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Oppenheimer – Miglior Tutto (o quasi) Oscar 2024

7 premi su 13 nomination sia agli Oscar che ai BAFTA per le medesime categorie, 5 Golden Globe, 4 Critics Choise Awards, 3 SAG-AFTRA, un Grammy Award alla colonna sonora di Ludwig Göransson, e l’inserimento nel National Board Rewiew fra i 10 migliori film dell’anno. Per non dire degli incassi record, anzi lo stiamo dicendo. Tutto questo nonostante il film sia sostanzialmente ostico trattando di materie astratte come la fisica e la quantistica e raccontando un protagonista non particolarmente simpatico in un contesto storico e accademico fatto di nomi e circostanze che dicono poco o nulla al grande pubblico: tolti i rassicuranti (perché conosciuti) Albert Einstein e il presidente Harry Truman, sono tutti personaggi alcuni dei quali Premi Nobel che fanno solo girare la testa. Ma la forza del film, scritto dallo stesso regista dalla biografia “Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica” di Kai Bird e Martin J. Sherwin che già vinse il Premio Pulitzer, sta nella sua struttura che mescola i generi spy thriller e legal drama interpuntati da accattivanti veloci effetti che visualizzano l’astrusità (per noi comuni spettatori) della materia quanto mai oscura, e la confezione è talmente perfetta che ci tiene incollati allo schermo nonostante le tre ore di visione. Gli Oscar vinti sono Miglior Film, Miglior Regista, Miglior Protagonista, Miglior non Protagonista, Miglior Fotografia a Hoyte Van Hoytema e Miglior Montaggio a Jennifer Lame.

Ma c’è da aggiungere che molto del merito va anche alle superlative interpretazioni dell’insieme, sin nei ruoli più piccoli dove spesso ritroviamo nomi di prim’ordine, e questo fa la differenza: la grandezza di un film, e conseguentemente del suo autore, si vede anche dall’adesione che al progetto viene da conclamati protagonisti che pur di esserci si accontentano di ruoli secondari: ci sono i già premi Oscar Matt Damon (miglior sceneggiatura originale nel 1998 insieme all’amico Ben Affleck per “Will Hunting – Genio Ribelle”) il quale non ha mai disdegnato i ruoli da comprimario se ne vale la pena e che qui ha uno dei ruoli più corposi, il fratello del suo amico Casey Affleck (miglior non protagonista nel 2017 per “Manchester by the Sea”) ed entrambi già con ruoli secondari nel cast di “Interstellar” sempre di Christopher Nolan.

Gary Oldman

In ruoli davvero minori Rami Malek (miglior protagonista nel 2019 per “Bohemian Rhapsody” dove ha impersonato Freddy Mercury), Sir Kenneth Branagh (7 candidature e un solo Oscar nel 2022 per la miglior sceneggiatura originale del biografico “Belfast”) e Gary Oldman (miglior attore nel 2018 per “L’ora più buia” dove è stato Winston Churchill) che qui con una sola scena lascia la sua impronta come presidente Truman il quale pensa basti pulirsi le mani con un fazzoletto di seta dal sangue versato dalla bomba atomica che rivendica come sua.

Ci sono poi i già candidati all’Oscar Florence Pugh (nel 2020 per “Piccole Donne”) che qui pervade la prima parte del film come tormentata amante segreta di Oppenheimer, e soprattutto Robert Downey Jr. che come vero antagonista complottista si aggiudica l’Oscar best supporting actor dopo aver ricevuto le candidature per “Charlot” nel 1993 e “Tropic Thunder” nel 2009.

Robert Downey Jr.

E ci sono a vario titolo i già protagonisti o noti comprimari sia di film che di serie tv: Emily Blunt nel ruolo della moglie del fisico che qui si aggiudica la sua prima nomination all’Oscar come best supporting actress; Josh Hartnett, Jason Clarke, James D’Arcy, Dane DeHaan, Alden Herenreich, Tony Goldwin, David Krumholz, Scott Grimes, Gregory Jbara, Tim DeKay, Jeff Hephner, James Remar, Gustaf Skarsgård, James Urbaniak, Josh Zuckerman e per ultimo, anche nei titoli, il quasi irriconoscibile Matthew Modine che fu giovane promessa hollywoodiana: Coppa Volpi al Festival di Venezia per “Streamers” (1983) di Robert Altman e poi protagonista assieme a Nicholas Cage (che al contrario ha saputo mantenersi sulla breccia) dello struggente “Birdy” (1984) di Alan Parker e in “Full Metal Jacket” (1987) di Stanley Kubrick; ma dopo qualche altro film la sua carriera è tutta in discesa fino a venire quasi del tutto dimenticato.

Come generosamente ha titolato MoviePlayer

Chiudo l’elenco del fitto cast con gli ex attori bambini ormai divenuti interpreti di rango Alex Wolff, Michael Angarano e Josh Peck; ci sono poi il figlio d’arte Jack Quaid (di Dennis Quaid e Meg Ryan) e i meno noti al grande pubblico Dylan Arnold come fratello del protagonista, Tom Conti che veste i panni di Einstein, Danny Deferrari come Enrico Fermi e Benny Safdie che è principalmente regista indipendente in coppia col fratello Josh.

Cillian Murphy a confronto con il vero Robert Oppenheimer

Protagonista assoluto l’intenso Cillian Murphy premiato con la statuetta più ambita alla sua prima candidatura. Ricordando che ha già lavorato con Nolan in “Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno” e in “Dunkirk”, bisogna notare che il regista londinese preferisce lavorare con interpreti britannici suoi conterranei: qui oltre a Murphy, Emily Blunt, Florence Pugh, Kenneth Branagh, James D’Arcy e Tom Conti oltre ad altri, non dimenticando anche il Christian Bale della trilogia sul Cavaliere Oscuro. Ma se l’autore è riconoscibile nella composizione del casting lo è soprattutto per il suo stile: ama raccontare i tormenti interiori passando per le ossessioni e gli inganni – in quest’ottica è davvero magistrale l’interpretazione di Robert Downey Jr. – e i confini della realtà anche solo come percezione interiore dei suoi personaggi – qui ben esplicitati nella figura di Oppenheimer con le sue visioni e i suoi tormenti.

Christopher Nolan sul set

Da ricordare anche la polemica dell’autore con la Warner Bros. che aveva prodotto i suoi precedenti film: “Alcuni dei più grandi registi e delle star più importanti della nostra industria sono andati a dormire pensando di lavorare per lo studio più prestigioso e si sono svegliati scoprendo di lavorare per il peggior servizio streaming.” aveva dichiarato polemicamente Nolan allorché la major aveva deciso di distribuire tutto il suo catalogo 2021 (la pandemia ha rilanciato l’home video) in contemporanea sia nelle sale che in streaming su tv e pc; e difatti, passato con questo film alla Universal, si legge nei titoli che il film è scritto e diretto “per il cinema”. E la Warner Bros. per fargli dispetto fece uscire il suo blockbuster su “Barbie” proprio in contemporanea all’uscita di “Oppenheimer”, ma gli attori di entrambi i cast, più lungimiranti e accoglienti delle case produttrici, invitarono il pubblico ad andare a vedere i due film in un solo pomeriggio come un doppio spettacolo, l’evasione e l’impegno, e tra le celebrity a fare da apripista seguendo il consiglio e fare da traino al grosso del pubblico ci sono stati Tom Cruise, che era già nelle sale con “Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte uno” e che non ha perso l’occasione per parlare anche del suo film, e lo sfaccendato cineamatore Quentin Tarantino; e a quel punto si è creato un altro dibattito: in che ordine vederli? la stampa chiamò il fenomeno Barbernheimer e il merchandising si buttò a capofitto nell’impresa creando magliette e ogni altra sorta di gadget… che poi uno dice: le americanate!

Robocop, 1987-2014

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E’ divertente rivedere in tv uno di seguito all’altro i due Robocop, l’originale del 1987 e il remake del 2014. Del primo confermo le antiche epidermiche impressioni: la traccia ironica che toglieva drammaticità al film, con i cattivi – sia gli esempi di delinquenza urbana che quelli in primo piano – un po’ grotteschi e sopra le righe; per carità, è lo stile del film e risulta equilibrato, ma all’epoca venendo da esperienze cinematografiche come “Blade Runner” e “Terminator” mi lasciò un po’ deluso, e oggi confermo quell’impressione; l’altro mio dubbio era: come fa a entrare in auto con quell’armatura, e soprattutto come fa a e gestirne i pedali con quei piedoni d’acciaio? trovavo che fosse una leggerezza narrativa non da poco. Oggi la cronaca conferma il mio dubbio: quando Robocop è seduto dentro l’auto l’attore indossa solo la parte superiore e generalmente veniva filmato nell’azione di salire o scendere dalla vettura per potere inquadrare l’intera armatura. Detto questo il film regge bene i suoi 33 anni nonostante la visione avveniristica della tecnologia risulti obsoleta: è ambientato nel 2027, a pochi anni dal nostro presente, e a parte un tracciatore di movimento che somiglia a uno smartphone c’è il solito ambaradan di macchinari e cavi buoni per tutte le stagioni.

Il plot fu scritto quasi di getto da un oscuro dirigente della Universal nonché appassionato di fantascienza, Edward Neumeier; le cronache narrano che insieme a un amico vide un manifesto di “Blade Runner” e chiese cosa fosse; parla di un poliziotto che dà la caccia ai robot, gli spiegò l’amico, e a lui venne in mente la sintesi: creare un poliziotto robot. La sceneggiatura fu però rifiutata da tutti i maggiori registi del momento, così venne offerta all’europeo del momento, l’olandese Paul Verhoeven, già noto negli States per la candidatura all’Oscar del suo secondo film, “Fiore di carne”, debutto sul grande schermo di Rutger Hauer; ma è con “Spetters” del 1980 e “Il quarto uomo” del 1984, che diviene familiare al grande pubblico internazionale, definendo la sua cinematografia col binomio sesso e violenza, filmando in “Spetters” delle scene gay – criticatissime dalla comunità – con violenza sessuale ed erezione in bella vista e poi un pompino dal vero. Prima di lui avevano azzardato, a mia memoria, solo il giapponese Nagisa Ōshima nel 1976 in “L’impero dei sensi”, un film sensuale a tutto tondo, e Liliana Cavani in “Al di là del bene de del male”, l’anno dopo, con una fugace scena di voyerismo sempre su una fellatio omosessuale.

Dunque Paul Verhoeven con “Robocop” dirige il suo primo film americano e andrà talmente bene da diventare uno dei registi di successo al botteghino, basta ricordare “Basic Instinct” in cui spinge una poco riluttante Sharon Stone ad scavallare le gambe senza mutandine. Si vede la sua mano nella ricerca delle location, spettacolari e fatiscenti, e in pochi passaggi di grande finezza narrativa: quando Robocop si toglie la maschera e per la prima volta si specchia, ulteriormente deformato, in un pezzo di latta traslucida. Un altro europeo, la star Arnold Schwarzenegger, era stato scelto come protagonista ma l’olandese si oppose perché temeva, non a torto, che il fisico imponente dell’ex culturista austriaco avrebbe sviluppato un’armatura davvero fuori misura e poco gestibile nella pratica. Schwarzenegger non se la prese e un paio d’anni dopo lo volle alla regia di “Atto di forza”.

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Viene scelto il più minuto Peter Weller, qui al suo primo ruolo di protagonista assoluto, ma l’attore comincia a lamentarsi per il costume, 20 kg di lattice e alluminio che lo facevano sudare così tanto da fargli perdere 1 chilo al giorno. Regista e produzioni erano talmente stanchi dei “capricci” dell’attore che contattarono Lance Henriksen per sostituirlo, attore di origini norvegesi per cui il regista James Cameron aveva scritto il ruolo di “Terminator”, tanto da presentarsi con lui nel costume del personaggio alla riunione con i produttori… che però gli preferirono Schwarzenegger proprio per la mole. Henriksen, che rimarrà noto come l’androide Bishop nella saga di “Alien”, era però impegnato e la produzione allora si riaccordò con Peter Weller facendogli installare all’interno del costume un condizionatore. E comunque, l’attore, dopo interminabili discussioni con produzione e regia, ebbe carta bianca sullo sviluppo del costume e sui suoi movimenti, che sceneggiatura e regia immaginavano più fluidi e veloci ma che si dovettero adattare alla reale possibilità che il costume consentiva. Una curiosità: la scena in cui Robocop afferra al volo le chiavi della macchina venne girata una cinquantina di volte perché le chiavi rimbalzavano sul guanto di gomma. Il film ebbe due seguiti di minor successo ma impresse Robocop nell’immaginario collettivo, tanto da divenire un marchio assai redditizio ispirando fumetti, videogiochi e 4 serie tv. E’ notizia recente che lo sceneggiatore Neumeier sta lavorando a una serie tv prequel di Robocop senza Robocop, incentrata sulle origini di Dick Jones, qui interpretato da Ronny Cox, capo della divisione sicurezza della OCP, la potentissima multinazionale Omni Consumer Product che ha privatizzato il dipartimento di polizia e ne gestisce le risorse: la nascita di un cattivo che non sa ancora di esserlo. Al fianco del protagonista un’attrice molto attiva in quegli anni, Nancy Allen, che deve la sua fama al suo primo marito, il regista Brian De Palma, che la diresse in vari film a cominciare da “Carrie, lo sguardo di Satana”.

Passiamo al remake del 2014 che ambienta l’azione sempre a Detroit ma un anno dopo dell’originale, nel 2028. Rimane simbolica la conferma di Detroit, scelta dello sceneggiatore originario che qui torna a mettere mano allo script, in quanto una metropoli in declino, proprio dalla fine degli anni ’70, quando chiusero gli stabilimenti della Chrysler e della General Motors e la città si trovò a fare i conti con la disoccupazione e una crescente criminalità da disagio sociale. Ma la OmniCorp, – già Omni Consumer Product – con sede in Cina, è leader mondiale nella costruzione di robot da combattimento largamente impiegati negli scenari di guerra in Medio Oriente, che così anche nel 2028 saranno attivi secondo i cineasti americani, e come nell’originale prende il via la narrazione con la multinazionale che vuole aggirare il divieto su suolo statunitense dell’impiego di robot armati. In questo film vengono colmate due lacune: la presenza più concreta della famiglia del poliziotto, che continua a chiamarsi Alex Murphy, e la figura dello scienziato più o meno pazzo che crea il robocop e che nel primo film mancava totalmente, lasciando la creazione dell’uomo cibernetico ai visionari creativi della OCP. Cambiano i cattivi, l’intrigo si politicizza, i doppiogiochisti salgono di grado e, finalmente, il clima del film perde l’alone ironico e grottesco, persino splatter, e si fa ancora più drammaticamente teso. Il colpo di genio è stato sviluppare il personaggio del commentatore televisivo, che nell’originale era un’onesta coppia di telecronisti che fra una pubblicità e l’altra commentavano le gesta del cyber eroe, e qui diventa un ambiguo manovratore di consensi interpretato da un Samuel L. Jackson che ammicca strabuzzando gli occhi e racchiude nel suo personaggio, che apre e chiude il film, tutta l’inquietante pericolosità di certi commentatori televisivi.

Anche per la regia di questo remake si guarda all’estero e viene assunto il brasiliano José Padilha forte del dittico “Tropa de Elite” Orso d’Oro a Berlino nel 2008 e grande successo anche sul territorio statunitense. Per il protagonista si fecero i nomi di Tom Cruise, Johnny Depp, Keanu Reeves, Chris Pine, Michael Fassebender e un Russell Crowe ormai fuori ruolo per il suo fisico sempre più appesantito. Infine la parte è andata allo svedese naturalizzato americano, dopo il successo della serie tv “Killing”, Joel Kinnaman. Il cattivo, il CEO della Omni Corp, è Michael Keaton mentre il Dr Norton “papà” di robocop è Gary Oldman; Abbie Cornish è l’apprensiva moglie e il ragazzo John Paul Ruttan, che interpreta il loro figlio, si aggiudica l’unico premio andato al film: il Young Artist Award. Il film è drammaticamente denso, più “credibile” nella sua fascia di film “fantasy”, colto nei suoi riferimenti a figure reali di filosofi e sviluppatori di intelligenza artificiale – ma non diventa un film memorabile. Sarà perché gli spettatori sopra gli anta continuano ad amare l’originale e non sentivano il bisogno di un remake, e perché gli spettatori più giovani, senza memoria dell’originale, hanno però visto al cinema molto di più in termini fantasy, e un robocop che a malapena compie un salto non può affascinare più di un supereroe: considerato che il film è del 2014 e siamo nel 2020 è assai probabile che stavolta non ci saranno sequel. Però nel centro Detroit sarà presto installata una statua in bronzo di tre metri, opera di Giorgio Gikas, che riproduce il Robocop che ha immaginato per la città un futuro migliore.

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Apes Revolution, il Pianeta delle Scimmie

Il Pianeta delle Scimmie, 1968
Il Pianeta delle Scimmie, 1968

Prima di perdermi in tecnicismi e divagazioni dico subito che il film mi è piaciuto molto e che se dovessi dargli un voto gli darei un bel sette, anzi sette e mezzo va’. Dura due ore abbondanti, 130 minuti per l’esattezza, e non cala mai la tensione su questo racconto fantascientifico in cui ritorna la paura degli uomini che i loro cugini più prossimi e meno evoluti, le scimmie, possano un giorno superarli in intelligenza e potenza. E’ figlio di quel PIANETA DELLE SCIMMIE del 1968 con Charlton Heston tratto dal romanzo del francese Pierre Boulle e che generò ben quattro sequel: L’ALTRA FACCIA DEL PIANETA DELLE SCIMMIE del 1970, FUGA DAL PIANETA DELLE SCIMMIE del 1971, 1999 CONQUISTA DELLA TERRA del 1972 e ANNO 2670 ULTIMO ATTO del 1973. Come si vede dalle date un film dietro l’altro ogni anno a tambur battente. E per spremere il limone fino alla fine ci furono anche una serie tv del 1974 e un’altra animata del 1975.

Planet of the Apes, 2001
Planet of the Apes, 2001

Una decina di anni dopo, e siamo alla metà degli anni ottanta, da più parti fu ripresa l’idea di un remake o di altri sequel e si ebbero vari progetti con differenti sceneggiature e diverse ipotesi di regia, non ultima quella dell’allora sconosciuto Peter Jackson che sarà l’autore della grandiosa saga de IL SIGNORE DEGLI ANELLI e che lancerà nello star system Andy Serkis, acclamato interprete della motion capture su cui tornerò più avanti. Dobbiamo arrivare al 2001 perché Tim Burton si presti a fare un suo remake con Mark Wahlberg, Tim Roth e Helena Bonham-Carter che però non ha avuto il successo auspicato.

Passano altri dieci anni e nel 2011 esce il cosiddetto “reboot” che consiste nel fare piazza pulita dei precedenti film per ricominciare dall’inizio: L’ALBA DEL PIANETA DELLE SCIMMIE che scrive il prequel e racconta come tutto ebbe inizio: un farmaco sperimentale studiato per curare l’Alzheimer e testato sui primati, a causa di un incidente viene inalato da un tecnico di laboratorio sul quale ha però effetti letali e che sarà il “paziente zero” di un’epidemia che, come i grafici raccontano nei titoli di coda, infetterà l’intero pianeta.

L'Alba del Pianeta delle Scimmie, 2011
L’Alba del Pianeta delle Scimmie, 2011

Contemporaneamente all’uscita in sala di APES REVOLUTION Sky lo ha rimesso tempestivamente in onda fornendo un servizio, eccellente e non dovuto, ai suoi abbonati: l’ho dunque rivisto per rinfrescarmi la memoria. Diretto da Rupert Wyatt è protagonista James Franco che interpreta il ricercatore farmaceutico e che testa il prototipo del farmaco sperimentale sul padre affetto d’Alzheimer (John Lithgow) mentre si prende cura di un neonato scimpanzé per sottrarlo all’abbattimento dopo che tutti i test sono stati cancellati a causa dell’incidente in cui è morta sua madre, la quale gli ha però passato gli effetti del farmaco del quale era cavia: una straordinaria intelligenza. Il piccolo cresce amorevolmente accudito nella famiglia cui si è unita la fidanzata del ricercatore (Freida Pinto) imparando il linguaggio dei segni e molte altre cose… ma ben presto è evidente che il mondo degli umani non è fatto per lui e lo scontro con la conseguente fuga è inevitabile, proprio mentre comincia a diffondersi il virus fra gli umani e Cesare (nome che proviene dai sequel degli anni settanta) pronuncia la sua prima parola: No.

The Hobbit: An Unexpected Journey - Portraits
Andy Serkis

Tre anni dopo esce, dunque, la seconda parte di RISE OF THE PLANET OF THE APES col titolo DOWN OF THE PLANET OF THE APES contrapponendo all’alba il tramonto, che però la Fox ha cambiato per il mercato italiano in “Apes revolution”… misteri della distribuzione. E se Andy Serkis lì era citato solo alla fine dei titoli ancorché nobilitato da un “con” qui si accaparra addirittura il primo nome. E direi meritatamente. La sua strana carriera cinematografica comincia quando Peter Jackson cercava un attore-mimo per mettergli addosso e sulla faccia dei sensori che trasferissero alla computer grafica i suoi movimenti e le sue espressioni, per rendere umano e credibile il personaggio che si andava a creare: il Gollum/Smeagol del quale Serkis diventò via via interprete-creatore assoluto dandogli anche la voce sullo schermo. Il personaggio creato con questo nuovo sistema, il “motion capture”, fu talmente straordinario e impossibile da disgiungere dall’interpretazione dell’attore-mimo che ci fu una campagna trasversale, fatta di fans e addetti ai lavori e critici cinematografici, affinché Andy Serkis potesse essere nominato agli Oscar… ma la cosa non avvenne in quanto la faccia non era la sua, benché costruita sulla sua interpretazione. In seguito Jackson si avvalse di Serkis anche per dare vita al suo remake di “King Kong” dove premiò l’attore affidandogli anche un ruolo secondario in cui potesse recitare coi suoi connotati. Dell’attore Andy Serkis c’è da dire che purtroppo la sua faccia non corrisponde al suo talento: capace di spaziare dal brillante al drammatico, dal buono al cattivo in tutte le sfumature, ha però una faccia che lo inchioda al carattere brillante e neanche tanto simpatico, e su questo versante si possono contare le sue interpretazioni cinematografiche “dal vero”.

Apes Revolution, 2014
Apes Revolution, 2014

APES REVOLUTION si apre e si chiude con un primissimo piano degli occhi di Cesare ed è chiaro che ci sarà un altro seguito. Sono passati dieci anni dal capitolo precedente e la Terra, annientata dal virus scatenato dieci anni prima, è uno scenario post-apocalittico in cui gli umani sopravvivono a stento nei fortini ricavati dalla macerie delle città mentre le scimmie prosperano libere in natura, intelligenti forti e bene organizzate. Causa una spedizione umana in cerca di soluzioni energetiche le due popolazioni entrano di nuovo in contatto ma Cesare, kaiser della comunità quadrumane, non ha dimenticato di essere stato cresciuto da un uomo buono ed ora è un capo equilibrato ancorché attento e severo: rintuzza i tentativi e le tentazioni di scendere in guerra con gli umani ma, come dimostrano i fatti, non ci sono umani cattivi e scimmie buone, bensì buoni e cattivi da entrambe le parti e lo scontro diventa inevitabile in un film affascinante per gli effetti speciali e la trama ricca di tensioni drammatiche e anche intimistiche.

Fatto fuori dalla produzione il regista Rupert Wyatt che aveva da ridire sulla sceneggiatura, si chiama fuori anche James Franco che qui compare solo come cartolina memoria. Chiamato alla regia Matt Reeves la superproduzione fa fuori anche ogni altra ipotesi di star dato che questo genere di film si regge da sé sull’evento che crea. Tolta l’intensa partecipazione di Gary Oldman nel ruolo secondario del capo della comunità umana – e spendo poche parole per elogiare la sua interpretazione: quando chiamato a fare un discorso alla sua gente per sostenerla e incoraggiarla lo fa con parole inevitabilmente retoriche che lui riesce però a far filtrare attraverso la sua personale angoscia e il suo sperdimento: in questo sta la grandezza di un interprete, quando trova la via per emozioni che nel copione non erano previste. Un altro sarebbe stato solo tronfio e banale. A fronteggiare il Cesare di Andy Serkis stavolta c’è il semisconosciuto ancorché bravo attore australiano Jason Clarke, uno di quei volti che dici: dove l’ho visto? dato che si è visto in ruoli secondari in decine di film ma anche come protagonista di serie televisive. Dalla televisione provengono anche la sua compagna, Keri Russell che in tv è stata recentemente protagonista di “The Americans”, Kirk Acevedo che interpreta il violento perché stupido ed Enrique Murciano che qui quasi neanche parla. La regola data è dunque chiara: non c’è spazio per divi sul pianeta delle scimmie.

E per finire una breve carrellata sui veri volti degli altri interpreti che hanno prestato il loro talento al motion capture per creare le altre creature coprotagoniste del film.

Toby Kebbell / Koba
Toby Kebbell / Koba
Nick Thurston / Occhi Blu
Nick Thurston / Occhi Blu
Karin Konoval / Maurice
Karin Konoval / Maurice
Judy Greer / Cornelia
Judy Greer / Cornelia