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Audace colpo dei soliti ignoti

1959, l’anno successivo al clamoroso successo di “I soliti ignoti” è già pronto il sequel perché il ferro va battuto finché è caldo. Mario Monicelli lascia perché già impegnato sui suoi prossimi due progetti: il documentario “Lettere dei condannati a morte” sulla Resistenza Antifascista in contemporanea col suo prossimo capolavoro “La grande guerra” dove con un salto all’indietro scavalca la Seconda Guerra Mondiale per tornare a raccontare la Prima sfrondando i ricordi da sentimentali idealismi per raccontarne le miserie, un misto di neo-realismo e commedia amara, quella commedia all’italiana che aveva contribuito a fondare l’anno prima proprio con “I soliti ignoti”.

Garrone, Manfredi, Gassman, Murgia, Salvatori, Ludovisi

Per l’audace colpo il soggetto è sempre di Age & Scarpelli che stavolta scrivono il film col nuovo regista Nanni Loy, il quale è alla sua prima regia in solitaria dopo aver co-diretto due film con Gianni Puccini, il brillante “Parola di ladro” col ladro gentiluomo Gabriele Ferzetti e “Il marito” film costruito intorno ad Alberto Sordi; Puccini fu un autore attivo con dieci film in dieci anni, principalmente ricordato per il sul ultimo lavoro “I sette fratelli Cervi”. Il breve curriculum di Loy, diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia e già assistente di bei nomi come Goffredo Alessandrini, Luigi Zampa e Augusto Genina, con quei due film brillanti si era messo in luce e parve al produttore Franco Cristaldi e a duo Age & Scarpelli un nome su cui puntare e Nanni Loy si coinvolse anche nella scrittura della sceneggiatura poiché era ciò che aveva fatto fino a quel momento. Il film che ne viene fuori ha un ritmo più veloce e maggiore freschezza accantonando le amarezze dello stile monicelliano e scampando il pericolo del già-visto sempre in agguato nei sequel. Er Pantera, il personaggio di Vittorio Gassman che dal precedente film uscì vincente (ai Nastri d’Argento) vincendo soprattutto la scommessa sulla sua non ancora sperimentata comicità, acquista un po’ più spazio sugli altri spianando la strada al Gassman che si farà conoscere come Mattatore sia in tv che al cinema nel biennio 1959-1960.

L’azione si sposta da Roma a Milano dove il disastrato gruppetto dei malviventi viene cooptato da Virgilio il milanese per rapinare il furgone che trasporta gli incassi del Totocalcio: ovviamente non tutto va a segno come dovrebbe e contrattempi e disavventure sono sempre dietro l’angolo, ma c’è di nuovo rispetto al primo film che stavolta il colpo va a segno – ma poi tutti rinunciano al bottino perché in fondo sono degli onesti fregnoni (romanesco derivato da fregna, che volgarmente è la vagina; fregnone sta dunque per mammone, ragazzo o uomo ancora attaccato alla fregna di mamma, dunque stupido, minchione).

L’insieme degli interpreti è sempre al meglio con l’ingresso in batteria di Nino Manfredi col personaggio di Ugo piede amaro, chissà forse inizialmente pensato per Ugo Tognazzi probabilmente impossibilitato per i troppi impegni: in quel 1959 uscì con ben dodici film; numeri che oggi sembrano impossibili da replicare ma che all’epoca era consueti per i nomi di punta in una cinematografia al massimo della sua attività: la televisione non era ancora entrata nelle case di tutti gli italiani. Entra Manfredi perché esce Marcello Mastroianni senza colpo ferire: nessun riferimento al suo personaggio, mentre invece viene ricordato il Dante Cruciani di Totò, anch’egli non più della partita.

Gianni Bonagura e Vicky Ludovisi

Entra a gamba tesa il sedicente gangster milanese di Riccardo Garrone che si porta dietro la pupa bionda Floriana, svampita quanto basta ma soprattutto sexy e disinibita che introduce nel pacchetto un che di pruriginoso che supera senza problemi i visti dei censori, evidentemente più preoccupati dagli aspetti politici e religiosi che dalle grazie di ragazzine discinte: Vicky Ludovisi ha appena quindici anni e con la sua disinibita e fresca naturalezza ha stracciato tante altre concorrenti ai provini fatti dal regista, imponendosi come nuovo elemento femminile della banda sempre formata da Renato Salvatori che continua ad amoreggiare con Claudia Cardinale sempre tenuta sotto chiave dal geloso fratello Ferribotte di Tiberio Murgia; e completa la gang il sempre stralunato e affamato Capannelle di Carlo Pisacane. Del precedente cast dei generici tornano il commissario Mario Feliciani e la “mamma” Elena Fabrizi dell’orfanotrofio dove è cresciuto Mario-Renato Salvatori. Nel ruolo di un libraio c’è il non ancora noto Gastone Moschin già ottimo attore teatrale che dopo tanti poliziotteschi e commedie varie sarà uno dei protagonisti di “Amici miei”, altro capolavoro di Monicelli. Un altro ottimo interprete teatrale che nel cinema non ha avuto altrettanta fortuna è Gianni Bonagura qui nell’importante ruolo del ragioniere del Totocalcio che si fa talpa e complice dell’audace colpo.

Generalmente apprezzato dalla critica il film non accede a nessun premio ma al botteghino incalza da vicino l’exploit dell’originale. Passeranno 25 anni prima che la nostalgia, e la crisi del cinema, faranno mettere in cantiere il secondo sequel: “I soliti ignoti vent’anni dopo”. Anche questo film è disponibile su RaiPlay e YouTube.

La lunga notte del ’43 – Fascismo e Resistenza in un’opera prima d’autore

Prima della problematica collaborazione con Vittorio De Sica per la sceneggiatura de “Il giardino dei Finzi-Contini”, film dal quale Giorgio Bassani ritirò la sua firma, lo scrittore bolognese di nascita e ferrarese d’adozione aveva felicemente affidato all’esordiente concittadino Florestano Vancini un altro suo racconto che il regista riscrisse per il cinema insieme a Ennio De Concini e Pier Paolo Pasolini – il primo già affermato professionista della scrittura filmica che un paio d’anni dopo riceverà l’Oscar per la sceneggiatura di “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi, il secondo già divisiva personalità della cultura qui alla sua terza sceneggiatura dopo aver co-scritto “Le notti di Cabiria” di Federico Fellini e “La notte brava” da un suo stesso racconto diretto da Mauro Bolognini: dunque l’esordio del 34enne Vancini, già documentarista di lungo corso, avviene sotto i migliori auspici. Di lui abbiamo appena visto “Il delitto Matteotti”.

Il racconto è “Una notte del ’43” che chiude la raccolta “Cinque storie ferraresi” pubblicata nel 1957 e con la quale lo scrittore vinse il Premio Strega; nel racconto Bassani inventa uno uomo alla finestra che sarà spettatore involontario di una tragedia, e attraverso il suo sguardo racconta un preciso fatto storico, quello che verrà ricordato come “l’eccidio del Castello Estense” in cui il 15 dicembre del 1943 furono fucilati undici oppositori al regime fascista come rappresaglia all’omicidio di un federale. Il protagonista del racconto è un ex fascista che adolescente partecipò alla Marcia su Roma del 1922, e nel presente narrativo proprietario di una farmacia e gravemente infermo a causa della sifilide contratta ai tempi di gloria, e per la quale avendo perso l’uso delle gambe se ne sta tutto il giorno alla finestra – una situazione che ricorda assai da vicino un altro infermo affacciato alla finestra nel celeberrimo film di Alfred Hitchcock “La finestra sul cortile” del 1954 da un racconto giallo di Cornell Woolrich che risale ai primi anni ’40 ma che fu pubblicato in Italia solo in seguito al successo del film, nel 1956, lo stesso anno in cui Bassani pubblicò i suoi racconti su cui già lavorava da anni, dunque è improbabile che l’italiano sia stato ispirato dall’americano il cui protagonista è un fotoreporter testimone involontario di un uxoricidio mentre il farmacista ferrarese è testimone di una ben più seria e reale tragedia.

Florestano Vancini con i suoi co-sceneggiatori di rango aggiunge al fattaccio storico un melodramma privato cinematograficamente molto efficace, inventando per il farmacista Pino Barilari la bella e devota moglie Anna, che intristita dal peso dell’infelice matrimonio casualmente rincontra la vecchia fiamma Franco Villani, e il fuoco della passione torna a divampare fra le stoppie della sua arida esistenza. L’aitante Franco viene da una famiglia di antifascisti e lui personalmente, dopo l’armistizio firmato dall’Italia con gli Alleati l’8 settembre del ’43, si era dato alla macchia allorché Benito Mussolini, che aveva riparato in Germania era tornato fondando in quel nord Italia la Repubblica di Salò, territorio sul quale nazisti e repubblichini fascisti continuavano a imperversare con le loro leggi repressive e persecutorie rastrellando tutti i pusillanimi, gli uomini abili e arruolabili (oggi si dice impiegabili in quanto altrettanto forza-lavoro) per mandarli al fronte o nei campi di concentramento.

Quella notte del ’43 che diventa lunga nel titolo del film, è quella in cui la bella Anna finalmente si concede all’antica fiamma; era uscita di casa di nascosto dal marito che però quella sera non aveva preso il suo solito sonnifero: l’uomo, insonne, si rimette alla finestra in tempo per assistere alla fucilazione degli antifascisti rastrellati nottetempo, fra loro anche il padre di Franco, accusati di un delitto che non avevano commesso, quello del Federale appena nominato da Alessandro Pavolini, in realtà fatto uccidere da tal Carlo Aretusi soprannominato Sciagura che voleva per sé la carica fascista; l’arresto dell’anziano avvocato Villani aveva tragicamente interrotto la clandestina notte d’amore tra il figlio e Anna, la quale rientra all’alba giusto in tempo per essere vista dal marito ancora alla finestra: il melodrammatico cerchio si chiude e finalmente la donna gli rinfaccerà la “malattia schifosa” che ha avvelenato il loro matrimonio.

Dell’autore, qui alla sua opera prima, è evidente il lungo apprendistato come documentarista perché dirige con mano ferma un film tecnicamente perfetto e drammaturgicamente assai pregnante con questa sua dichiarata attenzione ai drammi privati come specchio della storia collettiva che caratterizzeranno la sua cinematografia, come se avesse sentito la necessità di creare un ponte fra il rigore del documentario e la fantasia del cinema narrativo; un film che risente della lezione neorealista e che comincia a esplorare un nuovo filone in cui Florestano Vancini sarà maestro: il cinema d’impegno civile. Il film che compone è livido come i tempi che narra: il protrarsi di una guerra già prossima alla fine, gli ultimi inutili e feroci colpi di coda del regime, il protagonista consumato da una malattia all’epoca fortemente debilitante quanto infamante, la moglie dibattuta fra un affetto sincero ormai fraterno e la necessità di continuare ad amare, il pragmatismo dell’amante che sceglie la fuga in Svizzera alla realizzazione di un antico amore, l’ambiguità degli uomini in camicia nera.

Per approfondire l’argomento:
Breve storia delle riviste di cinema in Italia

Cast di primordine. Enrico Maria Salerno, che continuerà a lavorare con Vancini aggiungendo altre perle alla sua cinematografia – “Le stagioni del nostro amore” 1966, “La violenza: quinto potere” 1972 – è qui il patetico farmacista che l’autore racconta come appassionato di film, di certo trasferendogli una sua personale passione, che legge la rivista Cinema e che consiglia alla moglie quali film andare a vedere, chiedendole al ritorno se i protagonisti sullo schermo si sono baciati per farsi raccontare quei baci: acutissima nota poeticamente introspettiva che racconta il bisogno d’amore dell’uomo intrappolato nella sua infermità; e visto che ci siamo l’autore fa citare al personaggio alcuni film dell’epoca, di quel cinema di regime fra polpettoni storici e musicarelli e favole con i telefoni bianchi, come breve passaggio di storia del cinema che qui riferisco: “Il leone di Damasco” e “La cena delle beffe”, “Violette nei capelli” ma anche il nazista antiebraico “Suss l’Ebreo”.

Il protagonista del racconto diventa nel film il comprimario della vera protagonista, sua moglie Anna, intensamente interpretata dall’inglese Belinda Lee di ottimi studi teatrali in patria ma affermatasi, suo malgrado, solo nel cliché di bionda sexy svampita che tanto piaceva all’uomo medio; va da sé che i produttori nostrani si accorsero di lei e la bella inglese venne in Italia nel 1957 a girare il peplum “La Venere di Cheronea” soggetto e sceneggiatura del giovane Damiano Damiani non ancora regista. L’attrice, attraversando burrascose vicende sentimentali, si trasferì in Italia senza però scrollarsi di dosso il cliché che si era portata dietro insieme al resto dei bagagli. Il primo a utilizzarla come vera attrice in un ruolo serio fu Francesco Rosi ne “I magliari” e l’anno dopo è in questo film. Non avrà il tempo di consolidare la sua carriera come attrice di grandi doti perché morirà l’anno dopo in un incidente stradale in California, appena 25enne.

Nel ruolo dell’amante un altro attore di rango, Gabriele Ferzetti, che nonostante sia più anziano di Salerno di una decina d’anni regge bene il confronto, grazie anche al fatto che l’altro interprete non teme di mostrare la sua incipiente calvizie nel rendere il suo personaggio di perdente. Ferzetti, attivo anche in teatro fin dagli anni ’40, manterrà il suo personaggio di uomo dal fascino spesso ambiguo fino al riconoscimento internazionale come cattivo nell’unico 007 interpretato da George Lazemby. Tornerà a lavorare con Vancini nel 1963 con “La calda vita”.

L’ambiguo fascista detto Sciagura è interpretato da un monumento dello spettacolo italiano: Gino Cervi. Classe 1901, appassionato di teatro sin da bambino (il padre era critico teatrale) cominciò a calcare le scene come filodrammatico e già nel 1925 fu scritturato come primo attor giovane nella compagnia di Luigi Pirandello accanto a primi attori come Marta Abba e Ruggero Ruggeri, interpretando il ruolo del Figlio nel discusso (all’epoca) “Sei personaggi in cerca d’autore”, la cui genesi è stata recentemente narrata da Roberto Andò in “La stranezza”. Subito baciato dal successo lavorò con le migliori compagnie fino a diventare prim’attore e poi capocomico; ovviamente il cinema si accorse di lui che debuttò nei primi anni ’30 e, poiché si era nell’epoca del cinema di regime, divenne un divo dei film eroici-storici. Nel 1960, quando uscì con questo film in cui si divertì a fare la carogna, era già da anni il popolarissimo Don Peppone nei film col francese Fernandel nel ruolo di Don Camillo nella saga dalla narrativa di Giovannino Guareschi. Cervi, generalmente impegnato in commedie, due anni dopo questo film tornerà in un ruolo drammatico in un altro film su Fascismo e Resistenza: “Dieci italiani per un tedesco; via Rasella” di Filippo Walter Ratti. Co-produce il film suo figlio Antonio, Tonino Cervi, che sarà anche regista nonché padre dell’attrice Valentina Cervi.

Concludono il cast dei ruoli principali: Andrea Checchi nel ruolo dell’effettivo farmacista del negozio di Barilari, che fu un altro grande interprete come comprimario, dotato di una recitazione asciutta e assai moderna per quell’epoca ancora intrisa di un certo manierismo ereditato dal cinema di regime. I caratteristi Nerio Bernardi e Isa Querio interpretano i genitori di Ferzetti mentre come loro figlia adolescente c’è la bruna 17enne Raffaella Pelloni che quello stesso anno si era diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia dopo avere abbandonato l’accademia di danza per la quale non aveva grandi qualità; mancano pochi anni perché indossi un caschetto biondo e assuma il nome d’arte di Raffaella Carrà suggeritole dallo sceneggiatore-regista televisivo Dante Guardamagna, appassionato di pittura, che associando il nome di Raffaella a quello di Raffaello Sanzio lo accoppiò col cognome Carrà dal pittore Carlo Carrà: nacque così la Raffa che tutti conosciamo e che da lì in poi, non riuscendo a sfondare come attrice si diede al varietà televisivo. Tutti gli interpreti del film parlano con le loro voci tranne Andrea Checchi, doppiatore a sua volta probabilmente impegnato altrove che qui ha la voce di Giuseppe Rinaldi, e l’inglese Belinda Lee che fu doppiata dalla querula Lydia Simoneschi già doppiatrice delle dive d’oltreoceano, che purtroppo infonde al personaggio un che di artefatto che stona con l’impianto sonoro generale.

Il film, molto apprezzato da pubblico e critica, è stato inserito tra i 100 film italiani da salvare. Giorgio Bassani, dopo questa prima esperienza di scrittore rappresentato al cinema, e di autore impegnato nella narrazione delle malefatte fasciste, dieci anni dopo lo sarà ancora col già detto “Il giardino dei Finzi-Contini” e poi ancora nel 1987 con “Gli occhiali d’oro” diretto da Giuliano Montaldo.

Grazie zia – opera prima di Salvatore Samperi

Enzo Doria come Gionata in “Il vecchio testamento” del 1962 diretto dal generalista Gianfranco Parolini, dove ha ricoperto anche il ruolo di segretario di produzione

Il prode Enzo Doria, già attore belloccio che dopo essere apparso sugli schermi ha voluto fare le cose per bene frequentando il Centro Sperimentale di Cinematografia dal quale si è diplomato nel 1960, sin da subito aveva mostrato interesse per gli altri aspetti delle produzioni ricoprendo vari ruoli dietro le quinte, fino a farsi anche sceneggiatore e regista, ma il cui ruolo più importante rimane quello di produttore il cui primo avventuroso impegno sarà l’andare a braccetto col debuttante autore Marco Bellocchio alla ricerca di finanziamenti per “I pugni in tasca”. Ci ha preso gusto e a tambur battente ha prodotto altri due debutti, Silvano Agosti col censuratissimo “Il giardino delle delizie” e Salvatore Samperi con questo “Grazie zia”.

Di qualche anno più giovane del suo indiscusso modello, quel Marco Bellocchio appena giunto al successo, come lui viene da un’agiata famiglia borghese, di Padova, abbandona l’università per andare a iscriversi al Centro Sperimentale di Roma, che però lascia senza concludere il biennio per buttarsi nel movimento studentesco del 1968 e dichiararsi antiborghese e anti familista, più dichiaratamente di Bellocchio che invece esprimeva tormenti più personali; nel frattempo è assistente volontario, dunque non pagato, di Marco Ferreri, mentre gira anche da regista dei documentari industriali. Così, quando a 25 anni s’impegnerà in questo suo primo lungometraggio di finzione, conosce già bene il mestiere: si tratta solo di raccontare una storia. E la sua storia parte appunto dal suo modello, Marco Bellocchio con “I pugni in tasca”, di cui reimpiega lo svogliato attore feticcio Lou Castel in una vicenda dai tratti simili, l’implosione della famiglia borghese con un protagonista che ancora sogna la strage e anela il suicidio; ma mentre Bellocchio creava senza saperlo un paradigma cinematografico e sociale, Samperi è già sulle barricate del ’68, che è l’anno di produzione del film, e le istanze politiche sono tutte lì, dichiarate, anche con autocritica: il suo protagonista è un figlio di papà altrettanto disturbato come il protagonista di Bellocchio, che come molti giovani dell’epoca cavalca l’onda della rivoluzione sociale per dare sfogo solo ai suoi personali istinti autodistruttivi e nichilisti, senza progettualità né prospettive; gli fa da contraltare la figura dell’intellettuale di sinistra interpretata da Gabriele Ferzetti, seriamente impegnato e motivato, che però il giovane disprezza solo perché mosso da personale gelosia. Alvise è un paraplegico psicologico che è in grado di alzarsi dalla sedia a rotelle se motivato da momentanei impulsi e personali motivazioni, che fa la sua battaglia da adulto bambino su un plastico del Vietnam le cui vittime annota minuziosamente su una lavagna. Esemplare l’inizio del film: dopo l’elettrochoc cui viene sottoposto, panacea pseudo medica di quegli anni, intravediamo in una breve sequenza il suo autoritario padre sempre inquadrato di spalle o, se in campo lungo, nascosto alla nostra vista da una pianta: a simboleggiare la sua effettiva assenza come genitore.

C’è di nuovo, in Samperi rispetto a Bellocchio, l’aspetto erotico, e poi incestuoso in seconda istanza, a mettere in discussione l’impianto familiare benestante e borghese: il 17enne Alvise (ma l’attore è di quasi dieci anni più grande) è verosimilmente con gli ormoni in subbuglio, oltre a tutto il resto dell’armamentario di disturbi veri o presunti, e la bella zia fisioterapista presso cui viene mandato acuisce le sue già distorte fantasie. Molto bella la sequenza in cui il ragazzo osserva gli ospiti della zia cogliendone gli aspetti più intimi ed erotici: un erotismo di gran classe fatto di piccoli gesti inconsapevoli, sguardi e tensioni, che sfoceranno negli inevitabili rapidi amplessi che si consumeranno anche in modo un po’ arruffato.

Annie Girardot fu la prima scelta dell’autore ma rifiutò la parte che andò a Lisa Gastoni, attrice perfetta per il ruolo, giusta al momento giusto. “Io sono convinta che ciascuno di noi ha una sua età. Ci sono dei momenti fisici – perché nel cinema è soprattutto questione di momenti fisici – che ci sono più adatti, più giusti. In genere si chiamano ‘incontro col personaggio’. In fondo il mio vero incontro col personaggio è avvenuto quando avevo ventinove anni, girando ‘Grazie zia’. All’età quindi di una donna nella sua pienezza, alla soglia della trentina. Non ero vecchia ma neppure giovane. Però ero fisicamente ed emotivamente giusta per il ruolo.”

Una giovanissima Lisa Gastoni a inizio carriera

Lei, nata nel 1935 da padre italiano e madre irlandese, nel dopoguerra si trasferisce a Londra dove comincia come fotomodella e anche attrice senza mai sfondare davvero. Torna in Italia dove continua a fare cinema ancora senza grossi exploit fino a “Svegliati e uccidi” del 1966 di Carlo Lizzani dove – e bisogna ricordare che è sentimentalmente legata al produttore Joseph Fryd – interpreta la compagna del “solista del mitra” Luciano Lutring e si aggiudica il Nastro d’Argento; e per il ruolo di questa zia riceverà la Targa d’Oro ai David di Donatello, rilanciando la sua carriera come stella di prima grandezza; ma nei successivi prossimi anni Settanta sceglie di lavorare poco ma bene con registi e film di qualità, e vince un secondo Nastro d’Argento per “Amore amaro” di Florestano Vancini; ma per la sua scelta stilosa perde un po’ il contatto col grande pubblico sempre affamato di facili emozioni, e sul finire di quegli anni ’70 si ritira dalle scene lasciando il campo libero alla più giovane Laura Antonelli che lo stesso Samperi porterà al successo con “Malizia”; mentre da un altro lato si affermerà come diva sexy dei B movie Edwige Fenech. Lisa Gastoni tornerà di nuovo in gran spolvero nel nuovo millennio e fra cinema e tv ottiene altre candidature a premi prestigiosi, a cominciare dalla sua partecipazione a “Cuore sacro” di Ferzan Ozpetek, autore nella cui cifra stilistica va notato che ama reimpiegare vecchie glorie: Lucia Bosè, Erika Blanc, Massimo Girotti, Ilaria Occhini, Anna Proclemer…

Nella bella intervista di Mario Sesti, Lisa Gastoni dice una cosa non banale e interessante: che quando su una sceneggiatura ci sono troppe firme qualcosa non va. Viene citato anche il suo ultimo film diretto da Ferzan Ozpetek

Il film, nonostante nelle intenzioni dell’autore sia un manifesto politico di quegli anni, passerà alla storia come un cult che ha innestato il filone erotico nella commedia all’italiana, e anche Samperi, esaurita l’ispirazione politica che non ha portato grandi incassi alle sue imprese, si alternerà fra la commedia, anche sperimentale, vedi “Sturmtruppen”, e quel filone sexy di qualità che tanta immediata fama gli ha dato al suo debutto, tornando a deliziare le platee maschili con “Malizia” appunto, “Peccato veniale”, “Scandalo” e via discorrendo, un elegante erotismo sempre innestato sul disfacimento dell’istituzione della famiglia. Nel 1991 l’autore, evidentemente ormai col fiato corto, tenta col sequel “Malizia 2mila“, film assai problematico con tristi strascichi oltre che clamoroso insuccesso. Per Samperi è un personale colpo di grazia e smette di fare cinema, tornando solo dopo una decina d’anni a dirigere fiction per Canale 5, fino alla sua morte improvvisa a 68 anni.

Interessante il commento musicale di Ennio Morricone che ha composto un’inconsueta filastrocca cantilenante che torna quasi ossessiva nell’arco dell’intero film: “Guerra e pace, pollo e brace”; inoltre c’è anche l’altrettanto inconsueta “Filastrocca vietnamita” di Sergio Endrigo. Al montaggio torna il recalcitrante Silvano Agosti che stavolta si firma Alessandro Giselli e il film viene ammesso alla sezione ufficiale del Festival di Cannes del 1968, edizione che fu però cancellata dalle agitazioni studentesche del Maggio Francese: un dispiacere per autore e produttore mentre il protagonista di certo se la rideva sotto i baffi. Oltre alla Targa d’Oro a Lisa Gastoni il film si aggiudica anche il Nastro d’Argento per la miglior fotografia in bianco e nero di Aldo Scavarda. Salvatore Samperi si aggiudicherà l’attenzione di critica e pubblico, anche se per ragioni differenti: il titolo diventa subito sinonimo di situazioni scabrose ed erotismo pruriginoso, e avviando il filone della commedia sexy all’italiana resterà suo malgrado il capostipite del proficuo sotto-filone familiare in cui si contano: “Grazie… nonna” di Marino Girolami con Edwige Fenech, “Le dolci zie” di Mario Imperioli, “La cognatina” di Sergio Bergonzelli, “La cugina” di Aldo Lado, “Cugini carnali” di Sergio Martino, “Il vizio di famiglia” di Mariano Laurenti, “Peccati in famiglia” di Bruno Gaburro, “Cara dolce nipote” di Andrea Bianchi, “Bello di mamma” di Rino Di Silvestro, “Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno” di Luciano Salce e “Oh mia bella matrigna” di Guido Leoni che segna l’unica interpretazione cinematografica della valletta Sabina Ciuffini; qui tralasciando molti altri film che pur senza riferimenti alla famiglia nel titolo si inseriscono di diritto in questo sotto-filone cui lo stesso Samperi ha continuato a dare il suo contributo con “Peccato veniale” “Nenè” e “Casta e pura”.

Lou Castel, che fin dal primo set che ha frequentato, “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, ha mostrato di non essere particolarmente interessato al concetto di “carriera” perché è un estremo eccentrico che non intende sottomettersi a un sistema di auto celebrazione in cui ci si auto rappresenta; già col successo di “I pugni in tasca” si defilò dai classici dibattiti con pubblico e stampa che seguirono, mettendo la scusa che non parlava bene l’italiano: in realtà era depresso dall’esito oltremodo positivo del film perché il successo gli dimostrava che anche quel film d’autore era un’impresa commerciale come tutte le altre. Idealista duro e puro dunque, fino al nichilismo del paradosso secondo cui un film di qualità, politicamente e socialmente impegnato, non deve avere successo commerciale. Ma suo malgrado diventa un celebrità transalpina e così comincia ad accettare qualsiasi cosa, che si tratti di film artistici o di serie B tutto fa brodo per permettergli di finanziare le cause di quell’estrema sinistra a cui ha aderito con tutte le scarpe, e versa tutti i suoi guadagni nell’organizzazione maoista “Servire il popolo” con questa motivazione: “Molti giovani della borghesia hanno fatto lo stesso, vendendo la loro auto o il loro appartamento. D’altro canto, di attori che hanno fatto lo stesso, ce n’erano pochi o niente.” E fu espulso dal democristiano e cattolicissimo governo italiano come indesiderato. Il disgusto per la popolarità che gli deriva dal suo lavoro di attore si esprime ancora in questo racconto: “Ricordo una volta che stavo chiacchierando con un ragazzo che mi aveva visto il giorno prima in ‘Grazie zia’ di Salvatore Samperi, un dramma piuttosto sulfureo ed erotico dove interpretavo un ragazzo che seduceva la zia. Io stavo cercando di convincerlo della necessità di una rivolta, ma la sua unica ossessione era se avessi scopato o meno l’attrice, Lisa Gastoni.” E ha raccontato pure allegramente che Louis Malle lo cercava senza trovarlo perché lui era a fare la sua rivoluzione, e non lo ha più trovato. Nonostante ciò la sua carriera di attore non-attore ha continuato, e anche se l’emergenza estremista si è acquietata lui rimane sempre un uomo controcorrente. Oggi ha 79 anni e nel 2016 Pierpaolo De Santis ha realizzato su di lui il documentario biografico “A pugni chiusi”.

Agente 007, al Servizio Segreto di Sua Maestà – la parentesi George Lazenby

E’ andata così. Dopo 5 film di James Bond 007, Sean Connery era stanco di quel ruolo, che peraltro rischiava di intrappolarlo: nel frattempo era riuscito a interpretare un solo altro film nel 1966, “Una splendida canaglia” di Irvin Kershner con Joanne Woodward, già signora Paul Newman. Si presentò a una conferenza stampa per l’ultimo film della sua serie “Si vive solo due volte” vestito in modo dimesso e addirittura senza parrucchino: perché sì, Sean Connery soffriva già di quella incipiente calvizie che in età matura avrebbe contribuito al suo fascino, ma all’epoca era stato costretto a indossare un parrucchino per impersonare 007; e alla domanda di un giornalista “E’ così che si veste James Bond?” rispose “Io non sono James Bond, sono Sean Connery”; inoltre alla prima del film aveva confidato alla Regina Elisabetta che quello sarebbe stato il suo ultimo 007.

George Lazenby pubblicizza la Arne Jacobsen’s Egg chair bevendo una Kronenbourg. 

Per rimpiazzarlo, Albert Broccoli pensò a Timothy Dalton, ma l’attore, allora ventiquattrenne, si reputò troppo giovane per il ruolo e declinò l’offerta: avrebbe interpretato 007 solo diciotto anni dopo. L’altro produttore, Harry Saltzman, rilanciò con Roger Moore che però era ancora impegnato nella serie tv “Il Santo”. Intanto i due avevano pubblicato un annuncio alla ricerca del nuovo James Bond e si presentarono almeno quattrocento candidati, fra i quali il modello australiano, che nel 1968 era risultato il modello più pagato al mondo, George Lazenby; che in patria aveva prestato il servizio militare nelle forze speciali, acquisendo una preparazione fisica che gli tornerà utile in uno dei due provini cui fu sottoposto: un incontro di lotta libera; nell’altro provino doveva disarmare un’attrice e poi baciarla. Non guastò affatto, anzi, la sicumera e l’arroganza con le quali il modello si presentò ai provini, impressionando positivamente i produttori; Lazenby si presentò all’incontro già atteggiandosi a James Bond, passando oltre la receptionist proprio come avrebbe fatto 007 superando la scrivania di Miss Moneypenny per entrare nell’ufficio di “M”. La sua faccia tosta insieme alla fama di modello ben pagato e ai provini superati brillantemente gli valsero il contratto. Ma proprio ciò che fu il suo punto di forza si rivelerà il suo punto debole: la fama che acquistò sui tabloid come prossimo 007, unitamente alla sua arroganza e al suo volere imitare James Bond nella vita pubblica, lo portarono a essere un attore indisciplinato, che è quello che spesso capita a un non professionista che raggiunge una fama immediata: ma la fama non è successo. Si inimicò il regista Peter Hunt, qui anche lui alla sua unica regia 007 dopo essere stato in squadra nella produzione prima come montatore e poi come aiuto regista; Hunt non rivolgerà più la parola a Lazenby tanto che durante la lavorazione del film si parleranno per interposte persone; Lazenby fa arrabbiare anche Broccoli disertando un party della di lui moglie; divertendosi a inseguire a cavallo il collega Bernard Lee, l’interprete di “M”, lo fa cadere in uno spinoso cespuglio di rose, e di nascosto va a sciare mentre, essendo sotto contratto, dovrebbe evitare comportamenti e azioni che mettono a rischio la sua incolumità fisica. Insomma George Lazenby fa di tutto per rendersi antipatico e ben presto la stampa comincia a parlarne male, coinvolgendo la produzione: per il film si parlerà di flop al botteghino mentre nella realtà, quell’anno, il 1969, fu un notevole successo, secondo solo al “Butch Cassidy” con Paul Newman e Robert Redford diretto da George Roy Hill. In termini strettamente numerici incassò 24 milioni di dollari meno del precedente 007 ma comunque più di qualcuno dei successivi episodi con Roger Moore.

Ma venendo specificamente al film c’è da dire che a tanti anni di distanza si fa vedere con piacere: il ritmo, rispetto al debutto di Sean Connery è molto migliorato, le lotte corpo a corpo sono più articolate e contiene delle sequenze di azioni molto spettacolari anche considerate col gusto odierno. Ma la produzione mostra di aver temuto che il cambio di attore avesse potuto nuocere al botteghino, così, a differenza dei precedenti film, il nome dell’interprete è messo dopo il titolo di modo che il primo richiamo sia James Bond Agente 007. Nel film vediamo poi il volto di George Lazenby almeno dopo cinque minuti di inquadrature di spalle e in controluce, mentre guida la sua Aston Martin, e poi mentre si accende una sigaretta cominciamo a scoprire le labbra e la fossetta sul mento, fino a scoprire finalmente il volto del nuovo 007 dai lineamenti altrettanti forti di quelli di Sean Connery.

La sua prima azione è salvare la sua non-solo-Bond-Girl da un tentato suicidio, mentre in lungo abito di lamé la bella signora s’inoltra nel mare; la quale, dopo che il suo salvatore ha fatto una scazzottata con due misteriosi e loschi individui, scappa via da lui: George Lazenby qui si rivolge alla cinecamera, infrangendo la “quarta parete” per rivolgersi direttamente al pubblico, mettendolo a confronto con la finzione cui sta assistendo, e ironicamente dice: “Non era mai successo a quello di prima!” riferendosi a Sean Connery-james Bond davanti al quale nessuna donna era mai fuggita via. Ma questa Bond Girl è assai diversa.

Teresa “Tracy” Draco è la ricca annoiata depressa figlia del corrotto affarista corso Marc-Ange Draco; James Bond la salva dalle onde del mare e la sera stessa – l’agente in vacanza va a giocare, ormai come da prassi, al casinò dell’albergo – la salva una seconda volta, dallo scandalo stavolta, dato che la contessa punta e perde una somma che non ha: James Bond copre la perdita e dopo se la ritrova in camera a puntargli una pistola e, come da provino, lui la disarma la bacia e ci passa la notte insieme; l’indomani lei è sparita, lasciandogli il corrispettivo della perdita sul comodino, ma portandogli via la pistola. Evitando di raccontare passo per passo il film, la cosa fondamentale è che accade ciò che non era mai accaduto prima: James Bond si innamora e sposa la bella ereditiera… ma niente paura, l’affascinante agente segreto non si accaserà perché il cattivo di turno gli uccide la moglie prima ancora della luna di miele. Uno snodo interessante, perché vediamo il lato umano e sentimentale che vedremo solo nello 007 più recente.

Dioana Rigg in “The Avengers”

Diana Rigg prima di prendere parte a questo 007 era stata Emma Peel nella serie tv “The Avengers” e prima ancora era stata la prima attrice britannica a recitare nuda sul palcoscenico in “Abelard and Heloise”. Vale la pena una piccola digressione: “The Avengers” diverrà film nel 1998 con Ralph Fiennes e Una Thurman nel ruolo che fu di Diana Rigg, un film in cui l’ex 007 Sean Connery si è divertito a impersonare il cattivo, ma che nel complesso non ha avuto quel successo eclatante da farlo serializzare.

Anche Diana Rigg non è sfuggita alla Bond-maledizione che non concede brillanti carriere alle ex Bond Girl. Solo recentemente, in età avanzata, l’abbiamo rivista in costumi d’epoca sia nella serie “Victoria” come immaginifica vecchia Duchessa di Buccleuch e Queensberry che nella realtà storica era coetanea della giovane Regina Vittoria, tanto che rimasero per sempre amiche. Ma soprattutto la Rigg è tornata ai fasti del successo come la Regina di Spine Lady Oleanna Tyrrell in “Il Trono di Spade”, ruolo che le è valso un nutrito stuolo di giovani ammiratori e diversi riconoscimenti, con un’uscita di scena da applausi davanti lo schermo tv.

Nel cast di quest’unico 007 di George Lazemby tornano Lois Maxwell come Miss Moneypenny e Bernard Lee come “M”; il corso Draco è interpretato dall’italiano Gabriele Ferrzetti mentre il cattivo Ernst Stavro Blofeld, che in “Si vive solo due volte” era stato Donald Pleasence sfregiato da un’enorme cicatrice sull’occhio destro, qui è Telly Savalas dopo un intervento chirurgico che gli ha rifatto il viso, ma curiosamente l’attore, di concerto col regista, mostra a lungo il suo dito indice deforme, la cui causa è rimasta un mistero: la versione nobile sostiene che sia stata una granata durante la Seconda Guerra Mondiale, ma una vecchia storia racconta invece che sia stato a causa di un morso di un ratto, quando l’attore era ancora un bambino; a ben guardare però potrebbe trattarsi di una malformazione congenita.

telly savalas celebrità senza un dito

Bisogna dire che nonostante il film sia molto ben riuscito conserva ancora un tono paternalistico, sessista e anche razzista. Dopo il matrimonio, Draco raccomanda alla figlia di ubbidire al marito; mentre nella clinica di Blofeld, la dozzina di belle ragazze in cura provenienti da tutto il mondo seguono una dieta dedicata, secondo cui l’australiana mangia mais, la cinese il riso con le bacchette, l’indiana mangia i samosa con le mani e la nera africana sbuccia una banana.

Nonostante il buon successo al botteghino, il film verrà considerato dalla stampa un flop e questo deve aver ferito l’orgoglio dello spavaldo Lazenby, perché come è umanamente accertato, l’arroganza spesso maschera l’insicurezza, e l’ex modello rifiuta di firmare un contratto per altri sette film e la sua carriera da star finisce praticamente qui pur prendendo parte a diversi progetti.

John Gavin

Confusi per l’inatteso abbandono di George Lazenby, i produttori si rivolgono a Burt Reynolds, che però era sotto contratto altrove; allora venne scelto l’americano-messicano John Gavin, che arrivò a firmare il contratto. Ma si rifece avanti Sean Connery e a Gavin venne pagato il contratto annullato e promesso il film successivo, per il quale invece fu poi scritturato Roger Moore che nel frattempo aveva concluso la serie tv “Il Santo”. Il povero John Gavin ci rimase così male che abbandonò la carriera cinematografica per quella politica, fino a divenire ambasciatore USA in Messico sotto la presidenza Reagan.

Sean Connery torna per l’ultima volta (ma non sarà davvero così…) a vestire i panni di James Bond in “Una cascata di diamanti” spuntando un contratto di un milione e 250mila dollari pari a circa 8 milioni odierni, più una percentuale sugli incassi e la produzione di un altro film, il noir poliziesco “Riflessi in uno specchio scuro” diretto da Sidney Lumet.

To be continued…