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Downton Abbey, il film

Dopo sei gloriose stagioni televisive “Downton Abbey” diventa un film, fortunato e celebrato come le serie tv, che ha fatto in tempo a uscire nelle sale italiane a inizio anno, prima della pandemia che ha cambiato anche il modo di vedere il cinema: in tv, sui tablet e sui pc. Dunque il film approda sui piccoli schermi, e in fondo è la sua collocazione ideale, un ritorno alle origini. Una narrazione attenta anche a chi non ha visto la serie ma in cui i fan di sempre riconoscono richiami, rimandi e sottotracce che danno più spessore al divertimento. Perché di puro divertimento si tratta e il film, come la serie, si lascia seguire con un lungo disteso sorriso.

Per i neofiti, ma anche per rinfrescarci la memoria, la serie racconta le vicende e gli intrighi, sentimentali sociali e anche politici, dei Conti di Grantham che abitano i piani superiori del castello di Downton Abbey, mentre ai piani inferiori vive e lavora la numerosa servitù, anch’essa alle prese coi propri drammi e intrighi che spesso s’intrecciano con quelli degli abitanti dei piani nobili. Snodi importanti di tutta la narrativa sono la contessa Cora, nata “non bene” come avrebbero detto i nobili di una volta, ma di famiglia ricca, e soprattutto americana, cosa che fa sempre arricciare il naso ai nobili inglese; ma il personaggio è necessario perché aggancia gli Stati Uniti alla coproduzione col Regno Unito e soprattutto apre al prodotto l’immenso mercato d’oltre oceano. L’altro snodo narrativo è il personaggio di Tom Branson, autista e meccanico al servizio, che in quanto irlandese introduce nella narrazione il conflitto religioso politico culturale fra l’Irlanda e la Corona Inglese; di più, il personaggio di Branson riduce le distanze fra il piano inferiore e quello superiore quando sposa, con scandalo su entrambi i fronti, la minore delle tre figlie Grantham.

La prima stagione si apre nell’aprile del 1912 con la notizia dell’affondamento del Titanic che coinvolge un cugino del conte lasciando in eredità la contesa Downton Abbey che darà l’avvio a tutta la storia. Ideatore e creatore è Julian Fellowes, attore e regista ma soprattutto sceneggiatore, che nel 2002 ha vinto l’Oscar per la sceneggiatura di “Gosford Park”, gran bel film di successo e premi con la regia di Robert Altman, che con altre dinamiche e problematiche esplora i rapporti fra nobili e servitori, e inglese e americani, nell’Inghilterra degli anni ’30: da lì a qui il salto è breve. Evidentemente portato per il genere storico Fellowes ha anche firmato le sceneggiature di “La Fiera della Vanità” regia di Mira Nair, “The Young Victoria” di Jean-Marc Vallée e la miniserie tv “Titanic” nel centenario del naufragio.

Il numeroso cast del film, come nella serie, è presentato rigorosamente in ordine alfabetico, compresa la gran dama Maggie Smith, unico nome universalmente noto, e per la quale sono scritte le battute migliori di pungente humour (humor in America) inglese; segue, per fama, l’americana Elizabeth McGovern, che ventenne è stata nominata agli Oscar per la sua interpretazione in “Ragtime” di Miloš Forman, film che segnò anche l’ultima interpretazione del vilain d’America James Cagney. Nella terza stagione partecipazione di gran lusso di Shirley MacLaine, come madre dell’americana contessa Cora, i cui duetti con Maggie Smith sono da antologia.

il film racconta una vicenda a se stante che coinvolge tutti i piani di Downton Abbey: la visita di Re Giorgio V con la Regina Maria, con tutto il loro seguito di valletti, servitori, chef e governante che tenteranno di estromettere la servitù residente dall’ambito speciale servizio regale: il divertimento è assicurato, così come l’intrigo che porta in paese un altro irlandese che attenterà alla vita del re; non mancano le palpitazioni sentimentali: c’è l’infelicità coniugale della Principessa Mary, fatto avallato da chiacchiericci storici sempre smentiti dalle fonti ufficiali; c’è la scintilla d’amore che scocca fra l’assimilato irlandese Tom Branson, vedovo della terzogenita di casa, e la new entry servetta-ma-non-solo della dama di compagnia di regina; e per finire nasce anche un nuovo amore omosessuale, a dispetto dei tempi, fra il giovane nuovo maggiordomo Thomas Barrow, già cameriere indisciplinato e rampante traffichino nella serie, e un servo reale. Storie d’amore che rimangono aperte come viale d’ingresso al prossimo film, che era già nelle intenzioni di autore e produttori: se fosse andato bene ci sarebbe stato un secondo film, così la serialità passa dal piccolo a grande schermo, mentre la nostra amatissima Lady Violet di Dame Maggie Smith annuncia alla nipote che presto non ci sarà più: cautele produttive su un’attrice 86enne.

Hugh Bonneville è il Conte di Grantham, Michelle Dockery e Laura Carmichael le figlie, e Penelope Wilton come baronessa parente della famiglia; Allen Leech interpreta l’irlandese di casa che dai piani bassi passa a quelli alti, e fra la servitù spiccano il maggiordomo di Jim Carter, Phyllis Logan come governante, i coniugi Bates che sono Brendan Coyle e Joanne Froggat, mentre Robert James-Collier è l’inquieto Thomas Barrow. Altro nome di spicco, nel film, è Imelda Staunton con la sua servetta interpretata da Tuppence Middleton; il re e la regina sono Simon Jones e Geraldine James, mentre la Principessa Mary è Kate Phillips; l’attentatore è Stephen Campbell Moore; tutti nomi e volti noti al pubblico inglese. Dirige con mano sicura Michael Engler, già regista di quattro episodi della serie. Il film, gradevolissimo, rimane un prodotto televisivo anche trasferito sul grande schermo, e senza riservarci grandi sorprese, conferma la piacevolezza delle vicende che intrecciano i piani alti e quelli bassi di Downton Abbey anche con l’esterno e la storia con la maiuscola. Cinematograficamente magistrale la scena del gran ballo, per scrittura e regia, che alterna i piani sequenza dei valzer con i siparietti nei dintorni del salone in cui si sciolgono piccoli drammi esistenziali.

In conclusione una pungente curiosità, nello stile di Lady Violet: nel film documentario di Roger Michell “Un Tè con le Regine” dove insieme a Judi Dench, Joan Plowright e Eileen Atkins, Maggie Smith si lascia andare a ricordi e pettegolezzi, liquida “Downton Abbey” come una grande sciocchezza.

Monuments Men, and a monument woman

Dal regista George Clooney mi aspettavo qualcosa di più impegnavo. Non ci ha forse abituato a film più intellettuali e anche a volte difficili, come “Confessioni di una Mente Pericolosa”, “Good Night, and Good Luck”, “Le Idi di Marzo”?… Invece ci confeziona un film gradevole ma molto didascalico e dall’impianto televisivo, più vicino alla saga di “Ocean’s Eleven” del suo amico Steven Soderbergh.

Qui un gruppo di simpaticoni studiosi d’arte americani si arruolano nei Monuments Men, una costola dell’esercito statunitense che è appena sbarcato in Europa per combattere il nazifascismo: il gruppetto, cooptando un inglese e un paio di francesi, si occuperà di recuperare le opere d’arte che i tedeschi stanno trafugando in tutto il continente per conto di Hitler: compito notevolissimo che avrà anche un costo in vite umane, che è anche il leitmotiv e il dubbio dell’intera vicenda: può un’opera d’arte valere più della vita umana? Dubbi d’alto livello morale e impresa di alto livello culturale scodellati in un film ben confezionato ma di livello medio… Allora penso che Clooney è una mente raffinata che ha voluto realizzare questo film per il pubblico medio americano, quello di massa, che poco sa di opere d’arte e poco ne vuole sapere, se non al costo di un biglietto cinematografico, portandosi dietro birra e popcorn, a fare il tifo per gli yankees dovunque siano e qualsiasi cosa facciano: da questo punto di vista Clooney ha impacchettato un film vincente, pieno di azione e battute brillanti, uomini eroici e azioni impossibili, tragici sacrifici e risoluzioni insuperate. Le facce poi sono quelle giuste: a parte l’anziano caratterista Bob Balaban frequentatore negli anni settanta di molto cinema indipendente e mainstream che oggi dice poco a tanti e tanto a pochi, ritroviamo il capitano Clooney insieme all’amico Matt Damon, più il grosso caratterista John Goodman che duetta col francese Jean Dujardin come ai tempi del fortunato “The Artist” in cui erano l’artista di cinema muto e il suo impresario, e l’inglese Hugh Bonneville che in patria è protagonista del televisivo “Downton Abbey”.

Conclude il cast la sempre affascinante ed eccellente, e qui per me fil rouge, Cate Blachett, che mette tutto il suo talento a servizio di un ruolo secondario che lei eleva a protagonista riempiendo lo schermo: recita la parte di una francese, e si vede che lo fa con gusto, e viene da chiedersi se non ci fossero disponibili attrici francesi vere, tipo le internazionalizzate Audrey Tatou o Marion Cotillard, ma forse per loro quel ruolo era troppo “di servizio”, ma Cate Blanchett ne ha fatto una preziosa partecipazione proprio mentre andava a vincere il meritatissimo Oscar per il suo ruolo da protagonista in “Blue Jasmine” di un Woody Allen che, prendendosi una pausa da certi filmetti inutili che è venuto a girare in Europa, è tornato alla sua ispirazione principale con un emozionante ritratto di donna nevrotica che nulla di nuovo aggiunge alla sua filmografia ma che proprio per questo è la conferma del suo personale talento.

Concludendo: “Monuments Men” per noi europei che vediamo opere d’arte a ogni passo nelle nostre città è forse un film troppo semplice ma il prezzo del biglietto vale la pena per le buone intenzioni, l’eccellente confezione e l’ottimo cast in cui brilla il diamante solitario di Cate Blanchett, una monument woman. E scusate se è poco!