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Trilogia dello Hobbit, ovvero la mancanza degli occhioni blu

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Conclusa quest’altra trilogia che come spettatore mi ha preso gli ultimi tre anni posso ora dire la mia. Con la prima trilogia del “Signore degli anelli” ho scoperto un mondo, letterario prima che cinematografico, che mi era totalmente sconosciuto, e me ne sono talmente appassionato che ho anche comprato e letto (ahimè non totalmente) il librone. Oltre al volume che Andy Serkis ha pubblicato, con ricco corredo fotografico come si dice, sul suo straordinario (straordinario anche perché al servizio di una tecnica d’avanguardia) lavoro di creazione di Smeagol/Gollum. Sono dunque stato un grande fan dell’epopea cinematografica e, tenutomi informato sulla lavorazione di questa seconda, me ne sono fatto un’idea forse preconcetta che però andando in sala ho dovuto confermare: fondamentalmente l’impresa (tale e quale l’altro trittico prequel di “Star Wars”) è più un’impresa commerciale che artistica, tesa a rastrellare i soldi dei milioni di fans irretiti da Frodo e dalla sua Compagnia dell’Anello. Questo non significa che “Lo Hobbit” sia cinematograficamente debole, tutt’altro, ma non può che generare delusione e senso di dejà vu, oltre che nostalgia per i personaggi che abbiamo amato nella prima trilogia, in testa proprio lo hobbit Frodo di Elija Wood che con i suoi tristi occhioni blu ha fatto innamorare grandi e piccini, donne e uomini, etero e gay, di tutto il mondo: secondo un preciso studio gli occhi grandi, tipici dei neonati, susciterebbero in ognuno di noi sentimenti amorevoli, e dato che i soldi sono yankee è molto meglio se i grandi occhioni sono pure blu, e di fatto in base a questo studio l’alieno E.T. è stato creato con gli occhioni blu e altrettanto, all’epoca, eravamo tutti pazzi di lui. E voglio concludere questa digressione con l’iconico Gesù dagli occhi blu, versione relativamente recente di un Gesù comunque sempre rappresentato come castano chiaro o biondo: fermo restando che egli avrebbe potuto essere realmente biondo, è più probabile e credibile che fosse un tipo mediterraneo. Ma chi si sarebbe inginocchiato davanti a un Gesù dai tratti ebraici (non dimentichiamo che era ebreo per nascita) in quei secoli in cui gli ebrei erano reietti dalla società? e oggi, più che mai, chi si fermerebbe a pregare un Gesù barbuto e dai lineamenti minacciosamente mediorientali?

Martin Freeman qui è la dignitosa versione giovane di Ian Holm nell’interpretare quel Bilbo Baggins primo portatore dell’anello magico e, ahilui e ahimè, non ha gli occhioni blu, quindi sono rimasto tiepido davanti alle sue disavventure. Ma la colpa è anche della compagnia, che non è più (o non ancora secondo i tempi narrativi) quella eterogenea dell’Anello ma è qui composta da tredici Nani capeggiati da  Thorin Scudiquercia interpretato da Richard Armitage e ingentilita dal nano giovane e belloccio Kili, interpretato da Aidan Turner, l’unico nano senza trucchi prostetici a deformargli il faccino, che è protagonista di una tragica storia d’amore interrazziale con l’elfa reietta Tauriel di Evangeline Lilly protetta dal Legolas di Orlando Bloom che secondo la storia originale non dovrebbe neanche essere in questo film e che è una di quelle libertà narrative che si è presa il regista Peter Jackson per rimpolpare il prequel di volti noti. Ritroviamo anche Ian Mckellen/Gandalf, Cate Blanchett/Galadriel, Hugo Weaving/Elrond e il grande vecchio Christopher Lee/Saruman che nella vita reale è quasi sulla sedia a rotelle e qui, grazie a effetti speciali e controfigure, duella alla grande coi cattivi orchi.

Ricapitolando: questo prequel è carente di occhioni blu, personaggi accattivanti, storia avvincente, unitarietà narrativa e, soprattutto, di quella forza oscura insita nell’anello e che aveva fatto schiavo Gollum e contro la quale hanno lottato sia Bilbo che Frodo. Qui la cupidigia è solo quella per il potere e per l’oro, magnificamente raccontata in Thorin, ma banale rispetto alla grandezza tenebrosa del potere dell’anello. Altro momento cinematograficamente grandioso è la battaglia sul fiume fra i Nani e gli Orchi del secondo capitolo, “La desolazione di Smaug”. Per il resto le vedute naturali della Nuova Zelanda sono sempre mozzafiato, meravigliosamente fuse con le fantastiche scenografie sia fisiche che virtuali, i film tutti di oltre due ore scorrono velocemente a conferma dello spettacolo magistralmente confezionato, ma nell’insieme la tentazione della noia ci aspetta all’uscita dal cinema insieme al dubbio di non aver capito tutto l’intreccio dei rapporti fra i tanti personaggi e la certezza che gli stessi non hanno conquistato i nostri cuori. Con l’amara sintesi che se ne sarebbe potuto fare a meno.

Completano il cast: Luke Evans come Bard l’Arciere, Lee Pace come l’Elfo Thranduil, Ryan Gage il comico lestofante Alfrid, Stephen Fry come borgomastro. Nel doppiaggio ci perdiamo le voci di Manu Bennett come cattivissimo Orco Azog e Benedict Cumberbatch che fa parlare il Drago Smaug.

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X-Men, giorni di un futuro passato

Li ho visti tutti, mi piacciono i super eroi e gli effetti speciali… ma, come pure si dice: visto uno visti tutti. In questo caso basta che sullo schermo scorrano le prime immagini e rivediamo i soliti super perché nella mente ritornino fatti e situazioni, tessitura della trama e dei rapporti fra i personaggi, a dimostrazione che dopo anni la saga è entrata a far parte della nostra cultura cinematografica. Dopo che in “X Men – L’Inizio” il cast si è arricchito con Michael Fassbender e James McAvoy come Magneto e Xavier da giovani, mentre da vecchi e originali sono Ian Mckellen e Patrick Stewart, non si poteva più fare a meno delle nuove star più sexy delle vecchie e così in questo capitolo passato e presente coesistono in una trama sempre ben costruita ma di cui poco ci importa se ci sono delle belle battaglie fra super poteri. Altre star irrinunciabili Halle Berry come stanca Storm, Hugh Jackman come Wolverine che incomincia a mostrare troppe rughe e Jennifer Lawrence in grandissima ascesa dopo i due “Hunger Games” e l’Oscar per “Il lato positivo”. New entry con super poteri nuovi e spettacolari, che proprio per questo sono la parte migliore del film, è Evan Peters star del fanta-horror tv “American Horror Story” qui nei panni di Quicksilver mentre nel viavai di supereroi ritroviamo Ellen Page/Kitty Pride, Nicholas Hoult/Beast, Shawn Hashmore/Iceman.

Nel composizione di quest’ultimo cast c’è il colpo di genio che è anche la grande occasione mancata per dare un colpo d’ala al film di genere: il bravissimo attore nano Peter Dinklage, già Golden Globe per il televisivo “Il Trono di Spade”, qui è nei panni del professore cattivo che vuole annientare gli x-men. La genialità sta nell’avergli dato il ruolo di persecutore dei mutanti – ma non la motivazione: il suo essere un mutante di bassa statura ma senza super poteri. E’ chiaro che in questo genere di film non c’è spazio per la psicologia ma sarebbero bastate un paio di battute ben piazzate per fare del nano un gigante di frustrazione e cattiveria. Siamo più dalle parte dell’attore di successo che acquista potere contrattuale e scavalcando i ruoli interpreta personaggi scritti per “normo dotati”, come a dire che la sua bravura di interprete ci fa dimenticare che è nano: accadde lo stesso a Whoopy Goldberg negli anni ’90, quando reduce dal successo de “Il colore viola” ricoprì dei ruoli scritti per attrici bianche e anche lì il talento scavalcava i generi… ma a dimostrazione che la potenza dell’interprete non sempre è convincente come asso piglia tutto, quella carriera piano piano finì: è una sorta di razzismo di ritorno, dove per dimostrare che non si è razzisti si passa sopra le naturali differenze come se non esistessero. Mentre il non-razzismo sta nell’accettare e valorizzare queste differenze. Speriamo dunque che Peter Dinklage non finisca anche lui nel tritacarne dello star system.