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I soliti ignoti vent’anni dopo

1985, esattamente 27 anni dopo arriva il secondo sequel di cui nessuno sentiva la necessità. L’anno prima c’era stato il non riuscito remake americano “Crackers” a firma del francese americanizzato Louis Malle e il sequel tutto italiano lo ha forse voluto solo il non più giovanissimo regista esordiente Amanzio Todini che per anni è stato assistente di Mario Monicelli e finalmente vuole fare qualcosa di suo, solo che invece di fare qualcosa di veramente suo si immette nel solco del suo maestro. Perché evidentemente sa vivere solo di luce riflessa e come autore non ha niente da dire: firma il secondo sequel – dopo “Audace colpo dei soliti ignoti” che Nanni Loy diresse l’anno dopo il capostipite capolavoro – senza infamia e senza lode. Semmai l’infamia gli viene dall’essersi voluto cimentare nell’impresa e la mancanza di lode proprio nell’aver fallito clamorosamente: non che il film sia brutto ma è semplicemente banale, una commedia di genere senza una precisa identità.

Ma vediamo chi è rimasto nell’impresa. Alla sceneggiatura resta solo Age che da qui in poi si firmerà col nome completo Agenore Incrocci, perché il suo sodalizio con Furio Scarpelli si è concluso a metà anni Sessanta. Torna Suso Cecchi D’Amico che aveva saltato l’appuntamento col secondo sequel e completa il terzetto lo stesso regista debuttante, già co-sceneggiatore per il suo maestro Monicelli nel film “Le due vite di Mattia Pascal” dello stesso anno con Marcello Mastroianni che in quel 1985 esce anche con “Maccheroni” di Ettore Scola e “Ginger e Fred” di Federico Fellini. Il produttore dei primi due film Franco Cristaldi, ormai accasato con Zeudi Araya, si tira fuori e produce la non meglio identificata Excelsior Film.

A quel punto bisognava fare i conti col cast: chi c’era, chi non c’era e chi non era più interessato – fermo restando che per suscitare l’interesse degli interpreti a volte basta l’entità del compenso. Le riconferme più entusiaste arrivano da coprotagonisti e generici: Tiberio Murgia è della partita e lo segue Gina Rovere che fu la moglie di Mastroianni nel primo film; da qui in poi bisognava convincere i big. Si lascia convincere Vittorio Gassman che quell’anno esce con un solo altro film di produzione internazionale, poco visto: “Il potere del male” di Krzysztof Zanussi, e non è improbabile che sia stato lui a chiedere agli sceneggiatori di farlo morire alla fine del film per evitare ulteriori tentazioni. Un no secco deve essere arrivato da Nino Manfredi che si era unito al cast del secondo capitolo riempiendo il vuoto lasciato da Mastroianni che a sorpresa torna nell’impresa, stavolta da protagonista assoluto con l’unico nome sopra il titolo: Gassman si fa collocare alla fine “con la partecipazione di”. Carlo Pisacane era morto dieci anni prima di beata vecchiaia e Renato Salvatori ha lasciato il cinema da alcuni anni, “un mondo che non gli apparteneva più” come dichiarò in un’intervista, ma da almeno un decennio soffriva di alcolismo e morirà 54enne di cirrosi epatica nel 1988. Anche Claudia Cardinale si sfila dall’impresa: con tutta la buona volontà non c’era modo di offrirle un ruolo appetibile e ormai è una diva inarrivabile per certe produzioni e questo secondo sequel del film che l’ha lanciata si prospetta come una commedia di genere, forse anche di serie B; quell’anno lei esce con due film, “La donna delle meraviglie” di Alberto Bevilacqua e il francese “L’estate prossima” di Nadine Trintignant. Dunque agli sceneggiatori tocca giocare con le carte rimaste pescandone di nuove, e di nuovo ci sono due figli che nel primo capitolo erano bambini e oggi sono adulti, nel segno della continuità generazionale.

Il ruolo più importante va al romano Giorgio Gobbi come figlio di Marcello Mastroianni e Gina Rovere che gli sceneggiatori fanno venire giù da Milano dove il giovanotto vive e lavora; l’attore, che aveva debuttato accanto ad Alberto Sordi in “Il Marchese del Grillo” di Mario Monicelli (il maestro torna sempre nella narrazione) fa bene, recita con accento milanese anche se non si capisce – e questa è un’altra delle tante lacune della sceneggiatura – perché un giovanotto nato e cresciuto a Roma improvvisamente cominci a parlare con forte accento meneghino dopo qualche anno in trasferta: la spiegazione forse sta nella debolissima gag con cui chiama papi suo padre che da buon romano non apprezza; c’è poi che il ragazzo dichiara al padre di essere diverso: siamo in un’epoca che, benché sfrondata dai tanti tabù dei decenni precedenti, l’omosessuale al cinema è ancora raccontato come macchietta da deridere o dramma individuale: in questo caso il giovane non è mai stato con una donna ma non ha ancora fatto il grande salto perché non è andato neanche con gli uomini: nella narrazione dell’epoca c’è speranza che “guarisca”, come il padre auspica, cosa che puntualmente avviene dopo un accidentale bacio con la bella di turno: scivoloni della scrittura oggi non più tollerabili che in ogni caso segnano le mancanza di idee davvero vincenti.

Francesco De Rosa primo a destra con Enrico Montesano e Gigi Proietti in “Febbre da cavallo”

L’altro figlio porta il cognome di Cruciani ed è l’erede narrativo del Dante Cruciani di Totò, ruolo che è andato al napoletano Francesco De Rosa che anche artisticamente si era proposto come erede di Totò, se non altro per la faccia che ne ricordava la maschera e anche il timbro vocale, tanto che esordì sui palcoscenici partenopei con delle macchiette in cui imitava o omaggiava il Principe della Risata. Gli si aprirono le porte del cinema e debuttò diretto da Steno in “Piedone a Hong Kong” con Bud Spencer, e l’anno dopo, sempre diretto da Steno, fu nel cast di “Febbre da cavallo” con il suo ruolo più importante che gli fece raggiungere la massima notorietà e per il quale viene ancora oggi ricordato. Fra un film e l’altro torna a omaggiare Totò in questo film ma la svolta drammatica arriva nei primi anni Duemila con la produzione di “La mandrakata” come seguito di “Febbre da cavallo”, diretto da Carlo Vanzina figlio del fu Steno. Incomprensibilmente, contrariamente agli altri interpreti, non viene riconfermato nel cast, e nel ruolo del napoletano fu scritturato l’emergente Carlo Buccirosso cambiando alcune caratteristiche del personaggio; questo grave smacco fece scivolare De Rosa in una profonda depressione che lo condusse al suicidio per impiccagione un paio d’anni dopo.

Per quanto la Cardinale non fosse più disponibile non si poteva rimettere in scena il Ferribotte di Tiberio Murgia senza la sorella Carmelina, dato che la coppia degli allora debuttanti formava un unicum narrativo assai riuscito che vent’anni dopo ribalta i ruoli in un buon sviluppo narrativo: Carmelina ha oggi preso le redini della conduzione domestica, lavora e mantiene l’inutile fratello, tanto che si stenta a riconoscerla sul piano caratteriale, mentre sul piano fisiognomico è interpretata dalla credibilissima e somigliante Rita Savagnone, che essendo più attiva nel doppiaggio è già stata più volte la voce di Claudia Cardinale che qui stavolta sostituisce fisicamente; il personaggio è ben riuscito e gradevole ma gli sceneggiatori, sbagliando ancora una volta, preferiscono non svilupparlo avendo a che fare con una sostituzione. Sviluppano invece il non riuscito personaggio della madre di Cruciani come vecchia al seguito della banda nell’odierna disavventura: la interpreta la non troppo vecchia napoletana Concetta Barra, madre di Peppe Barra, che fa quello che può col poco materiale narrativo che le è stato dato in carico, dimostrando ancora una volta che gli sceneggiatori hanno lavorato davvero male sprecando occasioni su occasioni; eppure, tolto il regista Todini che ha sempre arrancato dietro agli altri, i primi due erano due vecchie volpi del mestiere. Mah.

La bella di turno che guarisce il diverso è, in linea coi tempi, una ragazza madre che fugge da un fidanzato violento. La interpreta la napoletana Clelia Rondinella mentre il violento che la insegue è l’ancora sconosciuto Ennio Fantastichini che nei decenni a venire sarà uno dei protagonisti di qualità del cinema italiano: morto 63enne nel 2018 per cause naturali. Completano il cast come trafficanti Giovanni Lombardo Radice, mio amico personale recentemente scomparso, attore e regista teatrale che era divenuto famoso, per gli appassionati, come iconico interprete di alcuni film horror di serie B, anche in lingua inglese che parlava fluentemente, e per i quali ebbe un suo proprio fan club internazionale; come suoi scagnozzi Pasquale Africano che divenne famoso in tv come guardia giurata del giudiziario “Forum” di Canale 5, e un giovanissimo quasi irriconoscibile Alessandro Gassmann (che ha recuperato nel cognome tedesco la seconda N che Vittorio aveva fatto cadere) che il padre sta avviando alla carriera artistica ma qui è doppiato da Roberto Chevalier. Vanno ricordati anche il caratterista romano dal fisico imponente specializzato in ruoli di rude e violento Natale Tulli, doppiato da Enzo Liberti, qui come nuovo compagno della moglie di Tiberio-Mastroianni, e in un piccolo ruolo la doppia figlia d’arte Alessandra Panelli (di Paolo Panelli e Bice Valori) come moglie dell’erede Cruciani, e nella vita reale moglie a scadenza di Lombardo Radice.

Nell’insieme il film si lascia seguire piacevolmente e recuperarlo non è tempo perso, se non altro per rivedere duettare Gassman e Mastroianni, ma resta un’occasione sprecata sin dalla sua genesi: l’intento è nostalgico ma anche commerciale e viene confezionato un film di genere che nulla ha dei punti di forza del capostipite che fondò la commedia all’italiana. Non si trattava di rifondare il genere ormai sepolto dalla commedia sexy all’italiana ma se non altro mantenerne l’idea, l’ideale, e a nulla valgono gli inserti in bianco e nero del film capostipite concessi dal primo produttore che viene ringraziato nei titoli di coda: “La produzione e gli autori ringraziano FRANCO CRISTALDI per gli inserti da I SOLITI IGNOTI di MARIO MONICELLI”.

Monicelli che in apertura dei titoli di testa viene citato con “Mario Monicelli presenta”, una sorta di viatico e lasciapassare per il discepolo dotato di poco talento. Marcello Mastroianni è l’unico nome prima del titolo: uscendo dal carcere all’inizio del film si ritrova in una Roma sconosciuta e anche incattivita, ma ancora una volta la sceneggiatura non graffia laddove spunti ce ne sarebbero a decine, e la recitazione dell’attore ha lo spessore dell’interprete maturo, ma non avendo spunti brillanti a cui aggrapparsi – se non trite gag da avanspettacolo, quello che Monicelli aveva mandato in soffitta – il suo personaggio risulta più cupo che brillante, da commedia amara, e sarebbe stato un punto a favore se il film avesse seguito questa traccia, ma in realtà in film non ha nessuna traccia.

Segue nei titoli, al secondo posto, Tiberio Murgia “nel ruolo di Ferribotte”, che non essendo un vero interprete rifà sé stesso senza sbagliare; vengono poi Rita Savagnone “nel ruolo della sorella di Ferribotte”, Concetta Barra “nel ruolo della signora Italia” e infine arriva “con la partecipazione diVittorio Gassman che pur continuando a balbettare si è liberato di quel trucco e parrucco che lo avevano aiutato a diventare maschera brillante quasi trent’anni prima. Amanzio Todini dopo questo debutto-flop firmerà due anni dopo solo un’altra regia, il televisivo Fininvest “Non tutto rosa” con Marisa Laurito e Andy Luotto; è morto 48enne nel 1995 ma non mi è stato possibile rintracciare ulteriori dettagli. Il film è disponibile su YouTube.

I soliti ignoti – e per la prima volta sullo schermo Claudia Cardinale e Tiberio Murgia

Questo film del 1958 è un caposaldo del cinema italiano ma partiamo da più lontano nel tempo e nello spazio, dalla Hollywood dei primi anni ’50 che con film come “Giungla d’asfalto” di John Huston dal genere thriller, o noir per dirla alla francese, sviluppa il sottogenere caper movie detto anche heist movie, ovvero film dove una banda di malviventi organizza un colpa grosso; e se heist è comprensibile in quanto significa rapina, caper è meno chiaro perché letteralmente significa cappero ma in realtà è stato coniato fra i malavitosi italo-americani che hanno anglicizzato l’italiano capriola con riferimento ai salti mortali e a tutte le acrobazie che dovevano fare per sfuggire alle forze dell’ordine. Sta di fatto che il genere piacque molto al pubblico, e fra i principali caper movie bisogna ricordare “Rapina a mano armata” di Stanley Kubrick mentre in Francia ci fu il grande successo di “Rififi” di Jules Dassin, e scavalcando gli anni ’60 in Italia Marco Vicario diresse il dittico “Sette uomini d’oro” e “Il grande colpo dei sette uomini d’oro” al servizio di sua moglie Rossana Podestà; del 1969 è il francese “Il clan dei siciliani” di Henri Verneuil con Jean Gabin, Alain Delon e Lino Ventura; per tornare a Hollywood con “La stangata” di George Roy Hill del 1974 starring Paul Newman e Roibert Redford; poi primeggia il corale “Le iene” di Quentin Tarantino del 1992 fino al trittico di Steven Soderbergh iniziato con “Ocean’s Eleven”, con George Clooney capo brigata, che a sua volta era il remake di “Colpo grosso” del 1960 di Lewis Mileston col Rat Pack Frank Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis jr. Insomma ce n’è per tutti i gusti.

Aldo Reggiani, Loretta Goggi e Arnoldo Foà protagonisti dello sceneggiato Rai

Ma torniamo in Italia alla fine degli anni ’50. Il genere imperante era il neorealismo nato sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale, e ancora resistevano i generi peplum (e vale la pena ricordare il debutto cinematografico di Sergio Leone con “Il colosso di Rodi”) e cappa e spada (nessun film italiano memorabile, supplisce lo sceneggiato Rai “La freccia nera” diretto da Anton Giulio Majano dal romanzo di Robert Luis Stevenson) mentre il cinema spensierato dei telefoni bianchi che imitava le commedie sofisticate hollywoodiane era stato sostituito dalla commedia rosa o sentimentale che abbandonando le ambientazioni scintillanti e irrealistiche si era adattato alla nostra realtà con gli operai e le commesse “Poveri ma belli” di Dino Risi del 1957.

Scena da “I cadetti di Guascogna”, in primo piano da sinistra Riccardo Billi, Mario Riva, Carlo Campanini, Carlo Croccolo e seduto sulla branda Walter Chiari

Sul piano del film comico, film per ridere, si era fermi alle pellicole che derivavano dai palcoscenici dell’avanspettacolo e del varietà (ad esempio “I cadetti di Guascogna” che vide il debutto di Ugo Tognazzi e Carlo Croccolo) con interpreti che da lì venivano con le loro maschere e le loro gag (Mario Riva, Riccardo Billi, Carlo Campanini, Macario, Renato Rascel) di cui Totò era il più prolifico esponente, non amato dalla critica colta per quei suoi filmetti senza spessore. In questa brulicante vivacissima realtà si muoveva un gruppo di soggettisti e sceneggiatori che sentivano l’urgenza di raccontare la realtà, la loro realtà, quella realtà di quel preciso momento storico, il dopoguerra e il boom economico, mettendone in evidenza tutte le contraddizioni, l’impossibilità di conciliare il vecchio con il nuovo, l’ipocrisia e l’effimero: una realtà che autori come Pier Paolo Pasolini (“Accattone”) o Bernardo Bertolucci (“La commare secca”) presero di petto, mentre scrittori dalla penna più leggera e ironica e spesso caustica, e forse per questo più incisiva (ricordiamo l’adagio latino “castigat ridendo mores”) come Age & Scarpelli qui autori del soggetto e sceneggiatori insieme a Suso Cecchi D’Amico e allo stesso regista Mario Monicelli, che aveva esordito come braccio destro di Pietro Germi e fu poi regista di Totò che aveva sdoganato in un ruolo drammatico nella co-regia con Steno “Guardie e ladri” che valse all’attore l’ambito Nastro d’Argento e che lo convinse che poteva abbandonare il genere avanspettacolo che lo aveva reso ricco e famoso, ma con la media di cinque film l’anno in cantiere, il successo del pubblico e le pressioni dei produttori, passò ancora qualche anno fino a che concluse la sua carriera lavorando con Pasolini: “Uccellacci e uccellini”, “La terra vista dalla luna” nel film a episodi “Le streghe” e “Che cosa sono le nuvole?” nel film a episodi “Capriccio all’italiana”.

Monicelli e Totò durante una pausa sul set

Quando il gruppetto di amici si riunì per buttare giù una nuova sceneggiatura non sapevano che stavano cominciando a scrivere una pagina della storia del cinema. Partirono dall’idea di fare una parodia di quel genere tanto di moda, il caper movie, e presero come modello il noir “Rififi” tanto che il primo titolo pensato per il film in scrittura fu “Rufufù”, ma non erano autori da fermarsi al semplice parodistico e come altra ispirazione ebbero il racconto di Italo Calvino “Furto in una pasticceria”.

Memmo Carotenuto con Gassman

Poi c’era la realtà sociale in cui il gruppetto voleva collocare storia e personaggi, e pur condividendo con Pasolini il degrado della periferia romana in cui il boom sarebbe tardato ad arrivare e ancora si sarebbe vissuto di espedienti, i loro ladruncoli non hanno l’innocente cattiveria degli accattoni e dei ragazzi di vita pasoliniani, ma risentendo della leggerezza della Commedia dell’Arte (che i nostri ovviamente conoscono) sono Arlecchino e Brighella e Pulcinella i cui espedienti per procurarsi il tozzo di pane rimangono fallimentari e grotteschi, come certi capitomboli del fanfarone Er Pantera, ma sono qui intessuti dell’umanità di persone reali che soffrono e addirittura – novità assoluta in commedia – muoiono tragicamente, come il personaggio motore della storia interpretato da Memmo Carotenuto. Il risultato è un dolce-amaro, un grottesco patetico venato di tristezza, qualcosa di talmente simile alla vita reale da portare al cinema folle di spettatori che ridevano insieme delle loro stesse sventure, e però non mancano le battute folgoranti come quando Capannelle chiede a un ragazzino di un certo Mario e quello gli risponde che lì nel quartiere ce ne sono cento; sì ma questo è stato in galera, specifica Capannelle, sempre cento sono, risponde il ragazzino.

Tiberio Murgia nell’atrio del cinema dove si proietta il Kean di e con Vittorio Gassman in un corto circuito di citazioni

A scrittura ultimata sarebbe stata fondamentale la scelta del cast. I produttori, Franco Cristaldi in testa, avrebbero voluto scritturare i soliti noti che venivano dal varietà e dall’avanspettacolo, a cominciare da Alberto Sordi nel ruolo del pugile suonato Peppe er Pantera per il quale Monicelli e gli altri sceneggiatori – che avevano creato tutti i personaggi intorno ad un baricentro realistico, senza vezzi e gag, corredandoli però di un patrimonio di battute e situazioni brillanti e folgoranti sulle quale si sarebbe dovuta giocare tutta la comicità del film – si erano impuntati su Vittorio Gassman, in quale venendo dal teatro impegnato nel cinema aveva per lo più interpretato ruoli da cattivo, e con la sua aria da intellettuale non dava ai produttori nessuna garanzia di successo come attore comico, ma alla fine dovettero cedere alle argomentazioni di Monicelli & company, che con l’aiuto del truccatore Romolo De Martino crearono per Gassman un pesante trucco che con una parrucca gli abbassava l’attaccatura sulla fronte, e accentuando il profilo del naso e rendendo le labbra leggermente calanti lo ridisegnarono proprio come quel pugile suonato di periferia che avevano immaginato sulla carta, e l’invenzione poi della sibilante balbuzie completò il personaggio, sdoganando Gassman in un mondo ancora per lui inesplorato. Va segnalato che nel film viene omaggiato ritraendo la locandina del suo “Kean – genio e sregolatezza” che aveva diretto e interpretato a teatro e poi diretto e interpretato anche sullo schermo con l’importante contributo tecnico di Francesco Rosi.

Nel calibratissimo cast Renato Salvatori (doppiato da Marcello Prando) entrò come secondo nome (in percentuale di misura più piccola rispetto a Gassman) e come segno di continuità con la commedia rosa di cui era protagonista, anche qui protagonista di una storia amorosa ovviamente assai contrastata. Il caratterista Memmo Carotenuto, fratello di Mario, faccia da duro e voce roca è al terzo posto nei titoli di testa e probabilmente nel suo ruolo più significativo. Con le lettere che continuano a rimpicciolirsi segue Rossana Rory (Rossana Coppa sui documenti) già fotomodella e foto-attrice per “Sogno” che qui è l’unica componente femminile della banda e anche nel suo ruolo più importante (doppiata da Monica Vitti): nonostante l’impegno, andò a studiare recitazione presso la londinese Royal Academy of Dramatic Art, non riuscì a sfondare e pochi anni dopo, dopo aver partecipato a “L’eclisse” di Michelangelo Antonioni, si ritirò dalla carriera artistica. Segue nei titoli la 17enne in rapida ascesa Carla Gravina qui al suo terzo film e che aveva debuttato 15enne in “Guendalina” dello scopritore di Lolite Alberto Lattuada. Dopo di lei nei titoli di testa viene la non ancora ventenne Claudia Cardinale (doppiata dalla palermitana Lucia Guzzardi) qui al suo debutto cinematografico italiano e per la quale vale la pena spendere qualche parola in più.

Era nata a Tunisi da genitori altrettanto tunisini per nascita ma di discendenza siciliana. Va ricordato che la Tunisia era un protettorato francese e durante la Seconda Guerra Mondiale (Claudia nata nel ’38 era ancora bambina) l’Italia mussoliniana con la Germania hitleriana occuparono Tunisi con gravi e diverse conseguenze per tutta l’enclave italiana che lì viveva; nello specifico il padre di Claudia che aveva mantenuto rapporti con la famiglia d’origine in Sicilia, non aveva preso la nazionalità francese mantenendo quella italiana, e se in quel frangente ciò poteva giocare a suo favore agli occhi del regime, nei fatti tutti quegli italiani d’Africa furono vittime di un diffuso e paradossale sentimento italiano anti-italiano, con italo-tunisini che sposarono la causa fascista, altri che restarono fedeli alla Francia e altri ancora che volevano restare neutrali come fu per la famiglia Cardinale. Superato il disagio della guerra l’adolescente Claudia parlava solo arabo tunisino, francese e il siciliano trapanese appreso in famiglia, e come tutte le ragazze della sua generazione era una fan della Brigitte Bardot esplosa con “E Dio creò la donna” di Roger Vadim, star con la quale duetterà anni dopo, nel 1971, nel brutto western “Le pistolere” di Christian-Jacque. In ogni caso il cinema la attendeva: a diciotto anni partecipò a un cortometraggio documentaristico che omaggiava l’intraprendenza delle donne tunisine nell’immediato dopoguerra: “Les Anneaux d’or” di René Vautier che al Festival di Berlino vinse l’Orso d’Argento.  Bastò l’unico primo piano di quel film per farla diventare una celebrità locale ed essere richiesta dal regista Jacques Baratier che la volle per un ruolo secondario in “I giorni dell’amore”, ruolo che accettò con riluttanza perché aspirava a quello della protagonista nel quale la produzione volle un’attrice di pura nazionalità tunisina; protagonista maschile il giovane egiziano Omar Sharif in un film candidato per la Palma d’Oro al Festival di Cannes che per la nostra riluttante Claudia fu il primo vero impegno come attrice cinematografica, per il quale in ogni caso aveva ottenuto la dicitura in cartellone “e la partecipazione di” essendo ancora in pratica una sconosciuta. Claudia avrebbe duettato da protagonista con Sharif nel 1991 in “Mayrig” del franco-armeno Henri Verneuil, che l’anno dopo ebbe il seguito “Quella strada chiamata paradiso”, film che raccontano il genocidio armeno che però hanno avuto scarsa diffusione.

Momentaneamente accantonata la non del tutto per lei soddisfacente, benché di qualità, esperienza cinematografica, la giovane scalpitava e non sapeva come uscire dall’impasse della sua vita borghese tunisina, così non le parve vero quando a Tunisi si tenne la “Settimana del Cinema Italiano” organizzata da “Unitalia FilmRivista trimestrale dell’Unione nazionale per la diffusione del film italiano all’estero”, durante la quale vinse – “in modo del tutto involontario e inconsapevole” recitano le cronache – il concorso “La più bella italiana di Tunisia” dove probabilmente si era iscritta in modo del tutto altrettanto involontario e inconsapevole: ma la ragazza, come vedremo, era fortemente motivata e consapevole.

Claudia Cardinale in quel fatale 1957 a Venezia

Il premio del concorso consisteva in una vacanza spesata alla Mostra del Cinema di Venezia in cui seppe mettersi in mostra agli occhi dei tanti pigmalioni, registi e giornalisti e soprattutto produttori lì presenti, Franco Cristaldi in testa. Dicono sempre le cronache che accettò l’invito da parte del produttore Salvatore Argento (padre del regista Dario Argento) e del giornalista Lidio Bozzini l’offerta di fermarsi a Roma per frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia, che la ragazza accettò – non si sa a che titolo: chi pagava cosa e per cosa? Probabilmente oggi è lecito immaginare che i due fossero i prestanome del produttore Cristaldi, che di 14 anni più anziano della ragazza e già sposato, non si poteva esporre in quell’epoca in cui il divorzio era illegale in un Paese ultra cattolico in cui le relazioni extraconiugali creavano scandalo e condanna sociale: oggi sappiamo che Franco Cristaldi e Claudia Cardinale avevano già cominciato una relazione. Ma gli studi di recitazione e dizione, sua insegnante al Centro fu Tina Lattanzi, misero in evidenza la sua scarsa attitudine sia alla recitazione che all’apprendimento e dopo appena un trimestre abbandonò l’impresa per tornare a Tunisi… ma dato che la sua fotogenia era indiscutibile e la sua relazione con Cristaldi solida, si fece di necessità virtù e fu dato eco sulla stampa, con copertina sul settimanale “Epoca”, a quel suo inconcepibile rifiuto di continuare la carriera cinematografica: anche gli handicap se ben gestiti posso diventare vantaggi nelle mani di un solido ufficio stampa. Del suo stile recitativo, una volta diventata famosa, coerentemente dirà: “Io non mi sono mai considerata un’attrice. Sono solo una donna con una certa sensibilità: è con quella che ho sempre lavorato. Mi sono accostata ai personaggi con grande umiltà: cercando di viverli dal di dentro, usando me stessa, e senza far ricorso a nessun tipo di tecnica.”

Moglie e marito, produttore e protagonista, sul set di “La tenda rossa” diretto da Michail Kalazotov

Ancora di quell’intenso periodo è un’altra pagina che resterà oscura nella vita dell’attrice: la gravidanza del suo primogenito Patrick che partorirà a Londra, lontano da occhi indiscreti, dopo la fine della lavorazione del film. Durante la lavorazione ha tenuto segreta la gravidanza, come segreta rimarrà la genesi: verrà raccontato in seguito che rimase vittima di uno stupro da parte di uno sconosciuto ma alla luce dei fatti è lecito pensare che il figlio fosse del produttore e che l’invenzione dello stupro servisse anche, ancora una volta, a far di necessità virtù – ma questa è mia personale speculazione essendo a tutt’oggi la vicenda narrata così come fu data sin dall’inizio. E se dal lato professionale questo ruolo di siciliana illibata ritagliato su di lei la portò all’immediato successo, sul piano privato fu per lei un periodo assai difficile: era consapevole che la relazione con Cristaldi non poteva essere ufficiliazzata e soffriva lo stereotipo dell’immagine della giovane avventura del produttore attempato. Con l’avvio della sua carriera la famiglia la raggiunge a Roma e durante i primi anni mostrerà in pubblico suo figlio presentandolo come un fratellino.

In seguito, anni dopo, dichiarerà di non essersi mai sentita davvero la compagna di Cristaldi, quanto piuttosto un trofeo da tenere sotto vetro, una “Cenerentola gratificata dalla sua generosità” per l’aiuto dato nel difficile momento della gravidanza segreta e per, va da sé, l’impegno profuso per costruirle una carriera e un’immagine professionale adeguata; ma per il resto si era sentita in trappola: per il doppio legame, personale e professionale, si sentiva schiacciata e costantemente sotto controllo attraverso lo staff – il responsabile stampa, la segretaria e l’autista personali – che facevano riferimento a Cristaldi che probabilmente aveva perso la testa per la ragazza e finì col rinchiuderla in una gabbia dorata, una torre d’avorio, sempre ricordandole e rinfacciandole che lui l’aveva creata e che dunque gli apparteneva. Conducevano sempre vite separate, tranne qualche breve viaggio, e anche dopo il matrimonio che nel 1966 lui organizzò negli Stati Uniti avendo ottenuto l’annullamento della precedente unione dalla Sacra Rota, lei non lo chiamò mai Franco ma sempre e solo Cristaldi, fino alla definitiva rottura avvenuta nel 1975, allorché Claudia si era innamorata del regista Pasquale Squitieri conosciuto sul set di “I guappi”. Col matrimonio Cristaldi aveva adottato legalmente il primogenito dell’attrice. E sarebbe ancora lunga la narrazione su Claudia Cardinale se non fosse che devo rientrare nei ranghi del film che l’ha lanciata.

il gruppo dei ladruncoli al completo: Totò, Tiberio Murgia, Carlo Pisacane, Renato Salvatori, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman. Di spalle l’agente di controllo per il Dante Cruciani di Totò, attore non accreditato.

Al suo nome seguono nei titoli di testa i primi tre insieme dopo i nomi da solisti: Carlo Pisacane, Tiberio Murgia e Gina Rovere, lei nel ruolo secondario della moglie in galera di Marcello Mastroianni, è una caratterista romana che avrà i suoi ruoli più importanti nei prossimi “Nella città l’inferno” di Renato Castellani e “Adua e le compagne” di Antonio Pietrangeli. Il napoletano Pisacane viene invece dalla gloriosa filodrammatica partenopea e aveva cominciato a fare cinema già in gioventù all’epoca del muto per poi proseguire come caratterista generico e qui è al suo primo personaggio importante, quel Capannelle che gli porterà talmente fortuna e fama da venire accreditato nelle produzioni future anche come solo Capannelle; il suo riuscitissimo accento bolognese è dovuto al doppiaggio del friulano Nico Pepe.

I debuttanti Claudia Cardinale e Tiberio Murgia come sorella e fratello.

Il sardo Tiberio Murgia è al suo debutto cinematografico diventando siciliano col doppiaggio del napoletano Renato Cominetti e anche il suo personaggio ha talmente fortuna che proseguirà la carriera continuando a essere scritturato come siciliano. Prima di approdare al cinema ha un passato rocambolesco: di famiglia povera emigra in Belgio per andare a fare il minatore a Marcinelle dal cui disastro scampa perché si era dato malato per stare con la moglie di un collega di cui era divenuto amante, ma l’intera storia è oggi ritenuta falsa perché viene da un articolo della rivista “Gente” di genere scandalistico-propagandistico per favorire la carriera del neo-attore. Di fatto Murgia fu veramente minatore in Belgio e poi lavapiatti in un ristorante di Roma dove fu notato da un assistente di Monicelli e da lì si avviò la sua carriera di caratterista siciliano.

Va dato merito al regista e al suo staff di co-sceneggiatori l’avere inserito nel cast dei coprotagonisti due piccoli caratteristi, Carlo Pisacane di antica scuola teatrale e Tiberio Murgia preso dalla strada: due personaggi veramente costruiti a tavolino che nulla avevano e avranno a che fare col carisma dell’interprete; due facce che già da sé erano maschere, ma personaggi creati col supporto di altri due professionisti a dare loro la voce: in pratica per ogni personaggio due attori, uno davanti e l’altro dietro la macchina da presa, perché senza quelle voci e quegli accenti le due maschere non sarebbero mai esistite. Pratica oggi irrealizzabile per fortuna, per la dignità professionale degli interpreti, ma che allora era prassi comune se si pensa che anche molti dei protagonisti venivano doppiati e la cosa non creava scandalo. Qui c’è Renato Salvatori che praticamente sarà sempre doppiato in tutta la sua carriera e se ciò non fosse stato consentito probabilmente si sarebbe impegnato a studiare recitazione e dizione laddove la fotogenia non sarebbe bastata più; per molti anni Claudia Cardinale fu doppiata, però si è battuta per recitare con la sua voce, e anche Totò che verso la fine era ormai quasi cieco e aveva come doppiatore ufficiale Carlo Croccolo. I titoli di testa continuano col resto dei generici fra i quali bisogna ricordare Elisa Fabrizi che è un errore di trascrizione trattandosi in realtà di Elena Fabrizi, sorella di Aldo Fabrizi, che dopo la scomparsa del fratello diverrà nota come Lella Fabrizi o più semplicemente Sora Lella, attrice intrattenitrice e proprietaria di una trattoria sull’isola Tiberina a Roma. I titoli si concludono “con” Marcello Mastroianni le cui lettere riprendono la misura massima che Gassman aveva avuto in apertura, “e con la partecipazione straordinaria” di Totò. Non è accreditato il prevalentemente radio-televisivo Mario Feliciani nel ruolo del commissario di polizia che tornerà nel sequel dell’anno dopo messo in cantiere a tambur battente.

Sul momento nessuno si rese conto di cosa era accaduto: il fatto più evidente fu il clamoroso successo del film che fu distribuito praticamente in tutto il mondo: negli USA e nel Regno Unito col titolo “Big Deal on Madonna Street” e lì avrebbe avuto grande risonanza soprattutto fra gli addetti ai lavori tanto che nei decenni a seguire avrebbero realizzato ben due remake; mentre in Spagna fu ripreso il primo titolo provvisorio “Rufufù” e in Francia si optò per “Le Pigeon” il piccione, vai a capire perché, mentre in Argentina e Brasile fecero una fedele traduzione del titolo: “Los desconocidos de siempre” e Os eternos Desconhecidos“.

Dovette passare qualche anno perché ci si rendesse conto che “I soliti ignoti” era diventato il capostipite di un nuovo genere cinematografico: la commedia all’italiana. Che era un po’ quello che era successo secoli prima nel teatro quando dalla Commedia dell’Arte si passò alla commedia brillante borghese dove i caratteri avevano perso la fissità delle maschere per diventare esseri umani a tutto tondo con i loro chiaroscuri. Da quel film in poi tutti dovettero fare i conti con quel modo di scrivere e realizzare pellicole brillanti e in un paio di decenni si realizzarono grandi film, molti dei quali a episodi, fino a che la commedia all’italiana non morì verso la fine degli anni Settanta stretta fra le spire della commedia sexy. Mario Monicelli fu candidato agli Oscar nella categoria Miglior Film Straniero e vinse lo spagnolo Festival di San Sebastian; ai Nastri d’Argento vinse Vittorio Gassman come miglior protagonista e l’intera squadra degli scrittori fu premiata per la miglior sceneggiatura.

L’anno dopo uscì il sequel “Audace colpo dei soliti ignoti” con Nanni Loy che prese il controllo dell’impresa, e un secondo tardivo nostalgico seguito si ebbe nel 1985 diretto da Amanzio Todini: “I soliti ignoti vent’anni dopo”. Del 2020 è l’adattamento teatrale andato in scena al Teatro La Pergola di Firenze, diretto e interpretato da Vinicio Marchioni su copione di Antonio Grosso e Pier Paolo Piciarelli. Altro adattamento teatrale ma in musical fu quello che Bob Fosse realizzò nel 1986, “Big Deal”, che non vide praticamente nessuno: 6 anteprime e 69 repliche, a Broadway. Due i remake americani, dicevamo: il primo è “Crackers” del 1984 diretto da Louis Malle con Donald Sutherland e Sean Penn, mentre del 2002 è “Welcome to Collinwood” diretto dai fratelli Anthony & Joe Russo e prodotto da George Clooney che si è collocato nel ruolo che fu di Totò. Nel 2000 Woody Allen fece un’importante citazione-omaggio nel suo “Criminali da strapazzo”. Un altro importante omaggio è nel film “A/R Andata + Ritorno” del 2004, terza regia di Marco Ponti.

Fra le curiosità: il film sarebbe dovuto uscire col titolo “Le Madame” che era il soprannome con cui i criminali chiamavano i poliziotti e che venne rigettato dalla censura perché non si poteva ironizzare sulle forze dell’ordine. La Via delle Madonne in cui viene tentato il colpo, ripreso dal titolo americano, in realtà non esiste, trattandosi della scalinata di Via della Cordonata che scende su Via delle Tre Cannelle, dietro Piazza Venezia. La ragazza che litiga col fidanzato sotto il lucernario su cui restano appesi i ladruncoli è l’ungherese Edith Bruck, scampata ai campi di concentramento nazisti, che si era stabilita a Roma dopo aver tentato di rientrare in patria, dove non aveva più nessuno, per poi di trasferirsi in Israele nel 1948 a ridosso della formazione del nuovo stato, immaginato “di latte e miele”, come scriverà, ma percorso da altri insopportabili conflitti. Come ancora oggi è. A Roma frequenta ovviamente l’ambiente intellettuale dove conosce e poi sposerà il poeta-regista Nelo Risi, fratello di Dino, e debutterà come scrittrice nel 1959 con “Chi ti ama così” scrivendo in lingua italiana, una lingua non sua, come spiegherà, che le consente il necessario distacco per descrivere la sua esperienza nei campi di concentramento. Ultima curiosità: i nomignoli Capannelle e Ferribotte erano stati orecchiati nella vita reale: a Capannelle c’è l’ippodromo di Roma ed era il soprannome di un assiduo scommettitore sulle corse dei cavalli, caratteristica che nel personaggio del film non c’è, mentre Ferribotte è la storpiatura di ferry boat, il traghetto che i siciliani prendevano per raggiungere il continente e come molti ancora lo chiamavano: ferribotte o ferribotto. Entrambi i personaggi torneranno nel prossimo sequel mentre solo Ferribotte sopravvivrà vent’anni dopo.

Edith Bruck

Il film è disponibile su RaiPlay e YouTube.

Adua e le compagne

Nel febbraio del 1958, dunque esattamente 64 anni fa, veniva approvata quella che verrà ricordata per sempre come Legge Merlin, promossa dalla 71enne senatrice Lina (Angela) Merlin, che è stata la prima donna ad essere eletta nel nostro senato fra le fila del Partito Socialista Italiano a cui si era iscritta nel 1919, in un periodo storico in cui l’Italia procedeva verso l’opposto fronte del nascente fascismo. Lina era una maestrina che viveva ed insegnava nel natio Veneto, di solida formazione cattolica ma che aveva anche avuto l’opportunità di studiare a Grenoble, conseguendo una laurea in letteratura francese. Viaggiare e studiare all’estero, all’epoca, non era una cosa alla portata di tutte le ragazze, e tornata a insegnare in Italia si era portata dietro un suo personale bagaglio di differenti riferimenti culturali insieme a una diversa apertura mentale: adesso guardava l’ambiente in cui viveva con occhi nuovi e cominciava a rendersi conto della condizione in cui vivevano le donne dei suoi luoghi e del suo tempo e in particolare, da cattolica osservante, cominciò a non tollerare l’ipocrisia di tanti padri di famiglia che, benché anch’essi ferventi cattolici, ben tolleravano e frequentavano le case di tolleranza, sentite nella percezione maschile dell’epoca come un luogo piacevole in cui svagarsi, e dove i giovani futuri padri di famiglia potevano fare le loro prime esperienze sessuali in tutta sicurezza, e continuare a tornarci anche da sposati, mentre per le loro spose era impensabile avere rapporti sessuali fuori dal matrimonio. Qui potrebbero anche entrare in campo ragionamenti e distinguo di carattere antropologico e sociologico, ma restiamo sul fatto specifico e su Lina Merlin che, novella socialista, comincia a collaborare col periodico “La difesa delle lavoratrici” di cui poi assumerà la direzione, e soprattutto diviene stretta collaboratrice del deputato socialista Giacomo Matteotti a cui comincia a riferire delle violenze messe in atto da squadroni fascisti nel suo padovano.

Nel 1924 Giacomo Matteotti fu rapito e ucciso dai fascisti e per la sua discepola i tempi si fanno duri: in meno di due anni venne arrestata cinque volte e poi venne pure licenziata dal suo impiego di maestra essendosi rifiutata di prestare il giuramento fascista obbligatoriamente richiesto agli impiegati pubblici. Questo il giuramento richiesto: “Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempire tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concilii coi doveri del mio ufficio. Va ricordato che su 1251 professori universitari solo in 15 rifiutarono di giurare, perdendo la cattedra; ma va anche ricordato che molti docenti politicamente schierati a sinistra, su consiglio di Palmiro Togliatti accettarono il compromesso del giuramento pur di poter mantenere l’abilitazione all’insegnamento e con esso continuare a svolgere “un’opera estremamente utile per il partito e per la causa dell’antifascismo”. La stessa cosa avvenne nel mondo cattolico dove, su suggerimento di Pio XI, molti buoni cristiano accettarono di piegarsi al fascismo “con riserva interiore”.

Dunque era stato questo il complesso mondo politico e sociale in cui si era impegnata la giovane Lina Merlin e va vista come una naturale conseguenza di tutto il suo impegno la promulgazione della legge che abolisce la regolamentazione della prostituzione chiudendo case chiuse, o case di tolleranza, volgarmente dette bordelli, e introducendo i nuovissimi reati di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. Lina Merlin, da francesista, era stata ispirata dal movimento dell’ex prostituta ed attivista Marthe Richard che aveva fatto chiudere già nel 1946 i postriboli francesi. Applicata la Legge Merlin, la libera e volontaria prostituzione compiuta da donne e uomini maggiorenni restava però legale nella linea dell’inviolabilità della libertà personale. Sappiamo, col senno di poi, che lo sfruttamento della prostituzione non si è mai concluso, ma se non altro ha tolto allo Stato la gestione di quelle case – come oggi gli si dovrebbe togliere la gestione dei giochi d’azzardo – e soprattutto si è avuta l’introduzione di quei reati specifici nel nostro ordinamento giuridico.

Una scena del film, si nota al centro una bruna Sandra Milo

Di due anni dopo, del 1960, è il film “Adua e le compagne” come sorta di instant movie su quel fenomeno che registrò il dissolvimento di un mondo le cui conseguenze furono per lo più infelici per i più diretti interessati: le prostitute, messe improvvisamente sulla strada e non più protette da un oliatissimo sistema di sfruttamento parastatale, per la maggior parte non si potettero o non si seppero – come anche non si vollero – ricollocare con altri ruoli nella benpensante società dell’epoca, e finirono letteralmente per strada e fra le grinfie di sfruttatori peggiori; per gli allegri frequentatori, finito il periodo di proteste nostalgie e rimpianti, ricominciò la frequentazione col rischio, stavolta, di contrarre quelle malattie veneree che nelle case vanivano tenute sotto controllo.

Sandra Milo e Gina Rovere nella cucina della trattoria “da Adua”

Scritto da tre eccellenti nomi, Ruggero Maccari, Ettore Scola e Tullio Pinelli cui si aggiunse lo stesso regista, il produttore Manolo Bolognini (fratello del regista Mauro) affidò la regia ad Antonio Pietrangeli che era molto versato nel ritrarre personaggi femminili e che negli anni a seguire scelse di esprimersi nella nascente commedia all’italiana: “Adua le compagne” è simbolicamente una sintesi del suo impegno professionale. Ma la sceneggiatura dei quattro bei nomi schierati in campo fa un po’ acqua da tutte le parti per varie ragioni: l’argomento è delicato e si sceglie di raccontare il dramma delle protagoniste alleggerendolo con toni da commedia, si evitano certi passaggi più spinosi che meglio avrebbero raccontato quelle storie ma che avrebbero spinto il film verso un dramma più crudo e meno adatto a una platea più compiacente; è un lampante esempio di film in bilico fra il morente neorealismo e la nascente commedia all’italiana, appunto, e dopo un solido inizio sulla casa in chiusura dove con poche battute gli sceneggiatori riescono a raccontare l’intero mondo delle donne, il film si perde via via in tanti rigagnoli inconcludenti.

Emmanuelle Riva, Gina Rovere e Simone Signoret

Adua e le compagne, Lolita Marilina e Caterina, decidono di aprire una trattoria in un casolare fuori Roma con l’intento di tornare all’antico mestiere nelle stanze di sopra non appena l’impresa si fosse bene avviata, ma contrariamente a quanto prevedeva la legge – ovvero che le schede di pubblica sicurezza in cui venivano catalogate come prostitute venissero distrutte – questo non avviene, e continuando ad essere schedate come tali non riescono ad avere dei finanziamenti bancari per sostenere l’impresa già avviata coi loro risparmi. Viene loro in soccorso, un soccorso molto interessato e cinico, un affarista che acquista casa e terreno concedendolo in affitto alle donne ma presentandosi subito come prossimo sfruttatore. Poi, mentre la trattoria sia avvia con successo, a ognuna delle quattro è dedicato un capitolo: Adua, che è la capitana dell’impresa, si lega a un fascinoso intrallazzista di automobili; Marilina, che si presenta come sua nevrotica antagonista, vive il dramma personale di un figlio dato a balia quando esercitava il mestiere; Caterina si innamora, ricambiata, di un assiduo frequentatore della trattoria che nulla sa del loro passato; mentre Lolita, interpretata da Sandra Milo, risulta il personaggio meno definito, molto oca giuliva, un carattere sui generis che resterà incollato all’attrice e che lei stessa coltiverà. I nomi sono chiaramente espressione dell’epoca: Lolita è la conturbante protagonista adolescente del romanzo omonimo di Vladimir Nabokov del 1955 che fece tanto scalpore; Marilina è un chiaro riferimento alla Marilyn hollywoodiana; Adua è un nome in voga all’epoca che viene dalla città di quell’Eritrea in cui l’Italia colonialista si era impegnata bellicamente; e Caterina è il nome vero e normale con cui sceglie di tornare a chiamarsi la più sempliciotta delle quattro, il personaggio umanamente meglio definito.

Marcello Mastroianni in un ruolo di supporto che però diventa momentaneamente protagonista con tanto di primo piano a sfavore della vera protagonista Simone Siognoret

Adua e Marilina sono le francesi Simone Signoret, oggi considerata una delle più grandi attrici non solo francesi ma della storia del cinema e che all’epoca del film era già una star internazionale, e Emmanuelle Riva, recentissima star dopo il suo folgorante debutto l’anno prima in “Hiroshima mon amour” di Alain Resnais. Gina Rovere, al secolo Regina Ciccotti, è un’ex soubrette di riviste che è passata al cinema con ruoli di spalla e di contorno, e qui è in uno dei suoi ruoli più importanti. Da segnalare Valeria Fabrizi nel piccolo ruolo di Fosca, una prostituta che lasciando il mestiere va a fare la bottegaia a Milano dove ha affidato i suoi risparmi a un uomo di cui non ha più notizie: non sapremo come le andrà e il lieto o triste finale è lasciato alla nostra immaginazione; Marcello Mastroianni è la star maschile (in quello stesso 1960 escono “La dolce vita” e “Il bell’Antonio”) che giogioneggia nel ruolo del piacione romano che si fa una storia con Adua; divo cui il quartetto degli sceneggiatori concede per ragioni commerciali un po’ di spazio più del necessario, deragliando dal racconto principale che segue le donne. Altri attori nel cast sono Claudio Gora in linea coi suoi ruoli come cinico affarista, Ivo Garrani che tratteggia un ex cliente della casa-casino che per caso è in trattoria con moglie e figlio e prende accordi per tornare alle antiche pratiche; il primattore teatrale e caratterista cinematografico Gianrico Tedeschi interpreta un viscido prim’attore di rivista, che insieme al fantasista Calypso cui dà volto Enzo Maggio della nota famiglia napoletana (suoi fratelli minori sono Beniamino, Dante, Pupella e Rosalia) tenta di truffare l’ingenua Lolita prospettandole improbabili successi e paillettes; il sardo Antonio Rais, che interpreta lo spasimante di Caterina, è qui nel suo unico ruolo cinematografico in una carriera fatta di piccoli ruoli tivù; e poi c’è Domenico Modugno come sé stesso, star delle canzonette che si sentono alla radio perché la televisione è all’epoca un bene di lusso (da comprare a rate come prospetta l’innamorato di Caterina mentre le fa la proposta di matrimonio); Modugno, con la sua compagnia, capita nella trattoria e si esibisce alla chitarra in uno dei momenti più imbarazzanti di tutto il film: non perché sia pessima la sua prestazione ma perché il siparietto canterino da film musicarello è davvero fuori luogo. Chiusi tutti i siparietti più o meno brillanti o comunque di costume il film torna alle atmosfere drammatiche del neorealismo e si chiude su una strada di Roma – quella che fiancheggia il fu carcere femminile delle Mantellate, come mònito – dove in una notte fredda e piovosa Adua, e come lei immaginiamo le sue compagne, tornerà a battere dopo che l’impresa nel campo della ristorazione è fallita: un finale che vuole lasciare un frettoloso amaro in bocca e che sembra però una presa in giro, perché se ci piaceva la linea drammatica l’abbiamo persa di vista per tutto il film, ma se ci piaceva la linea brillante ce l’hanno tolta sul più bello.

Il film, che ha avuto un clamoroso successo di pubblico fra i nostalgici dei bordelli e fra quelli in cerca di scene piccanti che però non ci sono, è stato inizialmente ignorato dalla critica colta perché troppo imbarazzata per parlarne male. Esemplare il giudizio dello storico del cinema Giampiero Brunetta: “Discontinuo, pieno di cadute con non poche concessioni a un gusto para-goliardico, conferma l’abilità dell’autore nella caratterizzazione dei personaggi femminili e il suo dominio di più registri. Nel finale si sfiora la tragedia e in questa occasione, come altrove, una sorta di pudore lo blocca sulla soglia di un registro stilistico che, forse, sente ancora al di fuori della propria portata”. Simone Signoret e Emmanuelle Riva furono doppiate da Lilla Brignone e Maria Pia Di Meo, mentre Nando Gazzolo doppia Gianrico Tedeschi che probabilmente al momento del doppiaggio era in tournée teatrale. In conclusione voglio ricordare solo questi tre film italiani che hanno raccontato le case chiuse: “Film d’amore e d’anarchia” 1973, di Lina Wertmüller; “Salon Kitty” 1976, di Tinto Brass che però racconta un bordello berlinese; “Bordella” 1976, grottesco di Pupi Avati su un bordello maschile per sole donne.