio Murgia

Questo film del 1958 è un caposaldo del cinema italiano ma partiamo da più lontano nel tempo e nello spazio, dalla Hollywood dei primi anni ’50 che con film come “Giungla d’asfalto” di John Huston dal genere thriller, o noir per dirla alla francese, sviluppa il sottogenere caper movie detto anche heist movie, ovvero film dove una banda di malviventi organizza un colpa grosso; e se heist è comprensibile in quanto significa rapina, caper è meno chiaro perché letteralmente significa cappero ma in realtà è stato coniato fra i malavitosi italo-americani che hanno anglicizzato l’italiano capriola con riferimento ai salti mortali e a tutte le acrobazie che dovevano fare per sfuggire alle forze dell’ordine. Sta di fatto che il genere piacque molto al pubblico, e fra i principali caper movie bisogna ricordare “Rapina a mano armata” di Stanley Kubrick mentre in Francia ci fu il grande successo di “Rififi” di Jules Dassin, e scavalcando gli anni ’60 in Italia Marco Vicario diresse il dittico “Sette uomini d’oro” e “Il grande colpo dei sette uomini d’oro” al servizio di sua moglie Rossana Podestà; del 1969 è il francese “Il clan dei siciliani” di Henri Verneuil con Jean Gabin, Alain Delon e Lino Ventura; per tornare a Hollywood con “La stangata” di George Roy Hill del 1974 starring Paul Newman e Roibert Redford; poi primeggia il corale “Le iene” di Quentin Tarantino del 1992 fino al trittico di Steven Soderbergh iniziato con “Ocean’s Eleven”, con George Clooney capo brigata, che a sua volta era il remake di “Colpo grosso” del 1960 di Lewis Mileston col Rat Pack Frank Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis jr. Insomma ce n’è per tutti i gusti.

Aldo Reggiani, Loretta Goggi e Arnoldo Foà protagonisti dello sceneggiato Rai

Ma torniamo in Italia alla fine degli anni ’50. Il genere imperante era il neorealismo nato sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale, e ancora resistevano i generi peplum (e vale la pena ricordare il debutto cinematografico di Sergio Leone con “Il colosso di Rodi”) e cappa e spada (nessun film italiano memorabile, supplisce lo sceneggiato Rai “La freccia nera” diretto da Anton Giulio Majano dal romanzo di Robert Luis Stevenson) mentre il cinema spensierato dei telefoni bianchi che imitava le commedie sofisticate hollywoodiane era stato sostituito dalla commedia rosa o sentimentale che abbandonando le ambientazioni scintillanti e irrealistiche si era adattato alla nostra realtà con gli operai e le commesse “Poveri ma belli” di Dino Risi del 1957.

Scena da “I cadetti di Guascogna”, in primo piano da sinistra Riccardo Billi, Mario Riva, Carlo Campanini, Carlo Croccolo e seduto sulla branda Walter Chiari

Sul piano del film comico, film per ridere, si era fermi alle pellicole che derivavano dai palcoscenici dell’avanspettacolo e del varietà (ad esempio “I cadetti di Guascogna” che vide il debutto di Ugo Tognazzi e Carlo Croccolo) con interpreti che da lì venivano con le loro maschere e le loro gag (Mario Riva, Riccardo Billi, Carlo Campanini, Macario, Renato Rascel) di cui Totò era il più prolifico esponente, non amato dalla critica colta per quei suoi filmetti senza spessore. In questa brulicante vivacissima realtà si muoveva un gruppo di soggettisti e sceneggiatori che sentivano l’urgenza di raccontare la realtà, la loro realtà, quella realtà di quel preciso momento storico, il dopoguerra e il boom economico, mettendone in evidenza tutte le contraddizioni, l’impossibilità di conciliare il vecchio con il nuovo, l’ipocrisia e l’effimero: una realtà che autori come Pier Paolo Pasolini (“Accattone”) o Bernardo Bertolucci (“La commare secca”) presero di petto, mentre scrittori dalla penna più leggera e ironica e spesso caustica, e forse per questo più incisiva (ricordiamo l’adagio latino “castigat ridendo mores”) come Age & Scarpelli qui autori del soggetto e sceneggiatori insieme a Suso Cecchi D’Amico e allo stesso regista Mario Monicelli, che aveva esordito come braccio destro di Pietro Germi e fu poi regista di Totò che aveva sdoganato in un ruolo drammatico nella co-regia con Steno “Guardie e ladri” che valse all’attore l’ambito Nastro d’Argento e che lo convinse che poteva abbandonare il genere avanspettacolo che lo aveva reso ricco e famoso, ma con la media di cinque film l’anno in cantiere, il successo del pubblico e le pressioni dei produttori, passò ancora qualche anno fino a che concluse la sua carriera lavorando con Pasolini: “Uccellacci e uccellini”, “La terra vista dalla luna” nel film a episodi “Le streghe” e “Che cosa sono le nuvole?” nel film a episodi “Capriccio all’italiana”.

Monicelli e Totò durante una pausa sul set

Quando il gruppetto di amici si riunì per buttare giù una nuova sceneggiatura non sapevano che stavano cominciando a scrivere una pagina della storia del cinema. Partirono dall’idea di fare una parodia di quel genere tanto di moda, il caper movie, e presero come modello il noir “Rififi” tanto che il primo titolo pensato per il film in scrittura fu “Rufufù”, ma non erano autori da fermarsi al semplice parodistico e come altra ispirazione ebbero il racconto di Italo Calvino “Furto in una pasticceria”.

Memmo Carotenuto con Gassman

Poi c’era la realtà sociale in cui il gruppetto voleva collocare storia e personaggi, e pur condividendo con Pasolini il degrado della periferia romana in cui il boom sarebbe tardato ad arrivare e ancora si sarebbe vissuto di espedienti, i loro ladruncoli non hanno l’innocente cattiveria degli accattoni e dei ragazzi di vita pasoliniani, ma risentendo della leggerezza della Commedia dell’Arte (che i nostri ovviamente conoscono) sono Arlecchino e Brighella e Pulcinella i cui espedienti per procurarsi il tozzo di pane rimangono fallimentari e grotteschi, come certi capitomboli del fanfarone Er Pantera, ma sono qui intessuti dell’umanità di persone reali che soffrono e addirittura – novità assoluta in commedia – muoiono tragicamente, come il personaggio motore della storia interpretato da Memmo Carotenuto. Il risultato è un dolce-amaro, un grottesco patetico venato di tristezza, qualcosa di talmente simile alla vita reale da portare al cinema folle di spettatori che ridevano insieme delle loro stesse sventure, e però non mancano le battute folgoranti come quando Capannelle chiede a un ragazzino di un certo Mario e quello gli risponde che lì nel quartiere ce ne sono cento; sì ma questo è stato in galera, specifica Capannelle, sempre cento sono, risponde il ragazzino.

Tiberio Murgia nell’atrio del cinema dove si proietta il Kean di e con Vittorio Gassman in un corto circuito di citazioni

A scrittura ultimata sarebbe stata fondamentale la scelta del cast. I produttori, Franco Cristaldi in testa, avrebbero voluto scritturare i soliti noti che venivano dal varietà e dall’avanspettacolo, a cominciare da Alberto Sordi nel ruolo del pugile suonato Peppe er Pantera per il quale Monicelli e gli altri sceneggiatori – che avevano creato tutti i personaggi intorno ad un baricentro realistico, senza vezzi e gag, corredandoli però di un patrimonio di battute e situazioni brillanti e folgoranti sulle quale si sarebbe dovuta giocare tutta la comicità del film – si erano impuntati su Vittorio Gassman, in quale venendo dal teatro impegnato nel cinema aveva per lo più interpretato ruoli da cattivo, e con la sua aria da intellettuale non dava ai produttori nessuna garanzia di successo come attore comico, ma alla fine dovettero cedere alle argomentazioni di Monicelli & company, che con l’aiuto del truccatore Romolo De Martino crearono per Gassman un pesante trucco che con una parrucca gli abbassava l’attaccatura sulla fronte, e accentuando il profilo del naso e rendendo le labbra leggermente calanti lo ridisegnarono proprio come quel pugile suonato di periferia che avevano immaginato sulla carta, e l’invenzione poi della sibilante balbuzie completò il personaggio, sdoganando Gassman in un mondo ancora per lui inesplorato. Va segnalato che nel film viene omaggiato ritraendo la locandina del suo “Kean – genio e sregolatezza” che aveva diretto e interpretato a teatro e poi diretto e interpretato anche sullo schermo con l’importante contributo tecnico di Francesco Rosi.

Nel calibratissimo cast Renato Salvatori (doppiato da Marcello Prando) entrò come secondo nome (in percentuale di misura più piccola rispetto a Gassman) e come segno di continuità con la commedia rosa di cui era protagonista, anche qui protagonista di una storia amorosa ovviamente assai contrastata. Il caratterista Memmo Carotenuto, fratello di Mario, faccia da duro e voce roca è al terzo posto nei titoli di testa e probabilmente nel suo ruolo più significativo. Con le lettere che continuano a rimpicciolirsi segue Rossana Rory (Rossana Coppa sui documenti) già fotomodella e foto-attrice per “Sogno” che qui è l’unica componente femminile della banda e anche nel suo ruolo più importante (doppiata da Monica Vitti): nonostante l’impegno, andò a studiare recitazione presso la londinese Royal Academy of Dramatic Art, non riuscì a sfondare e pochi anni dopo, dopo aver partecipato a “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni, si ritirò dalla carriera artistica. Segue nei titoli la 17enne in rapida ascesa Carla Gravina qui al suo terzo film e che aveva debuttato 15enne in “Guendalina” dello scopritore di Lolite Alberto Lattuada. Dopo di lei nei titoli di testa viene la non ancora ventenne Claudia Cardinale (doppiata dalla palermitana Lucia Guzzardi) qui al suo debutto cinematografico italiano e per la quale vale la pena spendere qualche parola in più.

Era nata a Tunisi da genitori altrettanto tunisini per nascita ma di discendenza siciliana. Va ricordato che la Tunisia era un protettorato francese e durante la Seconda Guerra Mondiale (Claudia nata nel ’38 era ancora bambina) l’Italia mussoliniana con la Germania hitleriana occuparono Tunisi con gravi e diverse conseguenze per tutta l’enclave italiana che lì viveva; nello specifico il padre di Claudia che aveva mantenuto rapporti con la famiglia d’origine in Sicilia, non aveva preso la nazionalità francese mantenendo quella italiana, e se in quel frangente ciò poteva giocare a suo favore agli occhi del regime, nei fatti tutti quegli italiani d’Africa furono vittime di un diffuso e paradossale sentimento italiano anti-italiano, con italo-tunisini che sposarono la causa fascista, altri che restarono fedeli alla Francia e altri ancora che volevano restare neutrali come fu per la famiglia Cardinale. Superato il disagio della guerra l’adolescente Claudia parlava solo arabo tunisino, francese e il siciliano trapanese appreso in famiglia, e come tutte le ragazze della sua generazione era una fan della Brigitte Bardot esplosa con “E Dio creò la donna” di Roger Vadim, star con la quale duetterà anni dopo, nel 1971, nel brutto western “Le pistolere” di Christian-Jacque. In ogni caso il cinema la attendeva: a diciotto anni partecipò a un cortometraggio documentaristico che omaggiava l’intraprendenza delle donne tunisine nell’immediato dopoguerra: “Les Anneaux d’or” di René Vautier che al Festival di Berlino vinse l’Orso d’Argento.  Bastò l’unico primo piano di quel film per farla diventare una celebrità locale ed essere richiesta dal regista Jacques Baratier che la volle per un ruolo secondario in “I giorni dell’amore”, ruolo che accettò con riluttanza perché aspirava a quello della protagonista nel quale la produzione volle un’attrice di pura nazionalità tunisina; protagonista maschile il giovane egiziano Omar Sharif in un film candidato per la Palma d’Oro al Festival di Cannes che per la nostra riluttante Claudia fu il primo vero impegno come attrice cinematografica, per il quale in ogni caso aveva ottenuto la dicitura in cartellone “e la partecipazione di” essendo ancora in pratica una sconosciuta. Claudia avrebbe duettato da protagonista con Sharif nel 1991 in “Mayrig” del franco-armeno Henri Verneuil, che l’anno dopo ebbe il seguito “Quella strada chiamata paradiso”, film che raccontano il genocidio armeno che però hanno avuto scarsa diffusione.

Momentaneamente accantonata la non del tutto per lei soddisfacente, benché di qualità, esperienza cinematografica, la giovane scalpitava e non sapeva come uscire dall’impasse della sua vita borghese tunisina, così non le parve vero quando a Tunisi si tenne la “Settimana del Cinema Italiano” organizzata da “Unitalia FilmRivista trimestrale dell’Unione nazionale per la diffusione del film italiano all’estero”, durante la quale vinse – “in modo del tutto involontario e inconsapevole” recitano le cronache – il concorso “La più bella italiana di Tunisia” dove probabilmente si era iscritta in modo del tutto altrettanto involontario e inconsapevole: ma la ragazza, come vedremo, era fortemente motivata e consapevole.

Claudia Cardinale in quel fatale 1957 a Venezia

Il premio del concorso consisteva in una vacanza spesata alla Mostra del Cinema di Venezia in cui seppe mettersi in mostra agli occhi dei tanti pigmalioni, registi e giornalisti e soprattutto produttori lì presenti, Franco Cristaldi in testa. Dicono sempre le cronache che accettò l’invito da parte del produttore Salvatore Argento (padre del regista Dario Argento) e del giornalista Lidio Bozzini l’offerta di fermarsi a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia, che la ragazza accettò – non si sa a che titolo: chi pagava cosa e per cosa? Probabilmente oggi è lecito immaginare che i due fossero i prestanome del produttore Cristaldi, che di 14 anni più anziano della ragazza e già sposato, non si poteva esporre in quell’epoca in cui il divorzio era illegale in un Paese ultra cattolico in cui le relazioni extraconiugali creavano scandalo e condanna sociale: oggi sappiamo che Franco Cristaldi e Claudia Cardinale avevano già cominciato una relazione. Ma gli studi di recitazione e dizione, sua insegnante al Centro fu Tina Lattanzi, misero in evidenza la sua scarsa attitudine sia alla recitazione che all’apprendimento e dopo appena un trimestre abbandonò l’impresa per tornare a Tunisi… ma dato che la sua fotogenia era indiscutibile e la sua relazione con Cristaldi solida, si fece di necessità virtù e fu dato eco sulla stampa, con copertina sul settimanale “Epoca”, a quel suo inconcepibile rifiuto di continuare la carriera cinematografica: anche gli handicap se ben gestiti posso diventare vantaggi nelle mani di un solido ufficio stampa. Del suo stile recitativo, una volta diventata famosa, coerentemente dirà: “Io non mi sono mai considerata un’attrice. Sono solo una donna con una certa sensibilità: è con quella che ho sempre lavorato. Mi sono accostata ai personaggi con grande umiltà: cercando di viverli dal di dentro, usando me stessa, e senza far ricorso a nessun tipo di tecnica.”

Moglie e marito, produttore e protagonista, sul set di “La tenda rossa” diretto da Michail Kalazotov

Ancora di quell’intenso periodo è un’altra pagina che resterà oscura nella vita dell’attrice: la gravidanza del suo primogenito Patrick che partorirà a Londra, lontano da occhi indiscreti, dopo la fine della lavorazione del film. Durante la lavorazione ha tenuto segreta la gravidanza, come segreta rimarrà la genesi: verrà raccontato in seguito che rimase vittima di uno stupro da parte di uno sconosciuto ma alla luce dei fatti è lecito pensare che il figlio fosse del produttore e che l’invenzione dello stupro servisse anche, ancora una volta, a far di necessità virtù – ma questa è mia personale speculazione essendo a tutt’oggi la vicenda narrata così come fu data sin dall’inizio. E se dal lato professionale questo ruolo di siciliana illibata ritagliato su di lei la portò all’immediato successo, sul piano privato fu per lei un periodo assai difficile: era consapevole che la relazione con Cristaldi non poteva essere ufficiliazzata e soffriva lo stereotipo dell’immagine della giovane avventura del produttore attempato. Con l’avvio della sua carriera la famiglia la raggiunge a Roma e durante i primi anni mostrerà in pubblico suo figlio presentandolo come un fratellino.

In seguito, anni dopo, dichiarerà di non essersi mai sentita davvero la compagna di Cristaldi, quanto piuttosto un trofeo da tenere sotto vetro, una “Cenerentola gratificata dalla sua generosità” per l’aiuto dato nel difficile momento della gravidanza segreta e per, va da sé, l’impegno profuso per costruirle una carriera e un’immagine professionale adeguata; ma per il resto si era sentita in trappola: per il doppio legame, personale e professionale, si sentiva schiacciata e costantemente sotto controllo attraverso lo staff – il responsabile stampa, la segretaria e l’autista personali – che facevano riferimento a Cristaldi che probabilmente aveva perso la testa per la ragazza e finì col rinchiuderla in una gabbia dorata, una torre d’avorio, sempre ricordandole e rinfacciandole che lui l’aveva creata e che dunque gli apparteneva. Conducevano sempre vite separate, tranne qualche breve viaggio, e anche dopo il matrimonio che nel 1966 lui organizzò negli Stati Uniti avendo ottenuto l’annullamento della precedente unione dalla Sacra Rota, lei non lo chiamò mai Franco ma sempre e solo Cristaldi, fino alla definitiva rottura avvenuta nel 1975, allorché Claudia si era innamorata del regista Pasquale Squitieri conosciuto sul set di “I guappi”. Col matrimonio Cristaldi aveva adottato legalmente il primogenito dell’attrice. E sarebbe ancora lunga la narrazione su Claudia Cardinale se non fosse che devo rientrare nei ranghi del film che l’ha lanciata.

il gruppo dei ladruncoli al completo: Totò, Tiberio Murgia, Carlo Pisacane, Renato Salvatori, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman. Di spalle l’agente di controllo per il Dante Cruciani di Totò, attore non accreditato.

Al suo nome seguono nei titoli di testa i primi tre insieme dopo i nomi da solisti: Carlo Pisacane, Tiberio Murgia e Gina Rovere, lei nel ruolo secondario della moglie in galera di Marcello Mastroianni, è una caratterista romana che avrà i suoi ruoli più importanti nei prossimi “Nella città l’inferno” di Renato Castellani e “Adua e le compagne” di Antonio Pietrangeli. Il napoletano Pisacane viene invece dalla gloriosa filodrammatica partenopea e aveva cominciato a fare cinema già in gioventù all’epoca del muto per poi proseguire come caratterista generico e qui è al suo primo personaggio importante, quel Capannelle che gli porterà talmente fortuna e fama da venire accreditato nelle produzioni future anche come solo Capannelle; il suo riuscitissimo accento bolognese è dovuto al doppiaggio del friulano Nico Pepe.

I debuttanti Claudia Cardinale e Tiberio Murgia come sorella e fratello.

Il sardo Tiberio Murgia è al suo debutto cinematografico diventando siciliano col doppiaggio del napoletano Renato Cominetti e anche il suo personaggio ha talmente fortuna che proseguirà la carriera continuando a essere scritturato come siciliano. Prima di approdare al cinema ha un passato rocambolesco: di famiglia povera emigra in Belgio per andare a fare il minatore a Marcinelle dal cui disastro scampa perché si era dato malato per stare con la moglie di un collega di cui era divenuto amante, ma l’intera storia è oggi ritenuta falsa perché viene da un articolo della rivista “Gente” di genere scandalistico-propagandistico per favorire la carriera del neo-attore. Di fatto Murgia fu veramente minatore in Belgio e poi lavapiatti in un ristorante di Roma dove fu notato da un assistente di Monicelli e da lì si avviò la sua carriera di caratterista siciliano.

Va dato merito al regista e al suo staff di co-sceneggiatori l’avere inserito nel cast dei coprotagonisti due piccoli caratteristi, Carlo Pisacane di antica scuola teatrale e Tiberio Murgia preso dalla strada: due personaggi veramente costruiti a tavolino che nulla avevano e avranno a che fare col carisma dell’interprete; due facce che già da sé erano maschere, ma personaggi creati col supporto di altri due professionisti a dare loro la voce: in pratica per ogni personaggio due attori, uno davanti e l’altro dietro la macchina da presa, perché senza quelle voci e quegli accenti le due maschere non sarebbero mai esistite. Pratica oggi irrealizzabile per fortuna, per la dignità professionale degli interpreti, ma che allora era prassi comune se si pensa che anche molti dei protagonisti venivano doppiati e la cosa non creava scandalo. Qui c’è Renato Salvatori che praticamente sarà sempre doppiato in tutta la sua carriera e se ciò non fosse stato consentito probabilmente si sarebbe impegnato a studiare recitazione e dizione laddove la fotogenia non sarebbe bastata più; per molti anni Claudia Cardinale fu doppiata, però si è battuta per recitare con la sua voce, e anche Totò che verso la fine era ormai quasi cieco e aveva come doppiatore ufficiale Carlo Croccolo. I titoli di testa continuano col resto dei generici fra i quali bisogna ricordare Elisa Fabrizi che è un errore di trascrizione trattandosi in realtà di Elena Fabrizi, sorella di Aldo Fabrizi, che dopo la scomparsa del fratello diverrà nota come Lella Fabrizi o più semplicemente Sora Lella, attrice intrattenitrice e proprietaria di una trattoria sull’isola Tiberina a Roma. I titoli si concludono “con” Marcello Mastroianni le cui lettere riprendono la misura massima che Gassman aveva avuto in apertura, “e con la partecipazione straordinaria” di Totò. Non è accreditato il prevalentemente radio-televisivo Mario Feliciani nel ruolo del commissario di polizia che tornerà nel sequel dell’anno dopo messo in cantiere a tambur battente.

Sul momento nessuno si rese conto di cosa era accaduto: il fatto più evidente fu il clamoroso successo del film che fu distribuito praticamente in tutto il mondo: negli USA e nel Regno Unito col titolo “Big Deal on Madonna Street” e lì avrebbe avuto grande risonanza soprattutto fra gli addetti ai lavori tanto che nei decenni a seguire avrebbero realizzato ben due remake; mentre in Spagna fu ripreso il primo titolo provvisorio “Rufufù” e in Francia si optò per “Le Pigeon” il piccione, vai a capire perché, mentre in Argentina e Brasile fecero una fedele traduzione del titolo: “Los desconocidos de siempre” e Os eternos Desconhecidos“.

Dovette passare qualche anno perché ci si rendesse conto che “I soliti ignoti” era diventato il capostipite di un nuovo genere cinematografico: la commedia all’italiana. Che era un po’ quello che era successo secoli prima nel teatro quando dalla Commedia dell’Arte si passò alla commedia brillante borghese dove i caratteri avevano perso la fissità delle maschere per diventare esseri umani a tutto tondo con i loro chiaroscuri. Da quel film in poi tutti dovettero fare i conti con quel modo di scrivere e realizzare pellicole brillanti e in un paio di decenni si realizzarono grandi film, molti dei quali a episodi, fino a che la commedia all’italiana non morì verso la fine degli anni Settanta stretta fra le spire della commedia sexy. Mario Monicelli fu candidato agli Oscar nella categoria Miglior Film Straniero e vinse lo spagnolo Festival di San Sebastian; ai Nastri d’Argento vinse Vittorio Gassman come miglior protagonista e l’intera squadra degli scrittori fu premiata per la miglior sceneggiatura.

L’anno dopo uscì il sequel “Audace colpo dei soliti ignoti” con Nanni Loy che prese il controllo dell’impresa, e un secondo tardivo nostalgico seguito si ebbe nel 1985 diretto da Amanzio Todini: “I soliti ignoti vent’anni dopo”. Del 2020 è l’adattamento teatrale andato in scena al Teatro La Pergola di Firenze, diretto e interpretato da Vinicio Marchioni su copione di Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli. Altro adattamento teatrale ma in musical fu quello che Bob Fosse realizzò nel 1986, “Big Deal”, che non vide praticamente nessuno: 6 anteprime e 69 repliche, a Broadway. Due i remake americani, dicevamo: il primo è “Crackers” del 1984 diretto da Louis Malle con Donald Sutherland e Sean Penn, mentre del 2002 è “Welcome to Collinwood” diretto dai fratelli Anthony & Joe Russo e prodotto da George Clooney che si è collocato nel ruolo che fu di Totò. Nel 2000 Woody Allen fece un’importante citazione-omaggio nel suo “Criminali da strapazzo”. Un altro importante omaggio è nel film “A/R Andata + Ritorno” del 2004, terza regia di Marco Ponti.

Fra le curiosità: il film sarebbe dovuto uscire col titolo “Le Madame” che era il soprannome con cui i criminali chiamavano i poliziotti e che venne rigettato dalla censura perché non si poteva ironizzare sulle forze dell’ordine. La Via delle Madonne in cui viene tentato il colpo, ripreso dal titolo americano, in realtà non esiste, trattandosi della scalinata di Via della Cordonata che scende su Via delle Tre Cannelle, dietro Piazza Venezia. La ragazza che litiga col fidanzato sotto il lucernario su cui restano appesi i ladruncoli è l’ungherese Edith Bruck, scampata ai campi di concentramento nazisti, che si era stabilita a Roma dopo aver tentato di rientrare in patria, dove non aveva più nessuno, per poi di trasferirsi in Israele nel 1948 a ridosso della formazione del nuovo stato, immaginato “di latte e miele”, come scriverà, ma percorso da altri insopportabili conflitti. Come ancora oggi è. A Roma frequenta ovviamente l’ambiente intellettuale dove conosce e poi sposerà il poeta-regista Nelo Risi, fratello di Dino, e debutterà come scrittrice nel 1959 con “Chi ti ama così” scrivendo in lingua italiana, una lingua non sua, come spiegherà, che le consente il necessario distacco per descrivere la sua esperienza nei campi di concentramento. Ultima curiosità: i nomignoli Capannelle e Ferribotte erano stati orecchiati nella vita reale: a Capannelle c’è l’ippodromo di Roma ed era il soprannome di un assiduo scommettitore sulle corse dei cavalli, caratteristica che nel personaggio del film non c’è, mentre Ferribotte è la storpiatura di ferry boat, il traghetto che i siciliani prendevano per raggiungere il continente e come molti ancora lo chiamavano: ferribotte o ferribotto. Entrambi i personaggi torneranno nel prossimo sequel mentre solo Ferribotte sopravvivrà vent’anni dopo.

Edith Bruck

Il film è disponibile su RaiPlay e YouTube.

La stranezza

Quest’anno ben due film su Luigi Pirandello. Il primo, “Leonora addio” di Paolo Taviani è uscito a inizio anno e “La stranezza” di Roberto Andò ha visto la luce a ottobre al Festival del Cinema di Roma e nelle sale si è subito piazzato al primo posto degli incassi, mentre il film di Taviani, spiace dirlo, non ha avuto altrettanta fortuna. Dunque non è Pirandello che porta la gente al cinema e, tocca dirlo, neanche Andò, un autore rinomato e premiato dalla critica ma mai abbastanza dal pubblico: questo è il suo primo vero successo commerciale, cui certamente seguiranno i dovuti premi.

Roberto Andò è un intellettuale palermitano che deve praticamente tutto alla sua amicizia con Leonardo Sciascia al quale dedica questo film; fu l’altro siciliano eccellente, scrittore assai rappresentato al cinema e in teatro, a spingerlo alla scrittura e a introdurlo nel mondo del cinema, dove Andò sarà assistente di Francesco Rosi, Giacomo Battiato e Federico Fellini fra i grandi italiani, e Michael Cimino e Francis Ford Coppola fra gli americani venuti a girare in Sicilia. Così va imparando il mestiere col meglio del panorama cinematografico mentre apprende l’arte della messinscena a teatro, sempre con progetti di alto livello culturale e debutta con un testo che gli è stato affidato nientemeno che da Italo Calvino e Andrea Zanzotto e messo in scena con i bozzetti di Renato Guttuso: meglio di così!… Impiegherà una decina d’anni per realizzare il suo primo lungometraggio, “Diario senza date” una docu-fiction ambientata in quella sua Palermo, i cui misteri indaga attraverso testimonianze e interviste vere e inventate; mentre il suo primo lungometraggio totalmente di finzione narrativa è una finzione che racconta la realtà ispirandosi alla biografia di un altro siciliano eccellente, Giuseppe Tomasi di Lampedusa con “Il manoscritto del principe”; dopo una serie di film i cui protagonisti sono sempre degli intellettuali, perché quello è il suo mondo e il suo immaginario, torna con questo scherzo biografico su Luigi Pirandello e fa tombola.

Abbandona i suoi più congeniali toni pensosi e ai tormenti personali e sempre inevitabilmente intellettuali del Pirandello, colto nel periodo in cui sta scrivendo i “Sei personaggi in cerca d’autore”, contrappone una favola ironica e grottesca degna del miglior cinema sul teatro e del miglior cinema di ambientazione siciliana: una coppia di teatranti amatoriali mette in scena un dramma che ovviamente si rivolge in farsa e la cui interazione fra teatranti e pubblico si rivela di grande ispirazione per il tormentato autore che non sa dare forma ai suoi personaggi-fantasma. “La stranezza”, titolo quanto mai efficace perché misteriosamente accattivante, è detta nel film dalla balia del Pirandello bambino che era vittima di parossismi estatici e creativi che la balia illetterata poteva descrivere solo come stranezza, una stranezza che nel presente narrativo diventerà la stranissima, per l’epoca, “Sei personaggi in cerca d’autore, commedia da fare” che debutterà al Teatro Valle di Roma, oggi minuziosamente ricostruito in studio con l’impiantito e le poltroncine di legno, il 9 maggio del 1921, e sarà un clamoroso insuccesso, con pochi sostenitori che verranno alle mani con molti dei buggeratori che accoglieranno l’autore gridandogli “Manicomio! manicomio!”, invettiva specifica speciosa e ad arte, sicuramente lanciata per prima da qualcuno che conoscendo la personale tragedia di Pirandello voleva colpirlo nell’intimo: due anni prima l’autore era stato costretto a far rinchiudere in un manicomio la moglie pazza.

A essere onesti quel pubblico non aveva tutti i torti: abituato al teatro classico e ai drammi borghesi, improvvisamente si trova ad assistere a un’ardita sperimentazione che mette in discussione l’intero impianto teatrale, la concezione dei personaggi e il ruolo degli attori. Avevano imparato a conoscere e apprezzare Pirandello sin dal suo grande successo letterario “Il fu Mattia Pascal” pubblicato nel 1904 prima a puntate sulla rivista Nuova Antologia e poi in volume, un successo determinato proprio dai lettori prima che dalla critica che si era mostrata tiepida; una disattenzione che ferì nell’intimo l’autore, che di rimando se la prese pubblicamente con coloro che, osannati dalla medesima critica, egli non riteneva degni: Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli, alla cui uscita delle opere dichiarò di detestarli nel modo più assoluto, e ancor di più gli brucerà l’essere ignorato da D’Annunzio mentre Pascoli beffardamente lo apostrofò “Pindirindello”. Passeranno pochi anni e Pindirindello avrà la sua rivincita vincendo il Premio Nobel per la letteratura.

Oggi sorprende e fa sorridere che grandi nomi che abbiamo studiato sui libri di scuola siano stati esseri umani con tutte le umane debolezze annesse. In ogni caso lettori e pubblico teatrale avevano fin lì amato Pirandello, a cominciare dalle sue prime prove sceniche che si rifacevano alla classica narrativa siciliana: “Cecè” “Liolà” “Pensaci, Giacomino!” fra gli altri; nella sua seconda fase, l’Agrigentino si discosta da quello che in qualche modo rinnovava il teatro di tradizione dell’Isola, e si avvia verso i drammi borghesi con incursioni nel grottesco anche di tono drammatico, e nell’umoristico, ad esempio: “Così è (se vi pare)” “Il berretto a sonagli” “L’uomo, la bestia e la virtù”. A quel punto, ed è questo il periodo sul quale si concentra il film di Andò, Pirandello dà un’ultima svolta, quella decisiva, al suo teatro col dirompente “Sei personaggi in cerca d’autore”, una fase poi definita di teatro nel teatro: ricordando che egli fu regista delle sue messe in scena, rendendosi conto che la rappresentazione non poteva essere soltanto parola ma anche spettacolo visivo, tornò di fatto al teatro shakespeariano con la tecnica del palcoscenico multiplo, ovvero spazi scenici diversi in cui gli attori agiscono contemporaneamente; inoltre viene mostrato il teatro come work in progress, lo diciamo oggi, il teatro che racconta se stesso.

La scena nella scena, il palcoscenico multiplo dei “Sei personaggi”
La quarta parete fa parte della sospensione dell’incredulità esistente tra l’opera di finzione e lo spettatore. Il pubblico di solito accetta implicitamente la quarta parete senza tenerla direttamente in considerazione, potendo così godere della finzione della rappresentazione come se stesse osservando eventi reali.

E ancora, Pirandello rimuove l’immaginaria quarta parete, concettualmente codificata da Denis Diderot (metà ‘700) per far comprendere la necessità di una recitazione più realistica, dove l’azione scenica si completa nel suo spazio e nel suo tempo che prescinde da quello reale in cui è il pubblico; di fatto la quarta parete era un concetto già noto sin dai tempi dell’antica Roma, tanto che il commediografo Plauto (250 a.C.) fu fra i primi a romperla facendo comunicare gli attori direttamente col pubblico in un’azione dichiaratamente di finzione per entrambe le parti, con dialogo e interazione molto apprezzati dal pubblico popolare e che sarà connaturata nella Commedia dell’Arte dove con gli a parte i personaggi si rivolgono direttamente al pubblico per metterli in guardia su quanto sta per accadere o per sollecitarne personali simpatie. Dunque, dopo quasi tre secoli, Pirandello rompe di nuovo la quarta parete in un teatro ormai sterilmente imborghesito e lo fa a tutto tondo, facendo agire i suoi personaggi fra il pubblico in sala che, dato il contesto e la consuetudine, non poteva comprendere: Manicomio! manicomio!

Raccontano i biografi di Pirandello su Pirandelloeweb.net di come una volta dei muratori che lavoravano davanti alle finestre della casa dello scrittore, sospendessero il lavoro per contemplare, stupiti e affascinati, quanto avveniva nel suo studio: Pirandello si era messo “a parlare da solo, gesticolare, strabuzzando gli occhi, e facendo le più strane facce del mondo”. Quegli operai avranno pensato di aver sorpreso il drammaturgo, evidentemente pazzo, in un momento di delirio; In realtà egli era impegnato in uno dei suoi frequenti colloqui coi personaggi, di cui parla nella novella omonima che si può leggere o ascoltarne la lettura nel link dato. Scrisse la commedia fra l’ottobre del 1920 e il gennaio del 1921 avendo come fonte narrativa anche le altre sue novelle “Personaggi”, “La tragedia di un personaggio”.

Foto di gruppo della compagnia del 1921, al centro Dario Niccodemi seduto, alla sua sinistra sono riconoscibili Vera Vergani e Jone Frigerio.
Pirandello con Dario Niccodemi

Dario Niccodemi fu accortamente anche un impresario che produsse Pirandello, ma era principalmente un drammaturgo che scriveva commedie sentimentali e ironiche ambientate nell’alta società borghese, il cui successo di punta fu “La nemica”, opera che Lev Tolstoj disse di preferire ai lavori dello stesso Pirandello o ai romanzi di Giovanni Verga. Egli aveva appena costituito la sua compagnia nella quale era prima attrice Vera Vergani, sentimentalmente e direi opportunamente a lui legata, e prim’attore era Lugi Cimara che con la Vergani formò un’affiatata coppia scenica, e mai sapremo quanto affiatata fu anche in privato: chiacchiere di antichi corridoi; altro attore di punta era Luigi Almirante, forte carattere espressivo che ebbe un suo personale successo proprio con le opere pirandelliane a partire da questi “Sei personaggi” in cui interpretò il Padre, con Jone Frigerio nel ruolo della Madre, l’acclamatissima Vergani come Figliastra e Cimara come Figlio. Nonostante il contrastato esordio romano, l’impresario Niccodemi non si fece intimorire e portò lo spettacolo a Milano dove fu degnamente acclamato: in questo link la critica dalla rivista Comoedia dell’ottobre 1921. Più tardi, nel 1925, Pirandello aggiunse una prefazione nella quale spiegava la genesi e le intenzioni del dramma, per meglio disporre il pubblico alla comprensione.

Roberto Andò ci accompagna in un viaggio immersivo nel disorientamento di un Pirandello in lutto per la morte della vecchia balia, distrutto dalla follia della moglie e tormentato dai suoi fantasmi-personaggi che ancora non sa come portare in scena – e lo fa regalandosi e regalandoci una leggerezza narrativa che scivola su tutto il racconto drammatico come un balsamo lenitivo: si sorride, si ride anche, mentre si palpita e ci si emoziona per questo Pirandello così misteriosamente umano ed empatico.

Lo interpreta un Toni Servillo sempre in gran spolvero quando c’è da rendere dei personaggi realmente esistiti: è stato Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi e Ennio Doris per Paolo Sorrentino (“Il divo” e “Loro”), Giuseppe Mazzini e Eduardo Scarpetta per Mario Martone (“Noi credevamo” e “Qui rido io”), e Paolo VI in “Esterno notte” di Marco Bellocchio. Gli fanno da contraltare la coppia Ficarra e Picone, Salvatore Ficarra e Valentino Picone, che si esibiscono come cabarettisti a partire dal 1993; nel 2000 partecipano separatamente con piccoli ruoli in “Chiedimi se sono felice” film del trio Aldo Giovanni e Giacomo, e già dal 2002 avviano la loro personale sequenza di film di derivazione cabarettistica; in questo “La stranezza” sono per la prima volta protagonisti di una commedia, grottesca sì ma dai risvolti drammatici, in cui benché sempre facendo coppia sono altro e meglio del loro standard, già alto: il loro ultimo film pre-pandemia “Il primo natale” era in testa nella classifica del botteghino.

Il resto del nutrito cast è una felicissima carrellata di facce perfette, cinematograficamente parlando, facce che altrettanto felicemente corrispondono ad interpreti di razza, e si intuisce un minuzioso lavoro di casting. Renato Carpentieri interpreta il Giovanni Verga che Pirandello va ad omaggiare per i suoi ottant’anni, e al quale rivolge i suoi dubbi esistenziali e creativi. Aurora Quattrocchi è la vecchia balia, e la catanese Donatella Finocchiaro, già protagonista per Andò in “Viaggio segreto” del 2006, qui interpreta in una sola intensa scena muta la moglie pazza di Pirandello. A conclusione dei personaggi che ruotano attorno a Pirandello va senz’altro nominato il suo storico suggeritore Battaglia interpretato da Antonio Ribisi La Spina. Altro centratissimo interprete di una scena muta, perché muto è il personaggio, è l’ultima grande maschera del teatro catanese, Tuccio Musumeci, nel ruolo del suocero di Nofrio (Picone) sempre in mezzo sulla sua sedia a rotelle e con uno sguardo sempre preventivamente punitivo. Rosario Lisma è il corrotto impiegato comunale la cui vicenda è una storia nella storia.

In primo piano Antonio Ribisi La Spina
Cartolina ricordo della compagnia filodrammatica

Fra gli attori amatoriali della “Compagnia Filodrammatica Siciliana Principato e Vella” spiccano la puntuta Marta Lìmoli, del cui personaggio non sappiamo le vicende ma che potrebbe essere una sartina come una bidella come la moglie del farmacista, e il bonaccione Franz Cantalupo anche becchino per la coppia dei capocomici impresari funebri: entrambi attori provenienti dalla scuola catanese che benissimo hanno saputo mimetizzarsi, anche linguisticamente, in un cast girgentino-palermitano: è cosa nota che siciliani dell’est e dell’ovest hanno cadenze e musicalità diverse e che non sempre sono in grado di fingersi gli uni per gli altri. Nella compagnia amatoriale spicca anche Brando Improta che è Fofò, il torvo trovarobe innamorato di Santina, la sorella del gelosissimo Bastiano (Ficarra) che però finirà col fare coppia col di lui amico Nofrio che per lei lascerà la famiglia e romperà la storica amicizia col collega d’impresa funebre e d’arte. Santina è interpretata da Giulia Andò, figlia del regista e col quale ha praticamente solo lavorato, e forse meriterebbe di spiccare il volo dal nido. Visibilmente appesantita ma per questo efficacissima nel ruolo della prostituta che allieta i momenti intimi di Bastiano, è Tiziana Lodato, un’altra catanese che fu protagonista ventenne al suo debutto in “L’uomo delle stelle” di Giuseppe Tornatore. Completano il cast dei filodrammatici Laura Giordani, già vista in “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante, Aldo Failla protagonista di una divertente gag, Adele Tirante e Alberto Molonia.


Adele Tirante, Laura Giordani, Franz Cantalupo e Aldo Failla nella compagnia amatoriale

Nella catartica messa in scena dei “Sei personaggi” Filippo Luna è il direttore di scena, Luigi Lo Cascio il capocomico, Fausto Russo Alesi il Padre, Galatea Ranzi la Madre, Giordana Faggiano la Figliastra e Paolo Briguglia il Figlio, in una inappuntabile e coinvolgente ricostruzione storica di quell’evento, col pubblico che venne alle mani e Pirandello che dovette fuggire insieme alla figlia. I due teatranti amatoriali venuti dalla Sicilia ad assistere allo spettacolo rimangono chiusi nel teatro vuoto e non sapremo che ne sarà di loro perché non importa: sono ulteriori fantasmi che hanno animato la stranezza creativa di Luigi Pirandello in un’invenzione narrativa che veicola un momento biografico e storico. Nel complesso un film di cui sentiremo ancora parlare, con diversi piani di lettura e di un autore in stato di grazia che, va detto, l’ha scritto con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso. Premi in arrivo per tutti.

Il cast del ricostruito Teatro Valle

Boccaccio ’70

Boccaccio 70

Dice il cartello all’inizio del film “Scherzo in quattro atti ideato da Cesare Zavattini” e i quattro atti, come se fossimo a teatro, sono introdotti e chiusi da un sipario dipinto.

I atto: Renzo e Luciana

Roma spettacolo: settembre 2013

Già dal titolo riconosciamo la fonte dell’ispirazione: quei Renzo e Lucia di manzoniana memoria, coppia osteggiata dagli uomini e dagli eventi che faticheranno non poco per coronare il loro sogno d’amore. Ma allora che c’entra Boccaccio? L’episodio, anzi il primo atto, scritto a sei mani dalla prolifica e acclamata sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico; dallo scrittore Giovanni Arpino, meno attivo al cinema ma ben rappresentato: suo il romanzo da cui fu tratto “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi, 1962; da un suo racconto fu poi scritto “Profumo di donna” di Dino Risi, 1974, da cui il remake americano “Scent of a woman” di Martin Brest, 1992; e poi “Anima persa” sempre di Risi, 1977; terzo sceneggiatore fu lo scrittore Italo Calvino che veicolò il cortometraggio da un suo proprio racconto, “L’avventura di due sposi” dalla collezione “Gli amori difficili”. Ma allora, di nuovo, che c’entra Boccaccio? Praticamente nulla, come avvisato all’inizio del film è uno “scherzo”, puramente intellettuale, messo in opera, come stiamo vedendo, da grandi firme della letteratura contemporanea e con le direzioni di altri quattro grandi registi dell’epoca.

7 film di Monicelli su Iris: cosa vedere e cosa (si può) evitare | Nuovo  Cinema Locatelli

Il film è del 1962 e con quel ’70 allunga una mano sull’incognito futuro, come a volersene appropriare, ma piuttosto che essere il precursore di una serie di film a episodi ben scritti e diretti, farà da ispirazione a una lunga sequela di film di serie B, più o meno boccacceschi, decisamente più ammiccanti fino a sfiorare la pornografia nel peggiore dei casi; in ogni caso, come già detto altrove, schema narrativo come esercizio di stile per gli italici divi dell’epoca. in realtà “Boccaccio ’70” è un film di costume che mette in scena l’Italia di quei primi anni ’60 con il boom economico che portò in ogni casa la lavatrice rigorosamente pagata a cambiali mensili, lo sviluppo delle periferie, e i conseguenti mutamenti nel costume sociale. Monicelli realizza un film garbato che oggi possiamo vedere come uno spaccato sulle condizioni socio-economiche di quel proletariato, soprattutto in chiave femminile, dato che fondamentalmente racconta l’uso e l’abuso dei contratti di lavoro in cui si chiedeva alle donne di mantenersi nubili e sterili pena il licenziamento, contrattualità che verrà abolita e regolamentata e punita non prima del 1970, inizio di un periodo di ulteriori sconvolgimenti sociali, in chiave più drammatica, che presenteranno i conti aperti nell’allegro decennio precedente. Vale la pena ricordare che questo racconto di Italo Calvino aveva anche ispirato la “Canzone triste” di Sergio Liberovici.

Marisa Solinas, Playmen Magazine May 1968 Cover Photo - Italy

Mario Monicelli sceglie come protagonisti due debuttanti di bell’aspetto e convincente interpretazione. Renzo è Germano Gilioli, qui doppiato da Renzo Montagnani, che dopo aver preso parte due anni dopo al misconosciuto “Le conseguenze” regia di Sergio Capogna, scompare dal mondo cinematografico. Lei è Marisa Solinas, che sarà anche cantante di musica leggera, coinvolta nello scandalo che seguì il suicidio di Luigi Tenco a Sanremo, per il quale dichiarò che il cantautore si era tolto la vita a causa dei debiti contratti per una tangente di 6 milioni di lire pagata agli organizzatori del festival; ovviamente la società coinvolta la denunciò e lei in seguito raddoppiò dichiarando di avere ricevuto minacce per il figlio se non avesse rettificato: vero o falso che sia il tutto, si sa che dove c’è fumo anche se non sempre c’è un arrosto c’è comunque qualcosa che brucia. Marisa Solinas si ritaglierà anche uno spazio nell’erotismo posando nuda per Playmen e per la Gina Lollobrigida fotografa autrice di “Italia mia”, e incidendo anche due canzoni pseudo erotiche sulla falsa riga della francese “Je t’aime… moi non plus”. In un piccolissimo ruolo, come Ercole circense, l’ancora poco noto Giuliano Gemma qui doppiato da un Alighiero Noschese già frequentatore degli studi Rai ma non ancora approdato alla fama di imitatore, anche politico (cosa non facile all’epoca) nei varietà.

II atto: Le tentazioni del dottor Antonio

Boccaccio '70 – Le tentazioni del Dottor Antonio - Italy For Movies

Fellini firma questo secondo atto e il suo stile è subito evidente: quello grottesco e surreale che al contempo si prende gioco della società, di quella società prevalentemente guidata da un imperante perbenismo di tracimazione cattolica. Ne è protagonista assoluto un Peppino De Filippo in gran spolvero, mattatoriale una volta tanto, dato che la sua carriera è di eterno secondo: fratello minore, anche artisticamente, di Eduardo, e poi spalla di Totò. Peppino era stato protagonista per Fellini in “Luci del varietà”, debutto del regista in co-regia con Alberto Lattuada, grande insuccesso e terreno di successive polemiche sulla paternità del film. Fellini, che in quell’occasione rimase incantato da Peppino De Filippo, ebbe a dire di lui: “Era un attore che mi piaceva moltissimo, un buffone glorioso, un attore comico straordinario e a mio parere molto più bravo del fratello Eduardo, più cattivo, più originale: il povero cristo che impersonava sempre Eduardo era stato già anticipato in tanti racconti di Cechov, in tanto teatro, lo stesso Viviani in fondo lo aveva interpretato in maniera molto più scattante, diavolesca e potente. Mi sembrava che Peppino fosse una delle incarnazioni più riuscite di questo personaggio sfrontato, patetico nella sua spavalderia, come sapeva muoversi in scena, con l’arroganza e la disinvoltura di certi cani, una presunzione, una spavalderia solo sua”. Peppino era morto nel 1980, Fellini morirà nel 1993.

49 idee su Peppino De Filippo | attori, cinema, personaggi

L’altra protagonista è l’iconica Anita Ekberg, la statuaria ex Miss Svezia già Golden Globe a Hollywood come migliore attrice emergente per “Hollywood o morte” del 1956 con la coppia Jerry Lewis – Dean Martin. Anitona, come affettuosamente la chiamerà Fellini, approderà nella Hollywood sul Tevere per girare un peplum e da lì parte la sua storia artistica tutta italiana e felliniana. Qui recita se stessa, quella resa nota da “La dolce vita”, con la sua voce e quel suo accento sufficientemente alieno da trovare posto nell’immaginario di un Fellini sempre alla ricerca di volti particolari che abbina sempre a doppiaggi altrettanto fuori dal comune: in questo film, ad esempio, fa doppiare una donna brutta da un uomo in falsetto. Anitona, in gigantografia da un manifesto che pubblicizza il latte, turba la fantasia del dottor Antonio Mazzuolo che, nomen omen, da puritano intransigente mazzìa e perseguita tutti quelli che, a suo dire, disturbano la morale comune e il comune senso del pudore: in realtà anche il clero e i politicanti si mostrano più tolleranti e compiacenti di lui. In un incubo notturno e durante un temporale Anitona esce dal manifesto in tutta la sua enormità e duetta con il misero omettino tentandolo come una fascinosa e gigantesca diavolessa, mentre risuona ossessivo il motivetto di Nino Rota della pubblicità. Motivetto che, dopo aver visto il film in tivù decenni fa da ragazzino, ancora ricordo, così come il vagare notturno dell’affascinante gigantessa fra i palazzi modernisti dell’EUR.

Anche in questo cortometraggio, introdotto dal racconto di una bambina nei panni di un Amorino capriccioso che poi conclude il film, non c’è alcun riferimento diretto a Boccaccio, ma tant’è. E’ scritto da Fellini con lo scrittore Ennio Flaiano e con Tullio Pinelli, primogenito dei piemontesi conti Pinelli già brillante autore di commedie teatrali finché vinse una selezione come sceneggiatore cinematografico alla Lux Film di Roma, sorpassando calibri come Vitaliano Brancati ed Elio Vittorini. Qui conosce Fellini col quale collaborerà praticamente a tutti i suoi film.

Fra le curiosità c’è da riportare che nella scena in cui Antonio Mazzuolo schiaffeggia una donna seduta al tavolino di un bar per la sua generosa scollatura, riprende il vero accadimento in cui un giovane Oscar Luigi Scalfaro (Presidente della Repubblica dal 1992 al 1999) allora presidente di Azione Cattolica, schiaffeggiò una donna in un locale pubblico per l’identica ragione. Poi, secondo gli autori di “A New Guide to Italian Cinema” del 2007, l’Anitona di Fellini sarebbe stata ispirata dalla gigantessa di un B-movie americano del 1958, “Attack of the 50 Foot Woman” dove i 50 piedi americani corrispondono a circa 15 metri: quel film non è mai arrivato in Italia e l’ipotesi, ancorché plausibile, non trova conferme nei fatti.

III attoIl lavoro

Un’inquadratura del film che esemplifica l’incomunicabilità fra i due coniugi, distanti, lui riflesso in uno specchio: simbolo cinematografico del doppio ma anche del narcisismo, come pure di parossismo schizofrenico: in ogni caso disagio esistenziale.

Dirige Luchino Visconti, che scrive il cortometraggio con Suso Cecchi D’Amico, la quale passa con nonchalance dal proletariato del primo atto a questa ricca borghesia, meglio ancora nobiltà, del terzo episodio, sempre ambientato a Milano. E ancora una volta Boccaccio non c’entra in quanto la storia è derivata da un racconto di Guy de Maupassant, “Au bord du lit”, tradotto da noi sia come “Accanto al letto” che “Sul bordo del letto”, un dramma morale in forma di beffa amara che può ricongiungersi ai temi narrati nel “Decamerone” dal Boccaccio: una donna, scoperte le numerose relazioni del marito puttaniere, decide di concedersi a lui solo dietro compenso. Luchino Visconti di Modrone conte di Lonate Pozzolo si diverte a farne un film molto personale in cui con tagliente autoironia svende la sua classe sociale allo spettatore medio in cerca di brividi scandalistici, ed è anche l’unico episodio dove si intravede un nudo femminile, per la gioia degli occhi e il prezzo del biglietto, dato che per il resto è tutto uno sterile esercizio di stile abbastanza freddo, cerebrale, in cui Visconti mostra anche una copia tedesca de “Il Gattopardo” che è il racconto da cui stava preparando il suo film successivo. Un piccolo film di auto citazioni.

In un lungo antefatto mette in scena lo sproloquio di un avvocato che introduce il tema delle numerose ragazze squillo con le quali si è sollazzato il giovane piacente conte Ottavio, tutto nella norma per carità, se non fosse che una delle ragazze ha parlato e lo scandalo è finito su tutti i giornali; ma non è tanto lo scandalo a preoccupare il conte e il suo avvocato, quanto piuttosto la reazione del suocero che chiude i cordoni della borsa. Da qui, dopo aver subìto il monologo dell’avvocato, il conte passa a duettare con la moglie Pupe, tedesca che parla in tedesco col padre al telefono, al quale dice che vuol trovarsi un lavoro, come da titolo del film, pur non sapendo cosa davvero significhi quella parola: è un capriccio che la trama non giustifica, fine a se stesso come ogni capriccio della nobiltà, ma un capriccio che introduce l’anima del racconto: poiché al marito piace pagare le donne, e nel contempo continua a desiderare anche la bella moglie, lei gli si concederà dietro compenso, quadrando il cerchio: trova un lavoro e beffa il marito, ma a che prezzo? la consapevolezza di poter fare solo la puttana.

Boccaccio '70: le location del film con Romy Schneider e Sophia Loren

Benché l’uso e l’abuso di attori stranieri sia la tendenza del cinema italiano dell’epoca sempre in cerca di co-finanziamenti e lasciapassare per il mercato estero, in Visconti è anche un gusto personale che segue la sua formazione artistica: ha cominciato a lavorare nel cinema francese al seguito di Jean Renoir; e nella sua cinematografia la nobiltà e l’alta borghesia, e la decadenza sociale e umana, diverranno filo conduttore, dal prossimo film “Il Gattopardo” all’ultimo “L’Innocente”, mentre prima di questo momento di svolta si era espresso dentro la vena del neorealismo a cominciare dal suo primo film “Ossessione” e poi con “La terra trema” e “Bellissima” e “Rocco e i suoi fratelli” fra i quali inserisce quello che fu considerato il suo primo tradimento al neorealismo: “Senso”.

Romolo Valli e Paolo Stoppa

Protagonista di questo episodio è Thomas Milian, nato a Cuba durante i regimi pre Castro che, dopo avere assistito al suicidio di suo padre, ex generale di regime caduto in disgrazia nel regime successivo, fugge negli Stati Uniti dove prende la cittadinanza e la via della recitazione. Sul finire degli anni ’50 venne in Italia a esibirsi al Festival di Spoleto in una pantomima di Jean Cocteau, e gli andò bene perché gli erano rimasti in tasca solo 5 dollari: lo notò Mauro Bolognini che gli aprì una carriera cinematografica in serie A, fino a questa regia di Luchino Visconti dove è doppiato da Corrado Pani; percorre tutto il film facendo in realtà da spalla ai protagonisti dei due segmenti della storia: nel primo, come detto, fa da interpunzione al monologo dell’avvocato interpretato da Romolo Valli, grande interprete teatrale con importanti incursioni al cinema, prematuramente scomparso a causa di un incidente stradale, a 55 anni. Nella seconda parte Thomas – come dai titoli – ma poi Tomas Milian, fa da spalla a Romy Schneider, doppiata da Adriana Asti, un’austriaca naturalizzata francese e resa famosa dalla trilogia di film sulla Principessa Sissi ma dalla cui zuccherosità volle subito prendere le distanze cercando ruoli più impegnativi. A questo terzetto bisogna aggiungere la partecipazione di Paolo Stoppa, altro amico e collaboratore di Visconti, qui nel ruolo muto e beffardo di un secondo avvocato.

Tomas Milian diventerà famoso passando agli spaghetti-western e ai poliziotteschi dove sarà “Er Monnezza”, mentre Romy Schneider proseguirà con una fulgida carriera stroncata a 43 anni da quello che si credette un suicidio ma che in realtà fu un arresto cardiaco dovuto sia ad abuso di alcol che a una profonda depressione per i postumi di un cancro, e soprattutto per la tragica morte del figlio 14enne trovato infilzato su un cancello che voleva scavalcare. Ma secondo un articolo del 2009 del quotidiano tedesco “Bild”, l’attrice fu vittima di spionaggio da parte della Stasi, i servizi segreti della DDR, per il suo sostegno a un comitato di opposizione al regime sovietico, e si adombra l’ipotesi dell’omicidio.

IV atto: La riffa

Sophia Loren, Boccaccio '70 | Sophia loren, Celebrità, Attrice

Il quarto atto è tutto al servizio di Sophia Loren che già nei titoli del manifesto non condivide il suo spazio con un secondo interprete, come accade per gli altri episodi; del resto produce suo marito Carlo Ponti e dirige il suo maestro d’arte Vittorio De Sica: “Chi mi ha in segnato a credere in me stessa? Vittorio De Sica: non solo un grande amico, ma anche un importante mentore nella mia vita” ha dichiarato recentemente l’ottantasettenne diva, e anche: “Devo ringraziare mio marito e De Sica. Ho cominciato dal niente. Mia madre era una povera signora, ci morivamo di fame e siamo andate a Roma. Senza persone che credono in te non vai da nessuna parte. Incontrai Carlo Ponti, il mio futuro marito, e mi fece conoscere Vittorio De Sica. Lo porto nel cuore.

Un piccolo grande miracolo: Vittorio De Sica, Cesare Zavattini e “La porta  del cielo” | Associazione Cinematografica "La Dolce Vita"
Vittorio De Sica e Cesare Zavattini

Scrive la sceneggiatura originale quel Cesare Zavattini che si è praticamente inventato l’intero film. Artista eclettico – scrittore giornalista poeta commediografo ma anche pittore e sceneggiatore di fumetti – ha avuto un lungo e proficuo sodalizio con De Sica col quale ha creato film come “Sciuscià” “Ladri di biciclette” “Miracolo a Milano” imponendosi come autore di punta del neorealismo ma nel contempo artisticamente e culturalmente impegnato a svecchiare l’arte del cinema che considerava duttile e insieme popolare, un’espressione artistica che secondo il suo sentire avrebbe potuto avviare un rinnovamento civile della società sottraendola alle sterili leggi del mercato.

Qui, partendo dal neorealismo, colloca il suo racconto a Lugo di Romagna durante una fiera del bestiame con un ampio antefatto affollato di gente vera, interpreti presi dalla strada, tipi particolari come piacciono anche a Fellini, con la differenza che Fellini li trucca e li veste e li fa muovere dando vita all’immaginario dei suoi bozzetti, mentre De Sica li filma così come sono, limitandosi a estrapolarli dal contesto per metterli al centro del racconto immaginato da Zavattini: in entrambe le soluzioni sempre doppiati. La storia è una favola sulla cui logica bisogna passare oltre. Nella fiera andiamo a scoprire lentamente la protagonista: il personaggio della popolana sfrontata e dal buon cuore sulla quale la Loren ha costruito l’intera carriera. Qui è Zoe, una napoletana che nella fiera gestisce una baracca di tiro a segno insieme a una coppia locale, con la cui complicità ha messo su un’attività illecita: una riffa il cui biglietto vincente, il primo estratto sulla ruota di Napoli ovviamente, darà al fortunato vincitore l’ambitissimo premio di giacere con cotanta maggiorata, che però fa la difficile e vorrebbe ma non può scegliere l’uomo da premiare, e nel frattempo si dà da fare col belloccio del paese, il buttero Gaetano. E’ chiaro che si tratta di prostituzione bella e buona ma in questa favola la buona e bella Zoe mantiene un cuore innocente e tanti leciti sogni che pensa di realizzare con i guadagni, già cospicui, un vero tesoretto, delle riffe che ha già organizzato nelle fiere di paese in paese. Vince il timido scialbo sacrestano e il biglietto vincente diventa l’ambito oggetto di un’asta al rialzo sempre più ardito fra i vari tipi che interpretano se stessi con i lori veri nomi, ma il sacrestano è risoluto nel volere godere il suo inaspettato e altrimenti irraggiungibile premio, la prorompente napoletana con un vestito rosso che sembra dipinto addosso. A questo punto un paio di ben congegnati colpi di scena danno alla vicenda dei risvolti inaspettati… Accanto alla Sophia nazionale Alfio Vita (cinque soli film all’attivo) è l’impacciato sagrestano e Luigi Giuliani (a quota tredici film) è il bello della fiera, mentre tutti gli altri interpreti, come detto, sono presi dalla strada, eccezioni fatta per Annarosa Garatti, l’amica del tiro a segno, professionista con pochi film che si è dedicata successivamente al doppiaggio.

Questo è l’unico episodio che, benché senza riferimenti diretti, resta in linea con la narrativa del toscano Giovanni Boccaccio e del suo Decamerone che incontrano l’arte di arrangiarsi partenopea: dunque, a mio avviso, l’episodio stilisticamente più riuscito all’interno di un film a episodi in cui del Boccaccio nel titolo non c’è traccia: uno scherzo in quattro atti ideato da Cesare Zavattini, appunto. L’episodio che rimane più impresso è di nuovo quello di Fellini, come accadrà per “Tre passi nel delirio” e c’è da riportare l’incidente avvenuto con la distribuzione all’estero: presentato fuori concorso al Festival di Cannes che quell’anno, il 1962, ha premiato il dimenticato film brasiliano “La parola data” – mentre c’erano in concorso “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni, “Il processo di Giovanna d’Arco” di Robert Bresson, “L’angelo sterminatore” di Luis Buñuel, “Il lungo viaggio verso la notte” di Sidney Lumet, “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi – da “Boccaccio ’70” è stato eliminato l’episodio “Renzo e Luciana” diretto da Monicelli per portare nelle sale un film di durata più consona: l’originale dura più di tre ore e mezza; ne ha fatto le spese l’episodio con meno appeal, con protagonisti sconosciuti e un tipico racconto della realtà sociale italiana del momento. Per protesta e solidarietà col collega escluso De Sica Fellini e Visconti disertarono il festival. Qui di seguito i manifesti francese, che come sempre francesizzano anche i nomi propri, inglese e tedesco.

Boccace 70 de Luchino Visconti, Federico Fellini, Vittorio De Sica, Mario  Monicelli (1962) - UniFrance
Boccaccio '70 (1962) - IMDb
BOCCACCIO 70 (1962) – Cinema Italiano Database