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Gli occhiali d’oro – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Dopo “La lunga notte del ’43” e “Il giardino dei Finzi Contini” terzo e a tutt’oggi ultimo film dalla narrativa che Giorgio Bassani dedicò alla sua Ferrara e contestualmente al periodo fascista della città, essendo egli stesso uno di quegli ebrei che vissero sulla propria pelle le leggi razziali emanate nel 1938. Il giovane Bassani era all’epoca studente universitario a Bologna e gli fu concesso di proseguire gli studi, si sarebbe laureato l’anno dopo, mentre non erano più consentite le nuove iscrizioni agli ebrei, di pari passo all’epurazione del corpo docenti. L’io narrante, un universitario ebreo che è chiaramente l’alter ego dello scrittore, nel romanzo non ha un nome e nel film, scritto dallo stesso regista Giuliano Montaldo con Nicola Badalucco e Antonella Grassi, viene chiamato Davide Lattes, figlio di Bruno Lattes che a sua volta è il nome di uno dei personaggi che frequentano il giardino dei Finzi-Contini, romanzo dove a sua volta si cita la vicenda che viene raccontata in questo romanzo: se nel Bassani scrittore i rimandi e le autocitazioni sono frequenti, gli sceneggiatori ne prendono atto e proseguono sulla strada tracciata per restare fedeli allo spirito che anima quelle narrazioni: Ferrara come luogo eletto di una comunità che si autodefinisce “popolo eletto”. Nel romanzo e nel film procedono di pari passo le vicende dell’io narrante e del medico narrato: un omosessuale di mezza età che innamorandosi di un giovane arrivista crea scandalo e viene emarginato dalla benpensante società dell’epoca, emarginazione che procede specularmente a quella che lo studente subisce a causa della sua religione.

Nicola Farron e Philippe Noiret

Vidi il film al cinema alla sua uscita nel 1987 e già allora non mi convinse del tutto benché all’epoca non sapessi motivare chiaramente le mie impressioni: riferivo al mio gusto personale; rivisto oggi confermo e specifico: manca di pathos, è ben confezionato ma calligrafico. Manca l’atmosfera cupa dei tempi bui cui ci si avviava in quegli anni, che il debuttante Florestano Vancini aveva saputo infondere alla sua lunga notte del ’43, e soffre di quel patinato manierismo che si respirava nel giardino dei Finzi-Contini filmato da Vittorio De Sica. Detto ciò il film ebbe successo e si aggiudicò alcuni premi tecnici: a Venezia l’Osella d’Oro per i costumi di Nanà Cecchi e le scenografie di Luciano Ricceri, e poi David di Donatello alla musica di Ennio Morricone che comunque non è fra quelle che continuiamo ad ascoltare. Il cast, come nella migliore tradizione italiana dei decenni passati, è un’insalata di interpreti stranieri e italiani, qui giustificata dal fatto che si tratta di una coproduzione Italia Francia Jugoslavia; insalate per fortuna non più consentite alle produzioni italiane odierne in cui c’è l’obbligo della presa diretta dove gli eventuali interpreti stranieri devono recitare in italiano o fare ciò che sono, gli stranieri, e in cui all’eventuale necessario doppiaggio saranno gli stessi attori a usare la propria voce, a meno che non rinuncino personalmente; una battaglia, quella della voce-volto lanciata dall’impegnatissimo Gian Maria Volonté già alla fine degli anni ’70: un complesso argomento che meriterebbe un approfondimento a parte.

Rupert Everett e Valeria Golino

Davide Lattes, con la voce di Tonino Accolla, ha il volto di Rupert Everett fresco del successo del britannico “Another Country: la scelta” diretto dal polacco Marek Kanievska nel 1984; va da sé che viene scritturato dai nostri produttori e in quel 1987 è protagonista per Francesco Rosi in “Cronaca di una morte annunciata” e di questo film di Montaldo. L’anziano medico, doppiato da Sergio Rossi, è impersonato dal francese di casa in Italia Philippe Noiret, che in quella pratica di coproduzioni e finte produzioni italiane con attori stranieri, si accaparrò molti ruoli assai interessanti che sarebbero potuti andare ai nostri colonnelli: Gassman, Mastroianni, Manfredi, Sordi, Tognazzi. Protagonista femminile è l’emergente Valeria Golino che recita con la sua voce ingolata non del tutto gradevole all’epoca, viziati com’eravamo dalle voci perfette del doppiaggio, migliore attrice rivelazione l’anno prima premiata col Globo d’Oro per “Piccoli fuochi” di Peter Del Monte, e qui candidata inopinatamente (a mio avviso brava ma non da premio) come protagonista ai David di Donatello, insieme a Noiret: entrambi restarono a bocca asciutta perché i premi agli attori protagonisti andarono a Marcello Mastroianni e Elena Safonova per “Oci ciornie” di Nikita Sergeevič Michalkov. Il bel mascalzone di cui s’innamora il medico è impersonato da un altro emergente che poi non rispettò la promessa di una brillante carriera, Nicola Farron, che si esibisce in un nudo integrale sotto la doccia che ancora vale il limite di età alla visione del film su YouTube, anch’egli doppiato da Fabio Boccanera.

Il professor Amos Perugia di Roberto Herlitzka accompagnato all’uscita dall’ateneo dai suoi studenti mentre sullo sfondo si grida “Ebreo! ebreo!” e “Eia eia alalà”.

Altri nomi di spicco sono la centratissima Stefania Sandrelli come malefica pettegola e soprattutto Roberto Herlitzka perfettamente in ruolo essendo egli stesso un ebreo che bambino sfuggì al nazi-fascismo col padre che riparò in Argentina: qui nei primi dieci minuti del film interpreta il professore universitario epurato. I genitori del protagonista sono interpretati dal serbo Rade Markovic e dalla romana di nobili origini Esmeralda Ruspoli. Nel ruolo di uno studente universitario un giovane Luca Zingaretti. Il film, che di diritto si inserisce sotto l’etichetta Fascismo e Resistenza, è oggi considerato un caposaldo anche del filone film LGBT.

Di Giuliano Montaldo bisogna ricordare che come tanti dei suoi coetanei debuttò con un film legato al racconto del fascismo, “Tiro al piccione”, tema che continuerà ad esplorare in altri suoi riusciti lavori come “Gott Mit Uns” e “L’Agnese va a morire”. Nel 2007 è stato insignito del David di Donatello alla Carriera e nel 2018 vinse il David come attore non protagonista per “Tutto quello che vuoi” di Francesco Bruni. Mentre il suo ultimo film da regista è “L’industriale” del 2011 con Pierfrancesco Favino. Oggi ha 93 anni.

IL SOSPETTO – omaggio a Francesco “Citto” Maselli

Sarò sincero, non sono mai stato un fan dell’appena scomparso 92enne Francesco Maselli e trovando su YouTube questo suo importante film che ho visto per la prima volta, confermo la mia posizione: il suo impegno politico e sociale prevarica l’attenzione per il pubblico, tant’è che i suoi film non hanno mai avuto grande riscontro al botteghino. Ci sono film di maestri coevi, Francesco Rosi Florestano Vancini ed Elio Petri tanto per citare i primi che mi vengono in mente, che pur indagando la politica e il sociale non derogano da quella che dovrebbe una delle regole portanti del cinema: la spettacolarità, che non sono solo botti e botte da orbi, ma soprattutto scrittura accattivante e ritmo coinvolgente: chi continuerebbe a leggere un libro che risulta ostico se non noioso sin dalle prime pagine?

Francesco Maselli è “nato bene” come si diceva una volta, in una famiglia di intellettuali romani: suo padre era un critico d’arte che ospitava nel suo salotto i bei nomi intellettuali e progressisti dell’epoca, ed era intimo amico di Luigi Pirandello che gli dava da leggere in anteprima i suoi manoscritti, e fu proprio Pirandello a tenere a battesimo Francesco affibbiandogli il nomignolo Citto. Il ragazzo si dimostrò anch’egli un intellettuale precocissimo: a sette anni aveva già imparato l’Amleto a memoria; e a tredici, durante l’occupazione tedesca della capitale, portava armi e cibo ai partigiani del Gap, Gruppo d’Azione Partigiana; e a seguire, a soli quattordici anni riuscì entrare nell’allora clandestino Pci, Partito Comunista Italiano. In quegli anni gira anche i suoi due primi cortometraggi in 8mm fra i 15 e i 17 e ancora 17enne viene accettato al Centro Sperimentale di Cinematografia da cui si diploma 19enne; sarà subito assistente di Luigi Chiarini, critico e teorico del cinema fra i fondatori del Centro, suo padrino professionale, oltre ad affiancarsi come aiuto di Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti: insomma, il giovane Citto “nato bene” non ha dovuto sgomitare per lavorare coi migliori. Si comincia già a delineare il suo talento come documentarista che è in linea coi suoi impegni politici e civili e probabilmente proprio in questo tipo di cinematografia riesce a dare il meglio: perché essendo film dichiaratamente documento non hanno l’obbligo – ammesso che sia un obbligo – della spettacolarità, ovvero di dover piacere al grande pubblico. Perché questo sarà il nodo irrisolto di tutta la cinematografia di Citto Maselli: non riesce a piacere al pubblico di massa, tanto che per indagare questo aspetto andrà anche in analisi. Di fatto l’autore mette sempre in primo piano la politica che, di fatto, è la sua formazione emotiva, quella che ha formato l’adolescente; racconta i suoi personaggi e struttura i suoi film secondo una visione intimamente marxista, facendone dei casi-limite, esempi di un’umanità e di contesti sociali che finiscono con l’essere poco accattivanti e indigesti al botteghino.

Prendiamo ad esempio questo “Il sospetto” del 1975, che per non essere confuso col film omonimo del 1941 di Alfred Hitchcock “Suspicion” in originale, verrà distribuito come “Il sospetto di Francesco Maselli” (poi ci sarà un altro film omonimo nel 2012 del danese Thomas Vinterberg). Ambientato nella Torino del 1934, centro nevralgico di interessi politici della sinistra operaia per la gran massa di operai della Fiat, racconta di un dirigente del Partito Comunista Italiano in clandestinità perché si è nel bel mezzo del cosiddetto ventennio fascista.

Scorcio parigino del film

L’ambientazione è inappuntabile e accattivante, si fa grande sfoggio di auto d’epoca e di comparse bene acconciate, e la cinematografia di Giulio Albonico insieme al montaggio di Vincenzo Verdecchi scarnificano l’opera rendendola fascinosamente essenziale, senza sbavature e inutili compiacimenti – ma già alla base del progetto c’è una scrittura – sceneggiatura di Franco Solinas (già critico cinematografico per il quotidiano comunista l’Unità) da un soggetto dello stesso Maselli – che sembra non tenere conto degli spettatori: è scritto come se parlasse solo ai tesserati del partito, dando per scontati dettagli informazioni e utili raccordi che vengono a mancare a chi non è addentro a quelle specifiche dinamiche, col risultato che io spettatore “non iniziato” e non iscritto al Partito Comunista faccio fatica ad entrare nello spirito del film, della sua narrazione; è esemplare il finale del film con il lungo monologo-spiegazione del funzionario del partito fascista, che dà un senso all’intero impianto del film ma che nelle mani di altri cineasti sarebbe potuto diventare un confronto più serrato e drammaticamente vivo; e l’intera storia che contiene tutti gli elementi di un thriller – il sospetto che ci sia un traditore fra le fila dei comunisti e l’indagine per smascherarlo – viene invece condotta come un film a tesi che spiega solo le dinamiche interne al partito: le tesi appunto e i contrasti, i dirigenti in clandestinità e quelli in esilio all’estero, l’allontanamento ideologico dal Partito Socialista Italiano, le direttive imposte dall’alto e il sacrificio individuale.

Ne è protagonista il sempre centratissimo Gian Maria Volonté, anch’egli comunista attivissimo: proprio in quel 1975 fu eletto consigliere regionale del Lazio, carica da cui si dimise appena sei mesi dopo, motivando: “Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia: io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso” a dimostrazione che la purezza e l’integrità ideologica non possono andare di pari passo con l’attività politica sul campo che deve fare i conti con le varie realtà trasformando l’iniziale ideologia in fatti concreti. A latere bisogna sempre ricordare che quelli erano i cosiddetti anni di piombo (modo di dire derivato dal film omonimo del 1981 della tedesca Margarethe Von Trotta) del terrorismo di destra e sinistra che aveva fatto del territorio italiano un campo di battaglia, si suppone col supporto dei servizi segreti americani che temevano l’espandersi della comunista Russia nell’Europa Occidentale: già nel film si parla dell’Unione Sovietica come ideologico faro dell’umanità. E anche in tale contesto va collocata l’ispirazione politica di autore e protagonista.

Fanno da contorno a Volonté un insolito Renato Salvatori per chi lo ricorda brillante giovanottone che era arrivato al successo negli anni ’50 con la trilogia di Dino Risi dei “Poveri ma belli” e, nonostante fosse quasi sempre doppiato ebbe anche bei ruoli in film drammatici; ma per Salvatori quegli anni ’70 erano già gli anni del declino: aveva ceduto all’alcolismo e consequenzialmente veniva chiamato per ruoli meno impegnativi benché sempre tenuto in considerazione da amici e colleghi; morirà 55enne di cirrosi epatica. Nel ruolo della dirigente italiana in esilio a Parigi c’è la parigina Annie Girardot, amica di famiglia essendo l’ex moglie di Salvatori con il quale era rimasta in affettuosi rapporti: si erano conosciuti nel 1960 sul set di “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, film che peraltro segnò l’apice della carriera di lui come interprete drammatico. Nel ruolo di un altro dirigente di partito c’è il torinese doc Felice Andreasi che era appena divenuto noto come ospite fisso del televisivo “Il poeta e il contadino” condotto da Cochi e Renato. Chiude il cast dei ruoli principali il sempre eccellente Pietro Biondi, l’unico ancora in vita fra gli elencati, nel ruolo del monologante agente dell’OVRA, la polizia politica fascista. Accreditato nel cast benché con un ruolo da figurante in campo lunghissimo c’è l’emergente Gabriele Lavia che già al cinema aveva avuto ruoli da protagonista: si suppone che il suo personaggio si sia perso in sala di montaggio.

protagonista e regista

L’occasione della scomparsa di Citto Maselli mi accende la curiosità sulla sua filmografia che non ho mai frequentato, con un focus sui lavori collettivi, i cosiddetti film a episodi, e quelli più onestamente politici e documentaristici. Nel 1981 Maselli ha confessato a Paese Sera: “Ho un’ambizione che non ho mai rivelato a nessuno, nemmeno a me stesso. È quella di essere dimenticato come regista e riscoperto, invece, come fotografo… La cosa più orribilmente sincera che abbia mai detto.” E inquadrati in quest’ottica i suoi film sono più fotografici che narrativi, nel senso che staticamente si focalizzano su personaggi e situazioni senza raccontarne lo sviluppo, la dinamicità, il divenire, e in questo modo congelando ogni afflato emotivo. Interessante la sua svolta negli anni ’80 con quattro film incentrati sulla donna: “Storia d’amore” del 1986 gran successo al Festival di Venezia dove l’autore vince il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria mentre alla protagonista Valeria Golino va la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. Nel 1988 segue lo sperimentale “Codice privato” con Ornella Muti unica interprete del film, nominata ai David di Donatello, ai Nastri d’Argento agli European Film Awards e vincitrice del Ciak d’Oro. Del 1990 sono gli altri due film con protagonista Nastassja Kinski, “L’alba” e “Il segreto”, film però entrambi clamorosamente bocciati dalla critica senza dire che il pubblico li ha praticamente ignorati.

Francesco Maselli, oltre a essere cineasta non ha mai abbandonato l’attività politica dedicandosi in particolare alla scrittura saggistica e mantenendo il suo ruolo, fondamentale, come militante della sinistra italiana. Nel 2001 dette vita alla Fondazione Cinema nel Presente riunendo una trentina di autori rappresentativi di tutte le generazioni del cinema italiano, fra i quali: Francesca Comencini, Wilma Labate, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo, Ettore Scola e Pasquale Scimeca; fondazione che produrrà molti di quei documentari collettivi in cui ha dato il meglio di sé. Andiamo a riscoprirlo.

Edipo Re

Il film completo

Dopo il salto in avanti con “Medea” torno alla cronologia della filmografia di Pier Paolo Pasolini con l’altra sua tragedia classica che si colloca subito dopo la favola sociale “Uccellacci e uccellini” ma a cui pensava da anni, ancora prima di realizzare il suo debutto con “Accattone” in cui ha fatto debuttare come protagonista Franco Citti, fratello di poco minore di Sergio Citti, entrambi imbianchini, Sergio che tranne apparizioni occasionali resterà al fianco di Pasolini prima come dizionario vivente romanesco e poi via via come assistente alla regia e co-sceneggiatore fino al suo debutto come regista. Per Pasolini è un’opera molto personale perché si confronta con una sua “ansia autobiografica” e con il complesso cui il personaggio di Edipo, assassino del padre e sposo di sua madre, ha dato il nome: “In Edipo io racconto la storia del mio complesso di Edipo. Il bambino del prologo sono io, suo padre è mio padre, ufficiale di fanteria, e la madre, una maestra, è mia madre. Racconto la mia vita mitizzata, naturalmente resa epica dalla leggenda di Edipo”.

Carlo Alberto Pasolini

Di fatto il padre, militare fascista, fu per lui e per sua madre una figura ingombrante perché pare che non fosse marito e padre affettuoso, oltre al fatto che di ritorno dalla guerra d’Africa soffriva di quella che oggi definiamo stress post traumatico da combattimento ma che all’epoca era non più che un disagio mentale cui si accompagnava la violenza. È dunque quasi consequenziale che il giovane Pier Paolo, intellettuale precoce, si immedesimasse nel personaggio della tragedia perché di certo deve aver desiderato di cancellare il padre dalla loro vita, avendo per la madre un amore sacro, scevro da pensieri immediatamente incestuosi, che espliciterà nella poesia “Supplica a mia madre”.

È difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata

alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame

d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu

sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso

alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,

l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione

di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile….

Scrive un film, come anche sarà “Medea”, più visivo che parlato, asciugando al massimo i dialoghi, che nella tragedia teatrale sono tutto, e inserendo qua e là dei cartelli da cinema muto con importanti battute che così divengono come una sorta di titolo della scena che segue: una visione assai personalizzata della tragedia che se da un lato riporta il linguaggio cinematografico agli albori, quando essendo muto è ancora fotografia in movimento – dall’altro piega e asserve il racconto alle sue necessità, che sono: critica alla borghesia e santificazione del proletariato in prima istanza, e poi necessità di adattare la narrazione al cast che intende impiegare, e qui sta la debolezza del suo gusto artistico che sottende la sua personalissima passione per i proletari; aveva dichiarato che solo i sottoproletari possono rappresentare se stessi, e prendendo per buona l’istanza – anche non necessariamente condividendola – la tradisce clamorosamente chiamando Franco Citti a impersonare Edipo. È vero che nella sua calligrafia cinematografica lui ricolloca i personaggi nel suo schema forzatamente dualistico: i proletari e i borghesi, facendo degli uni e degli altri delle emanazioni sociali di quel mondo moderno cui lui appartiene ma che di certo non appartengono al mondo antico da cui quei personaggi provengono: una forzatura che diviene il suo stile; con la nevrotica complicazione, quasi schizofrenica, che lui è un borghese, appassionato di proletariato, che vede nel suo mondo di origine il male assoluto mentre nei semplici, che osserva e che studia e che cerca di imitare perché ama, vede la purezza, il bene supremo: una sorta di personalissima Arcadia intrisa dell’affascinante brutalità e della beata ignoranza dei suoi “Ragazzi di vita”.

Su questa sua linea narrativa assegna il personaggio dell’eroe tragico a un non-attore che s’è inventato lui, che se poteva andar bene come “Accattone” in questo ruolo è decisamente fuori parte: perché se solo un proletario può rappresentare se stesso, secondo quale giudizio un proletario può rappresentare un personaggio classicamente tragico fin lì interpretato a teatro solo da attori di rango? Pasolini fa di Edipo un altro accattone: benché figlio legittimo dei regnanti di Tebe, Laio e Giocasta, e cresciuto a Corinto da altri due regnanti, Polibo e Merope, questo Edipo resta rozzo come rozzo è l’interprete, e l’autore lo colloca nelle periferie archetipe in cui ben trasfigura le baraccopoli e i pratoni fuori Roma dei suoi primi film; ma si fa fatica a credere che questo Edipo col volto di Franco Citti possa pronunciare, o anche solo pensare, parole come responso o costruzioni verbali come se io avessi immaginato, e anche se doppiato da Paolo Ferrari questo linguaggio alto resta assai poco credibile ritagliato sull’interprete, perché gli è alieno tanto quanto l’intera tragedia nella quale mima una disperazione visibilmente appiccicata dalla mimica suggerita dall’autore: mani sul volto a nascondere espressioni disperate che Franco Citti non ha – ma che poi, e onestamente va riconosciuto, recupera nel finale dove si dispera e suda vero sudore proletario nel comprendere l’orrore del personaggio, personaggio che con orrore comprende la sua tragedia; ma data l’evidente inadeguatezza dell’interprete, laddove Edipo fa discorsi un po’ più lunghi, come quando regalmente si rivolge al popolo con parole assai forbite, Pasolini lo filma in campo lunghissimo alternandogli i primi piani muti e, essi sì assai espressivi, di Giocasta che chiusa in casa lo ascolta, interpretata da una davvero regale e levigatissima – sembra quasi una pittura di Tamara di Lempicka – Silvana Mangano che illumina il film con la sua sola presenza.

Silvana Mangano, che meriterebbe una chiacchierata a parte, all’epoca di questo film è già 37enne e vanta una lunga variegata carriera anche con incursioni internazionali; è moglie del produttore Dino De Laurentiis e in questo periodo esprime disagi professionali e personali; già dal decennio precedente ha via via abbandonato i ruoli basati sulla sua statuaria fisicità per la quale ha cominciato a provare un certo dichiarato imbarazzo, forse anche consapevole del fatto che nel cinema si stava imponendo la nuova diva, benché più giovane di lei di soli quattro anni, Sophia Loren; così cerca ruoli diversi nel cinema cosiddetto d’autore, e in quel 1967 lavora per la prima volta con Pasolini e Luchino Visconti nel film a episodi “Le streghe” firmato dai due insieme a Vittorio De Sica e Franco Rossi e costruito dal marito su di lei che è protagonista di tutti gli episodi; per Pasolini sarà subito dopo Giocasta in questo “Edipo Re” e poi di nuovo ancora nell’inedito ruolo, per lei, di una madre borghese frustrata in “Teorema”; mentre per Visconti dipingerà ritratti esemplari in “Morte a Venezia” “Ludwig” e “Gruppo di famiglia in un interno”. Sul piano personale si sente insoddisfatta, soffre di una grave insonnia, e forse teme di essere anche intrappolata, o probabilmente non abbastanza presente, nel ruolo di moglie e madre; e a più riprese ha pensato di abbandonare la recitazione.

Come Laio l’autore fa debuttare il bel 21enne Luciano Bartoli dallo sguardo acuto e tagliente che nell’antefatto del film, vestito da militare come il padre dell’autore, guarda il figlio neonato con un distacco e una durezza agghiaccianti mentre la didascalia del cartello da film muto recita: “Tu sei qui per prendere il mio posto nel mondo, ricacciarmi nel nulla e rubarmi tutto quello che ho. La prima cosa che mi ruberai sarà lei, la donna che io amo. Anzi già mi rubi il suo amore.” E se il giovane debuttante regge bene il primo piano non si può però non notare la troppa differenza di età con la diva che interpreta sua moglie. Dopo questo debutto Bartoli prosegue con una carriera fatta di secondi ruoli nei poliziotteschi con interessanti incursioni anche nel cinema internazionale e nelle produzioni tv.

Antefatto dunque, o prologo, cui segue un epilogo alla fine del film, entrambi ambientati nelle epoche di Pasolini: gli anni ’20 della sua nascita e gli anni ’60 della sua maturità che sono gli stessi anni in cui si gira il film. Nel prologo racconta la nascita borghese di Edipo, che il padre affida a un servo perché se ne disfaccia, e col viaggio del servo comincia il pellegrinaggio nelle terre di nessuno, le distese desolate del Marocco come Grecia antica in cui si sposta l’azione. Nell’epilogo, l’Edipo consapevole della sua tragedia, accecatosi, come un mendicante vaga dal sagrato di una chiesa a una zona industriale, luoghi del benessere e dell’ipocrisia borghese che Pasolini mantiene nel mirino, ed è accompagnato da Angelo che nella tragedia era Ànghelos, una specie di servo tuttofare, un po’ messaggero un po’ angelo custode, affidato al più convincente Ninetto Davoli che recita con la sua voce, giocoso e palpitante insieme, mentre tutti gli altri proletari del film Pasolini li fa doppiare con accenti regionali, per ribadire la loro provenienza sociale. Nel mezzo si svolge la narrazione della tragedia, affidata a sequenze mute e narrazioni scritte, con un lungo peregrinare, anche noioso c’è da dire perché si perde il senso del racconto, di Edipo in cerca di una verità che lo spingerà verso il suo dolente destino: uccidere accidentalmente suo padre e sposare inconsapevolmente sua madre, vittima di un disegno perverso degli dèi.

E in questa sua rilettura socio-antropologica della tragedia di Sofocle, Pasolini risolve l’importante passaggio dell’incontro con la Sfinge in un paio di frettolose battute: perché nella sua visione, direi ansia, di fare indagine sociale, l’incontro col misterico, così come per lui ateo è il rapporto con la religione, non ha significanza e dunque butta via tutto, l’acqua sporca insieme al bambino, come si dice; e paradossalmente, anzi forse proprio a sberleffo, recita lui stesso il ruolo di un gran sacerdote.

Ancora una volta affida all’amico scrittore Francesco Leonetti un ruolo significativo e qui interpreta il servo che Laio ha incaricato sbarazzarsi del neonato. Al padre di Ninetto, Giandomenico Davoli fa recitare il sostanzioso ruolo del pastore che salva il bambino. Per gli altri tre ruoli significativi chiama tre grandi, ognuno a suo modo: Alida Valli che qui è la regina madre adottiva Merope, nella vita è stata una diva di sfolgorante bellezza, dote che la accomuna alla Mangano, ma che già 46enne è in un periodo in cui si sta reinventando dandosi al teatro e a ruoli assai diversificati, percorso nel quale la più giovane Silvana Mangano la seguirà.

Il divo del teatro di sperimentazione Carmelo Bene è anch’egli al suo debutto come attore di cinema, un genere espressivo dove fra regie proprie e provocazioni continuerà a far clamorosamente parlare di sé, ma in definitiva il cinema per lui resterà una parentesi nella sua vulcanica attività: qui interpreta Creonte, fratello di Giocasta.

L’americano Julian Beck, per gentile concessione del Living Theather, come si legge nei titoli di testa, è invece l’intenso veggente Tiresia: scelte assai interessanti da parte di Pasolini che sperimenta con esponenti del teatro sperimentale che lui ricolloca come quintessenza dell’imborghesimento sociale – alla faccia degli artisti sperimentatori la cui ricerca artistica andrebbe nel suo stesso senso.

Il film è stato in competizione a Venezia per il Leone d’Oro che però è andato a “Bella di giorno” di Luis Buñuel; ai Nastri d’Argento vincono il produttore, lo scenografo Luigi Scaccianoce e vanno senza premio i candidati Danilo Donati per i costumi, Giuseppe Ruzzolini per la miglior fotografia a colori, dato che all’epoca c’era ancora il premio separato per il bianco e nero, e per la regia Pasolini, con il premio che è andato a Elio Petri per “A ciascuno il suo” che porta a casa anche il premio al protagonista Gian Maria Volonté, mentre – curiosità – il premio alla protagonista non è stato assegnato e c’erano candidate solo Sophia Loren per “C’era una volta” di Francesco Rosi e Monica Vitti per “Ti ho sposato per allegria” di Luciano Salce: le due signore, rivali a distanza, devono esserci rimaste assai male!

Produce per l’ultima volta Alfredo Bini, il quale se da un lato come produttore dei difficili film pasoliniani è stato premiato, dall’altro gli si sono prosciugati i conti bancari dato che quei film non hanno mai avuto successo commerciale. Bini aveva fatto debuttare lo scomodo autore con “Accattone” e l’intesa fu subito perfetta dato che Pasolini, digiuno di tecniche cinematografiche, accoglie tutti i consigli del produttore che dichiarerà: “È proprio dal conflitto tra il regista e il produttore che nasce la professionalità, perché un fiume che non ha nessun argine non è più navigabile, porta solo distruzione.” Per Bini questo “Edipo Re” è l’opera più riuscita di Pier Paolo e i progetti che seguiranno, “Teorema” e “Porcile”, non lo entusiasmeranno, tanto che dirà: “I film di Pasolini sono capaci di parlare tra le lingue del mondo. Io l’ho abbandonato quando ho cominciato a sentire odore di morte. Ma anche: “Io e Pasolini subimmo una lunga sequenza di carognate. La reazione alle nostre opere fu durissima, e mi investì personalmente. Pasolini aveva in sé un valore artistico oggettivo: era l’uomo che più irritava il quieto stagno italiano nel pieno del boom economico. La sua opera era la spia e insieme l’analisi di un momento preciso che stava cambiando la nostra società, il momento in cui le generazioni che erano uscite dalla guerra si avviavano verso una società consumistica che confondeva sviluppo e progresso. A cambiare totalmente erano le nostre stesse radici: il fatto di mettere in modo inequivocabile la società italiana di fronte a questo cambiamento, e forse anche a un suo tradimento, non poteva essere accettato. Non era accettabile che un marxista, pederasta e dunque già esecrabile, facesse la morale a tutti.

Per qualche dollaro in più

Secondo capitolo della trilogia del dollaro di Sergio Leone, una trilogia su cui lo stesso autore non aveva nessun progetto e che è stata così riconosciuta e nominata solo in seguito, ad opera di giornalisti e pubblico. Anzi, di più: archiviato il grande successo di “Per un pugno di dollari”, suo secondo lungometraggio dopo “Il colosso di Rodi”, Leone era davvero sfinito, anche dalle vicende giudiziarie che avevano prosciugato completamente i suoi guadagni. Era creativamente esausto, e paralizzato dalla consapevolezza che ripetere un tale successo sarebbe stato impossibile. Inoltre era molto arrabbiato coi produttori della Jolly Film che lo avevano messo nella posizione di essere citato in giudizio per plagio da Akira Kurosawa: “Il comportamento della Jolly mi aveva nauseato. Così andai a trovare i due produttori. Gli dissi che in effetti il modo in cui si erano messe le cose mi ‘faceva piacere’… Perché significava che non avrei mai più dovuto fare un film con loro. Avrei avviato un procedimento legale, ma non volevo vederli mai più. E fu da lì che nacquero i semi della mia vendetta. Dissi loro: ‘Non so se davvero ho voglia di fare un altro western. Ma lo farò. Solo per farvi dispetto. E si intitolerà…’ In quel momento, il titolo mi balenò nella mente – ‘Per qualche dollaro in più’. Ovvio che in quella fase non avevo idea di quale sarebbe stato il soggetto.”

In realtà pare che quel titolo glielo avesse suggerito lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni, rinomatissimo scrittore di film di qualità noto come lo “script-doctor”, figura ovviamente mediata da Hollywood, per la sua capacità di intervenire sulle sceneggiature altrui, anche in anonimo, per appianare tutte le problematiche riscontrate principalmente dai produttori, una sorta di ottimizzatore. A un’amichevole chiacchierata con Leone che si lamentava della sua situazione, pare che Vincenzoni gli abbia detto: “Hai scritto per un pugno di dollari? Questo sarà per qualche dollaro in più. Molti milioni di dollari in più.”

Nello stesso periodo Leone conobbe un avvocato già bene avviato nella produzione cinematografica, soprattutto di spaghetti-western, il quale era rimasto assai colpito da “Per un pugno di dollari”: era Alberto Grimaldi e Leone, già transfuga dalla Jolly, gli chiese di produrlo; l’avvocato, che aveva l’occhio lungo e si stava già affrancando dagli spaghetti-western, gli fece una rispettabilissima offerta produttiva: il 50 per cento dei profitti oltre a tutte le spese vive pagate. Sul fronte internazionale si riconfermò la casa di produzione tedesca che voleva bissare il primo successo, mentre la Spagna che era ancora in forse salì sul carro con un diverso produttore; ma soprattutto, per la prima volta in un western all’italiana entrò nella produzione nientemeno che l’americana United Artists, già produttrice di “I magnifici sette”, solo per restare nell’ambito western, e che poi distribuì il film di Leone in tutto il mondo; e gli americani erano entrati nel progetto sempre grazie a Vincenzoni che al responsabile europeo della U.A. aveva fatto vedere “Per un pugno di dollari” convincendolo a entrare nell’affare e facendo lievitare il budget fino a 600mila dollari: bazzecole per gli standard americani ma una cifra insperabile per i western nostrani, e già nelle prime inquadrature del film i soldi si vedono nella ricchezza delle ambientazioni… e nell’espressione rilassata di Clint Eastwood! A quel punto lo “script-doctor” si era dimostrato davvero un amico e a Leone venne in mente di proporgli di scrivere insieme la sceneggiatura, però tentennava perché non riteneva che il rinomato Vincenzoni, che l’anno prima era stato premiato col Nastro d’Argento per avere scritto “Sedotta e abbandonata” di Pietro Germi, potesse essere interessato al suo filmetto di serie B: si trattava di mondi diversi; ma come sappiamo Vincenzoni fu ben felice di essere coinvolto nella scrittura, del resto si era già coinvolto nella promozione del progetto, e co-scrisse il film facendo anche di più: si inventò il soggetto del successivo “Il buono, il brutto, il cattivo”; resta da considerare che Sergio Leone fu lungimirante e sanamente opportunista nel volerlo coinvolgere, in quanto essendo lo script-doctor già un uomo di notevole successo, aveva quelle giuste entrature nei “piani superiori” cui lui tanto ambiva ascendere.

A quel punto, avuti tutti i finanziamenti, bisognava ancora scrivere il film e l’autore non aveva ancora che poche idee confuse. Aveva già tenuto una riunione con i co-sceneggiatori del primo film, Duccio Tessari e Fernando Di Leo, con l’idea di rimettere nel titolo la parola dollari e di formare il cast sempre intorno alla coppia vincente Eastwood-Volonté. E ancora una volta Sergio Leone si spinse su un terreno accidentato poco praticato dagli americani nei loro western, immaginando di mettere al centro del nuovo film una figura moralmente controversa come il bounty-killer, letteralmente assassino dietro compenso, che noi traduciamo in cacciatore di taglie, come Leone spiegò: “Gli Americani hanno sempre dipinto il West in termini romantici, con cavalli che corrono al fischio del padrone. Non hanno mai trattato il West seriamente, come noi non abbiamo mai trattato l’antica Roma seriamente. Forse il più serio dibattito sull’argomento è stato fatto da Kubrick in ‘Spartacus’: gli altri film sono sempre stati favole di cartone. È stata questa superficialità che mi ha colpito e interessato.” Si delineò così la storia di un cacciatore di taglie all’inseguimento di un fuorilegge, ma poi per dare più dinamismo alla vicenda i bounty-killer divennero due, dapprima in concorrenza fra loro e, per differenziarli, al Clint Eastwood sempre abbigliato col poncho ne avrebbero contrapposto uno più anziano, e Leone pensava sempre a Henry Fonda che gli era rimasto sul gozzo. Nel frattempo Duccio Tessari si defilò dal progetto perché stava scrivendo e dirigendo ben due film con Giuliano Gemma (“Una pistola per Ringo” e “Il ritorno di Ringo”) e, come si dice a Roma, non sapeva più a chi dare i resti. Questo mentre lo stesso Sergio Leone, impegnato su più fronti nella ricerca dei finanziamenti si distraeva dalla scrittura; e Fernando Di Leo, che era rimasto solo davanti la macchina per scrivere, di sua iniziativa completò un trattamento coinvolgendo l’amico e collega Enzo Dell’Aquila col quale aveva scritto a quattro mani un film a episodi del quale avevano anche co-diretto un episodio debuttando nella regia, “Gli eroi di ieri… oggi… domani”, un filmetto che con quel titolo era voluto andare a strascico del successo di Vittorio De Sica “Ieri, oggi, domani” con Sophia Loren e Marcello Mastroianni: film che però rimase pressoché mai visto nelle sale. Di Leo e Dell’Aquila portarono orgogliosamente a Leone il loro trattamento intitolato “Il cacciatore di taglie” con la speranza di piacere ed entrare di diritto nel progetto, per far salire le loro personali quotazioni sulla scia dell’amico che si trovava un gradino più su nella scalata al successo internazionale. A questo punto le cose si fanno un po’ oscure: a Sergio Leone il trattamento piacque molto, ma consapevole che il successo non può avere molti padri, chiese ad Alberto Grimaldi di acquistare il trattamento con la clausola che i nomi dei due autori sparissero, e i due reietti pur di fare cassa accettarono l’amara condizione – che in certi ambienti e a certi livelli è prassi, e anzi furono fortunati perché furono pagati laddove è anche prassi rubare il lavoro altrui; e Leone, che già aveva nel suo carnet il plagio a Kurosawa – in buona o mala fede non è chiaro – stava seguendo la prassi dell’appropriazione indebita con la ferrea volontà di costruire il suo personale successo: siamo abituati a santificare coloro che hanno fatto grandi cose in vita – dimenticando però che sono stati comuni esseri umani pieni di contraddizioni e difetti come chiunque di noi.

Fernando Di Leo

Una digressione su Fernando Di Leo, sceneggiatore non accreditato per i primi due film della trilogia, che da gran signore, interrogato sul suo reale coinvolgimento nella scrittura di quei successi, dichiarerà in un’intervista: “Il genio viene dopo la fase di scrittura. A cambiare il cinema negli anni ’60 sono state due cose: il montaggio di Godard e i tempi di Leone.” Lui, nonostante le idee e le capacità non avrà le stesse opportunità e passerà dal genere noir ai poliziotteschi, fra i quali va ricordato “Milano calibro 9”, fino a finire nel filone erotico dirigendo quello che oggi è un cult su cui si abbatté una valanga di censure: “Avere vent’anni”. Di certo nella sua carriera non ha avuto fortuna se si pensa che ha addirittura scritto e diretto per la Rai una serie di sei puntate “L’assassino ha le ore contate” che inspiegabilmente non è mai stata trasmessa, nonostante l’impegno produttivo, neanche in tarda serata, e i nostri soldi del canone buttati via; non poteva essere peggio di tante cose che vanno in onda senza vergogna. Di lui rimangono anche due interessanti progetti incompiuti dai quali i produttori si sfilarono per il timore di confrontarsi con quei temi: “Il pederasta”, che sarebbe stato il primo film ad affrontare senza tabù e senza macchiette il tema dell’omosessualità maschile, era il 1972, del quale riuscì a girare una sola scena mentre in seguito alle proteste dei soliti benpensanti il titolo era stato cambiato nel più elusivo e infamante “Uno di quelli” finché la lavorazione fu definitivamente sospesa; un altro progetto era “Il dio Kurt” dall’opera teatrale di Alberto Moravia che trattava il mito di Edipo trasferito in un campo di concentramento, con Henry Fonda e Charlotte Rampling addirittura, film di cui non iniziarono neanche le riprese perché bloccato da produttori e distributori terrorizzati dal tema che trattava.

A quel punto il nostro mise mano alla sceneggiatura vera e propria coinvolgendo, come sappiamo, Vincenzoni, il cui apporto fu soprattutto immettere umorismo nella storia, un’ironia sempre al limite che però non diventa mai parodia – questa è la maestria – e che coinvolge i protagonisti a differenza di quanto accadeva nei classici western americani, dove gli eroi alla John Wayne sono sempre tutti d’un pezzo e la parte ironica, quando c’è, è lasciata a figurine di contorno, come il solito vecchietto con la voce chioccia. Ma anche se lavorò col suo solito impegno Vincenzoni si sentiva però un intruso, da un lato perché non credeva che quel genere di western all’italiana, che Leone stava ancora inconsapevolmente creando, potesse davvero avere un seguito, e dall’altro perché stava antipatico al produttore Grimaldi, produttore sulla carta che chiudeva un pacchetto composito, una specie di notaio insomma, mentre Vincenzoni vantava rapporti personali con i tycoon della United Artists: gelosia da provincialismo.

A seguire, negli anni, a bocce ferme come si dice, in tanti hanno rilasciato dichiarazioni e interviste: Tonino Valerii ha affermato di aver lavorato anche lui alla sceneggiatura e di aver creato lui la figura dell’antagonista, El Indio, e Vincenzoni non nega dicendo però di aver battezzato lui il personaggio: gelosie fra padrini. Lo sceneggiatore Sergio Donati, che già era stato chiamato da Leone alla scrittura del primo film che lui aveva rifiutato perché poco allettante, di nuovo viene chiamato a collaborare e, benché anche lui non accreditato, si attesta la creazione di diverse importanti scene, fra cui quella del treno che presenta il coprotagonista e il finale in cui si contano i cadaveri; continuerà a collaborare con Leone e il primo film in cui compare la sua firma accanto a quella di Sergio Leone è “Giù la testa”, ben quattro film dopo.

Era il momento di formare il cast. Ovviamente l’uomo senza nome che qui verrà indicato come Il Monco perché spara solo con la sinistra avendo la destra parzialmente inabile, era stato scritto per Clint Eastwood ma non era certo che l’attore accettasse anche perché nel frattempo era stato contattato dalla Jolly Film malamente abbandonata da Leone, che voleva rubare al regista il suo protagonista; ma quando l’attore seppe della rottura decise di stare dalla parte di Leone che ora aveva dalla sua anche la United Artists, e firmò un contratto di 50mila dollari dopo i soli 15mila del precedente film, oltre a una piccola percentuale sugli incassi e il biglietto aereo di prima classe mentre precedentemente aveva viaggiato in economica.

Per il ruolo dell’anziano cacciatore di taglie, il colonnello Douglas Mortimer, Leone ancora una volta aveva dovuto rinunciare a Henry Fonda, e allora contattò Charles Bronson, ma anche lui rifiutò la parte e Leone allora si rivolse a Lee Marvin, che si era messo in luce come Liberty Valance in “L’uomo che uccise Liberty Valance” di John Ford; e l’attore era ben disposto a prendere parte al progetto, però qualche giorno prima dell’inizio delle riprese firmò per recitare in “Cat Ballou” di Elliott Silverstein, film che gli fece vincere l’Oscar. Così, a pochi giorni dall’inizio delle riprese il colonnello Mortimer non aveva ancora un volto. Allora il nostro impavido autore fece i bagagli e partì per Los Angeles alla ricerca di un attore di cui possedeva solo una vecchia foto strappata dall’Academy Players, un annuario degli attori della Academy Pictures. A suo dire quello sconosciuto attore, che rispondeva al nome di Lee Van Cleef, assomigliava a un parrucchiere del Sud Italia, ma aveva anche un naso da falco e gli occhi di Van Gogh. “Calcolai che all’epoca della foto doveva avere circa quarant’anni, quindi ora doveva averne quarantotto, quarantanove o cinquanta – proprio l’età giusta per il colonnello. Quando arrivai a Hollywood sembrava che fosse completamente sparito. Finalmente, dopo aver corso in lungo e in largo, riuscimmo a trovare il suo agente di nome Sid. Questo agente mi disse che Lee Van Cleef non faceva più l’attore, che ora era un pittore, che era stato a lungo in ospedale perché aveva avuto un incidente frontale in un canyon a Beverly Hills. Aveva deciso di intraprendere una nuova professione… Ma io dissi: ‘Beh, devo vederlo a ogni costo perché, fisicamente, quando penso a questo personaggio, m’immagino lui’. E poche ore prima che il mio aereo partisse, Lee Van Cleef venne in questo piccolo albergo alla periferia di Los Angeles dove stavo io.”

Lee Van Cleef nel suo studio di pittura

Leone gli propose 10mila dollari di compenso e il biglietto per il prossimo aereo per l’Italia. Van Cleef accettò senza discutere, prendendosi però il tempo di completare un quadro che gli avevano commissionato. Per l’attore, dipendente da alcol e fumo, che per sua stessa ammissione faceva fatica a pagare anche la bolletta della luce, questo film fu una vera e propria ciambella di salvataggio; aveva interpretato decine di film, soprattutto western, anche grandi film come “Mezzogiorno di fuoco” di Fred Zinneman in cui aveva debuttato, o “Sfida all’O.K. Corral” di John Sturges, ma sempre in piccoli ruoli, spesso ucciso dal protagonista, e molto più spesso senza neanche una battuta. Leone gli fece leggere il copione durante il volo e Van Cleef notò che nella complessità della trama dove tutti tradiscono tutti e tutti hanno secondi fini, c’era qualcosa di shakespeariano, e questo inorgoglì ancora di più il nostro Leone. Una volta sul set, che era l’ennesima babele, ebbe qualche problema ad ambientarsi e Eastwood gli consigliò di andare vedere “Per un pugno di dollari” che era ancora nelle sale, e all’uscita del cinema convenne: “Adesso capisco cosa intendi. Il copione è importante ma decisamente secondario rispetto allo stile.” Per il resto, lui che aveva già abbandonato il cinema, per tutto il periodo delle riprese fu nella mani del regista “docile come un agnellino”, parole di Luciano Vincenzoni. E il 50enne Lee Van Cleef, all’anagrafe Clarence LeRoy Van Cleef Jr. che curiosamente aveva ascendenze olandesi come olandese era il pittore Van Gogh con cui Leone aveva trovato somiglianze, grazie a quel film assurse alla notorietà ed ebbe una vera carriera soprattutto in Italia, sua seconda patria artistica. Tranne poche occasionali cose non ha più girato in patria però dopo la sua morte, avvenuta a 64 anni per infarto ma era anche affetto da altre serie patologie, è diventato fonte di ispirazione grazie allo sdoganamento di Quentin Tarantino, cultore di un certo cinema trash nel quale inserire di diritto i nostri poliziotteschi e gli spaghetti-western. Nel film è doppiato da Emilio Cigoli.

Sin dall’inizio il ruolo del cattivo, El Indio, era stato pensato per Gian Maria Volonté, che forte del successo del primo film continua a esagerare non poco con la sua teatralità; ma d’altronde, Leone, che lo conosceva bene, lo assecondava e fa dire del suo personaggio che è un pazzo drogato per giustificare quella sua maschera sempre sopra le righe ma sempre efficace in quel contesto dove le inquadrature, i tempi della regia, l’indugiare sui primi piani, sono di per sé teatrali, da dramma shakespeariano come aveva notato Van Cleef. Per Volonté questo secondo film con Leone fu la loro ultima collaborazione dato che il cinema lo scoprì pienamente e lui si avviò verso tutt’altre interpretazioni, sempre drammatiche, politicamente impegnate come lo è stato lui nel Partito Comunista Italiano, e spesso biografiche: è stato Bartolomeo Vanzetti e Giordano Bruno per Giuliano Montaldo, Enrico Mattei, Lucky Luciano e Carlo Levi per Francesco Rosi, Aldo Moro per Giuseppe Ferrara, Michelangelo e Caravaggio in due serie tv, per dire solo i personaggi più noti. Questo è anche l’ultimo film dove viene doppiato, sempre da Nando Gazzolo, ché dal successivo film in poi reciterà, e di diritto, con la sua voce.

Mara Krupp

Nel resto del cast tornano gli amici Mario Brega, Benito Stefanelli e Edmondo Tieghi, ma ci sono delle interessanti new entries: il teatrale Luigi Pistilli che si avvierà a una brillante carriera ma qui è doppiato da Vittorio Sanipoli perché all’epoca anche se si era dei professionisti e si veniva dal palcoscenico, o forse soprattutto per quello data la diversa enfasi recitativa, si veniva sempre doppiati da professionisti del cinema e del microfono; e uno dei pochi che faceva bene tutto, teatro cinema doppiaggio e presto anche regia cinematografica, era Enrico Maria Salerno qui di nuovo voce di Clint Eastwood. Un’altra interessante presenza è il tedesco Klaus Kinski che quello stesso anno è anche nel cast del colossal “Il Dottor Zivago” e continuerà a lavorare molto in Italia come nel cinema internazionale. Dalla Germania torna il vecchietto Joseph Egger, sempre doppiato da Lauro Gazzolo, qui al suo ultimo film. Il caratterista napoletano Dante Maggio tratteggia il ruolo di un falegname mentre un’altra italiana dal nome teutonico, la caratterista Mara Krupp, è praticamente l’unica donna in un film decisamente al testosterone: c’è ma potrebbe anche non esserci per quanto il suo personaggio sia funzionale alla storia.

Lee Van Cleef con Klaus Kinski

A proposito di testosterone è molto divertente e riuscitissimo il duello fra i due bounty-killer a inizio film, quando ancora non si conoscono e si prendono le misure sparando l’uno al cappello dell’altro per farlo volare il più lontano: metafora del più prosaico e virile “facciamo a chi piscia più lontano”. Curioso è anche l’orologio da taschino con foto dell’amata all’interno del coperchio, gadget in dotazione a El Indio da cui suona un minaccioso carillon ogni volta che lo apre: è il tempo che dà al suo opponente prima di sparargli; è tecnicamente impossibile che un orologio da taschino possa contenere il marchingegno di un carillon, ma il cinema è anche questo, e soprattutto il cinema di Sergio Leone che in questo film sfoggia anche un wanted di El Indio con improbabile maschera ridanciana del pistolero criminale. Ma si tratta di maschere, appunto. In questa messa in scena mi sorprende negativamente la sciatteria, purtroppo molto diffusa all’epoca anche nei poliziotteschi e persino a Hollywood, con la quale il futuro maestro gira le sparatorie: se da un lato sono dinamiche e i mort’ammazzati saltano per aria e ruzzolano e cascano come birilli, dall’altro non si può fare a meno di notare che sui loro abiti non c’è un buco e neanche una macchia di sangue.

Di nuovo con le musiche di Ennio Morricone ancora una volta record di vendite di dischi, il film è un altro clamoroso successo dove non è più necessario nascondersi dietro fittizi nomi americaneggianti: fu il più visto in quella stagione cinematografica e ad oggi detiene il quinto posto nella classifica dei film italiani più visti di sempre.

Per un pugno di dollari

“Quando cominciai il mio primo western dovetti trovare in me stesso una ragione psicologica, perché non avevo mai vissuto in quel tipo di ambiente. E un pensiero mi venne spontaneo: era come se fossi il burattinaio dei pupi siciliani; i loro spettacoli erano leggendari ma anche storici. Tuttavia l’abilità del burattinaio consisteva in una cosa: dare a ciascun personaggio una connotazione ulteriore relativa al paese specifico che i “pupi” stavano visitando. Come cineasta il mio compito era quello di creare una favola per adulti, una fiaba per ragazzi cresciuti; e il mio rapporto col cinema era quello di un burattinaio con i suoi burattini.”

“Da parte dei produttori c’era la ferma sicurezza che sarebbe stato un disastro economico, però con un guadagno in partenza, perché io per farlo dovetti andare a trovare un coproduttore tedesco (la Constantin Film), un coproduttore spagnolo (la Ocean Film), e naturalmente un partecipante italiano. Il preventivo era di 80 milioni circa. Così andai da Constantin in Germania e ci fu subito l’accordo concreto di una cifra, e poi trovammo il coproduttore spagnolo. Io decisi di prendere la metà del mio cachet e di avere però la partecipazione. Dato che loro credevano che di utili non ce ne sarebbero stati, furono ben felici di darmi questa possibilità. Il film veniva girato gratis in partenza.”

1964. Il 35enne Sergio Leone aveva debuttato l’anno prima con un film tutto suo, il peplum “Il colosso di Rodi” dopo una già intensa carriera come assistente alla regia e regista di seconde unità in importanti film hollywoodiani girati a Cinecittà: basti pensare che aveva diretto lui la famosa battaglia delle quadrighe di “Ben-Hur” di William Wyler e sempre lui, co-sceneggiatore e aiuto regista, aveva concluso il film “Gli ultimi giorni di Pompei” che il regista Mario Bonnard aveva abbandonato per correre a dirigere Alberto Sordi in “Gastone”, ma ufficialmente ritiratosi per ragioni di salute.

Insomma, Sergio Leone non si ferma un attimo e pensa a un film tutto suo già da una decina d’anni; per il suo debutto aveva scritto la sceneggiatura “Viale Glorioso”, che a Roma è un luogo simbolo della sua infanzia e della sua giovinezza nel quartiere Monteverde, ma poi vi aveva rinunciato perché Federico Fellini era uscito con “I vitelloni”, film che in qualche modo ricalcava lo stesso spirito della sua storia, e fa riflettere che due registi tanto diversi abbiano pensato a inizio carriera una storia con le stesse atmosfere: un gruppo di giovani che oziosamente riflette sul senso della vita. Di fatto, i produttori di “Gli ultimi giorni di Pompei” soddisfatti dell’aiuto regista che aveva salvato il film, si mettono a disposizione per produrgli la sua opera prima, un altro peplum a basso costo, e Leone, che si era già divertito a scrivere una sceneggiatura come sorta di rivisitazione del genere ma in chiave ironica, propose “Il colosso di Rodi”: il film si fece, l’autore smussò però la parte ironica e mostrò grande talento nel filmare e firmare uno pseudo-colossal girato con un budget ridotto e molta inventiva.

Ricordiamo che in quei primi anni ’60 stava scemando l’interesse per i peplum – che gli americani chiamavano sword-and-sandals e Leone più prosaicamente sandaloni – e gli stessi western che in Europa, Italia e Spagna soprattutto ma anche Germania, si giravano a basso costo fingendo che fossero americani. Preso in quella scia Sergio Leone stava già lavorando alla sceneggiatura del suo terzo film del genere, “Le aquile di Roma” una specie di “I sette samurai” (1954) di Akira Kurosawa ma in sandaloni, film che aveva già avuto un recentissimo remake americano con “I magnifici sette” (1960) di John Sturges. Insomma, nulla si inventa e tutto si ricicla, e se poi il riciclo diventerà a sua volta un capolavoro dipenderà dal reale talento dell’autore. Ma in quel frangente Leone fu distratto da un altro impegno: gli era stata commissionata la sceneggiatura di un western per un regista spagnolo che poi rigettò il suo lavoro; ma al nostro autore era però rimasta in testa l’idea del western, idea che accarezzava da molto pur essendogli venuti a noia le dinamiche e i luoghi comuni di quel genere classico americano; e da innovatore, così come aveva tentato di innovare il peplum senza riuscirci, pensò di cimentarsi con una sua personalissima visione del western all’italiana o spaghetti-western, termine coniato dagli americani per definire i western girati da noi a basso costo, inizialmente col senso spregiativo che proveniva da mangia-spaghetti, definizione che recentemente anche Putin ha inopinatamente rispolverato.

Vale la pena riferire, per chi lo volesse cercare, che il primo western italiano fu “Una signora dell’ovest” del 1942 diretto dal tedesco italianizzato Carl Koch, regista su cui va spesa qualche parola: fu assistente del francese Jean Renoir che nel 1936 lo aiutò ad espatriare insieme alla moglie regista animatrice; a ridosso dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939, Renoir col suo assistente Koch iniziarono a lavorare a Roma a un adattamento cinematografico del dramma in cinque atti fine ‘800 “La Tosca” di Victorien Sardou di cui nel 1900 Giacomo Puccini compose l’opera lirica su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa; film che era stato voluto da Mussolini e caldeggiato dal governo francese per mantenere buoni rapporti con l’Italia onde evitare che entrasse in guerra al fianco della Germania, ma come sappiamo così non fu e dopo appena quattro giorni di riprese l’Italia entrò in guerra contro la Francia e Jean Renoir rientrò precipitosamente in patria lasciando il film in mano al suo secondo, il quale essendo tedesco non aveva problemi logistici, semmai ideologici, ma il lavoro è lavoro, gli venne italianizzato il nome in Carlo Koch e portò a compimento il film, successo al botteghino, avendo come assistente un promettente giovane, Luchino Visconti.

Torniamo a Sergio Leone. Era andato con la moglie al cinema Arlecchino – nomen omen! – a vedere “La sfida del samurai” (Yojimbo) sempre di Akira Kurosawa che a sua volta si era ispirato a un racconto dell’americano Dashiell Hammett, e ne fu folgorato: gli venne l’idea di fare il western che aveva sempre sognato. Si mise subito al lavoro e in breve completò la sceneggiatura insieme ai registi Fernando Di Leo e Duccio Tessari, ricalcando quasi pedissequamente il film del regista giapponese, fatto che diverrà una querelle giudiziaria. Il ronin giapponese diventa per Leone l’Uomo Senza Nome, un pistolero che, mostrate le sue capacità, rinfodera le armi e si mette al servizio di due famiglie rivali che con astuzia conduce allo scontro e all’annientamento reciproco. E Leone, dichiaratamente, si ispira proprio alle maschere di Goldoni benché nel prodotto finale è una finezza che il grosso del pubblico non coglie, un punto di vista che gli fa usare la macchina da presa per indagare gli sguardi dei protagonisti nei primissimi piani, le maschere che esprimono pensieri e sentimenti al di là delle parole che spesso diventano superflue.

Un’interessante intervista di Sergio Leone nonostante la piattezza dell’intervistatore Giuseppe Cereda

In seguito Leone racconterà (in questa intervista e altrove) che il ruolo del protagonista lo aveva scritto ispirandosi a un attore televisivo americano protagonista della serie “Gli uomini della prateria”, Clint Eastwood, ma in realtà lui aveva pensato in prima istanza a uno dei due giovani attori che si erano messi in luce in “I magnifici sette”, James Coburn o Charles Bronson; ma la produzione sparagnina gli negò una di quelle nuove star che ora avevano un ingaggio da 25mila dollari e le attenzioni si puntarono sulla star televisiva che si accontentava di 15mila. A dirla tutta i produttori avevano prima proposto Richard Harrison, cachet da 20mila dollari, che in Italia aveva già girato due peplum ma a Sergio Leone l’attore non piaceva, lui che inizialmente aveva puntato nientemeno che a Henry Fonda, tanto da mandare il copione al manager che neanche lo mostrò all’attore scrivendo nella cortese risposta: “Una cosa del genere non l’avrebbe mai fatta”; ma solo pochi anni dopo Fonda lavorò con Leone, che nel frattempo era diventato a sua volta una star, in “C’era una volta il West”. Leone aveva anche preso in considerazione Cliff Robertson ma non ci pensò più quando seppe che sarebbe costato come l’intero film. Così fra rifiuti e costi troppo alti non c’era ancora il protagonista. Si fece avanti un dipendente dell’agenzia William Morris di Roma con la copia di una puntata della serie “Gli uomini della prateria” nella quale recitava, a suo dire: “un attore giovane e allampanato, che poteva forse interessare Leone.” Ma Leone era ancora riluttante e fu spinto alla scelta dalla necessità di cominciare le riprese e dal costo contenuto dell’attore.

I cinque che non furono: Charles Bronson, James Coburn, Richard Harrison, Henry Fonda e Cliff Robertson

Solo dopo il regista dirà in un’intervista americana quello che parzialmente ripeterà nell’intervista Rai: “Ciò che più di ogni altra cosa mi affascinò di Clint, era il modo in cui appariva e la sua indole. Nell’episodio ‘Incident of the Black Sheep’ Clint non parlava molto… ma io notai il modo pigro e rilassato con cui arrivava e, senza sforzo, rubava a Eric Fleming tutte le scene. Quello che traspariva così chiaramente era la sua ‘pigrizia’. Quando lavoravamo insieme lui era come un serpente che passava tutto il tempo a schiacciare pisolini venti metri più in là, avvolto nelle sue spire, addormentato nel retro della macchina. Poi si srotolava, si stirava, si allungava… L’essenza del contrasto che lui era in grado di creare nasceva dalla somma di questo elemento con l’esplosione e la velocità dei colpi di pistola. Così ci costruimmo sopra tutto il suo personaggio, via via che si andava avanti, anche dal punto di vista fisico, facendogli crescere la barba e mettendogli in bocca il cigarillo che in realtà non fumava mai. Quando gli fu offerto il secondo film, ‘Per qualche dollaro in più’, mi disse: ‘Leggerò il copione, verrò a fare il film, ma per favore ti imploro solo una cosa: non mi rimettere in bocca quel sigaro!’ E io gli risposi: ‘Clint, non possiamo tagliare fuori il sigaro. È il protagonista!‘ e la mitizzazione dei fatti è talmente accattivante che verrà ripetuta come una lezione imparata a memoria.

Ma Clint Eastwood che ne pensava? Lui aveva ricevuto la sceneggiatura di “The magnificent stranger”, una produzione italo-ispano-tedesca, e ovviamente non sapeva niente di Leone ma conosceva gli spaghetti-western e riteneva che nessun europeo potesse essere in grado di girare un western: come dargli torto? cosa avremmo pensato noi di un americano che avesse voluto girare un film neorealista? Però, benché tradotta in uno scadente inglese, fu incuriosito dalla sceneggiatura che si ispirava al film del regista giapponese, al cui precedente film si era già ispirato il successone “I magnifici sette” che gli aveva fatto gola.

Clint nella serie tv CBS

L’offerta era pure allettante: la produzione garantiva il viaggio in Europa anche alla moglie, e l’eventuale insuccesso commerciale non gli avrebbe nuociuto perché nessuno avrebbe visto in patria quello strano western il cui protagonista era sì il classico pistolero ma era anche un furbo manipolatore, oltre che un vagabondo sui generis e dunque un personaggio troppo fuori dagli schemi dei classici western per poter essere apprezzato sul mercato americano; dovette solo questionare con la produzione della serie che non voleva lasciarlo andare, ma garantì che a fine riprese sarebbe tornato a girare per la tv e si accordarono; e quando più avanti la rivista Variety riportò lo straordinario successo di quello spaghetti-western lui quasi non ci fece caso, anche perché non conosceva il titolo finale del film; solo quando gli arrivò una lettera dalla produzione per la proposta di un secondo film si rese conto del valore dell’impresa, dato che gli si spiegava che nel box office italiano, il “suo” era il secondo incasso dopo un film col divo Marcello Mastroianni (“Matrimonio all’italiana”) e fece i bagagli in quattro e quattr’otto.

Per cominciare a lavorare alla sceneggiatura, Leone si era procurato una traduzione del copione del film giapponese con l’intento di evitare, racconterà in seguito, che il suo scritto fosse una copia conforme: “Mi feci fare una traduzione del copione solo per essere sicuro di non ripeterne nemmeno una parola. Tutto ciò che volli mantenere fu la struttura di base del film di Kurosawa. Concepii l’intero trattamento in cinque giorni con Duccio Tessari. Il titolo provvisorio era ‘Il magnifico straniero’. Tessari non capiva bene cosa stavo facendo. Fece girare per Roma la voce che ero diventato un po’ strano. Poi scrissi l’adattamento, da solo, in una quindicina di giorni.” Ma il suo amico e aiuto Sergio Corbucci lo smentirà dicendo che Leone aveva copiato il film di Kurosawa per filo e per segno cambiando solo ambientazione e dialoghi. Posizione confermata da Fernando Di Leo, co-sceneggiatore con Duccio Tessari: “Non so chi disse a Leone — o meglio come si sparse la voce — che Yojimbo aveva stilemi western, sicché quando Sergio ci convocò, Tessari e me, si pensò a come fare la trasposizione. Tessari era per dare una robusta vena d’ironia alla storia, io per differenziarci, Leone era decisamente per il plagio: staccarsi di quel tanto che la diversità del genere comportava. Più io che Duccio lavorai in ‘direzione plagio’ e Sergio ebbe il copione che voleva. Va detto che l’originalità di Leone fu nel modo di ‘girare’, della storia s’era proprio invaghito.”

Ma veniamo alla questione legale. Durante la lavorazione del film dalla produzione arrivò la direttiva che chiunque fosse impegnato sul set doveva “astenersi in ogni circostanza dal menzionare la parola Yojimbo.” Cos’era successo? anzi, con non era successo? i diritti del film giapponese non erano ancora stati pagati e lo stesso Eastwood ha poi ricordato che la produzione aveva assicurato che si trattava di una mera questione burocratica che si sarebbe risolta a breve; ma così non fu perché quando il film venne distribuito nelle sale, l’italiana la Jolly Film non aveva ancora pagato i 10mila dollari di diritti alla giapponese Toho Film. Akira Kurosawa intentò causa e nella produzione italiana nessuno volle prendersi la responsabilità: Leone disse che i produttori erano troppo taccagni per pagare il dovuto, e gli fu risposto che lui non aveva avvertito che ci fossero degli oneri da pagare; poi fu sostenuto che la Jolly avesse contattato la Toho senza però ricevere risposta; ma ci fu anche chi sostenne che i produttori volessero incastrare l’autore: “Fece vedere loro ‘La sfida del samurai’ e disse: ‘Se riuscite a ottenere i diritti per un remake, io farò il film’. Beh, loro gli dissero che avevano preso i diritti, ma in realtà non era vero. E lui andò avanti e fece ‘Per un pugno di dollari’. E partì una causa con Kurosawa, che aveva ragione.” Fu così che Sergio Leone ricevette una lettera direttamente da Akira Kurosawa che rivendicava i diritti del film, e l’azione legale ebbe inizio.

A questo punto entrarono in gioco le sottigliezze legali che ben si sposavano con il genio italico sempre incline all’inganno e al raggiro, come il personaggio che avrebbero scelto per difendersi in tribunale. Gli avvocati della Jolly ritennero che la miglior difesa fosse l’attacco e il futuro regista Tonino Valerii, assistente alla regia non accreditato, fu incaricato di cercare una qualsiasi opera antecedente a “Yojimbo” con la quale poter sostenere che anche Kurosawa avesse copiato. Valerii buttò lì una proposta: l’opera di Carlo Goldoni “Arlecchino servitore di due padroni” che presentava, secondo lui, diverse analogie con il film di Kurosawa: “Gli avvocati consigliarono di sostenere che l’eroe doppiogiochista era ispirato a un personaggio di qualche opera letteraria occidentale e che quindi eventualmente il plagiario era Kurosawa. Io fui incaricato di trovare quest’opera. Mi capitò sotto gli occhi l’annuncio di una rappresentazione della commedia di Goldoni. Telefonai a un amico, fortunato proprietario del ‘Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi‘ e gli chiesi di leggermi la trama. Lo stesso pomeriggio portai l’idea in produzione con una punta di vergogna per l’irriverenza dell’accostamento. Fu riferita agli avvocati che ne furono entusiasti. Ebbi trecentomila lire in premio. Fu così che Goldoni divenne l’ispiratore del western all’italiana.” Questa controffensiva modificò leggermente la questione legale e i giapponesi si resero più inclini a un patteggiamento. Kurosawa e il suo co-autore Kikushima sarebbero stati risarciti col totale dei proventi dei diritti di distribuzione del film in Giappone, Taiwan, e Corea del Sud, più il 15% degli incassi di tutto il mondo. Leone rimase molto contrariato, poiché mai pensava che la questione sarebbe finita in tribunale: “Kurosawa aveva tutte le ragioni per fare ciò che ha fatto. È un uomo d’affari e ha fatto più soldi con questa operazione che con tutti i suoi film messi insieme. Lo ammiro molto come regista.” L’intera causa andò avanti per dieci anni e Sergio Leone perse tutta la sua percentuale sui diritti del film per pagare le parcelle dei suoi avvocati, ma imparò la lezione e da quel momento in poi decise che avrebbe prodotto da sé i suoi film.

Il successo ha molti padri. L’iconico personaggio senza nome si presenta con un look che rinnova quello classico del pistolero, a cominciare dal poncho che era noto da noi per essere stato indossato da Giuseppe Garibaldi di ritorno dal Sud America, ma che il personaggio di Leone-Eastwood, mantenuto per tutta la trilogia del dollaro, aveva rinnovato nell’immaginario e nella moda nostrana dove il poncio era indossato soprattutto dagli alternativi e dagli hippy, i figli dei fiori nostrani, ma c’era pure chi se lo faceva all’uncinetto. Leone ha affermato che furono sue le idee per acconciare il personaggio: “Gli diedi un poncho per ingrossarlo. E un cappello. Nessun problema. Presi una di quelle foto in bianco e nero che mi avevano fornito e aggiunsi a penna una barba, un sigaro toscano e un poncho.” Diversamente Clint Eastwood ha ricordato: “Andai in un magazzino di costumi sul Santa Monica Boulevard, e mi limitai ad acquistare il costume e portarlo là. Era molto difficile, perché in un film hai sempre due o tre cappelli dello stesso tipo, due o tre giacche uguali, nel caso si perda un accessorio del costume, o se qualcosa si bagna o tu ti devi bagnare. Ma per questo film avevo solo uno di tutto: un cappello, una specie di abito di montone, un poncho, e diverse paia di calzoni che erano semplicemente jeans tipo Frisco. Se avessi perso qualcosa a metà film sarei stato veramente nei guai.”

Volonté e Eastwood
Mimmo Palmara

Per il secondo ruolo, quello del vilain Ramón Rojo, fu scritturato Gian Maria Volonté che il regista già apprezzava, benché pare che la parte fosse stata scritta con e per l’amico Mimmo Palmara, già nel cast di “Il colosso di Rodi” che però non prese parte al progetto perché al momento era solo una produzione di riserva della Jolly Film la cui produzione principale era “Le pistole non discutono” a cui Palmara scelse di partecipare: un film che oggi non ricorda più nessuno; e Leone per girare il suo film a basso costo dovette accontentarsi di riciclare location, costumi, troupe e anche parte di attori e figuranti del film principale. Il resto del cast è equamente distribuito fra le tre nazioni che producono: per l’Italia ci sono anche i caratteristi Mario Brega, che da qui in poi sarà in tutti i film di Leone, Benito Stefanelli, anche stuntman prenderà parte a tutta la trilogia del dollaro perché parlando molto bene l’inglese sui set sarà l’interprete di Clint Eastwood; Bruno Carotenuto, figlio del più celebre Memmo; Edmondo Tieghi al suo debutto cinematografico.

José Calvo con Eastwood

Per la Spagna il volto noto José Calvo, che come tenutario del saloon nonché “guida turistica per stranieri” ha il ruolo più importante dopo Eastwood e Volonté; Antonio Prieto, anche lui popolarissimo in Spagna pure come cantante; Margarita Lozano al suo primo western, continuerà a lavorare molto in Italia fino in età matura; il belloccio baffuto Daniel Martìn rifà lo stesso ruolo di tanti western spagnoli.

Eastwood con Joseph Egger

Per la Germania: Marianne Koch (nessuna parentela col regista Carl Koch sopra citato) che all’epoca era molto nota in patria tanto da meritarsi il secondo nome nei titoli, ma questo resterà il suo film più importante; Wolfgang Lukschy noto in Germania per essere il doppiatore di John Wayne e Gary Cooper nei western doc; Sieghardt Rupp, già interprete dei western tedeschi; il vecchio Joseph Egger è doppiato da Lauro Gazzolo che fu la voce chioccia di tanti vecchietti del west. E restando sul parlato c’è da dire che il film fu girato senza traccia sonora, praticamente muto, e sul set ognuno parlava la sua lingua in una sorta di babele cui fu data forma al doppiaggio. Clint Eastwood, che nella versione americana si doppiò da sé, fu doppiato da Enrico Mario Salerno, mentre Volonté fu doppiato da Nando Gazzolo figlio di Lauro. Altri doppiatori di rango: Anna Miserocchi per la Lozano, Rita Savagnone per la Koch, Sergio Graziani per Stefanelli, Mario Pisu per Prieto, i fratelli Luigi e Nino Pavese (padre della doppiatrice Paila Pavese) per Calvo e Martìn.

Per la colonna sonora Leone aveva pensato di affidarsi ad Angelo Francesco Lavagnino già compositore della musica per “Il colosso di Rodi” ma la produzione aveva sotto contratto un certo Ennio Morricone che aveva appena musicato il primo western della Jolly Film, “Duello nel Texas”, e benché restio l’autore andò a trovare il musicista a casa, scoprendo che erano stati compagni di scuola alle elementari: il resto è storia, anche se sulle prime ci furono delle frizioni perché Leone chiese a Morricone di ispirarsi al russo Dimitri Tiomkin che aveva musicato “La battaglia di Alamo” film d’esordio da regista di John Wayne, ma il musicista non aveva nessuna intenzione di copiare, anche per una questione di professionalità: “Mi toccò dire a Sergio: ‘Guarda, se vuoi mettere nel film quel lamento, io non voglio averci niente a che fare’. Allora lui mi disse: ‘Okay, tu componi la musica ma fallo in modo che una parte della partitura suoni come il deguello‘. Anche questa soluzione non la vedevo di buon occhio, così presi un mio vecchio tema, una ninna nanna che avevo scritto per un amico, per una versione teatrale di tre drammi di mare di Eugene O’Neill. La ninna nanna era cantata da una delle Peter Sisters… Ciò che lo faceva somigliare era l’esecuzione, con una tromba suonata un po’ alla zingara.” Terminata la composizione delle musiche per le scene principali, Leone pretese un altro pezzo che accompagnasse l’intero film e Morricone gli propose un altro suo vecchio tema musicale, un brano folk americano ispirato a Woody Guthrie in cui voleva far percepire la solitudine e la nostalgia e al primo ascolto del pezzo il regista ne rimase affascinato e disse al compositore: “Hai fatto il film. Vattene in spiaggia. Il tuo lavoro è finito. È questo che voglio. Ora devi solo procurarti qualcuno che sappia fischiare”. E Morricone contattò il maestro Alessandro Alessandroni, abile col fischio tanto da saperlo rendere un vero e proprio strumento – roba che oggi si farebbe solo in digitale; e degna di nota era anche l’armonica a bocca suonata da Franco De Gemini. Questa colonna sonora fu per Morricone il primo successo internazionale con grande vendita di dischi ma lui la ricordò come la peggior colonna sonora che avesse mai scritto per il peggior film di Sergio Leone. Vinse ai Nastri d’Argento mentre Volonté fu candidato come miglior non protagonista.

Nei titoli di testa Sergio Leone si firma come Bob Robertson in omaggio al padre Vincenzo Leone che come attore aveva usato il nome d’arte Roberto Roberti. Ennio Morricone è Leo Nichols e Volonté è John Wells. Fra le altre curiosità: Clint Eastwood ha successivamente affermato che Leone non sapeva nulla del West, e che molte delle sue innovazioni erano dovute proprio all’ignoranza del regista circa le norme vigenti a Hollywood, a cominciare dalle regole del Codice Hays, secondo il quale quando avveniva uno sparo, l’arma e il personaggio ucciso non potevano trovarsi nello stesso fotogramma: “Dovevi girare la scena separatamente, e poi far vedere la persona che cadeva. Si era sempre pensato che fosse un po’ stupido, ma in televisione facevamo sempre in quel modo… Sergio non ne sapeva niente, e quindi metteva tutto insieme… Si vede la pallottola che parte, si vede la pistola che fa fuoco, si vede il tizio che cade, e non era mai stato così prima.” Fra le innovazioni di Leone c’è il frequente uso di primi piani, dettaglio che divenne un suo marchio di fabbrica e per il quale divenne famoso in tutto il mondo; Secondo Leone, gli occhi “rivelavano tutto quello che c’è da sapere sul personaggio: coraggio, paura, incertezza, morte, eccetera.” Mentre Eastwood rifletteva: “Leone credeva, come Fellini, e come molti registi italiani, che la faccia significasse tutto. In molti casi è meglio avere una gran bella faccia piuttosto che un gran bravo attore.”

Negli Stati Uniti il film uscì tre anni dopo, nel 1967, dopo che si furono appianate le questioni legali; e per il passaggio in tv avvenuto nel 1975 ci fu qualche problema di ordine morale nonostante il Codice Hays fosse decaduto: le azioni del protagonista furono ritenute perverse e immotivate e perciò venne girato un prologo trasmesso prima dei titoli di testa, diretto da Monte Hellman, anche lui autore di western atipici, in cui il personaggio di Eastwood, interpretato da un ignoto attore più basso e con un poncho diverso, insieme a primissimi piani riciclati da altre scene del film, si trova in un carcere statunitense; viene portato dal Direttore, Harry Dean Stanton, il quale gli dice che sarà lasciato libero solo se riporterà la pace nel paese di San Miguel entro sessanta giorni, altrimenti verrà ricercato come qualunque altro prigioniero evaso. Lo informa della situazione tra i Rojo e i Baxter e lo avvisa che non potrà contare su aiuti militari o indigeni, in quanto anche queste fazioni commerciano con i banditi, per poi lasciarlo andare in groppa a un cavallo, anziché di un mulo come Leone fa arrivare l’Uomo Senza Nome a San Miguel. La curiosa scena è oggi disponibile come contenuto extra nell’Edizione Speciale in DVD e Blu-ray disc per il mercato statunitense, insieme a un’intervista al regista sulla sua realizzazione. Noi ce ne faremo una ragione.

Metti, una sera a cena – per ricordare Lino Capolicchio

La scorsa settimana se n’è andato dopo una lunga malattia anche Lino Capolicchio che nella memoria collettiva cinematografica di chi ha superato gli anta è l’eterno attor giovane imbronciato in cui si sono immedesimati quelli che oggi vengono definiti nerd e che, volente o nolente, è diventato anche oggetto di una discreta fantasia omoerotica, discreta come discreto e schivo è stato lui, attore protagonista di film importanti ma sempre ai margini, più prossimo alla fuga dietro le quinte che al centro della scena. A innestare su di lui un fascino ambiguo è certamente questo film dove interpreta un sedicente contestatore, un po’ rivoluzionario e un po’ marchetta, e lo stare quasi sempre nudo avvolto fra le lenzuola sembra essere la sua condizione più naturale mentre ospita nel suo letto sia donne che uomini.

Nato in provincia di Bolzano cresce a Torino dove comincia a frequentare il palcoscenico con Massimo Scaglione, e appurata la sua passione si trasferisce a Roma dove frequenta l’Accademia Silvio D’Amico, e subito dopo è a Milano dove lavora con Giorgio Strehler al Piccolo; ottenendo un personale successo di pubblico e critica ottiene un ruolo nello sceneggiato Rai “Il Conte di Montecristo” e poi nel fatidico 1968 è protagonista del film arrabbiato opera prima di Roberto Faenza “Escalation” che volendo essere un’allegoria della società risulta però soltanto un pasticcio grottesco, ma per Lino è soltanto l’inizio di una carriera del cui andamento però, quando tirerà le somme, dirà che non è andata come voleva. Senza considerare un piccolissimo ruolo non accreditato in “La bisbetica domata” di Franco Zeffirelli, “Metti, una sera a cena” è il suo terzo film, sempre da protagonista; ed è dell’anno dopo “Il giardino dei Finzi Contini” di Vittorio De Sica che vincerà l’Oscar come miglior film straniero.

A tal proposito una curiosità commerciale: il film di De Sica era nel pacchetto Sky Cinema – pacchetto a pagamento, per chi non conosce quel piano commerciale, dove sono visibili centinaia di film senza costo aggiuntivo; dalla morte di Capolicchio, con l’improvvisa impennata dei download, il titolo è passato a pagamento nel pacchetto Sky Primafila che, come suggerisce il nome, contiene i titoli appena dismessi dalle sale, una sorta di prima visione casalinga: nello specifico una pratica commerciale scorretta che Sky ha voluto offrire ai suoi abbonati.

Dopo l’ambiguo Ric di “Metti, una sera a cena” e la bella parentesi del film di De Sica, Lino gira una serie di film a sfondo sexy-perverso – sono gli anni della liberazione sessuale e il cinema cavalca l’onda – fino al successivo incontro fatale con Pupi Avati nel 1976 con “La casa dalle finestre che ridono” ed è l’inizio di un proficuo sodalizio. Come dirà in un’intervista, Avati come Strehler hanno rappresentato per lui la figura paterna che gli era mancata nell’infanzia. Il suo ultimo film è “Il signor diavolo” di Pupi Avati, del 2019.

Il film è la trasposizione a tambur battente della commedia che ha avuto un clamoroso successo al Teatro Eliseo di Roma dove è stata replicata per ben due anni dalla Compagnia dei Giovani con regia di Giorgio De Lullo e interpretata da Romolo Valli, Rossella Falk, Carlo Giuffrè, Elsa Albani e Umberto Orsini. La commedia conclude una trilogia scritta per quella compagnia e iniziata con “D’amore si muore”, 1958, messa in film nel 1972 con la regia, l’unica, di Carlo Carunchio, già assistente di Patroni Griffi; proseguita con “Anima nera”, 1960, messa in film nel ’62 da Roberto Rossellini; e conclusa appunto con “Metti, una sera a cena” che lo stesso autore dirigerà per lo schermo. Una trilogia che mette in scena i complicati rapporti sentimentali all’interno di coppie, scoppiate o allargate o che diventano triplette e dove si moltiplicano nel numero chiuso tutte le varianti possibili scavalcando i generi e il tanto decantato comune senso del pudore: i suoi protagonisti sono tutti spudorati e cinici, e coltivano l’amoralità come unica via possibile di espressione sentimentale e sessuale.

Il gioco delle parti che mette in scena Giuseppe Patroni Griffi è quello che si svolge all’interno di una società alto borghese, la stessa da cui lui proviene con ascendenze nobili in decadimento; i suoi protagonisti sono quelli del suo stesso mondo, attori scrittori commediografi spesso con latenze omosessuali o messi a confronto con l’omosessuale di turno, dove l’omosessualità – quella dichiarata dell’autore – diventa l’unica chiave di lettura di una società in cui gli eterosessuali – in una diffusa quanto errata visione omocentrica – non sono altro che froci latenti che aspettano di essere liberati alla gaiezza della vita, anzi no perché la vita è sempre cupa amara contorta perversa e non c’è salvezza per nessuno.

Ho qui a lungo precedentemente parlato di Pier Paolo Pasolini, omosessuale nevrotico e introverso che è stato costretto a esibire le sue pulsioni nelle aule dei tribunali e nei processi pubblici perché ahilui amava scandalizzare i minorenni, e che ha reagito facendo dell’omosessualità un manifesto politico. Patroni Griffi è invece un omosessuale di un’altra specie più diffusa, quella apparentemente pacificata con se stessa, ma che in realtà volendo omosessualizzare il mondo intero dichiara – ancora una volta – il proprio senso di inadeguatezza, di incapacità a gestire serenamente la propria omosessualità sempre vissuta come diversità, il cui senso sarebbe: se anche gli etero sono un po’ gay siamo tutti un po’ più uguali…

Dal punto di vista drammaturgico la cosa funziona perché spesso il teatro e il cinema sintetizzano e a volte anticipano ciò che sta per accadere nella vita reale: alla fine degli anni ’60 la borghesia coi suoi riti è al collasso e le perversioni di Patroni Griffi diventano parabole sociali, oltre a essere appetibili esercizi di stile per attori in carriera in cerca di novità. L’autore ha debuttato come regista cinematografico nel 1962 con “Il mare” dove racconta di un attore in vacanza, Umberto Orsini, indeciso fra una seducente donna e un seduttivo giovanotto. Messo da parte Orsini che interpreta lo scandaloso Ric nella messa in scena teatrale ma che non è e mai sarà un divo cinematografico, mette insieme con i produttori un cast internazionale per la sceneggiatura scritta col suo aiuto Carlo Carunchio e soprattutto col giovane Dario Argento che l’anno dopo avrebbe esordito come regista con “L’uccello dalle piume di cristallo”; la sceneggiatura a sei mani dà respiro alla scrittura teatrale con scene in esterni pensate come flash-back che col creativo montaggio di Franco Arcalli conferiscono al film una marcia in più e un ritmo assai intrigante.

Producono Giovanni Bertolucci, cugino dei fratelli registi Bernardo e Giuseppe, e soprattutto Marina Cicogna (Mozzoni Volpi di Misurata) figlia di un conte e di una contessa che in quegli anni è attivissima come lesbica dichiarata nella dolce vita romana, la quale durante un viaggio è stata folgorata dalla bellezza androgina di una hostess brasiliana, Florinda Bolkan, e se la porta in vacanza a Ischia: è l’inizio di un sodalizio umano e professionale che durerà più di vent’anni. Introduce la ragazza nel jet set artistico intellettuale della capitale e Florinda, che oltre al portoghese natio parla inglese francese e italiano, è già pronta per il gran salto artistico e gira tre film, uno dei quali è prodotto da Bino Cicogna, fratello di Marina, poco prima che fratello e sorella fondassero insieme la Euro International Film con la quale distribuirono questo “Metti, una sera a cena”.

Florinda Bolkan si rivela all’altezza delle aspettative con vere doti attoriali tanto da vincere con questa interpretazione la Grolla d’Oro come migliore attrice esordiente (si sono dimenticati gli altri tre film), una Targa d’Oro ai David di Donatello, e altri premi vincerà con altre interpretazioni; qui è doppiata da Livia Giampalmo. Immediatamente, dato il successo del film e della colonna sonora di Ennio Morricone che vinse il Nastro d’Argento, incise una canzone con le parole scritte da Patroni Griffi. E per non farsi mancare niente recitò il suo ruolo anche in una riedizione teatrale con regia di Aldo Terlizzi e nel cast Michele Placido, Remo Girone, Fiorenza Marchegiani e Fabrizio Bentivoglio; e a seguire Patroni Griffi la diresse in un’edizione dello “Zia Vanja” di Cechov.

Per il ruolo di Max, l’attore bisessuale, fu inizialmente scritturato nientemeno che Gian Maria Volonté che firmò un contratto record di 60 milioni di lire, salvo poi pentirsi durante le riprese: temeva che quel ruolo rovinasse la sua immagine di attore impegnato e ruppe il contratto restituendo i soldi, ma fu citato comunque in giudizio per avere fermato la produzione; dichiarò che aveva temuto di diventare “uno strumento nelle mani di persone che perseguono interessi che non sono i miei”. Peccato, sarebbe stato interessante vederlo in quel ruolo. Ruolo per il quale fu scritturato l’emergente italoamericano Tony Musante che in patria si era fatto notare con ruoli da teppista fra cinema e tv; fu importato in Italia per lo spaghetti-western di Sergio Corbucci “Il mercenario” e con questo ruolo in “Metti, una sera cena” si impose all’attenzione di critica, pubblico e cineasti. Qui è doppiato dal mai compianto abbastanza Luigi Vannucchi. Per i cast-insalate in uso all’epoca gli altri due ruoli andarono ai francesi Jean-Louis Trintignant (doppiato da Cesare Barbetti) e Annie Girardot (doppiata da Paila Pavese) che stranamente, rispetto agli altri interpreti, ha il nome sotto il titolo pur avendo un ruolo alla pari. Ne consegue che alla fine Lino Capolicchio è l’unico italiano di un quintetto di gran classe impegnato in ruoli che risultano vagamente sgradevoli e per i quali, cinici e autoreferenziali, si fatica a provare simpatia. Con l’aggravante che i dialoghi rimangono troppo letterari col risultato che il film, nonostante gli accorgimenti di sceneggiatura e montaggio, resta sempre troppo teatrale, con personaggi talmente carichi di simbolismi e di pensieri assoluti da restare estranei alla realtà.

Giustamente definito d’autore per la sua provenienza, il film fu un clamoroso successo con quella scena di bacio a tre che gli procurò guai con la censura e consequenzialmente code al botteghino e cambio di classificazione: da film d’autore venne proclamato film erotico e inserito per acclamazione in quel filone allora emergente. Le new entries Florinda Bolkan e Tony Musante divennero delle star del nostro cinema d’autore e lavorarono di nuovo insieme in “Anonimo veneziano”, film d’esordio come regista di Enrico Maria Salerno, e in “La gabbia” di nuovo con Patroni Griffi. Musante morì 77enne nel 2013 per complicazioni da un intervento chirurgico, mentre l’ottantunenne Florinda Bolkan è oggi una bella signora pensionata che ha diradato la sua presenza sugli schermi e il cui ultimo ruolo è una piccola partecipazione nel film d’esordio di Ginevra Elkann “Magari” del 2019. Di Lino Capolicchio resta da dire che con quel film divenne, suo malgrado e malgrado il suo fisico mingherlino, un sex symbol, ruolo in cui lui, attore di spessore e con altri obiettivi, non si riconosceva e per il quale ha dichiarato di avere anche ricevuto non desiderate attenzioni omoerotiche. Suo figlio Tommaso è oggi uno sceneggiatore.

La classe operaia va in paradiso

Cantava Giorgio Gaber alla fine degli anni settanta, con la sua ironia amara, “Anni affollati… per fortuna siete già passati” anni densi di eventi tragici e vissuti da tutta la società italiana con la speranza del rinnovamento; parlando di quegli anni si parla sempre di anni di piombo, il piombo delle armi usate dai terroristi di sinistra ma che oggi deve includere anche il terrorismo di destra più attivo nel piazzare bombe, ma furono anche anni di cambiamenti assai positivi, di crescita sociale culturale e politica: venne abrogato l’articolo di legge che vietava produzione commercio e pubblicità degli anticoncezionali, si ebbero le leggi sul divorzio e sull’aborto, l’università si aprì alle masse, venne creato uno statuto dei lavoratori; ma viene sventato anche il tentativo di colpo stato del fascista Junio Valerio Borghese, vicenda che ispira il film satirico “Vogliamo i colonnelli” di Mario Monicelli. E poi ci fu la questione giovanile, i movimenti e le contestazioni studentesche che dagli anni ’60 a cominciare dallo specifico ’68 studentesco, sono giunti fino alla metà dei ’70 saldandosi con il movimento operaio; e in questo film c’è un lampante esempio di studente-operaio, oltre alla massa lavoro principalmente di estrazione contadina e meridionale, e quelle che sembravano rivendicazioni che venivano dal basso in breve coinvolsero anche altri settori della società, le professioni, quelli che oggi definiremmo partite iva, a cominciare dall’editoria, che si fa megafono delle richieste di cambiamento, e passando poi anche all’imparruccata magistratura e al mondo auto elettivo della medicina. E’ soprattutto il tempo del femminismo, che porta in strada le rivendicazioni del focolare domestico attraverso quello che verrà definito politicizzazione del quotidiano, e dall’emancipazione familiare si passa a quella sociale e politica.

In questo calderone che sobbolle il cinema fa la sua parte e il regista-sceneggiatore-critico Elio Petri, già precoce adolescente comunista interessato al cinema, si pone subito come punto di riferimento nel cinema di impegno civile e denuncia sociale di una stagione cinematografica densa di capolavori, o capisaldi, e irripetibile per il fermento sociale reale che portava nella finzione dei film. Petri morì 53enne di cancro e il suo ultimo film lo firma nel 1979, come a chiusura di quel decennio di contestazioni e rinnovamenti. Scrive questo film con Ugo Pirro, che ha già all’attivo due recenti candidature all’Oscar per le sceneggiature di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” diretto da Petri e con Volonté protagonista, film che vince l’Oscar come Miglior Film Straniero nel 1971; e di “Il giardino dei Finzi Contini” dal romanzo di Giorgio Bassani e regia di Vittorio De Sica, Oscar Miglior Film Straniero nel 1972.

Gian Maria Volonté, attore feticcio di Elio Petri e genericamente impegnato in quel cinema di denuncia sociale, “rubava l’anima ai personaggi” come ebbe a dire il regista Francesco Rosi, mentre Felice Laudadio lo ha definito “Il più grande attore italiano del suo tempo”. Dopo l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica comincia a lavorare in palcoscenico e subito passa alla televisione dove fra le altre cose interpreta Nicola Sacco in “Sacco e Vanzetti” nel 1963, mentre dieci anni dopo sarà Bartolomeo Vanzetti nel film di Giuliano Montaldo, e per la Rai sarà anche Michelangelo Buonarroti nello sceneggiato “Vita di Michelangelo” del 1964 e Caravaggio nello sceneggiato omonimo del 1967. In cinema aveva avuto piccoli ruoli nel genere peplum-fantasy e si era imposto all’attenzione come cattivo negli spaghetti-western di Sergio Leone. E’ stato attivo in politica e nel 1975 fu eletto consigliere regionale del Lazio, ma appena sei mesi dopo decise di dimettersi: “Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia: io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso”. In questo film è un magnetico protagonista assoluto, un operaio stakanovista che aspira al benessere economico sottoponendosi a ritmi massacranti in un lavoro pagato a cottimo, e per questo suo impegno viene preso a modello dal padrone come esempio per gli altri operai, che lo accusano di servilismo; un inevitabile incidente gli fa rivalutare le sue priorità e prendendo coscienza della sua alienazione si fa paladino delle rivendicazioni sociali.

La sceneggiatura, e la regia di Elio Petri, non fanno sconti. L’attenzione per il dettaglio, dei macchinari e delle espressioni degli attori quasi sempre ripresi in primissimo piano, non consentono pressapochismi. Le scene di massa, le manifestazioni e i dibattiti, sembrano sequenze di un documentario che si apre ai momenti intimi e alle riflessioni: a cominciare da quelle dell’ex operaio finito in manicomio superbamente interpretato da Salvo Randone, sorta di coscienza intima e storica del protagonista. Mariangela Melato è la compagna di questo operaio-simbolo, come lui alla ricerca del benessere borghese, orgogliosa dei due televisori in casa uno dei quali nel salotto che non va assolutamente frequentato: è uno status symbol i cui divani e poltrone venivano mantenuti sotto cellophane, e la porta della stanza spesso chiusa a chiave, in quelle case operaie e piccolo-borghesi che in quegli anni se li potevano permettere: ma sono benefici che qui l’operaio non riesce a godersi per la grande stanchezza con cui ogni sera rientra, mettendo in crisi il rapporto. Nel cast anche Luigi Pernice come sindacalista; Luigi Diberti come collega di catena di montaggio nonché nuovo compagno della sua ex moglie; Donato Castellaneta e Flavio Bucci sono altri due operai mentre Mietta Albertini e Renata Zamengo sono due debuttanti sul grande schermo nei ruoli della collega-amante e della ex moglie.

Sceneggiatura e regia che non fanno sconti e che sollevano forti polemiche, accolto gelidamente dalla sinistra, sia politica che intellettuale, perché descrive i sindacalisti come degli opportunisti e corruttibili, mentre degli studenti di estrema sinistra fa dei fumosi parolai inconcludenti più attenti agli slogan che alla concretezza delle azioni. Alla prima del film, il cineasta francese Jean-Marie Straub che operava in coppia con Danièle Huillet in un percorso di sperimentazione, dichiarò che tutte le copie del film dovevano essere bruciate. Il film invece fruttò la Palma d’Oro al Festival di Cannes a Elio Petri, con una menzione speciale per il protagonista anche per “Il caso Mattei” di Francesco Rosi; fu premiato come Miglior Film ai David di Donatello (in ex-aequo con “Questa specie d’amore” di Alberto Bevilacqua), David speciale a Mariangela Melato anche per “Mimì metallurgico ferito nell’onore” di Lina Wertmuller; e Salvo Randone ricevette il David come non protagonista.

Fece ottimi incassi portando al cinema quella classe operaia che si vide rappresentata nel titolo e oggi va visto o rivisto come una delle pietre miliari del cinema di impegno civile del tempo: un film che ancora disturba per l’adesione emotiva degli interpreti e per quel suo senso di claustrofobia – la fabbrica e l’appartamentino, ma soprattutto le mente del protagonista – dove anche le scene negli ampi spazi all’aperto risultano claustrofobiche per la densità di umanità che vi si agita, come in un fitto pollaio. Ennio Morricone compone per l’occasione una colonna sonora diversissima dalle sue solite, bella e incisiva, martellante e ossessiva come il lavoro in catena di montaggio che commenta; una catena di montaggio che è figlia cinematografica dei “Tempi moderni” di Charlie Chaplin, qui in un tempo e in una cinematografia, però, dove non c’è più spazio per le favole, anche se il lieto fine, la vittoria operaia, conclude il film con un fotogramma in cui Ennio Morricone si presta come operaio.