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Palazzina Laf – opera prima di Michele Riondino

Con l’opera prima di Michele Riondino ritorna il cinema di impegno civile, quello che negli anni Sessanta e Settanta vide dietro la macchina da presa autori come Francesco Rosi, Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, per dire i primi che mi vengono in mente: cinematografia che aveva una sua ragione d’essere scoprendo come racconto la denuncia sociale e le malefatte del potere, cinema che in quegli anni si proponeva come alternativa alla commedia all’italiana; cinematografia che non ha mai smesso di esistere e che si è ravvivata in questi ultimi due decenni dei Duemila.

Il tarantino Riondino, trasferitosi a Roma per frequentare l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, è uno di quei fortunati che ce l’hanno fatta in un ambiente in cui la fortuna conta più del talento: e lui il talento ce l’ha, insieme a un suo discreto fascino che certo non guasta. Accumula candidature ai premi ma afferra solo il Premio Guglielmo Biraghi assegnato dai giornalisti per “Dieci inverni” del 2009 del debuttante Valerio Mieli. Fino a questi David di Donatello 2024 in cui è ovviamente candidato come regista debuttante accanto a Beppe Fiorello per “Stranizza d’amuri”, Micaela Ramazzotti per “Felicità” e Paola Cortellesi che con “C’è ancora domani” porta via il premio, come da previsioni; al suo film vengono però assegnati due premi di peso: quello per il miglior protagonista a lui personalmente e quello per il non protagonista a Elio Germano, oltre alla miglior canzone originale a Diodato (Antonio) anche lui tarantino benché nato ad Aosta, ma si sa che la gente del sud si sposta molto.

Non sorprende il debutto socialmente impegnato di Riondino: a Taranto è nel “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” nato nel 2012 per puntare l’attenzione pubblica sui problemi tarantini legati all’occupazione e all’Ilva nello specifico, comitato che organizza in città il concertone del 1° maggio chiamato “Uno maggio Taranto libero e pensante” di cui il nostro è da qualche anno anche direttore artistico insieme a Diodato, guarda un po’, e il trombettista siracusano (di Augusta) Roy Paci. La sceneggiatura che Riondino ha scritto insieme al napoletano Maurizio Braucci che non è l’ultimo arrivato: “Gomorra” e “Reality” di Matteo Garrone, “Pasolini” e “Padre Pio” di Abel Ferrara, “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, “Martin Eden” di Pietro Marcello, per ricordare i film più noti alla cui scrittura ha partecipato; “Palazzina Laf” dove il LAF e l’acronimo di “laminatoio a freddo” che è lo stabilimento accanto alla palazzina in questione, si ispira al romanzo di un altro tarantino, Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore decisamente impegnato sul fronte sociale, che in “Fumo sulla città” ha raccontato le malefatte nell’Ilva del Gruppo Riva che l’aveva acquisita nel 1995 quando l’impresa parastatale fu privatizzata; disgraziatamente lo scrittore è morto all’improvviso poco prima di poter prendere parte alla scrittura del film, che nei titoli di coda gli è dedicato: aveva 40 anni.

Alessandro Leogrande

L’anno dopo la capitale albanese Tirana gli ha intitolato una via del centro riconoscendogli l’impegno che lo scrittore profuse a quella nazione col suo libro-inchiesta “Il naufragio” nel quale ha raccontato l’affondamento della Kater I Rades in cui perirono 81 persone dei 120 migranti, per lo più famiglie con bambini, che nel 1997 si erano imbarcati per raggiungere le coste pugliesi ma la nave fu speronata accidentalmente da una corvetta della nostra Marina Militare impegnata in una manovra di respingimento.

Il film, che non possiamo dire biografico perché è a tutti gli effetti un racconto di finzione, pone il punto di vista di un operaio (Riondino) cooptato da un dirigente (Germano) che in cambio di fittizie fugaci e ingannevoli regalie introduce come sua spia nella palazzina in cui venivano confinati gli impiegati di concetto che si erano opposti alla “novazione” del contratto, ovvero l’illegale declassamento a operai, pratica oltremodo pericolosa per persone che non avevano la preparazione specifica per stare ai macchinari: fatti reali, personaggi fittizi.

Film solido e decisamente diretto con mano ferma e felice, ma a tratti poco accattivante: senza voler diventare rigoroso documentario si fa veicolo per due belle interpretazioni ma la scrittura, scegliendo questa via, avrebbe dovuto essere più generosa con gli attori inserendo un paio di quelle necessarie (a mio avviso) scene madri, monologhi o scene forti, che gratificano gli interpreti e strizzano l’occhio al pubblico – che essendo il fruitore finale e principale va in qualche modo assecondato: a tal proposito basta fare il confronto con le altre opere prime in gara a cominciare dal furbissimo film della Cortellesi che giustamente trionfa. E difatti quest’opera prima di Riondino, rispettabilissima e molto apprezzata dalla critica, è stata praticamente ignorata dal pubblico: ha incassato 750 mila euro in tutto. E se da un lato mi viene da dire “peccato” dall’altro penso “che serva da lezione”. È sbagliato anche o soprattutto il titolo: “Palazzina Laf” dice il contenuto del film ma non è accattivante quanto “C’è ancora domani” che dice il film ma incuriosisce, o “Stranizza d’amuri” o, paradossalmente, “Felicità” che invita a comprare il biglietto ma non racconta assolutamente il film, tradendo poi le aspettative del pubblico: altra trappola in cui non cadere perché il passaparola è determinante. Gli editori, quelli che fanno i libri, sanno quanto siano importanti il titolo e la copertina, e si impongono sempre sulla visione ristretta degli autori. Tornando al film, il titolo del romanzo “Fumo sulla città” sarebbe stato senz’altro più vincente dato che richiama “Mani sulla città” glorioso film di Francesco Rosi del 1963 sulla speculazione edilizia dell’allora boom economico.

Il camaleontico Elio Germano, sempre un passo avanti, era stato chiamato da Riondino per il ruolo dell’operaio protagonista, ma l’attore romano che qui recita in perfetto tarantino, ha scelto il ruolo dell’antagonista perché ha anche il talento di chi sa scegliere i ruoli e ha fatto centro, lasciando all’autore la patata bollente del protagonista che altrettanto fa un ottimo lavoro aggiudicandosi anche lui il premio, ma schivando di un filino il centro: il personaggio è un operaio abbastanza ignorante e anche un po’ ottuso, tanto da lasciarsi infinocchiare dal padrone, ma a Michele Riondino che lo interpreta alla perfezione rimane però, nel suo personale sguardo umano, una luce di intelligenza che il personaggio non ha: sto cercando il pelo nell’uovo, lo so. E qui di seguito mi lancerò in una sterile provocazione, tanto per fare pettegolezzo.

C’è un altro attore pugliese cui il neo autore avrebbe potuto rivolgersi: Riccardo Scamarcio, che rispetto a Riondino (gli è una decina d’anni più anziano) vive su un altro pianeta e di certo i due non sono amici. Si erano ritrovati insieme sul set dell’inutile remake Mediaset del 2006 del glorioso sceneggiato Rai “La freccia nera” da Robert Luis Stevenson allora diretto da Anton Giulio Majano che nel 1968 aveva lanciato Loretta Goggi e Aldo Reggiani, e nel remake lanciando Scamarcio che ne era protagonista accanto a Martina Stella che fece parlare di sé solo per il seno nudo; mentre Riondino aveva un ruolo secondario. Sono poi stati di nuovo insieme nell’infelice fiction Rai “Il segreto dell’acqua” sempre protagonista Scamarcio, Riondino in un ruolo di supporto.

Riondino e Scamarcio si fronteggiano sul set

Diciamola tutta: i due non si sopportano. Avevano già fatto a botte, per finta sul set, beninteso, quando entrambi recitavano gli studenti nella serie Rai “Compagni di scuola” e su richiesta di Riondino la cosa si è ripetuta, sempre per finta, per carità, sul set di questo “Il segreto dell’acqua”, come lo stesso attore ha raccontato a Vanity Fair, e anche lì c’è da capire quanto ci sia di giornalisticamente vero e quanto di ulteriormente fiction: “Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, Riccardo mi è stato subito sul c…! Ma come, io ho una storia idilliaca con la Lodovini (Valentina, n.d.r.) e basta che arrivi uno Scamarcio qualsiasi per rompere tutto? Per di più, il mio personaggio non doveva mai reagire, ma io ho protestato” e ha ottenuto quello che voleva: fare a botte con lo Scamarcio qualsiasi.

Diversità, fra i due, fondamentali. Scamarcio è intemperante, da ragazzo ha cambiato diverse scuole fino a ritirarsi definitivamente dagli studi probabilmente senza neanche conseguire legalmente il diploma; va a Roma a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia e anche lì abbandona perché insofferente alle regole e all’autorità – al contrario del più ordinato Riondino che conclude il corso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e comincia a lavorare in teatro. Debuttano entrambi in tivù e il più anziano Scamarcio diventa fortunosamente un sex-symbol col giovanilistico “Tre metri sopra il cielo” diventando richiestissimo da registi e produttori: scegliendo accortamente, anche con l’illuminante guida della sua più anziana compagna (fino al 2018) Valeria Golino conosciuta nel 2004 sul set di “Texas” dell’esordiente Fausto Paravidino, si piazza nelle produzioni più interessanti lavorando anche all’estero e recitando in inglese e francese, e facendosi anche produttore oltre che occasionalmente sceneggiatore: insomma si dà da fare. Non ha (ancora) debuttato in regia.

Riondino, che ahilui non è mai assurto al ruolo di sex-symbol, tornando appena possibile al teatro (cosa che Scamarcio ha frequentato da guest star) come già detto resta culturalmente e politicamente legato alla sua terra, segno di una coscienza sociale che in un mestiere che si fa col coltello fra i denti può essere a volte un freno piuttosto che uno slancio – a meno di non farsi autori con una propria visione di cinema, che è quello che adesso ha fatto. Però non ha mai preso parte a produzioni internazionali né men che meno ha recitato in lingue straniere. È stato protagonista di “Il giovane Montalbano”, una produzione con la quale la Rai ha tentato il ringiovanimento del glorioso personaggio per liberarsi dall’ormai ingombrante Luca Zingaretti, che stanco di ripetere il personaggio non ne voleva più sapere, salvo poi accettare compensi stratosferici per continuare stancamente il suo “Montalbano sono”. Riondino è poi stato Pietro Mennea nella bio-fiction sempre Rai e al momento è protagonista della serie “I Leoni di Sicilia” su Disney+.

Dice il neo autore: “Il film racconta una storia vera che in pochi sapevano. La Palazzina Laf si chiama così per il nome di un reparto dell’acciaieria ex Ilva dove venivano reclusi, o condannati a stare in attesa, 79 operatori che non hanno accettato di firmare una clausola contrattuale che li avrebbe demansionati a operai. Ma quegli operatori erano altamente qualificati: ingegneri, geometri, informatici. Quando sono arrivati i Riva nel 1995 avevano subito detto di non aver bisogno di impiegati ma solo di operaiE, per una sorta di rimodulazione dell’assetto produttivo dell’azienda, avrebbero dovuto licenziare un certo numero di persone. In quei contratti però c’era l’art. 18, che impediva al proprietario di licenziare senza giusta causa. Il reparto lager è un reparto italiano e non solo di Taranto, ecco perché questo film non parla solo dell’ex Ilva. Veniva usato alla Fiat, nelle realtà industriali molto importanti per costringere i lavoratori, che si trovavano in quelle determinate condizioni, a licenziarsi o a commettere quell’errore che avrebbe prodotto la giusta causa.”

Gli altri interpreti del film sono tutti tarantini o pugliesi: Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo, Domenico Fortunato, Marta Limosani, Michele Sinisi, con Eva Cela nel ruolo della fidanzata, che essendo per nascita albanese (è arrivata in Italia a due anni) il suo ruolo rende implicito omaggio all’autore del romanzo scomparso prematuramente e onorato in Albania.

Gli occhiali d’oro – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Dopo “La lunga notte del ’43” e “Il giardino dei Finzi Contini” terzo e a tutt’oggi ultimo film dalla narrativa che Giorgio Bassani dedicò alla sua Ferrara e contestualmente al periodo fascista della città, essendo egli stesso uno di quegli ebrei che vissero sulla propria pelle le leggi razziali emanate nel 1938. Il giovane Bassani era all’epoca studente universitario a Bologna e gli fu concesso di proseguire gli studi, si sarebbe laureato l’anno dopo, mentre non erano più consentite le nuove iscrizioni agli ebrei, di pari passo all’epurazione del corpo docenti. L’io narrante, un universitario ebreo che è chiaramente l’alter ego dello scrittore, nel romanzo non ha un nome e nel film, scritto dallo stesso regista Giuliano Montaldo con Nicola Badalucco e Antonella Grassi, viene chiamato Davide Lattes, figlio di Bruno Lattes che a sua volta è il nome di uno dei personaggi che frequentano il giardino dei Finzi-Contini, romanzo dove a sua volta si cita la vicenda che viene raccontata in questo romanzo: se nel Bassani scrittore i rimandi e le autocitazioni sono frequenti, gli sceneggiatori ne prendono atto e proseguono sulla strada tracciata per restare fedeli allo spirito che anima quelle narrazioni: Ferrara come luogo eletto di una comunità che si autodefinisce “popolo eletto”. Nel romanzo e nel film procedono di pari passo le vicende dell’io narrante e del medico narrato: un omosessuale di mezza età che innamorandosi di un giovane arrivista crea scandalo e viene emarginato dalla benpensante società dell’epoca, emarginazione che procede specularmente a quella che lo studente subisce a causa della sua religione.

Nicola Farron e Philippe Noiret

Vidi il film al cinema alla sua uscita nel 1987 e già allora non mi convinse del tutto benché all’epoca non sapessi motivare chiaramente le mie impressioni: riferivo al mio gusto personale; rivisto oggi confermo e specifico: manca di pathos, è ben confezionato ma calligrafico. Manca l’atmosfera cupa dei tempi bui cui ci si avviava in quegli anni, che il debuttante Florestano Vancini aveva saputo infondere alla sua lunga notte del ’43, e soffre di quel patinato manierismo che si respirava nel giardino dei Finzi-Contini filmato da Vittorio De Sica. Detto ciò il film ebbe successo e si aggiudicò alcuni premi tecnici: a Venezia l’Osella d’Oro per i costumi di Nanà Cecchi e le scenografie di Luciano Ricceri, e poi David di Donatello alla musica di Ennio Morricone che comunque non è fra quelle che continuiamo ad ascoltare. Il cast, come nella migliore tradizione italiana dei decenni passati, è un’insalata di interpreti stranieri e italiani, qui giustificata dal fatto che si tratta di una coproduzione Italia Francia Jugoslavia; insalate per fortuna non più consentite alle produzioni italiane odierne in cui c’è l’obbligo della presa diretta dove gli eventuali interpreti stranieri devono recitare in italiano o fare ciò che sono, gli stranieri, e in cui all’eventuale necessario doppiaggio saranno gli stessi attori a usare la propria voce, a meno che non rinuncino personalmente; una battaglia, quella della voce-volto lanciata dall’impegnatissimo Gian Maria Volonté già alla fine degli anni ’70: un complesso argomento che meriterebbe un approfondimento a parte.

Rupert Everett e Valeria Golino

Davide Lattes, con la voce di Tonino Accolla, ha il volto di Rupert Everett fresco del successo del britannico “Another Country: la scelta” diretto dal polacco Marek Kanievska nel 1984; va da sé che viene scritturato dai nostri produttori e in quel 1987 è protagonista per Francesco Rosi in “Cronaca di una morte annunciata” e di questo film di Montaldo. L’anziano medico, doppiato da Sergio Rossi, è impersonato dal francese di casa in Italia Philippe Noiret, che in quella pratica di coproduzioni e finte produzioni italiane con attori stranieri, si accaparrò molti ruoli assai interessanti che sarebbero potuti andare ai nostri colonnelli: Gassman, Mastroianni, Manfredi, Sordi, Tognazzi. Protagonista femminile è l’emergente Valeria Golino che recita con la sua voce ingolata non del tutto gradevole all’epoca, viziati com’eravamo dalle voci perfette del doppiaggio, migliore attrice rivelazione l’anno prima premiata col Globo d’Oro per “Piccoli fuochi” di Peter Del Monte, e qui candidata inopinatamente (a mio avviso brava ma non da premio) come protagonista ai David di Donatello, insieme a Noiret: entrambi restarono a bocca asciutta perché i premi agli attori protagonisti andarono a Marcello Mastroianni e Elena Safonova per “Oci ciornie” di Nikita Sergeevič Michalkov. Il bel mascalzone di cui s’innamora il medico è impersonato da un altro emergente che poi non rispettò la promessa di una brillante carriera, Nicola Farron, che si esibisce in un nudo integrale sotto la doccia che ancora vale il limite di età alla visione del film su YouTube, anch’egli doppiato da Fabio Boccanera.

Il professor Amos Perugia di Roberto Herlitzka accompagnato all’uscita dall’ateneo dai suoi studenti mentre sullo sfondo si grida “Ebreo! ebreo!” e “Eia eia alalà”.

Altri nomi di spicco sono la centratissima Stefania Sandrelli come malefica pettegola e soprattutto Roberto Herlitzka perfettamente in ruolo essendo egli stesso un ebreo che bambino sfuggì al nazi-fascismo col padre che riparò in Argentina: qui nei primi dieci minuti del film interpreta il professore universitario epurato. I genitori del protagonista sono interpretati dal serbo Rade Markovic e dalla romana di nobili origini Esmeralda Ruspoli. Nel ruolo di uno studente universitario un giovane Luca Zingaretti. Il film, che di diritto si inserisce sotto l’etichetta Fascismo e Resistenza, è oggi considerato un caposaldo anche del filone film LGBT.

Di Giuliano Montaldo bisogna ricordare che come tanti dei suoi coetanei debuttò con un film legato al racconto del fascismo, “Tiro al piccione”, tema che continuerà ad esplorare in altri suoi riusciti lavori come “Gott Mit Uns” e “L’Agnese va a morire”. Nel 2007 è stato insignito del David di Donatello alla Carriera e nel 2018 vinse il David come attore non protagonista per “Tutto quello che vuoi” di Francesco Bruni. Mentre il suo ultimo film da regista è “L’industriale” del 2011 con Pierfrancesco Favino. Oggi ha 93 anni.

Il giardino dei Finzi Contini – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Sarò controcorrente: secondo me questo film non è fra i migliori di Vittorio De Sica. Tratta un argomento importante, è vero, è tratto da un importante romanzo, è altrettanto vero, ed ebbe grande successo anche oltreoceano dove notoriamente sono assai sensibili riguardo al tema dell’ebraismo: il film negli Stati Uniti si aggiudicò l’Oscar come miglior film straniero ed ebbero la candidatura per la miglior sceneggiatura non originale Ugo Pirro e Vittorio Bonicelli; e poi candidatura al Grammy per la musica di Manuel De Sica, figlio maggiore del regista, qui alla sua terza colonna sonora; Vittorio De Sica vinse anche l’Orso d’Oro a Berlino e il britannico BAFTA dove ci fu la candidatura di Ennio Guarnieri per la miglior fotografia. Premi in Italia: David di Donatello come miglior film e David Speciale al protagonista Lino Capolicchio; Nastro d’Argento a Romolo Valli come miglior attore non protagonista e a Giancarlo Bartolini Salimbeni per la miglior scenografia; e per finire Globo d’Oro a Fabio Testi come miglior attore rivelazione. Elencati per dovere di cronaca premi e riconoscimenti specifico che nel mio essere controcorrente sono in buona compagnia perché all’epoca non tutta la critica fu d’accordo nell’elogiare il film e Morando Morandini sul quotidiano milanese “Il Giorno” scrisse che era eccessivamente melenso. Be’ lo è.

Secondo me questo stile, melenso per Morandini, eccessivamente patinato aggiungo io, non è in linea con la miglior produzione di De Sica che nasce nel neorealismo e anche quando si trasforma in commedia mantiene certe radici veristiche e veraci, popolari e popolane, mentre la vita agiata di questa oziosa famiglia altoborghese, tutti leccati in abiti fra il bianco e il color crema, non appartiene al regista e dunque la racconta per luoghi comuni dove la quotidianità si fa cicaleccio e birignao: una leggiadria certo necessaria a far risaltare la tragedia incombente delle persecuzioni nazi-fasciste, ma non fosse stato per il risvolto drammatico questo ritratto di famiglia in un esterno sarebbe potuto diventare parodia: i Finzi-Contini, con trattino come nel romanzo di Giorgio Bassani, che sono “altro” nella comunità ebraica della Ferrara dell’epoca, restano “altro” anche nella cinematografia di De Sica.

Già l’inizio è imbarazzante dal punto di vista sonoro: Livia Giampalmo, che effettivamente era agli inizi in sala di doppiaggio, doppia Dominique Sanda quasi facendo il verso alle querule doppiatrici d’antan delle sofisticated comedies hollywoodiane, come dandosi un tono perché sta dando voce a una signorina di buonissima famiglia: stonatissima e fasulla; più avanti ci si fa l’orecchio, giocoforza, ma arriva subito anche il doppiaggio altrettanto stonato di Roberto Del Giudice che dà voce a Helmut Berger: l’atmosfera generale è che stiano giocando a fare le persone fini.

Alessandro D’Alatri, recentissimamente morto 68enne dopo una lunga malattia, recita nel film il ruolo del protagonista da adolescente, ma aveva debuttato 14enne l’anno prima da protagonista nel piccolo film di avventura e formazione (di cui non rimane traccia) “Il ragazzo dagli occhi chiari” di Emilio Marsili (due soli film nel portfolio e anch’egli sparito senza lasciare traccia) e poi in Rai con un piccolo ruolo nella miniserie “I fratelli Karamazov” diretta da Sandro Bolchi, dopodiché smette di recitare e da giovane adulto negli anni ’80 è al top come regista di pubblicità, debuttando come regista cinematografico solo nel 1991, 36enne, con “Americano Rosso” che gli varrà il David di Donatello come miglior regista esordiente; era una commedia sentimentale guarda caso ambientata nel 1934 con lo stesso entroterra fascista di questo film di De Sica cui resta legato il suo nome come giovane attore. Nel ruolo di Micol da giovane c’è l’ex attrice bambina Cinzia Bruno che aveva debuttato a tre anni proseguendo la carriera di giovane attrice anche in radio e nel doppiaggio ma per un problema alle corde vocali ha dovuto abbandonare la carriera artistica ed ha aperto un’agenzia di viaggi.

Proprio per il ruolo di Micol, De Sica aveva seriamente considerato Patty Pravo ma non se ne fece niente perché Patty era troppo impegnata, era appena arrivata al successo con “La bambola” (canzone che odiava perché dava l’immagine di una donna totalmente dipendente dall’uomo), inoltre la sua casa discografica stava battendo il ferro ben caldo: in quel 1970 era al successo con “La spada nel cuore” e poiché stava costruendosi una brillante carriera come cantante non volle distrarsi col cinema, tanto che in seguito rifiutò anche “Professione: reporter” di Michelangelo Antonioni: oggi se ne dice pentita. Però l’anno prima aveva doppiato Jacqueline Kennedy nel documentario di Gianni Bisiach “I due Kennedy”.

Alla sceneggiatura del film, come detto firmata da Bonicelli e Pirro, inizialmente partecipa anche l’autore del romanzo, Giorgio Bassani, che però abbandona il progetto per insanabili divergenze col regista, tanto da chiedere, e ottenere, che il suo nome venisse tolto dai titoli. Pare che il punto di rottura fu l’esplicitazione nel film della relazione fra Micol e il comunista milanese Malnati, che nel romanzo è solo accennata da Giorgio che è l’io narrante. E non si può dire che per lo scrittore sia stato il capriccio autorale di uno che non comprende le esigenze cinematografiche, perché egli stesso era da tempo attivo sia come soggettista che sceneggiatore, per non dire che aveva anche doppiato Orson Welles diretto da Pier Paolo Pasolini nell’episodio “la ricotta” del film “Ro.Go.Pa.G.”.

Lino Capolicchio è il protagonista Giorgio, nome autobiografico dell’autore che in qualche modo si rispecchia nel personaggio, ebreo come lui, che narra le vicende reali di una famiglia ferrarese cui nel romanzo sono stati cambiati i nomi (tranne quello del cane Jor) e alcuni dettagli: da qui forse il suo attaccamento a certi passaggi della sua narrativa che nel film non sono stati rispettati. Micol è interpretata dall’ex modella francese Dominique Sanda che dopo un’intenso debutto il patria con Robert Bresson che la diresse in “Così bella, così dolce”, subito viene adottata dai cineasti italiani a quell’epoca sempre affascinati dalle bellezze straniere, tanto c’era il doppiaggio: lo stesso anno gira con Bernardo Bertolucci “Il conformista” e si avvia a una carriera in film d’autore con personaggi tormentati e ambigui. Oggi è una bella signora 71enne che si dedica principalmente al teatro. Mentre ricordiamo che Capolicchio è morto 79enne lo scorso anno: la sua scomparsa ha creato un’impennata di visioni di questo film che fino a quel momento era in chiaro su Sky Cinema e che dopo la sua morte è passato a pagamento su Sky Primafila per sfruttare commercialmente la grande richiesta, e infine scompare del tutto; oggi è visibile a pagamento su Prime Video. Restaurato nel 2015 è reperibile in chiaro su YouTube una vecchia versione per il mercato anglofono con titolo e sottotitoli in inglese.

Ferrara, con Roma e Venezia, era una delle città con maggiore popolazione ebraica, e anche dopo la chiusura del ghetto in epoca fascista rimase un importante centro per la comunità, tanto che alle prime restrizioni vi confluirono ebrei da altre province pensando di trovare un ambiente più favorevole grazie alla presenza del deputato fascista ferrarese Italo Balbo e del suo amico Renzo Ravenna che fu uno dei due soli ebrei (l’altro fu il triestino Enrico Paolo Salem) a ricoprire il ruolo di podestà, fino all’emanazione delle leggi razziali che non risparmiò neanche loro. Ferrara dunque fu un centro nevralgico che anche il regista ferrarese Florestano Vancini racconterà nei suoi film.

Il giardino del titolo è quello della villa che realmente a Ferrara, e poi nel romanzo e infine del film, divenne ritrovo e porto franco per tutti gli ebrei e chiunque altro fosse inviso al regime fascista che aveva cominciato le persecuzioni e le restrizioni sociali; metafora di un sogno bello e impossibile che la realtà andrà a dissacrare. Romanzo e film raccontano come la comunità ebraica non si rese conto di quanto stava accadendo; ci fu chi reagì cercando di mimetizzarsi e si iscrisse al Fascismo, come il suddetto podestà della città e come il padre del protagonista interpretato da Romolo Valli, chi davvero senza poter comprendere, perché si era tutti italiani e da secoli, a memoria umana, non c’erano più state divisioni per ragioni religiose e men che meno razziali. Come detto a Romolo Valli, gran signore del teatro sempre in ruoli di supporto al cinema, è andato il riconoscimento del Nastro d’Argento. A Fabio Testi nel ruolo di Malnate è andato il Globo d’Oro come unico premio in una lunga carriera iniziata appena quattro prima come controfigura sul set di “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone che in seguito gli affida un ruolo in “C’era una volta il west” che però taglia in post-produzione perché non ottimale; ma è un aitante belloccio e dopo una serie di piccoli ruoli è protagonista in un paio di film di serie B; è qui alla sua prima occasione in un film importante e l’industria cinematografica che sta puntando su di lui lo premia per sdoganarlo fra quelli che contano. Conclude il cast dei ruoli principali l’altro bello e possibile già ex modello austriaco Helmut Berger che Luchino Visconti aveva diretto proprio come ragazzaccio austriaco in un episodio del film “Le streghe” e che lancerà come protagonista in “Ludwig” un paio d’anni dopo.

Curiosità letteraria, nel romanzo c’è un prossimamente: Giorgio racconta a Malnate di un’episodio accaduto in città poco tempo prima, che riguarda un otorinolaringoiatra coinvolto in uno scandalo omosessuale per il quale si tolse la vita; nomina il personaggio come Athos Fadigati, personaggio protagonista di un altro romanzo al quale stava lavorando: “Gli occhiali d’oro” che con la regia di Giuliano Montaldo diverrà film nel 1987. Una lettura integrale del romanzo “Il Giardino dei Finzi-Contini” a più voci, è stata realizzata dalla Rai di Torino, e poi una riduzione radiofonica e andata in onda su Radio 3. La New York City Opera e il National Yiddish Theatre Folksbiene ne hanno realizzato lo scorso anno un adattamento operistico presso il Museo del Patrimonio Ebraico di Manhattan.