Archivi tag: giambattista basile

Io capitano – l’Oscar che non c’è

Matteo Garrone non ce l’ha fatta agli Oscar 2024, come non ce l’ha fatta ai Golden Globe dove era altrettanto candidato, e a mio avviso non poteva farcela perché la concorrenza al Miglior Film Internazionale (ex Miglior Film Straniero) era di altissima qualità, nulla togliendo all’italiano. L’Italia, che in ogni caso mantiene il più alto numero di candidature in quella sezione, mancava esattamente da dieci anni quando nel 2014 fu presente con “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino che si portò a casa la statuetta insieme al Golden Globe: Sorrentino come nemesi di Garrone? andiamo con ordine.

I due astri nascenti, diversissimi, si ritrovano a confronto in quel di Cannes nel 2008, Garrone con “Gomorra” dal libro inchiesta Roberto Saviano che poi ha moltiplicato pani pesci puntate e pubblico con le 5 stagioni della serie tv Sky, e Sorrentino con “Il Divo” sul mefistofelico Giulio Andreotti; entrambi erano in concorso per la Palma d’Oro che però restò in casa andando a Laurent Cantet per “La classe – Entre le murs” ma i nostri vennero premiati con le pergamene del Grand Prix Speciale della Giuria (quell’anno presieduta da Sean Penn con Sergio Castellitto come italiano fra i giurati) a “Gomorra” e il Premio della Giuria per “Il Divo”, tenendo presente che i due riconoscimenti sono lo stesso premio con due diverse diciture ed è il più importante dopo la Palma d’Oro: insomma due premi apparentemente diversi per non assegnare un ex-aequo. Da lì in poi la stampa ha inventato, o chissà forse solo registrato, una concorrenza diretta fra i due – che non analizzerò per non dilungarmi come al mio solito.

Tornando a oggi, qualsiasi sia la concorrenza vera o presunta fra i due (per certo non sono amici), entrambi sono assai stilosi e di Matteo Garrone si può certo affermare che il tema sociale, insieme al tema del magico e del favoloso, sia parte integrante del suo cinema, con radici coltissime nel favolistico di casa nostra o comunque europeo in generale, e dunque quanto di più lontano dal fumettistico fantastico ed effettistico statunitense: cosa, questa, che lo allontana dal pubblico d’oltreoceano più abituato agli effetti speciali e ai trucchi prostetici che alle atmosfere conturbanti e noir della nostra narrativa fantastica.

Partito ai suoi esordi con stile e contenuti decisamente neo-realistici si fa notare da critica e pubblico con “L’imbalsamatore” (2002) che gli valse il David di Donatello per la sceneggiatura, ma il film collezionò molti altri premi fra attori e produzione: già in questo film usa per il ruolo del protagonista l’attore nano Ernesto Mahieux come elemento di collegamento alla sua visione fantastica della narrativa cinematografica.

Anche il successivo assai disturbante “Primo amore” (2004) liberamente ispirato al romanzo “Il cacciatore di anoressiche” di Marco Mariolini è una favola nera dove l’orco è uno psicopatico ossessionato dalle donne magrissime che spinge la protagonista alla fame in una relazione di amore malato. Segue il “Gomorra” del successo internazionale e dopo realizza “Reality” (2012) dove il protagonista si fa accecare dalle favole moderne e ingannatrici dei reality show, un film con cui torna all’indagine sociale e in cui scatena visivamente la sua vena surreale e grottesca.

Arriva il raffinatissimo, e per questo anche poco digeribile e poco digerito dal grande pubblico, “Il racconto dei racconti” (2015) che schierando un cast internazionale in una coproduzione con Francia e Regno Unito (per cui Garrone anche produttore ha messo un’ipoteca sulla sua casa) è stato distribuito anche col titolo “Tale of Tales”, dalla raccolta di fiabe seicentesche “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile; il film si concentra su tre racconti la cui narrazione si incrocia e incastra, e nell’insieme è un materiale enorme che potrebbe essere raccontato meglio in una coraggiosa produzione televisiva se solo Garrone si lasciasse tentare dalla serialità, cosa che ha fatto Sorrentino in Sky con “The Young Pope” e “The New Pope”, così tanto per dire. Il film di due ore e un quarto lascia un retrogusto amaro in bocca: quello del non perfettamente riuscito – ma la visione fantastica di Matteo Garrone è al suo fulgore massimo.

Ancora con i debiti da pagare accantona il suo successivo grandioso film su Pinocchio e rispolvera un vecchio progetto più a basso costo (4 milioni di euro contro i 15 del precedente) col quale torna alle sue origini di noir metropolitano di indagine sociale: “Dogman” (2018) su un fatto di cronaca nera romana che ebbe come protagonista un uomo detto “er canaro”, altra figura da favola horror, ed è di nuovo amore col Festival di Cannes che premia il protagonista Marcello Fonte, e trionfa ai Nastri d’Argento e ai David di Donatello, fra gli altri premi. E qui vale la pena spendere una curiosità: all’epoca della prima stesura di una decina d’anni prima, Garrone aveva proposto il ruolo a Roberto Benigni che poi sarà Geppetto nel successivo “Pinocchio”, grande favola che stavolta piacerà anche agli americani, molti dei quali ancora credono che il burattino sia un’invenzione di Walt Disney, e difatti riceve due candidature tecniche per costumi e trucco agli Oscar.

È evidente che Garrone, concorrenza o no, punta all’Oscar; del resto ha già trionfato in casa e in Europa e impugnare quella statuetta lo farebbe assurgere all’empireo ultimo, e qui film torna alle origini della sua ispirazione narrativa. Aveva debuttato nel 1996 con “Terra di mezzo” dove ha raccontato in tre e episodi la realtà di differenti immigrati in Italia, opera prima che al Torino Film Festival gli sono valsi il Premi Speciali della Giuria e il Premio Cipputi per il miglior film sul mondo del lavoro, premio ispirato al personaggio del metalmeccanico comunista creato da Altan; e col successivo “Ospiti” si concentra sulla figura di due ragazzi albanesi immigrati a Roma; dunque il tema dell’immigrazione lo appassiona e con quello che continua a succedere nel Mediterraneo era solo questione di tempo prima che anche Garrone ne traesse ispirazione, avendo già due titoli in una filmografia che è già un genere nella cinematografia italiana ricchissima di titoli a partire dalla fine degli anni ’80 con “Il tempo dei gitani” (1988) di Emir Kusturica cui segue a tambur battente “Pummarò” (1990) di Michele Placido, per dire solo i titoli più importanti, cui seguono “Lamerica” (1994) di Gianni Amelio, “Vesna va veloce” (1996) di Carlo Mazzacurati, “La ballata dei lavavetri” di Peter Del Monte e “L’assedio” di Bernardo Bertolucci, entrambi del 1998 e fra i titoli che si fanno assai più numerosi nel nuovo millennio ricordiamo “Quando sei nato non puoi più nasconderti” di Marco Tullio Giordana, “Bianco e nero” di Cristina Comencini, “Terraferma” di Emanuele Crialese, “Alì ha gli occhi azzurri” di Claudio Giovannesi ispirato agli scritti di Pier Paolo Pasolini, “Razzabastarda” opera prima di Alessandro Gassmann, “Fuocoammmare” di Gianfranco Rosi e il recentissimo “Nour” del 2020 di Maurizio Zaccaro.

I film fin qui realizzati si fermano a raccontare l’incontro-scontro degli immigrati con la realtà italiana e solo in pochi casi raccontano la tragicità del mare attraversato e dei viaggi, mentre Garrone – col suo team di co-sceneggiatori composto da Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri e dall’attore Massimo Ceccherini che avendo nel curriculum uno suo spettacolo teatrale su Pinocchio già aveva affiancato come sceneggiatore Garrone nel di lui “Pinocchio” dove anche interpretò la Volpe – va oltre, sbarca in Africa, si addentra oltre il deserto per giungere in Senegal, nei villaggi e nelle case dove una certa politica vorrebbe rispedire i migranti.

Il soggetto di Garrone si ispira direttamente alle storie vere raccontate da Fofana Amara, Mamadou Kouassi Pli Adama, Arnaud Zohin, Brhane Tareka e Siaka Doumbia, tutti ragazzi che hanno realmente compiuto il viaggio dei due protagonisti del film, accreditati nei titoli come collaboratori alla sceneggiatura insieme a Chiara Leonardi e Nicola Di Robilant.

Il casting venne fatto in loco sotto la direzione del camerunense Henri-Didier Njikam che è incorso in un incidente diplomatico allorché gli fu negato dall’Ambasciata d’Italia a Rabat, Marocco, il visto d’ingresso in Italia per presenziare al Festival di Venezia; tempestivamente intervistato da “The Hollywood Reporter Roma”, Njikam ha accusato i responsabili di razzismo: “L’ambasciata ha giustificato il rifiuto sostenendo che non c’erano garanzie che avrei abbandonato il territorio italiano una volta entrato a Venezia. In pratica mi hanno trattato come un migrante, come se volessi approfittare della situazione per scappare. Ma io ho un lavoro, una tessera professionale del Centro Marocchino del Cinema. E, sinceramente, se avessi voluto lavorare in Europa, lo avrei già fatto: l’ente non ha guardato il mio curriculum né i miei documenti, ma solo il colore della mia pelle. Questo problema esiste solo con l’ambasciata italiana in Marocco, perché i miei colleghi dal Ghana e dalla Costa d’Avorio sono riusciti a partire. Se fossi stato bianco, non credo che sarei stato trattato così.”

Seydou Sarr insieme a Moustapha Fall sono i due ragazzi che abbagliati da sogni di notorietà e ricchezza lasciano la certezza di una tranquilla miseria quotidiana per l’incertissimo viaggio dispensatore di sofferenze e morte che tutti sconsigliavano; e Seydou, vero protagonista del film, è stato insignito a Venezia del Premio Marcello Mastroianni come attore emergente, ma l’intero cast è di altissimo livello e tutte le interpretazioni concorrono all’intensità narrativa del film costruito da Garrone senza sbavature e senza retorica, sempre focalizzato sulla tragedia umana di ragazzi che sognano un mondo migliore ma che trovano squali anche nelle sabbie del deserto.

Gli unici fugaci momenti in cui si indebolisce il racconto, a mio avviso, sono le due sequenza oniriche del protagonista che sogna, prima di salvare una donna nel deserto e poi volare indietro fino a casa ad osservare sua madre che dorme: due brevi momenti di abbagliante bellezza cinematografica che proseguono nella linea stilistica dell’autore ma che in questo caso deviano dall’intensità tragica del racconto, intensità universalmente riconosciuta da critica e pubblico.

Le curiosità: 1. resterà negli annali l’imbarazzante ultim’ora del Televideo Rai in cui il film veniva raccontato come la vicenda del capitano Schettino che abbandonò il comando della Costa Concordia incagliatasi sugli scogli dell’Isola del Giglio in Toscana nel 2012. Non si sa com’è andato l’incidente telematico, c’è chi parla di uno scherzo certo per minimizzare, c’è chi parla di un complotto certo per massimizzare, ma l’ipotesi più credibile è quella dell’intelligenza artificiale che ha creato la notizia pescando nel suo database, notizia farlocca che però è stata pubblicata da qualche intelligenza naturale… naturalmente a riposo.

2. le ultimissime di cronaca riferiscono di Claudio Ceccherini che ospite del programma Rai “Da noi a ruota libera” certo ispirato dal titolo ha parlato a ruota libera: “Sono molto fiero di aver lavorato con Garrone che ha fatto un film favoloso. Sappiate che il film della cinquina è più bello solo che non vincerà perché vinceranno gli ebrei. Quelli vincono sempre.” Va da sé che l’attore sceneggiatore non ha tutti i torti, solo che poteva esprimersi in modo diverso: i membri dell’Academy sono da sempre molto sensibili ai temi della Shoah tant’è che nel 1999 premiò “La vita è bella” di Roberto Benigni, miglior film straniero, miglior protagonista e miglior musica a Nicola Piovani. Non si parla di corde in casa dell’impiccato, si tratta di buon senso ed educazione, e tanto più vanno ponderate le parole in questo periodo di feroce conflitto in Medio Oriente.

3. mia personale curiosità: leggo nella scheda tecnica del film i nomi dei doppiatori ma “Io capitano” è stato distribuito in originale, il wolof parlato in Senegal, il francese e l’inglese, e non c’è traccia di doppiaggio. Si tratta forse di un’altra versione che sarà distribuita nelle versioni Home e On demand?

Accantonata la delusione per non avere afferrato la statuetta dorata Matteo Garrone guarda già al futuro per il suo bellissimo film che proseguirà il viaggio tornando nei luoghi da cui è partito, con proiezioni nei villaggi del Senegal anche su tendoni improvvisati, per raccontare a chi resta che a volte è più coraggioso restare. Meglio che morire nel deserto o nel mare, meglio ancora che essere umiliati da società e apparati politici ciechi alle urgenze umane nel coltivare i loro minimi miserevoli giardinetti recintati e vietati agli estranei.

Pinocchio – Benigni uno e due

Pinocchio siamo tutti noi, sempre sospesi fra il bene e il male, i buoni propositi e le tentazioni, l’altruismo e l’autogratificazione. Non sorprende quindi l’affetto che proviamo per questo personaggio che per la maggior parte – io in primis – conosciamo dai derivati della storia originale, un racconto per l’infanzia ottocentesco che in pochi abbiamo letto per intero: “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino” di Carlo Collodi.

Il primo a farne una storia per lo schermo, nel 1940, fu il cartoonist americano Walt Disney che per ispirarsi guardava spesso alle mitologie e alle favore europee, consapevole che tutta la cultura americana, veicolata dai popoli, venivano dal Vecchio Continente; nello specifico la sua famiglia veniva dalla Francia e Disney non è altro che l’anglicizzazione di D’Isigny. Forte del successo del suo primo lungometraggio “Biancaneve e i Sette Nani” produsse “Pinocchio” raddoppiando il budget, ma non ebbe altrettanto successo, soprattutto nella vecchia Europa. Fu però il suo primo film a vincere due Oscar, colonna sonora e canzone originale, e recentemente è stato inserito nella top ten dei capolavori cinematografici. Niente di strano che la favoletta rimaneggiata e adattata da Disney sia stato il nostro punto di riferimento e l’unico Pinocchio di immediata lettura per decenni.

Dobbiamo arrivare al 1972 per avere una produzione italiana col televisivo in sei puntate “Le avventure di Pinocchio” che, nel largo respiro della serie, rende merito al complesso racconto di Collodi: un’opera, così va definita, di eccellenza, che soppianta per sempre nel nostro immaginario il grazioso burattino disegnato da Disney: un capolavoro che rimarrà per sempre nei bambini di allora il punto di riferimento e di confronto per tutto quello che verrà. Anche la sigla di Fiorenzo Carpi resterà impressa nella nostra memoria.

La regia era di Luigi Comencini, Geppetto era Nino Manfredi, la Fata Turchina: Gina Lollobrigida, il Gatto e la Volpe: il duo comico Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Il Giudice: Vittorio De Sica, Lionel Stander: Mangiafuoco, Mario Scaccia e Jacques Herlin: i due dottori, Mario Adorf: il direttore del circo, e potrei continuare con una pletora di grandi caratteristi italiani dell’epoca. Pinocchio, interpretato dal bambino Andrea Balestra, è stato reinventato in un burattino di legno quando era monello, ma che si trasformava in bambino quando faceva il bravo. L’ambientazione era quella povera e rurale della provincia italiana fine Ottocento che restituiva la storia ai suoi luoghi naturali e a Pinocchio il suo accento toscano.

Nel 2002 arriva il “Pinocchio” di Roberto Benigni che con i suoi 45 milioni di euro di budget rimane il film italiano più costoso, prodotto dalla Melampo di Nicoletta Braschi, moglie e musa di Benigni. In concomitanza dell’uscita del “Pinocchio” di Matteo Garrone il film torna in tv dove lo rivedo senza neanche arrivare al finale, confermando e rafforzando l’opinione che ne ebbi allora: è un film egocentrico ed esorbitante, frutto del successo internazionale e degli Oscar per “La vita è bella” come miglior film straniero, miglior protagonista e miglior musica a Nicola Piovani. Un successo che dà alla testa e per il quale ora Benigni guarda all’America e di cui copia gli sforzi produttivi e un certo stile narrativo. Non a caso il film si apre con la carrozza della Fata Turchina trainata da un esercito di topolini bianchi che sembra uscita da un film Disney. Poi prosegue con una riuscitissima sequenza in cui un ciocco di legno caduto da un carretto prende vita e rotola per le vie del paesello con una serie di gag da comiche del cinema muto. Ma non appena il Geppetto di Carlo Giuffrè finisce di creare il suo Pinocchio si capisce subito che è un Pinocchio “pro domo sua”: non c’è traccia del burattino di legno e Benigni recita il suo Pinocchio, con accento toscano, certo, ma con la vocina e la gestualità di un bambino che in un cinquantenne è davvero imbarazzante, per non dire irritante. Già all’inizio avevamo avuto un assaggio dell’andazzo con la Fata Turchina di Nicoletta Braschi che si atteggia e fa la vocina come una bambina che recita, male, alla recita scolastica. Si salva tutto il contesto: scenografia e costumi premiati col Nastro d’Argento e la musica sempre di Piovani. Si salva il corollario dei caratteristi: Kim Rossi Stuart: Lucignolo, Peppe Barra: il Grillo Parlante, il duo comico I Fichi d’India come Gatto e Volpe, Mino Bellei: Medoro, Corrado Pani: il Giudice, Alessandro Bergonzoni: il direttore del circo, Tommaso Bianco come Pulcinella e Stefano Onofri come Arlecchino fra i burattini del Mangiafuoco di Franco Javarone. Ovviamente il film è un successo al botteghino ma viene stroncato dalla critica e, cosa ancora peggiore, è un flop in quell’America per il quale era stato segretamente pensato.

Onestamente non sentivo la necessità di un altro Pinocchio ma quando ho saputo che il progetto era di Matteo Garrone sono rimasto in fiduciosa attesa. Avevo apprezzato moltissimo i suoi “L’imbalsamatore” del 2002 e “Primo amore” del 2004. Nel 2008 “spacca” con “Gomorra” dal libro di Roberto Saviano e che ispirerà la serie tv omonima da una cui costola prende vita il recente “L’Immortale”. Del 2018 è il premiatissimo “Dogman” ma questo “Pinocchio” si inserisce nel percorso avviato con “Il Racconto dei Racconti” ispirato al seicentesco “Lo Cunto de li Cunti” di Giambattista Basile: siamo quindi alla radice della narrativa italiana. E, come quell’altro film, questo “Pinocchio” mi sembra, altrettanto, grandioso e imperfetto.

Ha il merito di riportare il racconto nell’Italia rurale fine ‘800 e di rimettere al centro della storia un burattino di legno. Anche la Fata Turchina torna alle sue origini e come nella storia di Collodi la sua prima apparizione è come fata bambina. Purtroppo la caratteristica di Garrone che ha fatto grandi altri suoi film, in questo genere favolistico risulta essere un difetto: parlo della sua mancanza di empatia coi personaggi, del distacco col quale li racconta, e come per il film tratto da Giambattista Basile questo che ritorna a Collodi è a tratti emozionante e anche pauroso, nell’ottica del bambini, ma assolutamente privo di trasporto emotivo, quasi troppo freddo e razionale nel trattare queste grandi favole: è meritevole l’intento di ridare vita ai classici italiani ma il suo approccio analitico, vincente altrove, toglie smalto alle storie.

Sbagliati il Gatto e la Volpe assegnati a Massimo Ceccherini e a Rocco Papaleo: è evidente che fra i due non c’è feeling e non scatta quella scintilla che c’era fra le coppie comiche di comprovata esperienza come Franco e Ciccio o i Fichi d’India; la francese Marine Vacht è un’intensa e dolcemente seduttiva Fata Turchina che da bambina è Alida Baldari Calabria; Gigi Proietti restituisce grandiosità e burbera umanità a Mangiafuoco e Paolo Graziosi ridà vita a Mastro Ciliegia; Massimiliano Gallo è il Direttore del circo; la cabarettista Maria Pia Timo è la Lumaca e Maurizio Lombardi è il Tonno filosofo che nuota dentro il gran Pesce-Cane (che in Disney è una balena) qui disegnato sui bestiari medievali; Teco Celio è il Giudice, Enzo Vetrano è il Maestro e Domenico Centamore è il pastore; il nano Davide Marotta è il Grillo Parlante in un insieme di compagnia di nani come intelligente scelta registica per la compagnia dei burattini. Il burattino è il bambino Federico Ielapi pesantemente truccato come fosse legno, da premiarne la paziente sopportazione, e sempre credibile nella sua naïveté. Geppetto, dopo la prima ipotesi di Toni Servillo, è naturalmente Roberto Benigni, con un “naturalmente” dal doppio significato: primo, per la sua toscanità, e secondo perché dopo essere stato un improbabilissimo Pinocchio qui è finalmente nel giusto ruolo che gli compete, per età e per divismo: è dimesso e misurato come la regia richiede ma qua e là, si vede, è più forte di lui, gli brilla l’occhio del monello che è.

“Il Racconto dei Racconti”, finalmente sullo schermo

E’ un film grandioso ma sono uscito dal cinema con qualche perplessità. Solo col passare delle ore sentivo che le sensazioni e le emozioni del racconto cinematografico continuavano a crescere nella mia mente e a fruttificare pensieri e idee e altre sensazioni ancora, e questo succede con un gran film o un gran libro, comunque un gran racconto. Le perplessità riguardavano fondamentalmente il mio essere uno spettatore di buone frequentazioni cinematografiche ma anche convinto consumatore di blockbusters americani cui va il primo pensiero viziato da tecniche di racconto collaudatissime ma anche tutte uguali. Questo invece è tutto un altro raccontare e tutto un altro cinema, d’autore appunto, ma soprattutto di cultura europea, quella cultura fantastica delle novelle e delle fiabe antiche cui lo stesso signor Walt Disney si è ispirato per i suoi grandi capolavori di animazione. Oggi, peraltro, Hollywood sta sfornando uno dietro l’altro dei film che rivisitano i gloriosi protagonisti di quelle fiabe raccontandoli da un altro punto di vista e col gusto dei tempi, e questo è normale perché si è sempre fatto, perché Charles Perrault e i fratelli Grimm l’hanno fatto ispirandosi a “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile che a sua volta si è pure ispirato a tradizioni ancora più antiche e popolari: insomma, nulla si inventa e tutto si riscrive.

La differenza sta tutta nella distanza che c’è fra meraviglia e incanto, dove la meraviglia è quella che ci suscita la visione di filmoni pieni di effetti speciali e narrazioni politicamente corrette mentre l’incanto è quello che prende in sala ad assistere alle tre favole di questo “Cunto”: “La Regina”, “La Pulce” e “Le Due Vecchie”. Il ritmo è lento, incantatorio appunto, e avvolgendo ci accompagna dentro questa visione mirabile fatta di scenari fantastici che però sono assolutamente reali e dislocati tutti in Italia, dove si muovono personaggi che non sempre hanno la battuta pronta dello sceneggiatore americano ma i silenzi e gli sguardi distanti di chi vive d’incanto e l’incanto racconta. Le storie sono semplici racconti morali non appesantite da quelle troppe spiegazioni ad uso e consumo dello spettatore che fra popcorn e bibita e smartphone sempre acceso dovrebbe avere almeno quattro mani come l’alieno che è. Il fantastico accade perché così è, e l’orrore di certi momenti è quello tipico delle fiabe antiche che venivano raccontate davanti al focolare proprio per far paura ai bambini e farli andare a letto col batticuore e la lezione morale che così avrebbero ricordato a lungo: oggi tutto questo viene filtrato da una malintesa e spesso millantata correttezza che volendo rispettare bambini e diversità, donne e categorie protette, fa di tutto una poltiglia insapore.

I film di Matteo Garrone, tranne le sperimentazioni degli esordi, li ho visti tutti: “L’Imbalsamatore” 2002; “Primo Amore” 2004; “Gomorra” 2008 con cui arriva al grande successo sulla scia del libro di Saviano e del Gran Prix a Cannes che bissa nel 2013 con “Reality”. Posso dunque affermare che la sua tematica è proprio l’orrore della diversità sia fisica che morale: il nano cattivo protagonista de “L’Imbalsamatore”, l’amore malato e il corpo smagrito di “Primo Amore”, tutti i camorristi di “Gomorra” e l’orrore culturale di “Reality”. Dunque “Il Racconto dei Racconti” segue una sua linea precisa e dopo tanti premi e riconoscimenti attinge alla ricchezza della nostra narrativa, all’orrore degli orrori, allo “Cunto de li cunti” e fa quel necessario salto di qualità girando in inglese con un cast internazionale ma non solo per travalicare i confini europei e andare a – mi auguro – minacciare da vicino la troppo disinvolta e collaudata fantasy americana: proprio perché girato in inglese potrebbe accedere agli Oscar e premi tecnici, come fotografia e scenografia e costumi e trucco, potrebbero ricevere se non premi almeno candidature.

Come l’attenzione alle ambientazioni che non ha niente da invidiare a “Il Signore degli Anelli”, il cast è scelto con gran cura e anche nei ruoli di contorno o nelle figurazioni di lusso c’è quel gusto per i volti e le caratteristiche fisiche che mi ha ricordato il cinema iper-realista ma anche fantastico di Pier Paolo Pasolini. La Regina della prima novella è una bellissima e gelida Salma Hayek che sacrifica la vita del suo Re, John C. Reilly, pur di generare un figlio attraverso un sortilegio suggerito dal negromante Franco Pistoni e che darà vita anche a un gemello da un’altra madre, la serva Laura Pizzirani: i gemelli sono Christian e Jonah Lees che Garrone ha voluto albini; nel cast c’è anche una coppia di sorelle, non gemelle: Jessie Cave che è Fenizia in “La Regina” e Bebe Cave che è la Principessa Viola protagonista di “La Pulce” insieme a Toby Jones che è il Re suo padre che la cede a un orco, Guillaume Delaunay gigante senza trucco e senza inganno, per insipienza; Nicola Sloane è l’anziana damigella dal volto spigoloso e antico; Vincent Cassel è il principe piacione della terza novella, “Le Due Vecchie” che truccate ancora più da immonde vecchie sono Shirley Henderson e Hayley Carmichael che ringiovanita attraverso il sortilegio di una strega, Kathryn Hunter, è interpretata da quella Stacy Martin che nel “Nynphomaniac” di Lars Von Trier non si capisce se scopa tutto il tempo con gli effetti speciali o con cazzi reali, e io sono per la seconda. Fanno da cornice una compagnia di circensi capitanata da Massimo Ceccherini che praticamente non parla e Alba Rohrwacher già lanciata nel cinema internazionale. Completano il cast italiano, per onor di cronaca, Renato Scarpa, Giselda Volodi già internazionalizzata in “Grand Budapest Hotel” e Giuseppina Cervizzi che era con Garrone in “Reality” e abbiamo rivisto da poco in “Se Dio Vuole”.

“Il Racconto dei Racconti”, tiepidamente applaudito a Cannes, dovrà vedersela con gli altri due forti italiani: “Mia Madre” di Nanni Moretti, altra star della Croisette, e soprattutto con “Youth – La Giovinezza” di Paolo Sorrentino, molto applaudito e con il carico di un Oscar per “La Grande Bellezza” in vetrina, già Premio della Giuria a “Il Divo” in quello stesso 2008 in cui Garrone vinse il Gran Prix con “Gomorra”: insomma, senza voler considerare tutti gli altri concorrenti, la sfida fra gli italiani è cruenta.

Poiché il “Gomorra” di Garrone ha dato vita all’eccellente serie tv di Sky ho fatto due più due e ho immaginato che “Lu Cunto de li Cunti” con tutto il suo materiale narrativo potrebbe far creare un’altra serie di successo: ho visto bene, leggo sul web che lo stesso regista ci sta già pensando… 🙂