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Omaggio a Sandra Milo

di Vincenzo Filippo Bumbica dal suo libro
“CIAK: Donne e uomini dello spettacolo nell’età dell’oro” edito da Gli Aedi

Non è poi tanto strano che, arrampicata sui tacchi, un’ultra ottantenne (l’articolo è stato scritto alcuni anni fa, n.d.r.) Sandra Milo decisamente imbellettata, in una calda serata romana, si presenti a un party con pantaloni in raso neri, reggiseno rosso abbinato al vistoso rossetto e una maglia super trasparente. E neanche sorprende che abbia dichiarato, ancora una volta, la sua assoluta estraneità alla monogamia: ”Io la fedeltà non l’ho mai capita”. Immagine e parole all’unisono confermano la vera natura di un personaggio che insegue il tempo con infantile entusiasmo ma conserva una consapevolezza che rende intatta la voglia di stupire sé stessa più che gli altri. Alla ricerca costante di un suo personale ritorno al futuro ritrova sempre con naturalezza la sua vera dimensione di donna moderna attraverso le ardite risposte ricevute dalla vita.

Un susseguirsi di alterne vicende che basta ripercorrere all’indietro a partire dalla sua diversità congenita condita da strani amori (a soli 15 anni sposa il marchese Cesare Rodighiero e si separa dopo 21 giorni) e chiacchiericci pruriginosi (amanti famosi, mariti maneschi e flirt estemporanei); parallela a una carriera abbarbicata alla sua incontenibile avvenenza: stereotipo di scontata superficialità per alcuni e visione d’incanto per altri. Quel perfetto profilo greco esaltato dal grazioso nasino all’insù continua il suo sinuoso disegno nelle morbide curve di quella vistosa studentessa universitaria proveniente da Vicopisano che nel 1953 sul set di Tivoli posa per un servizio fotografico. Il giornale si chiama “Le Ore” e il titolo recita: ”la Milo di Tivoli”. Tale dicitura coincide col suo desiderio di adottare un dolce pseudonimo e dunque Salvatrice, Elena Greco, nata a Tunisi nel 1933, si trasforma in Sandra Milo.

Appena ventenne debutta come comparsa nella pellicola: “Via Padova 46” diretto da Giorgio Bianchi in un cast di prim’ordine che comprende tra gli altri Peppino De Filippo, Alberto Sordi, Giulietta Masina, Massimo Dapporto e Virna Lisi, ma nonostante la sua figura gradevole passa quasi inosservata. Qualcuno però intuisce che quel corpo maestoso animato da una vocina in falsetto nasconde tra tutte le sue virtù la meno apparente: una non comune limpidezza di recitazione. È il regista Antonio Pietrangeli, un fine dicitore attento e acuto osservatore dell’universo femminile, capace come pochi di scoprire, rivelare e raccontare la donna attraverso i suoi ritratti cinematografici. Due anni dopo la propone nel ruolo della giovane Gabriella, un’attraente bruna dal dolce sorriso costipata nella divisa da hostess, di cui si invaghisce per un poco il vacuo dongiovanni Alberto Sordi di “Lo scapolo”.

con Vittorio De Sica in “Il generale Della Rovere”

Passa un quinquennio e il fortunato e proficuo sodalizio si ricongiunge sul set di: “Adua e le compagne” un film di forte impatto sociale, dove una splendida Sandra Milo, fornisce un eccellente prova delle sue poco riconosciute qualità drammatiche nei panni della prostituta Lolita. Un tipo di donna dalle molteplici sfaccettature che aveva già ottimamente impersonato accanto a un mirabile Vittorio De Sica nel tragico contesto de Il generale Della Rovere”, firmato Roberto Rossellini. L’attrice appare invece molto ironica e pungente nel successivo film dell’anno dopo che i due girano assieme ”Fantasmi a Roma”, una surreale messinscena per raccontare una favola metropolitana attraverso le brillanti interpretazioni di attori italiani di rango quali: Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Eduardo De Filippo, Tino Buazzelli e Claudio Gora. Lo splendido connubio tra i due si chiude nel 1963 nella malinconica cornice del film ”La visita”, tratto da un romanzo di Carlo Cassola. Qui affiancata dal maturo Francois Périer, supera sé stessa nella caratterizzazione di Pina, una donna di mezza età che cerca compagnia sentimentale per non abituarsi al dolce abbandono della solitudine.

Quasi in contemporanea, anticipato dal clamore già suscitato in una società dibattuta tra perbenismo e scandalo dal precedente film del 1960 “La Dolce vita”, esce sugli schermi “Otto e mezzo”, ancora un capolavoro supremo del cinema italiano diretto dallo stesso regista Federico Fellini, dove una strepitosa Sandrocchia, la chiamava così affettuosamente questo suo famoso pigmalione, interpreta Carla una femme fatale tutta mossette e moine: l’amante predestinata che raffigura l’immaginario erotico maschile sempre in contrasto con la mentalità borghese della moglie. Due anni dopo con “Giulietta degli spiriti” l’ultimo film di quella fantastica trilogia del maestro riminese, si chiude la loro fattiva collaborazione e Sandra Milo dimostra ancora una volta qualità insospettate nel tratteggiare con briosa eleganza l’ambigua personalità di una donna opportunista: la vicina di casa Susy, o all’occorrenza Iris se non Fanny. Per entrambe queste interpretazioni vince il Nastro d’argento come migliore attrice non protagonista.

Risultato non da poco considerato che la commedia è il genere in cui la Milo si trova meglio, Nel ruolo di effervescente biondona gioiosa e spigliata riesce appieno a dimostrare candidamente l’altra faccia della sua luna artistica. Dopo aver girato il satirico “Le voci bianche”, eccola rigogliosa e solare spiccare nel cast di “Frenesia dell’estate”, regia di Luigi Zampa accanto a Vittorio Gassman, Philippe Leroy e Amedeo Nazzari e subito dopo affianca amorevolmente un Totò bisognoso di cure nel paradossale episodio di “Le belle famiglie”. In possesso di un adatto physique du rôle è perfetta nel personaggio di Giuliana la moglie inquieta e disinibita del maturo ingegnere Enrico (un impareggiabile Enrico Maria Salerno), a disagio nell’infuocata calura estiva della Riccione vacanziera che fa da sfondo al film “L’ombrellone” di Dino Risi. Nel 1967, seppure in una particina, brilla luminosa in quella specie di jet set internazionale proposto dal film “Come imparai ad amare le donne” di Luciano Salce, al confronto di abbaglianti star quali Michele Mercier, Elsa Martinelli, Nadja Tiller e Anita Ekberg.

Da qui in poi solo qualche estemporaneo cammeo chiude di fatto la sua carriera cinematografica e dunque Sandra Milo ritorna in tv dove era stata applaudita protagonista di cinque puntate di Studio Uno del 1966. Conduce negli anni 80 con la consueta verve, vari programmi d’intrattenimento tra i quali uno sul tema del costume all’interno del programma Mixer e si distingue per la freschezza con cui anima l’originale spazio dedicato ai bambini “Piccoli Fans”. Tra altri programmi targati Rai e Fininvest, attivismo politico con conseguenti legami affettivi e impreviste vicende giudiziarie, scorre la sua nuova carriera fino agli anni 2000. Poi salutari botte di vita teatrali alternate a discutibili partecipazioni a reality e apparizioni a gogò in qualsivoglia evento mondano. Prossima ai novant’anni, Sandra Milo si reinventa con i suoi look a effetto, gigioneggia tra rimorsi e rimpianti e insegue un’altra forma di complicità con la vita: basta che provi ancora qualche emozione che sarà forse anche rara ma di certo allontana di parecchio la parola rassegnazione.

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Assicurasi vergine – una sedicenne Romina Power

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Corre l’anno 1967. In Parlamento si discute un disegno di legge sul divorzio ma interviene Papa Paolo VI stigmatizzando quella “egoistica visione della società, opulenta e arida che ora sta insinuandosi anche dentro l’unità della famiglia” e il divorzio dovrà aspettare fino al 1970 per divenire legale in Italia. Si discute anche, e sono già decenni, la riforma dell’università, ma stavolta c’è di nuovo che i giovani sono in fermento, scendono in piazza, fanno le occupazioni e le barricate in difesa del diritto allo studio per tutti, lo slogan è “Una libera università dentro una libera società” e quelle prime agitazioni studentesche si allargano alla società civile, si teorizza una rivoluzione politica, si creano i movimenti pacifisti contro gli americani in Vietnam e si inneggia a Ho Chi Min e Mao Tse-tung e a Che Guevara che quell’anno viene ucciso: i suoi poster riempiranno le camerette e le case degli studenti: sta arrivando il famoso Sessantotto.

Al cinema è l’anno dei tanti spaghetti western, dei musicarelli e dei poliziotteschi, di Franco e Ciccio ma anche de “La bisbetica domata” di Franco Zeffirelli, del “Don Giovanni in Sicilia” di Alberto Lattuada, di “Edipo Re” di Pier Paolo Pasolini e del tempestivo “I sovversivi” dei Fratelli Taviani. E non mancano i filmetti che ammiccano al proibito, come questo “Assicurasi vergine” che però ammicca solo nel titolo e la star Romina Power non mostra (ancora) neanche un centimetro di pelle.

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La neonata Romina coi genitori

Eh già, perché la sedicenne Romina è già una star adolescente, qui al suo terzo film, col nome sopra il titolo, e debitamente doppiata si avvia a fare un film dietro l’altro in cui vengono sfruttati commercialmente la sua adolescenza, appunto, e il nome, in quanto figlia di Tyrone Power, che si inventò il nome Romina perché innamorato di Roma dove venne a sposarsi con Linda Christian. Morto prematuramente il padre, la madre sposò Edmund Purdom che trasferì la famiglia a Roma perché si stava ritagliando una carriera nei peplum italiani. La ragazzina era assai graziosa quanto vivace e scorrazzando liberamente fra Roma Londra e Los Angeles divenne un’abituale consumatrice di LSD, la droga psichedelica degli hippy dell’epoca. Cominciò a fare cinema a 13 anni ed ebbe anche modo di mostrarsi nuda finché in un musicarello non conobbe Albano Carrisi e mise la testa a posto, diventando una signora della canzonetta nazional-popolare.

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In questo film Romina è il perno narrativo attorno a cui ruotano diversi ottimi caratteristi al servizio di una storia assai dinamica e professionalmente diretta, mentre la ragazza bamboleggia con espressioni da fotoromanzo. La trama pare fosse ispirata a un fatto realmente accaduto in Sicilia, dove il film si colloca, secondo cui un padre assicura con tanto di polizza la verginità della figlia da dare in matrimonio al signorotto del paese; lo spunto, già grottesco, si sviluppa narrativamente nel padre, che in difficoltà finanziare, pensa di incassare il premio che gli sarà dovuto qualora la ragazza dovesse perdere la verginità prima del matrimonio, e le prospettive sono assai positive perché la vergine ama riamata il bello ma povero verso le cui braccia viene spinta… ma la vergine è restia perché devota alla Madonna e pure il giovanotto è un fervente che teme le fiamme dell’inferno, così l’illecita unione che tutti sperano, e che gli spioni detective dell’assicurazione temono, si posticipa di scena in scena… Paolo Mereghetti nel suo “Dizionario dei film” scrive: “Commedia boccaccesca di inganni nel consueto Sud da barzelletta”, e questo è.

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E’ anche il penultimo film per il regista Giorgio Bianchi e per l’attrice Daniela Rocca. Lui, attore all’epoca del muto, diventa un regista di vaglia di commedie brillanti fra cui “Il Conte Max” con Vittorio De Sica. Lei, Daniela Rocca, ex Miss Catania sedicenne nel 1953, si trasferisce a Roma dopo aver partecipato a Miss Italia e si dà al cinema, con un importante ruolo nel 1961 in “Divorzio all’italiana” accanto a Marcello Mastroianni di cui interpreta la moglie brutta, pesantemente truccata, in un ruolo che per la prima volta nasconde la sua bellezza e mette in risalto le sue doti artistiche: questa interpretazione la consacrò star internazionale con la candidatura Migliore Attrice Straniera al British Academy Film Awards.

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Pietro Germi sistema i capelli a un’imbruttita Daniela Rocca

Su quel set nacque anche la travagliata relazione sentimentale con il regista, Pietro Germi, e questo contribuirà a minare profondamente la sua già fragile psiche: tenterà più volte il suicidio e dilapiderà i suoi averi in un assurdo progetto cinematografico, “Il peso del corpo”, del quale avrebbe dovuto essere, oltre che protagonista, produttrice e regista. A questo “Assicurasi vergine” dove è l’amante storica del signorotto che deve sposare la vergine, e fa di tutto per mettergli i bastoni fra le ruote, segue un ultimo film assai brutto e del tutto dimenticato, “Un giorno, una vita”. Tornerà sullo schermo intervistata in un documentario d’inchiesta sugli aspetti meno edificanti dell’industria cinematografica, “La macchina cinema” del 1978, un film che racconta le esperienze di quattro giovani cineasti: Sandro Petraglia, Stefano Rulli, Silvano Agosti e Marco Bellocchio che intervista l’attrice già lontana dai set e precipitata nell’emarginazione e nelle solitudine della malattia mentale. Nel video l’estratto della sua testimonianza, penosa e straziante. Morirà in una casa di riposo nel 1995.

Il resto del cast. Vittorio Caprioli è il signorotto che parla un sicilianese identico a quello che Giancarlo Giannini parlerà cinque anni dopo in “Mimì metallurgico ferito nell’onore”. Leopoldo Trieste è lo zio traffichino che imbastisce tutta la trama dell’inganno all’assicurazione, e anche lui, calabrese, si spaccerà per siciliano per tutta la sua carriera, parlando qui un’altra edizione di siciliano inesistente, con frasi tipo “che mi stai a dire?” che è la trasposizione del romanesco “che me stai a di’?” dello sceneggiatore Alfredo Giannetti che poco si è curato, e non è il solo, della credibilità delle forme dialettali siciliane. Di Salerno sono Jole Fierro, che è la madre della vergine, e Dino Mele che è lo spasimante; mentre il padre è interpretato dal messinese dop Oreste Palella, l’unico fra i ruoli principali ad avere una vera cadenza sicula. Nei ruoli di contorno alcuni dei gloriosi interpreti del teatro tradizionale catanese che, nel loro piccolo, danno una lezione di recitazione.

Ciccino Sineri
Nina Micalizzi
Turi Scalia