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The Whale – nel riscatto del personaggio il riscatto dell’attore

Confessiamocelo, Brendan Fraser per noi è sempre stato solo il simpatico ragazzone protagonista della trilogia “La Mummia” anche se per altre interpretazioni drammatiche è stato lodato, come ad esempio in “Demoni e Dei” del 1998 regia di Bill Condon o “The Quiet American” del 2002 di Phillip Noyce. Ma fondamentalmente la sua carriera è tutta spesa in commedie, film d’azione e giocattoloni vari: si fa quel che si può e si prende quel che passa il convento e, come ha specificato l’attore nel suo discorso di accettazione dell’Oscar, la sua carriera è stata fatta di alti e bassi. Va anche detto che la percezione che abbiamo noi europei, e italiani nello specifico, degli attori stranieri, manca di molti dettagli e sfumature che possono avere senso solo in patria; ad esempio per Brendan Fraser a Hollywood è stato coniato il termine “Brenaissance” che lega insieme Brendan a Renaissance, dopo la sua profonda crisi dei primi anni Duemila in cui pensò addirittura di ritirarsi. Ma cos’era successo?

Brendan Fraser al meglio della prestanza fisica nel film “George Re della Giungla…? sul finire degli anni Novanta. Dirà di quel periodo da “bisteccone” che effettivamente si sentiva come una “bistecca ambulante”, per dire della vacuità che gli veniva intorno a causa del suo aspetto.
Philip Berk

Si parla esattamente di venti anni fa, il 2003, quando l’attore era al culmine della sua carriera. Accadde che a un pranzo in un hotel di Beverly Hills, Philip Berk, che all’epoca era uno dei più influenti elettori dell’HFPA, Hollywood Foreign Press Association di cui in seguito divenne anche presidente, palpasse pesantemente l’attore. Va ricordato che l’associazione ha fondato nel 1944 i Golden Globe Awards con l’intento di assegnare premi e riconoscimenti a produzioni cinematografiche e televisive di tutto il globo terraqueo (sic! ma anche sigh!), in pratica il secondo premio statunitense per importanza dopo l’Oscar; l’attore, ancora astro nascente senza statuette importanti in bacheca, aveva tre opzioni: gradire, fingere che fosse uno scherzo e farsi una finta risata, o restarci male. Brendan ci restò malissimo tanto da mettere in discussione la sua permanenza nello show business. Solo nel 2018, incoraggiato dai movimenti anti abuso Mee Too ebbe il coraggio di raccontare pubblicamente la sua esperienza. Nel 2003 Fraser, attraverso i suoi avvocati chiese e ottenne da Berk e dall’HFPA scuse private, ricevendo una lettera il cui tono era il classico: se ho fatto qualcosa che ha turbato il signor Fraser non era intenzionale e me ne scuso – di fatto non ammettendo alcun illecito. E nei fatti facendogli terra bruciata intorno: la carriera dell’attore subì una grave flessione che lo portò a una crisi personale che coinvolse anche la tenuta del suo matrimonio.

Nel 2018 Brendan si è confidato alla rivista GQ che già altre volte aveva avuto attenzioni per lui: “Ho parlato perché ho visto così tanti dei miei amici e colleghi che in quel momento stavano coraggiosamente venendo allo scoperto per dare forza alla loro verità. Avevo anch’io qualcosa da dire. Si possono mettere gli attori su piedistalli e poi buttarli giù rapidamente e facilmente: è quasi come se fosse il gioco. Così io mi sono appena liberato del piedistallo. Voglio solo essere me stesso”. E raccontando in dettaglio quanto è accaduto: “La sua mano sinistra si è allungata ad afferrare la mia chiappa e poi con un dito mi ha toccato nella zona anale (qui l’attore usa un termine gergale intraducibile: taint) cominciando a muoverlo girandolo. Mi sono sentito male, mi sono sentito come se qualcuno mi avesse gettato addosso della vernice invisibile. Ero come un ragazzino che stava per scoppiare a piangere…”. A questa tardiva denuncia pubblica la HFPA ha avviato un’indagine interna che ha concluso che Berk stava solo scherzando e, rifiutando di condividere con l’attore i dettagli emersi nell’indagine, gli è stato chiesto di firmare una dichiarazione congiunta in cui “con lungimiranza” tutte le parti, l’attore l’assalitore e l’associazione, consideravano conclusa la vicenda e che auspicavano una rinnovata collaborazione, mentre Philip Berk sarebbe rimasto membro attivo dell’HFPA. Brendan Fraser ha rifiutato di firmare, rilanciando: “Io sono l’unico che sa dove e come è stato toccato”: le intenzioni di Berk – che stesse scherzando o ci stesse pesantemente provando – rimangono per lui irrilevanti: lui era stato abusato. “Sono come lupi travestiti da agnelli” ha concluso.

Per completare la triste vicenda del tristo figuro: Nel 2014 pubblicò un libro di memorie – in cui fra l’altro finalmente ammetteva di aver “scherzato” con l’attore mentre per anni aveva sempre negato – che fece arrabbiare non poco i membri della HFPA perché svelava retroscena sul funzionamento interno dell’organizzazione, e altri ameni pettegolezzi su alcuni dei suoi colleghi, col risultato che fu costretto a prendersi un congedo di sei mesi dall’associazione; ma finì con l’essere definitivamente espulso nel 2021, dopo che Berk – di nazionalità sudafricana e di origini olandesi, ed evidentemente sostenitore dell’apartheid – inviò una mail ad altri membri dell’associazione in cui citava un articolo che descriveva Black Lives Matter come un “movimento di odio razzista”: il classico bue che dà del cornuto all’asino. A quel punto l’emittente televisiva NBC che trasmette il gala dei Golden Globe, chiese l’espulsione immediata di Berk per andare avanti con la collaborazione: detto, fatto; e a seguire il consiglio dell’associazione ha dichiarato che “condanna tutte le forme di razzismo, discriminazione e incitamento all’odio e trova inaccettabili tali linguaggio e contenuti.”

Brendan Fraser con “The Whale” è stato candidato nella sezione miglior attore in un film drammatico ai Golden Globe 2022, ma per coerenza l’attore si è rifiutato di presenziare alla serata dicendo solo: “Non sono un ipocrita”; vinse Austin Butler per “Elvis” che altrettanto concorreva per quest’Oscar 2023 e sperava di fare la doppietta: sorry, è l’anno della Brenaissance!

Veniamo al film. Darren Aronofsky è un regista raffinato che dal suo debutto nel 1998 ha realizzato otto film, sparsi però in una lunga sequenza di progetti irrealizzati che di numero superano quelli realizzati; fra i film che hanno visto la luce vale la pena ricordare “The Wrestler” (2008) che ha rilanciato la carriera dell’appesantito Mickey Rourke che però per la sua imprevedibilità e il discutibile gusto nella scelta dei copioni, pare destinato a un secondo declino; segue “Il Cigno Nero” (2010) che è valso Oscar e Golden Globe a Natalie Portman; poi viene il biblico e non del tutto riuscito “Noah” (2014) con Russell Crowe; quindi passa all’horror d’autore con “Madre!” (2017) starring Jennifer Lawrence e Javier Bardem, che tanto per cominciare è stato fischiato al Festival di Venezia. Per riuscire a realizzare quest’ultimo film, Il regista ha impiegato più di dieci anni perché non trovava il giusto interprete, ma ebbe una folgorazione quando vide Fraser in alcuni spezzoni di “Journey to the End of the Night” del 2006 mai distribuito in Italia.

All’origine del film c’è il dramma teatrale omonimo del 2011 di Samuel D. Hunter che qui debutta come sceneggiatore adattando la sua pièce per lo schermo. L’autore, quotato e premiato in patria, esplora nei suoi lavori la religiosità con particolare attenzione a mormoni ed evangelici: presumo – del tutto liberamente e senza pezze d’appoggio – che data la sua dichiarata omosessualità e la sua provenienza dall’Idaho che è uno degli stati dove sono insediati i mormoni, che sia lui stesso un mormone fuoriuscito che ancora cerca il senso di un sano rapporto con Dio.

Il 55enne Brendan Fraser naturalmente appesantito dagli anni fra regista e autore.

La storia, apparentemente piana, è molto complessa e si presta a diversi livelli di lettura: oltre all’omosessualità del protagonista e alle dispute religiose col giovane missionario della New Life Church, ci sono il passato in cui conserva la memoria di un compagno morto e da cui irrompe nel presente una figlia adolescente che non vede da otto anni, frutto di un errato matrimonio, cui segue anche la visita dell’ex moglie; ma soprattutto c’è il rapporto con l’insegnamento: Charlie, il protagonista, è un professore di lettere che tiene lezioni online e, come ha dichiarato Hunter, proprio da lì parte l’ispirazione del dramma; l’obesità del personaggio è venuta dopo, per dare al personaggio una caratteristica che gli facesse tenere la distanza dal mondo; e ancora spiega che il personaggio del giovane missionario è un modo per “proteggersi e allontanarsi” dalla religione e di “scrivere sulla religione ma in modo che non si sentisse troppo vicino a casa”. Più chiaro di così.

Nell’adattare per lo schermo la sua storia che si svolge tutta all’interno di un appartamento, l’ha voluta ambientare in un’epoca recente ma pre-pandemia affinché non si facesse confusione fra l’auto-reclusione del protagonista con un forzato lockdown. La derivazione teatrale è evidente e, come suppongo sia a teatro, la tensione drammatica non viene mai meno perché risvolti narrativi e ingresso degli altri personaggi sono equilibratissimi: la vietnamita-statunitense Hong Chau, candidata all’Oscar, è l’amica infermiera; la ventenne Sadie Sink che si è meritata la candidatura Critics’ Choice Awards come miglior giovane interprete, è la figlia adolescente; l’ex attore bambino Ty Simpkins, che a tre anni ha debuttato in tv e a quattro al cinema, è il giovane missionario; la britannica Samantha Morton, eccellentissima attrice mai abbastanza valutata nei casting, è l’ex moglie. Si intravede il fattorino delle pizze e, grave lacuna in un’attenta drammaturgia che si fa poetica attraverso l’iperrealismo, non c’è traccia di qualcuno che venga a fare le pulizie.

Laddove il dramma presta il fianco alla retorica, l’autore non indulge nel melodrammatico e taglia sempre corto dove il rischio è dietro l’angolo. Ciò non toglie che il film sia veramente coinvolgente sul piano emotivo grazie all’interpretazione del gigantesco (gioco col termine intendendolo in senso figurato) Brendan Fraser, che sotto il make up premiato con l’Oscar a Adrien Morot, Judy Chin e Anne Marie Bradley (ci sono anche i cuscinetti ad acqua che fanno pulsare le tempie!) è veramente commovente nel personaggio; e anche se noi sentiamo il doppiaggio con l’interpretazione di Fabrizio Pucci, gli occhi di Brendan non lasciano dubbi.

Il finale non è a sorpresa, sappiamo sin dall’inizio come andrà a finire. Ma è consolatorio che il buon grasso Charlie trovi il suo riscatto in un guizzo di lucido arrabbiato sacrosanto orgoglio. Ed è consolatorio e davvero commovente che Brendan Fraser, altrettanto, trovi nel film e nel successo un riscatto che attendeva da vent’anni.

Fuori contesto lancio una scommessa: che presto vedremo in scena uno dei nostri quotati attori teatrali portare in scena questo dramma.