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Il ritorno dei magnifici sette

Dopo il grande successo del 1960 (qui il link con un approfondito ritratto di Yul Brynner) il sequel arriva dopo ben sei anni, segno che non tutto è andato come doveva e d’altronde il protagonista, che fu anche produttore, aveva già altri impegni in corso, ricordiamo soprattutto le escursioni fra i cosacchi della sua natia Russia in “Taras il magnifico” e fra i Maya con “Il re del sole” entrambi diretti da J. Lee Thompson. Alla fine il progetto andò in porto con un impegno ridotto di Brynner sul versante produttivo, il quale aveva puntualizzato che per girare questo sequel non voleva più avere a che fare con Steve McQueen che gli aveva creato non pochi problemi (sempre nel link tutti i dettagli), e McQueen d’altronde si dichiarò disinteressato ritenendo la trama troppo assurda: non che la trama del primo capitolo fosse così realistica, però. Ma se lì c’era alla regia John Sturges che era riuscito a creare un film evento, qui c’è il regista “di genere” Burt Kennedy, ex ballerino e attore teatrale che cacciato dal palcoscenico per scarso talento si è riciclato come sceneggiatore radio-televisivo, passando poi al cinema principalmente come regista di discutibili western serviti nelle più svariate versioni: melodrammatico, parodistico, comico; il suo unico successo arriverà l’anno dopo questo film con “Tempo di terrore” noto da noi anche come “Tempo di uccidere” con Henry Fonda.

Di fatto questo sequel non è male anche se la sensazione del già visto è sempre presente; ci sono bei movimenti di macchina e scoppiettanti sparatorie, e anche alcuni tentativi di innovazione nella trama che gioco forza ricalca quella dell’originale: lì c’era un cattivo che sfruttando terrorizzava un povero villaggio messicano, qui i villaggi diventano tre e il cattivo è spinto dal sentimento di vendetta, di padre cui hanno ucciso i figli, più che dalla brama di potere. A inizio film ci sono poi dei quadretti folcloristici con una corrida, una ballerina di flamenco e una lotta di galli: roba che fa spettacolo e allunga il brodo. Come nel primo film si compone poi il gruppo dei sette cui sono sopravvissuti il personaggio di Brynner che è l’unico del cast originario a tornare.

L’altro era quello di McQueen che si era lamentato della pochezza delle sue battute e che qui sarebbe rimasto molto compiaciuto nel vedere che ora il suo personaggio parlava più di quello del protagonista assoluto: il capo dei “I magnifici sette” che prima parlava tanto qui si fa più taciturno acquistando in fascino enigmatico: viene da pensare che aveva fatto scuola il silenzioso Uomo Senza Nome che Sergio Leone aveva creato nel 1964 inaugurando la sua Trilogia del Dollaro con Clint Eastwood. Il terzo personaggio sopravvissuto era quello di Chico che era stato interpretato dal tedesco Horst Buchholz che con quel film si lanciò nel panorama internazionale e ora non aveva certo intenzione né tempo di rifare il chico messicano in un sequel che si prevedeva senza infamia né lode.

Robert Fuller con Yul Brynner

I nuovi magnifici sette con Brynner al comando furono Robert Fuller in sostituzione di McQueen: un attore principalmente noto per le sue partecipazioni nelle serie western televisive nelle quali prevarrà il resto della sua carriera. Poi, dati i problemi col governo messicano durante la lavorazione del primo film, Il sequel fu girato in Spagna, dove i nostri andavano a girare gli spaghetti-western, e il resto del cast, dei figuranti e delle maestranze furono ingaggiati sul posto; a sostituire Buchholz venne chiamato il già noto il patria Julián Mateos che dopo questo ruolo restò a lavorare in Spagna senza più partecipazioni ad altri film internazionali. Di seguito anche la donna che il personaggio aveva sposato alla fine del film, la messicana Petra già interpretata da Rosenda Monteros, viene qui impersonata da Elisa Montés, un’attrice principalmente teatrale che nella sua carriera cinematografica ha anche lavorato all’estero, e da noi in “Noi siamo le colonne” del 1956 diretto da Luigi Filippo D’Amico.

Jordan Christopher

I restanti quattro dei sette furono: Warren Oates, caratterista anch’egli proveniente dai western tv, che aveva già lavorato col regista Burt Kennedy e che da qui in poi si ritaglierà una carriera cinematografica come interprete di rango; Claude Atkins, già noto attore con volto da duro che qui ha forse il personaggio più interessante, perché il più tormentato; concludono con ruoli decisamente secondari l’americano Jordan Christopher, più cantante che attore con un bel faccino qui spacciato per il messicano Manuel, e il portoghese Virgilio Texeira che già dal decennio precedente si era trasferito negli Stati Uniti ma che tornò in patria per occuparsi di politica e della società degli autori, la nostra SIAE.

Virgilio Texeira e Warren Oates

Accanto a questi nuovi magnifici sette che di magnificenza ne trasudano ben poca, compreso il capostipite Brynner che alla fin fine appare appannato e stanco, brilla invece l’interpretazione dello spagnolo Fernando Rey nel ruolo del prete che fa da portavoce ai ribelli: un attore di gran classe che aveva cominciato in patria come doppiatore di calibri tipo Laurence Olivier e Tyrone Power e che fu lanciato sul grande schermo dal grande Luis Buñuel e che da lì in poi fu presente sia in moltissime produzioni internazionali importanti che in film di genere anche italiani, arrivando a lavorare pure con Franco e Ciccio. La sua interpretazione dà così tanto lustro a questo sequel che verrà scritturato anche nel film successivo “Le pistole dei magnifici sette” per ricoprire un diverso personaggio: cosa che capita raramente. In ogni caso il film, pur senza bissare il successo del primo capitolo, si comportò bene al botteghino tanto da avere un altro seguito, e non solo uno.

Fernando Rey, Julián Mateos ed Elisa Montés

Mussolini ultimo atto – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Nell’occasione del 25 aprile, festa italiana dalla liberazione dal nazi-fascismo, La7 manda in onda questo film del 1974 e colgo l’occasione per andare a rivedere alcuni dei film d’autore che trattarono l’argomento.

Erano passati trent’anni dalla fine della guerra e se dal punto di vista politico e sociale quello sembra un periodo lontanissimo perché da allora regna al governo la Democrazia Cristiana e nell’immediato il territorio italiano ha il problema contingente del terrorismo di destra e sinistra, in realtà per tanti è ancora molto vicino: i 20enni di allora sono la classe dirigente e quelli che allora erano nell’età di mezzo, fra i 40 e i 50, sono negli anni ’70 ancora viva memoria – dunque un film che rivive l’episodio della fine del duce tocca nervi ancora vivi, sia nei nostalgici che in tutti quanti gli altri che cercavano la via del futuro.

Il romano Carlo Lizzani, classe 1922, all’epoca dei fatti era un 20enne che si era unito alla Resistenza Romana formatasi in città dopo l’8 settembre 1943 in seguito a quella che storicamente viene definita “mancata difesa di Roma” (ma anche “occupazione tedesca di Roma”) da parte del Regio Esercito, e che operò fino al 4 giugno 1944, data della liberazione della città da parte degli Alleati; nella Resistenza confluirono sia militari che civili, sia con forme di boicottaggio passivo, ovvero senza l’uso di armi, che organizzandosi in vere e proprie formazioni paramilitari. Lizzani, sceneggiatore nel periodo neorealista, debuttò come regista poco meno che 30enne prima col documentario “Nel mezzogiorno qualcosa è cambiato” che è possibile vedere alla fine dell’articolo, e poi col film “Achtung, banditi!” che rievoca un episodio della resistenza partigiana a Genova, dunque già nell’ambito del film storico di militanza su cui ritornerà, concedendosi qualche divagazione farà anche un western, rimanendo negli anni fedele al suo genere d’esordio, distinguendosi anche nel noir-poliziesco con ricostruzioni di delitti di cronaca. Dunque questo suo film sugli ultimi giorni di Benito Mussolini a trent’anni dal fatto sembra quasi un atto dovuto, anche se forse non pienamente riuscito.

Lizzani scrisse il film con lo scrittore Fabio Pittorru che si era dato alla sceneggiatura, (tentando l’anno dopo anche lui la disagevole via della regia) che ha dato il meglio di sé nella scrittura di poliziotteschi con qualche incursione nella commedia sexy: questa sceneggiatura rimane la sua prova più impegnativa. Il film che ne viene fuori è un’opera rigorosa, forse troppo perché manca di pathos, e benché ricca di dettagli nella ricostruzione, resta poco spettacolare: rimane un film “a tema” scandito con la freddezza dei dettagli che lo colloca a metà strada fra il documentario storico e il cinema narrativo, e se del documentario ha il necessario rigore del film narrativo non ha la spettacolarità, come se l’attenzione alla documentazione avesse tolto slancio allo spettacolo o come se, forse e soprattutto, Lizzani col suo passato di partigiano avesse voluto – e c’è riuscito – mantenersi al di sopra delle parti senza metterci il suo personale umano punto di vista. Il film risulta didascalico e poco coinvolgente anche se tecnicamente perfetto.

Produce il palermitano Enzo Peri, che laureato in filosofia e giurisprudenza era andato a frequentare anche la California University, e con questo suo background di cultura alta e internazionale torna in Italia e si dà al cinema, prima tentando la strada della regia (un documentario e un western) e poi dedicandosi esclusivamente alla produzione di alcuni film (a tutt’oggi solo cinque) cosiddetti impegnati; non sorprende dunque che il film, schierando divi americani sia, com’è evidente dal labiale, girato in inglese certamente per facilitare una distribuzione internazionale dove fu rilasciato col titolo “Last Days of Mussolini”.

L’interpretazione di Rod Steiger non aiuta, per quanto la sua performance sia misurata e aderente: ma aderente a cosa? L’americano, già premio Oscar per “La calda notte dell’Ispettore Tibbs” (1968) e già in Italia nel 1971 con Sergio Leone per “Giù la testa”, sembra fuori posto nel ruolo del duce, di questo duce in declino e in fuga, e per quanto bene possa interpretare gli scatti d’orgoglio e gli sguardi ora furenti della bestia in gabbia e ora vacui dell’uomo perduto, la figura di Benito Mussolini non diventa mai sua, non gli appartiene, non appartiene alla sua cultura: è quella che in gergo si definisce interpretazione scollata. Non convince neanche l’altrove sempre ottima Lisa Gastoni come Claretta Petacci. Già come personaggio, benché somigliante, è poco credibile perché troppo anziana per il ruolo: Clara o Claretta, Clarice sui documenti, era di 29 più giovane del duce mentre l’attrice è di soli 10 anni più giovane dell’attore e risulta poco credibile quando nel film dice che già adolescente si era innamorata dell’uomo politico: narrativamente nuoce la mancata differenza di età perché sarebbe apparsa dolorosamente assai più patetica una giovane donna ciecamente innamorata di un uomo che ha il doppio della sua età; e benché portatrice di un minimo di pathos sentimentale anche il suo personaggio risulta didascalico fin dalla scrittura.

Nella prima parte del film c’è la partecipazione di gran lusso di Henry Fonda che impersona autorevolmente quel Cardinale Schuster, proclamato beato da Giovanni Paolo II, che nella sua epoca e nel clero fu fra i tanti che si impegnarono nell’intento di cristianizzare il fascismo perché, va ricordato, Il fascismo era nato come un movimento politico anticlericale con venature anticattoliche e anticristiane, venature che poi il lungimirante Mussolini, allorché fu a capo del governo, da buon politico smussò riavvicinandosi alla chiesa con cortesi concessioni auspicando di giungere “in un tempo più o meno lontano” – beninteso – a comporre il dissidio fra Chiesa e Stato che egli giudicava “funesto per entrambi e storicamente fatale”: ipocrisia ad alti livelli. Nel film si racconta il momento in cui promosse nell’arcivescovado di Milano un incontro fra Mussolini in fuga verso la Svizzera, dove aveva già trasferito diversi milioni di lire, e alcuni rappresentanti dei partigiani con l’intento di concordare una resa incruenta del duce; duce già tampinato dai Tedeschi che in quanto alleato lo volevano per sé e con sé, e dagli Americani che in quanto vincitori lo volevano trasferire in una prigione dorata degli Stati Uniti per tenerlo da conto allorquando e semmai il comunismo della vittoriosa Russia avesse preso piede in Europa. Di Fonda resta da dire che anche lui come l’altro americano era di casa a Cinecittà avendo girato con Leone “C’era una volta il West” e con Tonino Valerii “Il mio nome è Nessuno”.

Nella parte centrale del film troviamo Lino Capolicchio che è il partigiano Pier Luigi Bellini delle Stelle, Pedro come nome di battaglia, il cui nome resta famoso per avere intercettato Mussolini in fuga travestito da soldato tedesco fra gli altri nazisti in ritirata. Nell’ultima parte entra in scena Franco Nero – all’epoca divo italiano di prima grandezza che l’anno prima era stato protagonista di “Il delitto Matteotti” di Florestano Vancini, altro film che entra nella mia piccola lista – è qui nel ruolo del partigiano Walter Audisio, Valerio in battaglia, che prese in consegna Mussolini per eseguirne la fucilazione, e con lui la Petacci che si ostinava a non volersi separare dall’uomo della sua vita che divenne l’uomo della sua morte: al momento della fucilazione del duce la donna si frappose restando colpita. Nel resto del cast Massimo Sarchielli come Alessandro Pavolini, figura di spicco dell’apparato fascista che finì appeso a Piazzale Loreto insieme al suo capo e Giacomo Rossi Stuart perfettamente bilingue interpreta il capitano italo-americano Jack Donati. Nando Gazzolo ha doppiato Rod Steiger e Giorgio Piazza Henry Fonda. Musica di Ennio Morricone eseguita da Bruno Nicolai.

Il film, che si apre con un cinegiornale e si chiude con documenti d’epoca rimane esso stesso come rigorosissima documentazione.

Il documentario opera prima di Carlo Lizzani

Per qualche dollaro in più

Secondo capitolo della trilogia del dollaro di Sergio Leone, una trilogia su cui lo stesso autore non aveva nessun progetto e che è stata così riconosciuta e nominata solo in seguito, ad opera di giornalisti e pubblico. Anzi, di più: archiviato il grande successo di “Per un pugno di dollari”, suo secondo lungometraggio dopo “Il colosso di Rodi”, Leone era davvero sfinito, anche dalle vicende giudiziarie che avevano prosciugato completamente i suoi guadagni. Era creativamente esausto, e paralizzato dalla consapevolezza che ripetere un tale successo sarebbe stato impossibile. Inoltre era molto arrabbiato coi produttori della Jolly Film che lo avevano messo nella posizione di essere citato in giudizio per plagio da Akira Kurosawa: “Il comportamento della Jolly mi aveva nauseato. Così andai a trovare i due produttori. Gli dissi che in effetti il modo in cui si erano messe le cose mi ‘faceva piacere’… Perché significava che non avrei mai più dovuto fare un film con loro. Avrei avviato un procedimento legale, ma non volevo vederli mai più. E fu da lì che nacquero i semi della mia vendetta. Dissi loro: ‘Non so se davvero ho voglia di fare un altro western. Ma lo farò. Solo per farvi dispetto. E si intitolerà…’ In quel momento, il titolo mi balenò nella mente – ‘Per qualche dollaro in più’. Ovvio che in quella fase non avevo idea di quale sarebbe stato il soggetto.”

In realtà pare che quel titolo glielo avesse suggerito lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni, rinomatissimo scrittore di film di qualità noto come lo “script-doctor”, figura ovviamente mediata da Hollywood, per la sua capacità di intervenire sulle sceneggiature altrui, anche in anonimo, per appianare tutte le problematiche riscontrate principalmente dai produttori, una sorta di ottimizzatore. A un’amichevole chiacchierata con Leone che si lamentava della sua situazione, pare che Vincenzoni gli abbia detto: “Hai scritto per un pugno di dollari? Questo sarà per qualche dollaro in più. Molti milioni di dollari in più.”

Nello stesso periodo Leone conobbe un avvocato già bene avviato nella produzione cinematografica, soprattutto di spaghetti-western, il quale era rimasto assai colpito da “Per un pugno di dollari”: era Alberto Grimaldi e Leone, già transfuga dalla Jolly, gli chiese di produrlo; l’avvocato, che aveva l’occhio lungo e si stava già affrancando dagli spaghetti-western, gli fece una rispettabilissima offerta produttiva: il 50 per cento dei profitti oltre a tutte le spese vive pagate. Sul fronte internazionale si riconfermò la casa di produzione tedesca che voleva bissare il primo successo, mentre la Spagna che era ancora in forse salì sul carro con un diverso produttore; ma soprattutto, per la prima volta in un western all’italiana entrò nella produzione nientemeno che l’americana United Artists, già produttrice di “I magnifici sette”, solo per restare nell’ambito western, e che poi distribuì il film di Leone in tutto il mondo; e gli americani erano entrati nel progetto sempre grazie a Vincenzoni che al responsabile europeo della U.A. aveva fatto vedere “Per un pugno di dollari” convincendolo a entrare nell’affare e facendo lievitare il budget fino a 600mila dollari: bazzecole per gli standard americani ma una cifra insperabile per i western nostrani, e già nelle prime inquadrature del film i soldi si vedono nella ricchezza delle ambientazioni… e nell’espressione rilassata di Clint Eastwood! A quel punto lo “script-doctor” si era dimostrato davvero un amico e a Leone venne in mente di proporgli di scrivere insieme la sceneggiatura, però tentennava perché non riteneva che il rinomato Vincenzoni, che l’anno prima era stato premiato col Nastro d’Argento per avere scritto “Sedotta e abbandonata” di Pietro Germi, potesse essere interessato al suo filmetto di serie B: si trattava di mondi diversi; ma come sappiamo Vincenzoni fu ben felice di essere coinvolto nella scrittura, del resto si era già coinvolto nella promozione del progetto, e co-scrisse il film facendo anche di più: si inventò il soggetto del successivo “Il buono, il brutto, il cattivo”; resta da considerare che Sergio Leone fu lungimirante e sanamente opportunista nel volerlo coinvolgere, in quanto essendo lo script-doctor già un uomo di notevole successo, aveva quelle giuste entrature nei “piani superiori” cui lui tanto ambiva ascendere.

A quel punto, avuti tutti i finanziamenti, bisognava ancora scrivere il film e l’autore non aveva ancora che poche idee confuse. Aveva già tenuto una riunione con i co-sceneggiatori del primo film, Duccio Tessari e Fernando Di Leo, con l’idea di rimettere nel titolo la parola dollari e di formare il cast sempre intorno alla coppia vincente Eastwood-Volonté. E ancora una volta Sergio Leone si spinse su un terreno accidentato poco praticato dagli americani nei loro western, immaginando di mettere al centro del nuovo film una figura moralmente controversa come il bounty-killer, letteralmente assassino dietro compenso, che noi traduciamo in cacciatore di taglie, come Leone spiegò: “Gli Americani hanno sempre dipinto il West in termini romantici, con cavalli che corrono al fischio del padrone. Non hanno mai trattato il West seriamente, come noi non abbiamo mai trattato l’antica Roma seriamente. Forse il più serio dibattito sull’argomento è stato fatto da Kubrick in ‘Spartacus’: gli altri film sono sempre stati favole di cartone. È stata questa superficialità che mi ha colpito e interessato.” Si delineò così la storia di un cacciatore di taglie all’inseguimento di un fuorilegge, ma poi per dare più dinamismo alla vicenda i bounty-killer divennero due, dapprima in concorrenza fra loro e, per differenziarli, al Clint Eastwood sempre abbigliato col poncho ne avrebbero contrapposto uno più anziano, e Leone pensava sempre a Henry Fonda che gli era rimasto sul gozzo. Nel frattempo Duccio Tessari si defilò dal progetto perché stava scrivendo e dirigendo ben due film con Giuliano Gemma (“Una pistola per Ringo” e “Il ritorno di Ringo”) e, come si dice a Roma, non sapeva più a chi dare i resti. Questo mentre lo stesso Sergio Leone, impegnato su più fronti nella ricerca dei finanziamenti si distraeva dalla scrittura; e Fernando Di Leo, che era rimasto solo davanti la macchina per scrivere, di sua iniziativa completò un trattamento coinvolgendo l’amico e collega Enzo Dell’Aquila col quale aveva scritto a quattro mani un film a episodi del quale avevano anche co-diretto un episodio debuttando nella regia, “Gli eroi di ieri… oggi… domani”, un filmetto che con quel titolo era voluto andare a strascico del successo di Vittorio De Sica “Ieri, oggi, domani” con Sophia Loren e Marcello Mastroianni: film che però rimase pressoché mai visto nelle sale. Di Leo e Dell’Aquila portarono orgogliosamente a Leone il loro trattamento intitolato “Il cacciatore di taglie” con la speranza di piacere ed entrare di diritto nel progetto, per far salire le loro personali quotazioni sulla scia dell’amico che si trovava un gradino più su nella scalata al successo internazionale. A questo punto le cose si fanno un po’ oscure: a Sergio Leone il trattamento piacque molto, ma consapevole che il successo non può avere molti padri, chiese ad Alberto Grimaldi di acquistare il trattamento con la clausola che i nomi dei due autori sparissero, e i due reietti pur di fare cassa accettarono l’amara condizione – che in certi ambienti e a certi livelli è prassi, e anzi furono fortunati perché furono pagati laddove è anche prassi rubare il lavoro altrui; e Leone, che già aveva nel suo carnet il plagio a Kurosawa – in buona o mala fede non è chiaro – stava seguendo la prassi dell’appropriazione indebita con la ferrea volontà di costruire il suo personale successo: siamo abituati a santificare coloro che hanno fatto grandi cose in vita – dimenticando però che sono stati comuni esseri umani pieni di contraddizioni e difetti come chiunque di noi.

Fernando Di Leo

Una digressione su Fernando Di Leo, sceneggiatore non accreditato per i primi due film della trilogia, che da gran signore, interrogato sul suo reale coinvolgimento nella scrittura di quei successi, dichiarerà in un’intervista: “Il genio viene dopo la fase di scrittura. A cambiare il cinema negli anni ’60 sono state due cose: il montaggio di Godard e i tempi di Leone.” Lui, nonostante le idee e le capacità non avrà le stesse opportunità e passerà dal genere noir ai poliziotteschi, fra i quali va ricordato “Milano calibro 9”, fino a finire nel filone erotico dirigendo quello che oggi è un cult su cui si abbatté una valanga di censure: “Avere vent’anni”. Di certo nella sua carriera non ha avuto fortuna se si pensa che ha addirittura scritto e diretto per la Rai una serie di sei puntate “L’assassino ha le ore contate” che inspiegabilmente non è mai stata trasmessa, nonostante l’impegno produttivo, neanche in tarda serata, e i nostri soldi del canone buttati via; non poteva essere peggio di tante cose che vanno in onda senza vergogna. Di lui rimangono anche due interessanti progetti incompiuti dai quali i produttori si sfilarono per il timore di confrontarsi con quei temi: “Il pederasta”, che sarebbe stato il primo film ad affrontare senza tabù e senza macchiette il tema dell’omosessualità maschile, era il 1972, del quale riuscì a girare una sola scena mentre in seguito alle proteste dei soliti benpensanti il titolo era stato cambiato nel più elusivo e infamante “Uno di quelli” finché la lavorazione fu definitivamente sospesa; un altro progetto era “Il dio Kurt” dall’opera teatrale di Alberto Moravia che trattava il mito di Edipo trasferito in un campo di concentramento, con Henry Fonda e Charlotte Rampling addirittura, film di cui non iniziarono neanche le riprese perché bloccato da produttori e distributori terrorizzati dal tema che trattava.

A quel punto il nostro mise mano alla sceneggiatura vera e propria coinvolgendo, come sappiamo, Vincenzoni, il cui apporto fu soprattutto immettere umorismo nella storia, un’ironia sempre al limite che però non diventa mai parodia – questa è la maestria – e che coinvolge i protagonisti a differenza di quanto accadeva nei classici western americani, dove gli eroi alla John Wayne sono sempre tutti d’un pezzo e la parte ironica, quando c’è, è lasciata a figurine di contorno, come il solito vecchietto con la voce chioccia. Ma anche se lavorò col suo solito impegno Vincenzoni si sentiva però un intruso, da un lato perché non credeva che quel genere di western all’italiana, che Leone stava ancora inconsapevolmente creando, potesse davvero avere un seguito, e dall’altro perché stava antipatico al produttore Grimaldi, produttore sulla carta che chiudeva un pacchetto composito, una specie di notaio insomma, mentre Vincenzoni vantava rapporti personali con i tycoon della United Artists: gelosia da provincialismo.

A seguire, negli anni, a bocce ferme come si dice, in tanti hanno rilasciato dichiarazioni e interviste: Tonino Valerii ha affermato di aver lavorato anche lui alla sceneggiatura e di aver creato lui la figura dell’antagonista, El Indio, e Vincenzoni non nega dicendo però di aver battezzato lui il personaggio: gelosie fra padrini. Lo sceneggiatore Sergio Donati, che già era stato chiamato da Leone alla scrittura del primo film che lui aveva rifiutato perché poco allettante, di nuovo viene chiamato a collaborare e, benché anche lui non accreditato, si attesta la creazione di diverse importanti scene, fra cui quella del treno che presenta il coprotagonista e il finale in cui si contano i cadaveri; continuerà a collaborare con Leone e il primo film in cui compare la sua firma accanto a quella di Sergio Leone è “Giù la testa”, ben quattro film dopo.

Era il momento di formare il cast. Ovviamente l’uomo senza nome che qui verrà indicato come Il Monco perché spara solo con la sinistra avendo la destra parzialmente inabile, era stato scritto per Clint Eastwood ma non era certo che l’attore accettasse anche perché nel frattempo era stato contattato dalla Jolly Film malamente abbandonata da Leone, che voleva rubare al regista il suo protagonista; ma quando l’attore seppe della rottura decise di stare dalla parte di Leone che ora aveva dalla sua anche la United Artists, e firmò un contratto di 50mila dollari dopo i soli 15mila del precedente film, oltre a una piccola percentuale sugli incassi e il biglietto aereo di prima classe mentre precedentemente aveva viaggiato in economica.

Per il ruolo dell’anziano cacciatore di taglie, il colonnello Douglas Mortimer, Leone ancora una volta aveva dovuto rinunciare a Henry Fonda, e allora contattò Charles Bronson, ma anche lui rifiutò la parte e Leone allora si rivolse a Lee Marvin, che si era messo in luce come Liberty Valance in “L’uomo che uccise Liberty Valance” di John Ford; e l’attore era ben disposto a prendere parte al progetto, però qualche giorno prima dell’inizio delle riprese firmò per recitare in “Cat Ballou” di Elliott Silverstein, film che gli fece vincere l’Oscar. Così, a pochi giorni dall’inizio delle riprese il colonnello Mortimer non aveva ancora un volto. Allora il nostro impavido autore fece i bagagli e partì per Los Angeles alla ricerca di un attore di cui possedeva solo una vecchia foto strappata dall’Academy Players, un annuario degli attori della Academy Pictures. A suo dire quello sconosciuto attore, che rispondeva al nome di Lee Van Cleef, assomigliava a un parrucchiere del Sud Italia, ma aveva anche un naso da falco e gli occhi di Van Gogh. “Calcolai che all’epoca della foto doveva avere circa quarant’anni, quindi ora doveva averne quarantotto, quarantanove o cinquanta – proprio l’età giusta per il colonnello. Quando arrivai a Hollywood sembrava che fosse completamente sparito. Finalmente, dopo aver corso in lungo e in largo, riuscimmo a trovare il suo agente di nome Sid. Questo agente mi disse che Lee Van Cleef non faceva più l’attore, che ora era un pittore, che era stato a lungo in ospedale perché aveva avuto un incidente frontale in un canyon a Beverly Hills. Aveva deciso di intraprendere una nuova professione… Ma io dissi: ‘Beh, devo vederlo a ogni costo perché, fisicamente, quando penso a questo personaggio, m’immagino lui’. E poche ore prima che il mio aereo partisse, Lee Van Cleef venne in questo piccolo albergo alla periferia di Los Angeles dove stavo io.”

Lee Van Cleef nel suo studio di pittura

Leone gli propose 10mila dollari di compenso e il biglietto per il prossimo aereo per l’Italia. Van Cleef accettò senza discutere, prendendosi però il tempo di completare un quadro che gli avevano commissionato. Per l’attore, dipendente da alcol e fumo, che per sua stessa ammissione faceva fatica a pagare anche la bolletta della luce, questo film fu una vera e propria ciambella di salvataggio; aveva interpretato decine di film, soprattutto western, anche grandi film come “Mezzogiorno di fuoco” di Fred Zinneman in cui aveva debuttato, o “Sfida all’O.K. Corral” di John Sturges, ma sempre in piccoli ruoli, spesso ucciso dal protagonista, e molto più spesso senza neanche una battuta. Leone gli fece leggere il copione durante il volo e Van Cleef notò che nella complessità della trama dove tutti tradiscono tutti e tutti hanno secondi fini, c’era qualcosa di shakespeariano, e questo inorgoglì ancora di più il nostro Leone. Una volta sul set, che era l’ennesima babele, ebbe qualche problema ad ambientarsi e Eastwood gli consigliò di andare vedere “Per un pugno di dollari” che era ancora nelle sale, e all’uscita del cinema convenne: “Adesso capisco cosa intendi. Il copione è importante ma decisamente secondario rispetto allo stile.” Per il resto, lui che aveva già abbandonato il cinema, per tutto il periodo delle riprese fu nella mani del regista “docile come un agnellino”, parole di Luciano Vincenzoni. E il 50enne Lee Van Cleef, all’anagrafe Clarence LeRoy Van Cleef Jr. che curiosamente aveva ascendenze olandesi come olandese era il pittore Van Gogh con cui Leone aveva trovato somiglianze, grazie a quel film assurse alla notorietà ed ebbe una vera carriera soprattutto in Italia, sua seconda patria artistica. Tranne poche occasionali cose non ha più girato in patria però dopo la sua morte, avvenuta a 64 anni per infarto ma era anche affetto da altre serie patologie, è diventato fonte di ispirazione grazie allo sdoganamento di Quentin Tarantino, cultore di un certo cinema trash nel quale inserire di diritto i nostri poliziotteschi e gli spaghetti-western. Nel film è doppiato da Emilio Cigoli.

Sin dall’inizio il ruolo del cattivo, El Indio, era stato pensato per Gian Maria Volonté, che forte del successo del primo film continua a esagerare non poco con la sua teatralità; ma d’altronde, Leone, che lo conosceva bene, lo assecondava e fa dire del suo personaggio che è un pazzo drogato per giustificare quella sua maschera sempre sopra le righe ma sempre efficace in quel contesto dove le inquadrature, i tempi della regia, l’indugiare sui primi piani, sono di per sé teatrali, da dramma shakespeariano come aveva notato Van Cleef. Per Volonté questo secondo film con Leone fu la loro ultima collaborazione dato che il cinema lo scoprì pienamente e lui si avviò verso tutt’altre interpretazioni, sempre drammatiche, politicamente impegnate come lo è stato lui nel Partito Comunista Italiano, e spesso biografiche: è stato Bartolomeo Vanzetti e Giordano Bruno per Giuliano Montaldo, Enrico Mattei, Lucky Luciano e Carlo Levi per Francesco Rosi, Aldo Moro per Giuseppe Ferrara, Michelangelo e Caravaggio in due serie tv, per dire solo i personaggi più noti. Questo è anche l’ultimo film dove viene doppiato, sempre da Nando Gazzolo, ché dal successivo film in poi reciterà, e di diritto, con la sua voce.

Mara Krupp

Nel resto del cast tornano gli amici Mario Brega, Benito Stefanelli e Edmondo Tieghi, ma ci sono delle interessanti new entries: il teatrale Luigi Pistilli che si avvierà a una brillante carriera ma qui è doppiato da Vittorio Sanipoli perché all’epoca anche se si era dei professionisti e si veniva dal palcoscenico, o forse soprattutto per quello data la diversa enfasi recitativa, si veniva sempre doppiati da professionisti del cinema e del microfono; e uno dei pochi che faceva bene tutto, teatro cinema doppiaggio e presto anche regia cinematografica, era Enrico Maria Salerno qui di nuovo voce di Clint Eastwood. Un’altra interessante presenza è il tedesco Klaus Kinski che quello stesso anno è anche nel cast del colossal “Il Dottor Zivago” e continuerà a lavorare molto in Italia come nel cinema internazionale. Dalla Germania torna il vecchietto Joseph Egger, sempre doppiato da Lauro Gazzolo, qui al suo ultimo film. Il caratterista napoletano Dante Maggio tratteggia il ruolo di un falegname mentre un’altra italiana dal nome teutonico, la caratterista Mara Krupp, è praticamente l’unica donna in un film decisamente al testosterone: c’è ma potrebbe anche non esserci per quanto il suo personaggio sia funzionale alla storia.

Lee Van Cleef con Klaus Kinski

A proposito di testosterone è molto divertente e riuscitissimo il duello fra i due bounty-killer a inizio film, quando ancora non si conoscono e si prendono le misure sparando l’uno al cappello dell’altro per farlo volare il più lontano: metafora del più prosaico e virile “facciamo a chi piscia più lontano”. Curioso è anche l’orologio da taschino con foto dell’amata all’interno del coperchio, gadget in dotazione a El Indio da cui suona un minaccioso carillon ogni volta che lo apre: è il tempo che dà al suo opponente prima di sparargli; è tecnicamente impossibile che un orologio da taschino possa contenere il marchingegno di un carillon, ma il cinema è anche questo, e soprattutto il cinema di Sergio Leone che in questo film sfoggia anche un wanted di El Indio con improbabile maschera ridanciana del pistolero criminale. Ma si tratta di maschere, appunto. In questa messa in scena mi sorprende negativamente la sciatteria, purtroppo molto diffusa all’epoca anche nei poliziotteschi e persino a Hollywood, con la quale il futuro maestro gira le sparatorie: se da un lato sono dinamiche e i mort’ammazzati saltano per aria e ruzzolano e cascano come birilli, dall’altro non si può fare a meno di notare che sui loro abiti non c’è un buco e neanche una macchia di sangue.

Di nuovo con le musiche di Ennio Morricone ancora una volta record di vendite di dischi, il film è un altro clamoroso successo dove non è più necessario nascondersi dietro fittizi nomi americaneggianti: fu il più visto in quella stagione cinematografica e ad oggi detiene il quinto posto nella classifica dei film italiani più visti di sempre.

Per un pugno di dollari

“Quando cominciai il mio primo western dovetti trovare in me stesso una ragione psicologica, perché non avevo mai vissuto in quel tipo di ambiente. E un pensiero mi venne spontaneo: era come se fossi il burattinaio dei pupi siciliani; i loro spettacoli erano leggendari ma anche storici. Tuttavia l’abilità del burattinaio consisteva in una cosa: dare a ciascun personaggio una connotazione ulteriore relativa al paese specifico che i “pupi” stavano visitando. Come cineasta il mio compito era quello di creare una favola per adulti, una fiaba per ragazzi cresciuti; e il mio rapporto col cinema era quello di un burattinaio con i suoi burattini.”

“Da parte dei produttori c’era la ferma sicurezza che sarebbe stato un disastro economico, però con un guadagno in partenza, perché io per farlo dovetti andare a trovare un coproduttore tedesco (la Constantin Film), un coproduttore spagnolo (la Ocean Film), e naturalmente un partecipante italiano. Il preventivo era di 80 milioni circa. Così andai da Constantin in Germania e ci fu subito l’accordo concreto di una cifra, e poi trovammo il coproduttore spagnolo. Io decisi di prendere la metà del mio cachet e di avere però la partecipazione. Dato che loro credevano che di utili non ce ne sarebbero stati, furono ben felici di darmi questa possibilità. Il film veniva girato gratis in partenza.”

1964. Il 35enne Sergio Leone aveva debuttato l’anno prima con un film tutto suo, il peplum “Il colosso di Rodi” dopo una già intensa carriera come assistente alla regia e regista di seconde unità in importanti film hollywoodiani girati a Cinecittà: basti pensare che aveva diretto lui la famosa battaglia delle quadrighe di “Ben-Hur” di William Wyler e sempre lui, co-sceneggiatore e aiuto regista, aveva concluso il film “Gli ultimi giorni di Pompei” che il regista Mario Bonnard aveva abbandonato per correre a dirigere Alberto Sordi in “Gastone”, ma ufficialmente ritiratosi per ragioni di salute.

Insomma, Sergio Leone non si ferma un attimo e pensa a un film tutto suo già da una decina d’anni; per il suo debutto aveva scritto la sceneggiatura “Viale Glorioso”, che a Roma è un luogo simbolo della sua infanzia e della sua giovinezza nel quartiere Monteverde, ma poi vi aveva rinunciato perché Federico Fellini era uscito con “I vitelloni”, film che in qualche modo ricalcava lo stesso spirito della sua storia, e fa riflettere che due registi tanto diversi abbiano pensato a inizio carriera una storia con le stesse atmosfere: un gruppo di giovani che oziosamente riflette sul senso della vita. Di fatto, i produttori di “Gli ultimi giorni di Pompei” soddisfatti dell’aiuto regista che aveva salvato il film, si mettono a disposizione per produrgli la sua opera prima, un altro peplum a basso costo, e Leone, che si era già divertito a scrivere una sceneggiatura come sorta di rivisitazione del genere ma in chiave ironica, propose “Il colosso di Rodi”: il film si fece, l’autore smussò però la parte ironica e mostrò grande talento nel filmare e firmare uno pseudo-colossal girato con un budget ridotto e molta inventiva.

Ricordiamo che in quei primi anni ’60 stava scemando l’interesse per i peplum – che gli americani chiamavano sword-and-sandals e Leone più prosaicamente sandaloni – e gli stessi western che in Europa, Italia e Spagna soprattutto ma anche Germania, si giravano a basso costo fingendo che fossero americani. Preso in quella scia Sergio Leone stava già lavorando alla sceneggiatura del suo terzo film del genere, “Le aquile di Roma” una specie di “I sette samurai” (1954) di Akira Kurosawa ma in sandaloni, film che aveva già avuto un recentissimo remake americano con “I magnifici sette” (1960) di John Sturges. Insomma, nulla si inventa e tutto si ricicla, e se poi il riciclo diventerà a sua volta un capolavoro dipenderà dal reale talento dell’autore. Ma in quel frangente Leone fu distratto da un altro impegno: gli era stata commissionata la sceneggiatura di un western per un regista spagnolo che poi rigettò il suo lavoro; ma al nostro autore era però rimasta in testa l’idea del western, idea che accarezzava da molto pur essendogli venuti a noia le dinamiche e i luoghi comuni di quel genere classico americano; e da innovatore, così come aveva tentato di innovare il peplum senza riuscirci, pensò di cimentarsi con una sua personalissima visione del western all’italiana o spaghetti-western, termine coniato dagli americani per definire i western girati da noi a basso costo, inizialmente col senso spregiativo che proveniva da mangia-spaghetti, definizione che recentemente anche Putin ha inopinatamente rispolverato.

Vale la pena riferire, per chi lo volesse cercare, che il primo western italiano fu “Una signora dell’ovest” del 1942 diretto dal tedesco italianizzato Carl Koch, regista su cui va spesa qualche parola: fu assistente del francese Jean Renoir che nel 1936 lo aiutò ad espatriare insieme alla moglie regista animatrice; a ridosso dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939, Renoir col suo assistente Koch iniziarono a lavorare a Roma a un adattamento cinematografico del dramma in cinque atti fine ‘800 “La Tosca” di Victorien Sardou di cui nel 1900 Giacomo Puccini compose l’opera lirica su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa; film che era stato voluto da Mussolini e caldeggiato dal governo francese per mantenere buoni rapporti con l’Italia onde evitare che entrasse in guerra al fianco della Germania, ma come sappiamo così non fu e dopo appena quattro giorni di riprese l’Italia entrò in guerra contro la Francia e Jean Renoir rientrò precipitosamente in patria lasciando il film in mano al suo secondo, il quale essendo tedesco non aveva problemi logistici, semmai ideologici, ma il lavoro è lavoro, gli venne italianizzato il nome in Carlo Koch e portò a compimento il film, successo al botteghino, avendo come assistente un promettente giovane, Luchino Visconti.

Torniamo a Sergio Leone. Era andato con la moglie al cinema Arlecchino – nomen omen! – a vedere “La sfida del samurai” (Yojimbo) sempre di Akira Kurosawa che a sua volta si era ispirato a un racconto dell’americano Dashiell Hammett, e ne fu folgorato: gli venne l’idea di fare il western che aveva sempre sognato. Si mise subito al lavoro e in breve completò la sceneggiatura insieme ai registi Fernando Di Leo e Duccio Tessari, ricalcando quasi pedissequamente il film del regista giapponese, fatto che diverrà una querelle giudiziaria. Il ronin giapponese diventa per Leone l’Uomo Senza Nome, un pistolero che, mostrate le sue capacità, rinfodera le armi e si mette al servizio di due famiglie rivali che con astuzia conduce allo scontro e all’annientamento reciproco. E Leone, dichiaratamente, si ispira proprio alle maschere di Goldoni benché nel prodotto finale è una finezza che il grosso del pubblico non coglie, un punto di vista che gli fa usare la macchina da presa per indagare gli sguardi dei protagonisti nei primissimi piani, le maschere che esprimono pensieri e sentimenti al di là delle parole che spesso diventano superflue.

Un’interessante intervista di Sergio Leone nonostante la piattezza dell’intervistatore Giuseppe Cereda

In seguito Leone racconterà (in questa intervista e altrove) che il ruolo del protagonista lo aveva scritto ispirandosi a un attore televisivo americano protagonista della serie “Gli uomini della prateria”, Clint Eastwood, ma in realtà lui aveva pensato in prima istanza a uno dei due giovani attori che si erano messi in luce in “I magnifici sette”, James Coburn o Charles Bronson; ma la produzione sparagnina gli negò una di quelle nuove star che ora avevano un ingaggio da 25mila dollari e le attenzioni si puntarono sulla star televisiva che si accontentava di 15mila. A dirla tutta i produttori avevano prima proposto Richard Harrison, cachet da 20mila dollari, che in Italia aveva già girato due peplum ma a Sergio Leone l’attore non piaceva, lui che inizialmente aveva puntato nientemeno che a Henry Fonda, tanto da mandare il copione al manager che neanche lo mostrò all’attore scrivendo nella cortese risposta: “Una cosa del genere non l’avrebbe mai fatta”; ma solo pochi anni dopo Fonda lavorò con Leone, che nel frattempo era diventato a sua volta una star, in “C’era una volta il West”. Leone aveva anche preso in considerazione Cliff Robertson ma non ci pensò più quando seppe che sarebbe costato come l’intero film. Così fra rifiuti e costi troppo alti non c’era ancora il protagonista. Si fece avanti un dipendente dell’agenzia William Morris di Roma con la copia di una puntata della serie “Gli uomini della prateria” nella quale recitava, a suo dire: “un attore giovane e allampanato, che poteva forse interessare Leone.” Ma Leone era ancora riluttante e fu spinto alla scelta dalla necessità di cominciare le riprese e dal costo contenuto dell’attore.

I cinque che non furono: Charles Bronson, James Coburn, Richard Harrison, Henry Fonda e Cliff Robertson

Solo dopo il regista dirà in un’intervista americana quello che parzialmente ripeterà nell’intervista Rai: “Ciò che più di ogni altra cosa mi affascinò di Clint, era il modo in cui appariva e la sua indole. Nell’episodio ‘Incident of the Black Sheep’ Clint non parlava molto… ma io notai il modo pigro e rilassato con cui arrivava e, senza sforzo, rubava a Eric Fleming tutte le scene. Quello che traspariva così chiaramente era la sua ‘pigrizia’. Quando lavoravamo insieme lui era come un serpente che passava tutto il tempo a schiacciare pisolini venti metri più in là, avvolto nelle sue spire, addormentato nel retro della macchina. Poi si srotolava, si stirava, si allungava… L’essenza del contrasto che lui era in grado di creare nasceva dalla somma di questo elemento con l’esplosione e la velocità dei colpi di pistola. Così ci costruimmo sopra tutto il suo personaggio, via via che si andava avanti, anche dal punto di vista fisico, facendogli crescere la barba e mettendogli in bocca il cigarillo che in realtà non fumava mai. Quando gli fu offerto il secondo film, ‘Per qualche dollaro in più’, mi disse: ‘Leggerò il copione, verrò a fare il film, ma per favore ti imploro solo una cosa: non mi rimettere in bocca quel sigaro!’ E io gli risposi: ‘Clint, non possiamo tagliare fuori il sigaro. È il protagonista!‘ e la mitizzazione dei fatti è talmente accattivante che verrà ripetuta come una lezione imparata a memoria.

Ma Clint Eastwood che ne pensava? Lui aveva ricevuto la sceneggiatura di “The magnificent stranger”, una produzione italo-ispano-tedesca, e ovviamente non sapeva niente di Leone ma conosceva gli spaghetti-western e riteneva che nessun europeo potesse essere in grado di girare un western: come dargli torto? cosa avremmo pensato noi di un americano che avesse voluto girare un film neorealista? Però, benché tradotta in uno scadente inglese, fu incuriosito dalla sceneggiatura che si ispirava al film del regista giapponese, al cui precedente film si era già ispirato il successone “I magnifici sette” che gli aveva fatto gola.

Clint nella serie tv CBS

L’offerta era pure allettante: la produzione garantiva il viaggio in Europa anche alla moglie, e l’eventuale insuccesso commerciale non gli avrebbe nuociuto perché nessuno avrebbe visto in patria quello strano western il cui protagonista era sì il classico pistolero ma era anche un furbo manipolatore, oltre che un vagabondo sui generis e dunque un personaggio troppo fuori dagli schemi dei classici western per poter essere apprezzato sul mercato americano; dovette solo questionare con la produzione della serie che non voleva lasciarlo andare, ma garantì che a fine riprese sarebbe tornato a girare per la tv e si accordarono; e quando più avanti la rivista Variety riportò lo straordinario successo di quello spaghetti-western lui quasi non ci fece caso, anche perché non conosceva il titolo finale del film; solo quando gli arrivò una lettera dalla produzione per la proposta di un secondo film si rese conto del valore dell’impresa, dato che gli si spiegava che nel box office italiano, il “suo” era il secondo incasso dopo un film col divo Marcello Mastroianni (“Matrimonio all’italiana”) e fece i bagagli in quattro e quattr’otto.

Per cominciare a lavorare alla sceneggiatura, Leone si era procurato una traduzione del copione del film giapponese con l’intento di evitare, racconterà in seguito, che il suo scritto fosse una copia conforme: “Mi feci fare una traduzione del copione solo per essere sicuro di non ripeterne nemmeno una parola. Tutto ciò che volli mantenere fu la struttura di base del film di Kurosawa. Concepii l’intero trattamento in cinque giorni con Duccio Tessari. Il titolo provvisorio era ‘Il magnifico straniero’. Tessari non capiva bene cosa stavo facendo. Fece girare per Roma la voce che ero diventato un po’ strano. Poi scrissi l’adattamento, da solo, in una quindicina di giorni.” Ma il suo amico e aiuto Sergio Corbucci lo smentirà dicendo che Leone aveva copiato il film di Kurosawa per filo e per segno cambiando solo ambientazione e dialoghi. Posizione confermata da Fernando Di Leo, co-sceneggiatore con Duccio Tessari: “Non so chi disse a Leone — o meglio come si sparse la voce — che Yojimbo aveva stilemi western, sicché quando Sergio ci convocò, Tessari e me, si pensò a come fare la trasposizione. Tessari era per dare una robusta vena d’ironia alla storia, io per differenziarci, Leone era decisamente per il plagio: staccarsi di quel tanto che la diversità del genere comportava. Più io che Duccio lavorai in ‘direzione plagio’ e Sergio ebbe il copione che voleva. Va detto che l’originalità di Leone fu nel modo di ‘girare’, della storia s’era proprio invaghito.”

Ma veniamo alla questione legale. Durante la lavorazione del film dalla produzione arrivò la direttiva che chiunque fosse impegnato sul set doveva “astenersi in ogni circostanza dal menzionare la parola Yojimbo.” Cos’era successo? anzi, con non era successo? i diritti del film giapponese non erano ancora stati pagati e lo stesso Eastwood ha poi ricordato che la produzione aveva assicurato che si trattava di una mera questione burocratica che si sarebbe risolta a breve; ma così non fu perché quando il film venne distribuito nelle sale, l’italiana la Jolly Film non aveva ancora pagato i 10mila dollari di diritti alla giapponese Toho Film. Akira Kurosawa intentò causa e nella produzione italiana nessuno volle prendersi la responsabilità: Leone disse che i produttori erano troppo taccagni per pagare il dovuto, e gli fu risposto che lui non aveva avvertito che ci fossero degli oneri da pagare; poi fu sostenuto che la Jolly avesse contattato la Toho senza però ricevere risposta; ma ci fu anche chi sostenne che i produttori volessero incastrare l’autore: “Fece vedere loro ‘La sfida del samurai’ e disse: ‘Se riuscite a ottenere i diritti per un remake, io farò il film’. Beh, loro gli dissero che avevano preso i diritti, ma in realtà non era vero. E lui andò avanti e fece ‘Per un pugno di dollari’. E partì una causa con Kurosawa, che aveva ragione.” Fu così che Sergio Leone ricevette una lettera direttamente da Akira Kurosawa che rivendicava i diritti del film, e l’azione legale ebbe inizio.

A questo punto entrarono in gioco le sottigliezze legali che ben si sposavano con il genio italico sempre incline all’inganno e al raggiro, come il personaggio che avrebbero scelto per difendersi in tribunale. Gli avvocati della Jolly ritennero che la miglior difesa fosse l’attacco e il futuro regista Tonino Valerii, assistente alla regia non accreditato, fu incaricato di cercare una qualsiasi opera antecedente a “Yojimbo” con la quale poter sostenere che anche Kurosawa avesse copiato. Valerii buttò lì una proposta: l’opera di Carlo Goldoni “Arlecchino servitore di due padroni” che presentava, secondo lui, diverse analogie con il film di Kurosawa: “Gli avvocati consigliarono di sostenere che l’eroe doppiogiochista era ispirato a un personaggio di qualche opera letteraria occidentale e che quindi eventualmente il plagiario era Kurosawa. Io fui incaricato di trovare quest’opera. Mi capitò sotto gli occhi l’annuncio di una rappresentazione della commedia di Goldoni. Telefonai a un amico, fortunato proprietario del ‘Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi‘ e gli chiesi di leggermi la trama. Lo stesso pomeriggio portai l’idea in produzione con una punta di vergogna per l’irriverenza dell’accostamento. Fu riferita agli avvocati che ne furono entusiasti. Ebbi trecentomila lire in premio. Fu così che Goldoni divenne l’ispiratore del western all’italiana.” Questa controffensiva modificò leggermente la questione legale e i giapponesi si resero più inclini a un patteggiamento. Kurosawa e il suo co-autore Kikushima sarebbero stati risarciti col totale dei proventi dei diritti di distribuzione del film in Giappone, Taiwan, e Corea del Sud, più il 15% degli incassi di tutto il mondo. Leone rimase molto contrariato, poiché mai pensava che la questione sarebbe finita in tribunale: “Kurosawa aveva tutte le ragioni per fare ciò che ha fatto. È un uomo d’affari e ha fatto più soldi con questa operazione che con tutti i suoi film messi insieme. Lo ammiro molto come regista.” L’intera causa andò avanti per dieci anni e Sergio Leone perse tutta la sua percentuale sui diritti del film per pagare le parcelle dei suoi avvocati, ma imparò la lezione e da quel momento in poi decise che avrebbe prodotto da sé i suoi film.

Il successo ha molti padri. L’iconico personaggio senza nome si presenta con un look che rinnova quello classico del pistolero, a cominciare dal poncho che era noto da noi per essere stato indossato da Giuseppe Garibaldi di ritorno dal Sud America, ma che il personaggio di Leone-Eastwood, mantenuto per tutta la trilogia del dollaro, aveva rinnovato nell’immaginario e nella moda nostrana dove il poncio era indossato soprattutto dagli alternativi e dagli hippy, i figli dei fiori nostrani, ma c’era pure chi se lo faceva all’uncinetto. Leone ha affermato che furono sue le idee per acconciare il personaggio: “Gli diedi un poncho per ingrossarlo. E un cappello. Nessun problema. Presi una di quelle foto in bianco e nero che mi avevano fornito e aggiunsi a penna una barba, un sigaro toscano e un poncho.” Diversamente Clint Eastwood ha ricordato: “Andai in un magazzino di costumi sul Santa Monica Boulevard, e mi limitai ad acquistare il costume e portarlo là. Era molto difficile, perché in un film hai sempre due o tre cappelli dello stesso tipo, due o tre giacche uguali, nel caso si perda un accessorio del costume, o se qualcosa si bagna o tu ti devi bagnare. Ma per questo film avevo solo uno di tutto: un cappello, una specie di abito di montone, un poncho, e diverse paia di calzoni che erano semplicemente jeans tipo Frisco. Se avessi perso qualcosa a metà film sarei stato veramente nei guai.”

Volonté e Eastwood
Mimmo Palmara

Per il secondo ruolo, quello del vilain Ramón Rojo, fu scritturato Gian Maria Volonté che il regista già apprezzava, benché pare che la parte fosse stata scritta con e per l’amico Mimmo Palmara, già nel cast di “Il colosso di Rodi” che però non prese parte al progetto perché al momento era solo una produzione di riserva della Jolly Film la cui produzione principale era “Le pistole non discutono” a cui Palmara scelse di partecipare: un film che oggi non ricorda più nessuno; e Leone per girare il suo film a basso costo dovette accontentarsi di riciclare location, costumi, troupe e anche parte di attori e figuranti del film principale. Il resto del cast è equamente distribuito fra le tre nazioni che producono: per l’Italia ci sono anche i caratteristi Mario Brega, che da qui in poi sarà in tutti i film di Leone, Benito Stefanelli, anche stuntman prenderà parte a tutta la trilogia del dollaro perché parlando molto bene l’inglese sui set sarà l’interprete di Clint Eastwood; Bruno Carotenuto, figlio del più celebre Memmo; Edmondo Tieghi al suo debutto cinematografico.

José Calvo con Eastwood

Per la Spagna il volto noto José Calvo, che come tenutario del saloon nonché “guida turistica per stranieri” ha il ruolo più importante dopo Eastwood e Volonté; Antonio Prieto, anche lui popolarissimo in Spagna pure come cantante; Margarita Lozano al suo primo western, continuerà a lavorare molto in Italia fino in età matura; il belloccio baffuto Daniel Martìn rifà lo stesso ruolo di tanti western spagnoli.

Eastwood con Joseph Egger

Per la Germania: Marianne Koch (nessuna parentela col regista Carl Koch sopra citato) che all’epoca era molto nota in patria tanto da meritarsi il secondo nome nei titoli, ma questo resterà il suo film più importante; Wolfgang Lukschy noto in Germania per essere il doppiatore di John Wayne e Gary Cooper nei western doc; Sieghardt Rupp, già interprete dei western tedeschi; il vecchio Joseph Egger è doppiato da Lauro Gazzolo che fu la voce chioccia di tanti vecchietti del west. E restando sul parlato c’è da dire che il film fu girato senza traccia sonora, praticamente muto, e sul set ognuno parlava la sua lingua in una sorta di babele cui fu data forma al doppiaggio. Clint Eastwood, che nella versione americana si doppiò da sé, fu doppiato da Enrico Mario Salerno, mentre Volonté fu doppiato da Nando Gazzolo figlio di Lauro. Altri doppiatori di rango: Anna Miserocchi per la Lozano, Rita Savagnone per la Koch, Sergio Graziani per Stefanelli, Mario Pisu per Prieto, i fratelli Luigi e Nino Pavese (padre della doppiatrice Paila Pavese) per Calvo e Martìn.

Per la colonna sonora Leone aveva pensato di affidarsi ad Angelo Francesco Lavagnino già compositore della musica per “Il colosso di Rodi” ma la produzione aveva sotto contratto un certo Ennio Morricone che aveva appena musicato il primo western della Jolly Film, “Duello nel Texas”, e benché restio l’autore andò a trovare il musicista a casa, scoprendo che erano stati compagni di scuola alle elementari: il resto è storia, anche se sulle prime ci furono delle frizioni perché Leone chiese a Morricone di ispirarsi al russo Dimitri Tiomkin che aveva musicato “La battaglia di Alamo” film d’esordio da regista di John Wayne, ma il musicista non aveva nessuna intenzione di copiare, anche per una questione di professionalità: “Mi toccò dire a Sergio: ‘Guarda, se vuoi mettere nel film quel lamento, io non voglio averci niente a che fare’. Allora lui mi disse: ‘Okay, tu componi la musica ma fallo in modo che una parte della partitura suoni come il deguello‘. Anche questa soluzione non la vedevo di buon occhio, così presi un mio vecchio tema, una ninna nanna che avevo scritto per un amico, per una versione teatrale di tre drammi di mare di Eugene O’Neill. La ninna nanna era cantata da una delle Peter Sisters… Ciò che lo faceva somigliare era l’esecuzione, con una tromba suonata un po’ alla zingara.” Terminata la composizione delle musiche per le scene principali, Leone pretese un altro pezzo che accompagnasse l’intero film e Morricone gli propose un altro suo vecchio tema musicale, un brano folk americano ispirato a Woody Guthrie in cui voleva far percepire la solitudine e la nostalgia e al primo ascolto del pezzo il regista ne rimase affascinato e disse al compositore: “Hai fatto il film. Vattene in spiaggia. Il tuo lavoro è finito. È questo che voglio. Ora devi solo procurarti qualcuno che sappia fischiare”. E Morricone contattò il maestro Alessandro Alessandroni, abile col fischio tanto da saperlo rendere un vero e proprio strumento – roba che oggi si farebbe solo in digitale; e degna di nota era anche l’armonica a bocca suonata da Franco De Gemini. Questa colonna sonora fu per Morricone il primo successo internazionale con grande vendita di dischi ma lui la ricordò come la peggior colonna sonora che avesse mai scritto per il peggior film di Sergio Leone. Vinse ai Nastri d’Argento mentre Volonté fu candidato come miglior non protagonista.

Nei titoli di testa Sergio Leone si firma come Bob Robertson in omaggio al padre Vincenzo Leone che come attore aveva usato il nome d’arte Roberto Roberti. Ennio Morricone è Leo Nichols e Volonté è John Wells. Fra le altre curiosità: Clint Eastwood ha successivamente affermato che Leone non sapeva nulla del West, e che molte delle sue innovazioni erano dovute proprio all’ignoranza del regista circa le norme vigenti a Hollywood, a cominciare dalle regole del Codice Hays, secondo il quale quando avveniva uno sparo, l’arma e il personaggio ucciso non potevano trovarsi nello stesso fotogramma: “Dovevi girare la scena separatamente, e poi far vedere la persona che cadeva. Si era sempre pensato che fosse un po’ stupido, ma in televisione facevamo sempre in quel modo… Sergio non ne sapeva niente, e quindi metteva tutto insieme… Si vede la pallottola che parte, si vede la pistola che fa fuoco, si vede il tizio che cade, e non era mai stato così prima.” Fra le innovazioni di Leone c’è il frequente uso di primi piani, dettaglio che divenne un suo marchio di fabbrica e per il quale divenne famoso in tutto il mondo; Secondo Leone, gli occhi “rivelavano tutto quello che c’è da sapere sul personaggio: coraggio, paura, incertezza, morte, eccetera.” Mentre Eastwood rifletteva: “Leone credeva, come Fellini, e come molti registi italiani, che la faccia significasse tutto. In molti casi è meglio avere una gran bella faccia piuttosto che un gran bravo attore.”

Negli Stati Uniti il film uscì tre anni dopo, nel 1967, dopo che si furono appianate le questioni legali; e per il passaggio in tv avvenuto nel 1975 ci fu qualche problema di ordine morale nonostante il Codice Hays fosse decaduto: le azioni del protagonista furono ritenute perverse e immotivate e perciò venne girato un prologo trasmesso prima dei titoli di testa, diretto da Monte Hellman, anche lui autore di western atipici, in cui il personaggio di Eastwood, interpretato da un ignoto attore più basso e con un poncho diverso, insieme a primissimi piani riciclati da altre scene del film, si trova in un carcere statunitense; viene portato dal Direttore, Harry Dean Stanton, il quale gli dice che sarà lasciato libero solo se riporterà la pace nel paese di San Miguel entro sessanta giorni, altrimenti verrà ricercato come qualunque altro prigioniero evaso. Lo informa della situazione tra i Rojo e i Baxter e lo avvisa che non potrà contare su aiuti militari o indigeni, in quanto anche queste fazioni commerciano con i banditi, per poi lasciarlo andare in groppa a un cavallo, anziché di un mulo come Leone fa arrivare l’Uomo Senza Nome a San Miguel. La curiosa scena è oggi disponibile come contenuto extra nell’Edizione Speciale in DVD e Blu-ray disc per il mercato statunitense, insieme a un’intervista al regista sulla sua realizzazione. Noi ce ne faremo una ragione.