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La lunga notte del ’43 – Fascismo e Resistenza in un’opera prima d’autore

Prima della problematica collaborazione con Vittorio De Sica per la sceneggiatura de “Il giardino dei Finzi-Contini”, film dal quale Giorgio Bassani ritirò la sua firma, lo scrittore bolognese di nascita e ferrarese d’adozione aveva felicemente affidato all’esordiente concittadino Florestano Vancini un altro suo racconto che il regista riscrisse per il cinema insieme a Ennio De Concini e Pier Paolo Pasolini – il primo già affermato professionista della scrittura filmica che un paio d’anni dopo riceverà l’Oscar per la sceneggiatura di “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi, il secondo già divisiva personalità della cultura qui alla sua terza sceneggiatura dopo aver co-scritto “Le notti di Cabiria” di Federico Fellini e “La notte brava” da un suo stesso racconto diretto da Mauro Bolognini: dunque l’esordio del 34enne Vancini, già documentarista di lungo corso, avviene sotto i migliori auspici. Di lui abbiamo appena visto “Il delitto Matteotti”.

Il racconto è “Una notte del ’43” che chiude la raccolta “Cinque storie ferraresi” pubblicata nel 1957 e con la quale lo scrittore vinse il Premio Strega; nel racconto Bassani inventa uno uomo alla finestra che sarà spettatore involontario di una tragedia, e attraverso il suo sguardo racconta un preciso fatto storico, quello che verrà ricordato come “l’eccidio del Castello Estense” in cui il 15 dicembre del 1943 furono fucilati undici oppositori al regime fascista come rappresaglia all’omicidio di un federale. Il protagonista del racconto è un ex fascista che adolescente partecipò alla Marcia su Roma del 1922, e nel presente narrativo proprietario di una farmacia e gravemente infermo a causa della sifilide contratta ai tempi di gloria, e per la quale avendo perso l’uso delle gambe se ne sta tutto il giorno alla finestra – una situazione che ricorda assai da vicino un altro infermo affacciato alla finestra nel celeberrimo film di Alfred Hitchcock “La finestra sul cortile” del 1954 da un racconto giallo di Cornell Woolrich che risale ai primi anni ’40 ma che fu pubblicato in Italia solo in seguito al successo del film, nel 1956, lo stesso anno in cui Bassani pubblicò i suoi racconti su cui già lavorava da anni, dunque è improbabile che l’italiano sia stato ispirato dall’americano il cui protagonista è un fotoreporter testimone involontario di un uxoricidio mentre il farmacista ferrarese è testimone di una ben più seria e reale tragedia.

Florestano Vancini con i suoi co-sceneggiatori di rango aggiunge al fattaccio storico un melodramma privato cinematograficamente molto efficace, inventando per il farmacista Pino Barilari la bella e devota moglie Anna, che intristita dal peso dell’infelice matrimonio casualmente rincontra la vecchia fiamma Franco Villani, e il fuoco della passione torna a divampare fra le stoppie della sua arida esistenza. L’aitante Franco viene da una famiglia di antifascisti e lui personalmente, dopo l’armistizio firmato dall’Italia con gli Alleati l’8 settembre del ’43, si era dato alla macchia allorché Benito Mussolini, che aveva riparato in Germania era tornato fondando in quel nord Italia la Repubblica di Salò, territorio sul quale nazisti e repubblichini fascisti continuavano a imperversare con le loro leggi repressive e persecutorie rastrellando tutti i pusillanimi, gli uomini abili e arruolabili (oggi si dice impiegabili in quanto altrettanto forza-lavoro) per mandarli al fronte o nei campi di concentramento.

Quella notte del ’43 che diventa lunga nel titolo del film, è quella in cui la bella Anna finalmente si concede all’antica fiamma; era uscita di casa di nascosto dal marito che però quella sera non aveva preso il suo solito sonnifero: l’uomo, insonne, si rimette alla finestra in tempo per assistere alla fucilazione degli antifascisti rastrellati nottetempo, fra loro anche il padre di Franco, accusati di un delitto che non avevano commesso, quello del Federale appena nominato da Alessandro Pavolini, in realtà fatto uccidere da tal Carlo Aretusi soprannominato Sciagura che voleva per sé la carica fascista; l’arresto dell’anziano avvocato Villani aveva tragicamente interrotto la clandestina notte d’amore tra il figlio e Anna, la quale rientra all’alba giusto in tempo per essere vista dal marito ancora alla finestra: il melodrammatico cerchio si chiude e finalmente la donna gli rinfaccerà la “malattia schifosa” che ha avvelenato il loro matrimonio.

Dell’autore, qui alla sua opera prima, è evidente il lungo apprendistato come documentarista perché dirige con mano ferma un film tecnicamente perfetto e drammaturgicamente assai pregnante con questa sua dichiarata attenzione ai drammi privati come specchio della storia collettiva che caratterizzeranno la sua cinematografia, come se avesse sentito la necessità di creare un ponte fra il rigore del documentario e la fantasia del cinema narrativo; un film che risente della lezione neorealista e che comincia a esplorare un nuovo filone in cui Florestano Vancini sarà maestro: il cinema d’impegno civile. Il film che compone è livido come i tempi che narra: il protrarsi di una guerra già prossima alla fine, gli ultimi inutili e feroci colpi di coda del regime, il protagonista consumato da una malattia all’epoca fortemente debilitante quanto infamante, la moglie dibattuta fra un affetto sincero ormai fraterno e la necessità di continuare ad amare, il pragmatismo dell’amante che sceglie la fuga in Svizzera alla realizzazione di un antico amore, l’ambiguità degli uomini in camicia nera.

Per approfondire l’argomento:
Breve storia delle riviste di cinema in Italia

Cast di primordine. Enrico Maria Salerno, che continuerà a lavorare con Vancini aggiungendo altre perle alla sua cinematografia – “Le stagioni del nostro amore” 1966, “La violenza: quinto potere” 1972 – è qui il patetico farmacista che l’autore racconta come appassionato di film, di certo trasferendogli una sua personale passione, che legge la rivista Cinema e che consiglia alla moglie quali film andare a vedere, chiedendole al ritorno se i protagonisti sullo schermo si sono baciati per farsi raccontare quei baci: acutissima nota poeticamente introspettiva che racconta il bisogno d’amore dell’uomo intrappolato nella sua infermità; e visto che ci siamo l’autore fa citare al personaggio alcuni film dell’epoca, di quel cinema di regime fra polpettoni storici e musicarelli e favole con i telefoni bianchi, come breve passaggio di storia del cinema che qui riferisco: “Il leone di Damasco” e “La cena delle beffe”, “Violette nei capelli” ma anche il nazista antiebraico “Suss l’Ebreo”.

Il protagonista del racconto diventa nel film il comprimario della vera protagonista, sua moglie Anna, intensamente interpretata dall’inglese Belinda Lee di ottimi studi teatrali in patria ma affermatasi, suo malgrado, solo nel cliché di bionda sexy svampita che tanto piaceva all’uomo medio; va da sé che i produttori nostrani si accorsero di lei e la bella inglese venne in Italia nel 1957 a girare il peplum “La Venere di Cheronea” soggetto e sceneggiatura del giovane Damiano Damiani non ancora regista. L’attrice, attraversando burrascose vicende sentimentali, si trasferì in Italia senza però scrollarsi di dosso il cliché che si era portata dietro insieme al resto dei bagagli. Il primo a utilizzarla come vera attrice in un ruolo serio fu Francesco Rosi ne “I magliari” e l’anno dopo è in questo film. Non avrà il tempo di consolidare la sua carriera come attrice di grandi doti perché morirà l’anno dopo in un incidente stradale in California, appena 25enne.

Nel ruolo dell’amante un altro attore di rango, Gabriele Ferzetti, che nonostante sia più anziano di Salerno di una decina d’anni regge bene il confronto, grazie anche al fatto che l’altro interprete non teme di mostrare la sua incipiente calvizie nel rendere il suo personaggio di perdente. Ferzetti, attivo anche in teatro fin dagli anni ’40, manterrà il suo personaggio di uomo dal fascino spesso ambiguo fino al riconoscimento internazionale come cattivo nell’unico 007 interpretato da George Lazemby. Tornerà a lavorare con Vancini nel 1963 con “La calda vita”.

L’ambiguo fascista detto Sciagura è interpretato da un monumento dello spettacolo italiano: Gino Cervi. Classe 1901, appassionato di teatro sin da bambino (il padre era critico teatrale) cominciò a calcare le scene come filodrammatico e già nel 1925 fu scritturato come primo attor giovane nella compagnia di Luigi Pirandello accanto a primi attori come Marta Abba e Ruggero Ruggeri, interpretando il ruolo del Figlio nel discusso (all’epoca) “Sei personaggi in cerca d’autore”, la cui genesi è stata recentemente narrata da Roberto Andò in “La stranezza”. Subito baciato dal successo lavorò con le migliori compagnie fino a diventare prim’attore e poi capocomico; ovviamente il cinema si accorse di lui che debuttò nei primi anni ’30 e, poiché si era nell’epoca del cinema di regime, divenne un divo dei film eroici-storici. Nel 1960, quando uscì con questo film in cui si divertì a fare la carogna, era già da anni il popolarissimo Don Peppone nei film col francese Fernandel nel ruolo di Don Camillo nella saga dalla narrativa di Giovannino Guareschi. Cervi, generalmente impegnato in commedie, due anni dopo questo film tornerà in un ruolo drammatico in un altro film su Fascismo e Resistenza: “Dieci italiani per un tedesco; via Rasella” di Filippo Walter Ratti. Co-produce il film suo figlio Antonio, Tonino Cervi, che sarà anche regista nonché padre dell’attrice Valentina Cervi.

Concludono il cast dei ruoli principali: Andrea Checchi nel ruolo dell’effettivo farmacista del negozio di Barilari, che fu un altro grande interprete come comprimario, dotato di una recitazione asciutta e assai moderna per quell’epoca ancora intrisa di un certo manierismo ereditato dal cinema di regime. I caratteristi Nerio Bernardi e Isa Querio interpretano i genitori di Ferzetti mentre come loro figlia adolescente c’è la bruna 17enne Raffaella Pelloni che quello stesso anno si era diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia dopo avere abbandonato l’accademia di danza per la quale non aveva grandi qualità; mancano pochi anni perché indossi un caschetto biondo e assuma il nome d’arte di Raffaella Carrà suggeritole dallo sceneggiatore-regista televisivo Dante Guardamagna, appassionato di pittura, che associando il nome di Raffaella a quello di Raffaello Sanzio lo accoppiò col cognome Carrà dal pittore Carlo Carrà: nacque così la Raffa che tutti conosciamo e che da lì in poi, non riuscendo a sfondare come attrice si diede al varietà televisivo. Tutti gli interpreti del film parlano con le loro voci tranne Andrea Checchi, doppiatore a sua volta probabilmente impegnato altrove che qui ha la voce di Giuseppe Rinaldi, e l’inglese Belinda Lee che fu doppiata dalla querula Lydia Simoneschi già doppiatrice delle dive d’oltreoceano, che purtroppo infonde al personaggio un che di artefatto che stona con l’impianto sonoro generale.

Il film, molto apprezzato da pubblico e critica, è stato inserito tra i 100 film italiani da salvare. Giorgio Bassani, dopo questa prima esperienza di scrittore rappresentato al cinema, e di autore impegnato nella narrazione delle malefatte fasciste, dieci anni dopo lo sarà ancora col già detto “Il giardino dei Finzi-Contini” e poi ancora nel 1987 con “Gli occhiali d’oro” diretto da Giuliano Montaldo.

Noi siamo 2 evasi – nel centenario della nascita di Raimondo Vianello

Ricordiamo Raimondo Vianello, un altro della classe del ’22, come già abbiamo ricordato Pier Paolo Pasolini, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi che con Vianello formò una coppia di successo nella nascente Rai Radiotelevisione Italiana e che quello stesso anno, il 1959, girarono insieme altri due film, mentre il solo Tognazzi in quell’anno partecipò a ben 14 pellicole, nel segno di una fiorentissima carriera che avrebbe lasciato indietro l’amico Vianello che cinematograficamente non fu mai protagonista assoluto, ma che resta nei nostri ricordi come gran signore della televisione in coppia con la moglie Sandra Mondaini. E come vediamo nel manifesto e nei titoli il suo nome viene terzo dopo Tognazzi e la francese Magali Noël, già attrice e cantante di successo in patria che aveva varcato le Alpi l’anno prima per girare da protagonista “È arrivata la parigina” di Camillo Mastrocinque ma che resta scolpita nel nostro immaginario per i tre film girati con Federico Fellini.

Raimondo nacque a Roma da padre veneto con carriera nella marina militare e dunque soggetto a diversi spostamenti, e con dei quarti di nobiltà per parte di madre che gli conferiranno la sua innegabile eleganza nell’esprimere una comicità, a volte anche noir, più all’inglese rispetto a quella del suo compagno di scena più sanguigno: diversi e complementari. Da adolescente conobbe al liceo il coetaneo Vittorio Gassmann (che poi avrebbe tolto una N al cognome tedesco, doppia consonante recuperata dal figlio Alessandro) quando ancora entrambi non pensavano alla carriera artistica. Neolaureato in giurisprudenza con voti scarsi si dette alla carriera militare e fu sottufficiale dei Bersaglieri, e come tale aderì alla nascente Repubblica Sociale Italiana, anche nota come Repubblica di Salò, che s’instaurò nel Nord Italia fra il 1943 e il 1945: gli Alleati erano già sbarcati in Sicilia risalendo il territorio italiano fino a Napoli, e da Roma in su venne istituito quel regime come cuscinetto e baluardo all’avanzata degli Anglo-Americani, voluto da Adolf Hitler e guidato da Benito Mussolini. Alla fine della guerra e con la caduta del regime nazi-fascista, Vianello fu detenuto nel campo di prigionia creato dagli Alleati a Coltano, presso Pisa, dove si ritrovò – per restare nell’ambito dello spettacolo – con Enrico Maria Salerno, altro giovincello che affascinato dal Fascio aveva aderito alla Repubblica di Salò; con Walter Chiari, che era passato attraverso vari impieghi senza ancora capire cosa fare nella vita e si era arruolato nella Xª Flottiglia MAS e da lì, con un bel salto di qualità, era passato nella Wehrmacht e inviato a combattere in Normandia dove fu leggermente ferito durante il D-Day; altro nome di spicco è Dario Fo, che avendo ricevuto la cartolina precetto della neonata Repubblica si arruolò come volontario nell’esercito fascista, finendo anche lui nel campo e con molte aspre polemiche nei successivi anni ’70 quando diventerà un intellettuale di spicco della sinistra italiana. Anche Tognazzi fu un giovane camerata che aderì alla Brigata Nera della sua Cremona dopo che l’8 settembre del 1943 fu firmato l’armistizio con gli Alleati, ma di questo nelle sue biografie pubbliche non rimane traccia. Altrettanto, Giorgio Albertazzi, con più gravi e precise responsabilità, fu un repubblichino che invece che al campo fu mandato in carcere, dove rimase due anni e poi amnistiato, perché accusato di collaborazionismo e di aver comandato un plotone per l’esecuzione di un partigiano, tutte accuse che lui ha sempre rigettato.

Raimondo Vianello con Mirko Tremaglia

Dunque, molti giovani all’epoca scelsero “la parte sbagliata” come oggi si dice con spirito di pacificazione: alcuni, come Tognazzi appunto, fecero perdere traccia del loro passato, altri rimasero fedeli alle loro idee politiche, e Vianello fu tra questi, pur mantenendo nel privato il suo credo nella consapevolezza che il mondo dello spettacolo è fondamentalmente di sinistra. Alla sua morte però molti fascisti omaggiarono sul web l’onore del camerata Vianello. Mirko Tremaglia, figura storica della destra italiana, ricorderà: “Vianello era con me al campo di prigionia di Coltano, vicino Pisa, nell’estate del ’45. Eravamo 36 mila della Repubblica sociale. Non ha mai rinnegato la sua storia. Come Tognazzi. Come Walter Chiari. Come Giorgio Albertazzi. Loro, quelli di noi che sono diventati personaggi di spettacolo, hanno contribuito molto alla pacificazione, ci hanno avvicinato alla gente.

Alla fine della guerra Raimondo si dedicò allo sport come atleta e dirigente del Centro Nazionale Sportivo Fiamma, sempre vicino all’ambiente fascista come suggerisce il nome, fondata con lo scopo di “contribuire all’elevazione della persona umana e della società in cui vive per mezzo della diffusione e della propaganda della pratica sportiva in tutte le sue forme: agonistica, formativa, ricreativa”, ideali condivisibili in ogni luogo ed epoca, se non quando diventano mezzo di propaganda per idee politiche più specifiche; ente ancora attivo, riconosciuto nel 1976 dal CONI e oggi riconosciuto come “Ente europeo di promozione sportiva, assistenziale, promozione sociale e difesa ambientale”: il tempo smussa ogni asperità. Tornando a Raimondo, non si sa come (la cronaca latita) già nel 1944 era finito sul palcoscenico con la rivista “Cantachiaro” diretta da Garinei e Giovannini e che schierava nomi come Anna Magnani e Carlo Ninchi, titolari della compagnia, oltre a Ave Ninchi cugina di Carlo, Gino Cervi, Marisa Merlini, Lea Padovani, Ernesto Calindri, Gianni Agus e Massimo Serato che era anche compagno di vita della Magnani: nomi che si avvicendarono nelle tre edizioni della rivista; Raimondo, allora come Raimondo Viani, si mise subito in evidenza e da lì il salto al cinema fu ovvio, prima con piccoli ruoli nei film di Totò, Franco e Ciccio, Renato Rascel e Walter Chiari, e poi salendo di ruolo come caratterista e spalla.

Il successo personale arrivò in tv col programma di varietà “Un due tre” che andò in onda dal 1954 al ’59 e dove fece coppia con Tognazzi col quale si era già esibito in palcoscenico fin dal 1951, una coppia che, come vediamo in questo film, funziona benissimo e che avrebbe potuto avere lunga vita come l’altra coppia cinematografica formata da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, ma che con il successo personale di Tognazzi, non ebbe seguito. La chiusura forzata del programma fu decisa dopo che la coppia di burloni si permise di ironizzare su un incidente occorso al presidente Giovanni Gronchi: a una prima alla Scala di Milano, per fare il galante con una signora aveva mancato la sedia finendo col culo per terra; fatto che la stampa ignorò autocensurandosi, ma il duo Tognazzi-Vianello ripeté la scena in tv: Vianello tolse la sedia a Tognazzi che cadde per terra, e alla domanda di Vianello “Chi ti credi di essere?” Tognazzi rispose: “Be’, presto o tardi, tutti possono cadere!” La parodia costò il posto anche al direttore della sede Rai di Milano.

Al banchetto del matrimonio, di fronte a loro s’intravede l’amico Ugo

Nel 1958 durante una scrittura teatrale conobbe la sua futura compagna di vita Sandra Mondaini, che in quegli anni si stava affermando come un nuovo modello di soubrette, più ragazza della porta accanto che femme fatale. Non fu colpo di fulmine, entrambi erano già sentimentalmente impegnati, lei soprattutto stava per accasarsi, ma durante la noia di una tournée si guardarono con più attenzione e quattro anni dopo si sposarono creando anche la longeva coppia artistica di successo che sappiamo. Oltre che nella veste di presentatore e intrattenitore televisivo, quasi sempre accanto alla moglie, fu anche commentatore sportivo e per quasi un ventennio fu co-autore e protagonista con Sandra di “Casa Vianello”. Ma fu anche sceneggiatore cinematografico di commedie, l’ultima delle quali fu l’omaggio al personaggio televisivo inventato da Sandra, “Sbirulino” del 1982 diretto da Flavio Mogherini. A dieci anni dalla morte di entrambi i coniugi, nel 2020 è stato emesso un francobollo commemorativo.

Nel 1961 rifiutò di fare da spalla a Tognazzi nel film “Il federale” diretto da Luciano Salce perché metteva in ridicolo il fascismo, ma per l’amico Ugo si prestò a un cameo nel suo film d’esordio come regista di “Il mantenuto”. Negli ultimi anni Tognazzi, che morì nel 1990, insisteva perché Raimondo scrivesse un film su loro due, che mostrasse alle nuove generazioni di comici quello che si faceva quarant’anni prima, la satira politica passibile di censura, ma Raimondo continuò a declinare l’invito dicendo che sarebbero stati solo due vecchi attori patetici. Sempre nel 1961 nacque il Secondo Canale Televisivo, poi Rai 2, e un dirigente aveva chiesto a Vianello, che era stato allontanato dalla Rai, se avesse qualcosa di pronto da proporre per il nuovo palinsesto, al che lui aveva risposto “Una cosa sul papa” e le porte della Rai giust’appena ridischiuse gli si richiusero in faccia. Come non detto. Tornò in video nel 1963, per la prima volta accanto alla moglie e l’accoppiata, presentandosi rassicurante e affatto trasgressiva, si avviò al successo che sappiamo.

Il film, scritto da Castellano e Pipolo e diretto da Giorgio Simonelli, regista di commedie che aveva contribuito a creare il successo della coppia Franco e Ciccio e che dunque dirige con mano sicura un film scritto bene, è tutto al servizio della nuova coppia che passa da un travestimento all’altro, ed è farcito di battute che ancora oggi fanno sorridere nonostante non siano più fresche di giornata; un film sapientemente costruito a tavolino con dosaggi perfetti di azione e puro divertimento grottesco e surreale, passando per il sexy e con incursioni nel sentimentale con il siparietto della bella e possibile Magali Noël col povero ma bello Maurizio Arena (doppiato da Pino Locchi) qui in partecipazione straordinaria perché all’epoca divo virile e prestante insieme a Renato Salvatori della nascente commedia all’italiana; nel film c’è anche un corredo musicale di tutto rispetto curato da Carlo Rustichelli con i fondamentali interventi anche in video di Fred Buscaglione, che è autore della canzone dei titoli, e che l’anno dopo morirà 38enne in un incidente stradale; mentre Arena morirà 45enne nel 1979 per cause naturali.

Il fotogramma è colorato a posteriori dato che il film è in bianco e nero

La storia comincia con due criminali evasi, uno detto il Bello e l’altro lo Strangolatore, interpretati da Tiziano Cortini e Mirko Ellis, che vagamente somigliano a Bernardo e Camillo, Tognazzi e Vianello, i quali sono banali contabili presso un’agenzia di assicurazioni guidata con pugno di ferro da una nostalgica del regime nazista, di cui il film si fa beffe, interpretata dalla lady di ferro Titina De Filippo che ha una graziosa nipote, Sandra Mondaini già in amore con Raimondo sia nel film che nella vita; i due criminali organizzano la fuga facendosi sostituire dai due sprovveduti quasi sosia, che a loro volta fuggono diventando altrettanto due evasi che passeranno da un travestimento all’altro, anche prostitute e frati, al fine di recuperare la propria innocenza. Il film non perde un colpo ed è certamente ancora oggi molto visto su YouTube data la massiccia presenza di pubblicità, che notoriamente va dove ci sono più visualizzazioni.

Concludono il cast l’altra francese Irène Tunc (doppiata da Maria Pia Di Meo) che è un’ex Miss Francia subito importata nelle commedie italiane, e purtroppo altra morte prematura e violenta: incidente stradale a 37 anni. Olimpia Cavalli e Lilia Landi sono le due prostitute, la mora e la bionda; Maria Del Valle e l’americano Jackie Jones sono i coniugi coinvolti loro malgrado nella vicenda, e per la quota spagnola della coproduzione ci sono Josè Calvo, Julio Riscal e Josè Jaspe. Notevole Magali Noël, che nel recitato è doppiata da Rosetta Calavetta, in un’autocitazione quando nel tabarin (che nei prossimi anni ’60 si sarebbe americanizzato in night club) canta Rififi come già aveva fatto nel noir omonimo di Jules Dassin pochi anni prima.

Nanni Moretti ebbe a dire di Raimondo: “Vianello è un attore di serie A che si accontenta di giocare in serie B”, ma lui aveva un’altra opinione di sé: “Ho meritato quel che ho avuto perché non ho mai cercato niente, non mi sono impegnato. Non ci ho messo la volontà. Mi ha aiutato il caso”.