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I soliti ignoti vent’anni dopo

1985, esattamente 27 anni dopo arriva il secondo sequel di cui nessuno sentiva la necessità. L’anno prima c’era stato il non riuscito remake americano “Crackers” a firma del francese americanizzato Louis Malle e il sequel tutto italiano lo ha forse voluto solo il non più giovanissimo regista esordiente Amanzio Todini che per anni è stato assistente di Mario Monicelli e finalmente vuole fare qualcosa di suo, solo che invece di fare qualcosa di veramente suo si immette nel solco del suo maestro. Perché evidentemente sa vivere solo di luce riflessa e come autore non ha niente da dire: firma il secondo sequel – dopo “Audace colpo dei soliti ignoti” che Nanni Loy diresse l’anno dopo il capostipite capolavoro – senza infamia e senza lode. Semmai l’infamia gli viene dall’essersi voluto cimentare nell’impresa e la mancanza di lode proprio nell’aver fallito clamorosamente: non che il film sia brutto ma è semplicemente banale, una commedia di genere senza una precisa identità.

Ma vediamo chi è rimasto nell’impresa. Alla sceneggiatura resta solo Age che da qui in poi si firmerà col nome completo Agenore Incrocci, perché il suo sodalizio con Furio Scarpelli si è concluso a metà anni Sessanta. Torna Suso Cecchi D’Amico che aveva saltato l’appuntamento col secondo sequel e completa il terzetto lo stesso regista debuttante, già co-sceneggiatore per il suo maestro Monicelli nel film “Le due vite di Mattia Pascal” dello stesso anno con Marcello Mastroianni che in quel 1985 esce anche con “Maccheroni” di Ettore Scola e “Ginger e Fred” di Federico Fellini. Il produttore dei primi due film Franco Cristaldi, ormai accasato con Zeudi Araya, si tira fuori e produce la non meglio identificata Excelsior Film.

A quel punto bisognava fare i conti col cast: chi c’era, chi non c’era e chi non era più interessato – fermo restando che per suscitare l’interesse degli interpreti a volte basta l’entità del compenso. Le riconferme più entusiaste arrivano da coprotagonisti e generici: Tiberio Murgia è della partita e lo segue Gina Rovere che fu la moglie di Mastroianni nel primo film; da qui in poi bisognava convincere i big. Si lascia convincere Vittorio Gassman che quell’anno esce con un solo altro film di produzione internazionale, poco visto: “Il potere del male” di Krzysztof Zanussi, e non è improbabile che sia stato lui a chiedere agli sceneggiatori di farlo morire alla fine del film per evitare ulteriori tentazioni. Un no secco deve essere arrivato da Nino Manfredi che si era unito al cast del secondo capitolo riempiendo il vuoto lasciato da Mastroianni che a sorpresa torna nell’impresa, stavolta da protagonista assoluto con l’unico nome sopra il titolo: Gassman si fa collocare alla fine “con la partecipazione di”. Carlo Pisacane era morto dieci anni prima di beata vecchiaia e Renato Salvatori ha lasciato il cinema da alcuni anni, “un mondo che non gli apparteneva più” come dichiarò in un’intervista, ma da almeno un decennio soffriva di alcolismo e morirà 54enne di cirrosi epatica nel 1988. Anche Claudia Cardinale si sfila dall’impresa: con tutta la buona volontà non c’era modo di offrirle un ruolo appetibile e ormai è una diva inarrivabile per certe produzioni e questo secondo sequel del film che l’ha lanciata si prospetta come una commedia di genere, forse anche di serie B; quell’anno lei esce con due film, “La donna delle meraviglie” di Alberto Bevilacqua e il francese “L’estate prossima” di Nadine Trintignant. Dunque agli sceneggiatori tocca giocare con le carte rimaste pescandone di nuove, e di nuovo ci sono due figli che nel primo capitolo erano bambini e oggi sono adulti, nel segno della continuità generazionale.

Il ruolo più importante va al romano Giorgio Gobbi come figlio di Marcello Mastroianni e Gina Rovere che gli sceneggiatori fanno venire giù da Milano dove il giovanotto vive e lavora; l’attore, che aveva debuttato accanto ad Alberto Sordi in “Il Marchese del Grillo” di Mario Monicelli (il maestro torna sempre nella narrazione) fa bene, recita con accento milanese anche se non si capisce – e questa è un’altra delle tante lacune della sceneggiatura – perché un giovanotto nato e cresciuto a Roma improvvisamente cominci a parlare con forte accento meneghino dopo qualche anno in trasferta: la spiegazione forse sta nella debolissima gag con cui chiama papi suo padre che da buon romano non apprezza; c’è poi che il ragazzo dichiara al padre di essere diverso: siamo in un’epoca che, benché sfrondata dai tanti tabù dei decenni precedenti, l’omosessuale al cinema è ancora raccontato come macchietta da deridere o dramma individuale: in questo caso il giovane non è mai stato con una donna ma non ha ancora fatto il grande salto perché non è andato neanche con gli uomini: nella narrazione dell’epoca c’è speranza che “guarisca”, come il padre auspica, cosa che puntualmente avviene dopo un accidentale bacio con la bella di turno: scivoloni della scrittura oggi non più tollerabili che in ogni caso segnano le mancanza di idee davvero vincenti.

Francesco De Rosa primo a destra con Enrico Montesano e Gigi Proietti in “Febbre da cavallo”

L’altro figlio porta il cognome di Cruciani ed è l’erede narrativo del Dante Cruciani di Totò, ruolo che è andato al napoletano Francesco De Rosa che anche artisticamente si era proposto come erede di Totò, se non altro per la faccia che ne ricordava la maschera e anche il timbro vocale, tanto che esordì sui palcoscenici partenopei con delle macchiette in cui imitava o omaggiava il Principe della Risata. Gli si aprirono le porte del cinema e debuttò diretto da Steno in “Piedone a Hong Kong” con Bud Spencer, e l’anno dopo, sempre diretto da Steno, fu nel cast di “Febbre da cavallo” con il suo ruolo più importante che gli fece raggiungere la massima notorietà e per il quale viene ancora oggi ricordato. Fra un film e l’altro torna a omaggiare Totò in questo film ma la svolta drammatica arriva nei primi anni Duemila con la produzione di “La mandrakata” come seguito di “Febbre da cavallo”, diretto da Carlo Vanzina figlio del fu Steno. Incomprensibilmente, contrariamente agli altri interpreti, non viene riconfermato nel cast, e nel ruolo del napoletano fu scritturato l’emergente Carlo Buccirosso cambiando alcune caratteristiche del personaggio; questo grave smacco fece scivolare De Rosa in una profonda depressione che lo condusse al suicidio per impiccagione un paio d’anni dopo.

Per quanto la Cardinale non fosse più disponibile non si poteva rimettere in scena il Ferribotte di Tiberio Murgia senza la sorella Carmelina, dato che la coppia degli allora debuttanti formava un unicum narrativo assai riuscito che vent’anni dopo ribalta i ruoli in un buon sviluppo narrativo: Carmelina ha oggi preso le redini della conduzione domestica, lavora e mantiene l’inutile fratello, tanto che si stenta a riconoscerla sul piano caratteriale, mentre sul piano fisiognomico è interpretata dalla credibilissima e somigliante Rita Savagnone, che essendo più attiva nel doppiaggio è già stata più volte la voce di Claudia Cardinale che qui stavolta sostituisce fisicamente; il personaggio è ben riuscito e gradevole ma gli sceneggiatori, sbagliando ancora una volta, preferiscono non svilupparlo avendo a che fare con una sostituzione. Sviluppano invece il non riuscito personaggio della madre di Cruciani come vecchia al seguito della banda nell’odierna disavventura: la interpreta la non troppo vecchia napoletana Concetta Barra, madre di Peppe Barra, che fa quello che può col poco materiale narrativo che le è stato dato in carico, dimostrando ancora una volta che gli sceneggiatori hanno lavorato davvero male sprecando occasioni su occasioni; eppure, tolto il regista Todini che ha sempre arrancato dietro agli altri, i primi due erano due vecchie volpi del mestiere. Mah.

La bella di turno che guarisce il diverso è, in linea coi tempi, una ragazza madre che fugge da un fidanzato violento. La interpreta la napoletana Clelia Rondinella mentre il violento che la insegue è l’ancora sconosciuto Ennio Fantastichini che nei decenni a venire sarà uno dei protagonisti di qualità del cinema italiano: morto 63enne nel 2018 per cause naturali. Completano il cast come trafficanti Giovanni Lombardo Radice, mio amico personale recentemente scomparso, attore e regista teatrale che era divenuto famoso, per gli appassionati, come iconico interprete di alcuni film horror di serie B, anche in lingua inglese che parlava fluentemente, e per i quali ebbe un suo proprio fan club internazionale; come suoi scagnozzi Pasquale Africano che divenne famoso in tv come guardia giurata del giudiziario “Forum” di Canale 5, e un giovanissimo quasi irriconoscibile Alessandro Gassmann (che ha recuperato nel cognome tedesco la seconda N che Vittorio aveva fatto cadere) che il padre sta avviando alla carriera artistica ma qui è doppiato da Roberto Chevalier. Vanno ricordati anche il caratterista romano dal fisico imponente specializzato in ruoli di rude e violento Natale Tulli, doppiato da Enzo Liberti, qui come nuovo compagno della moglie di Tiberio-Mastroianni, e in un piccolo ruolo la doppia figlia d’arte Alessandra Panelli (di Paolo Panelli e Bice Valori) come moglie dell’erede Cruciani, e nella vita reale moglie a scadenza di Lombardo Radice.

Nell’insieme il film si lascia seguire piacevolmente e recuperarlo non è tempo perso, se non altro per rivedere duettare Gassman e Mastroianni, ma resta un’occasione sprecata sin dalla sua genesi: l’intento è nostalgico ma anche commerciale e viene confezionato un film di genere che nulla ha dei punti di forza del capostipite che fondò la commedia all’italiana. Non si trattava di rifondare il genere ormai sepolto dalla commedia sexy all’italiana ma se non altro mantenerne l’idea, l’ideale, e a nulla valgono gli inserti in bianco e nero del film capostipite concessi dal primo produttore che viene ringraziato nei titoli di coda: “La produzione e gli autori ringraziano FRANCO CRISTALDI per gli inserti da I SOLITI IGNOTI di MARIO MONICELLI”.

Monicelli che in apertura dei titoli di testa viene citato con “Mario Monicelli presenta”, una sorta di viatico e lasciapassare per il discepolo dotato di poco talento. Marcello Mastroianni è l’unico nome prima del titolo: uscendo dal carcere all’inizio del film si ritrova in una Roma sconosciuta e anche incattivita, ma ancora una volta la sceneggiatura non graffia laddove spunti ce ne sarebbero a decine, e la recitazione dell’attore ha lo spessore dell’interprete maturo, ma non avendo spunti brillanti a cui aggrapparsi – se non trite gag da avanspettacolo, quello che Monicelli aveva mandato in soffitta – il suo personaggio risulta più cupo che brillante, da commedia amara, e sarebbe stato un punto a favore se il film avesse seguito questa traccia, ma in realtà in film non ha nessuna traccia.

Segue nei titoli, al secondo posto, Tiberio Murgia “nel ruolo di Ferribotte”, che non essendo un vero interprete rifà sé stesso senza sbagliare; vengono poi Rita Savagnone “nel ruolo della sorella di Ferribotte”, Concetta Barra “nel ruolo della signora Italia” e infine arriva “con la partecipazione diVittorio Gassman che pur continuando a balbettare si è liberato di quel trucco e parrucco che lo avevano aiutato a diventare maschera brillante quasi trent’anni prima. Amanzio Todini dopo questo debutto-flop firmerà due anni dopo solo un’altra regia, il televisivo Fininvest “Non tutto rosa” con Marisa Laurito e Andy Luotto; è morto 48enne nel 1995 ma non mi è stato possibile rintracciare ulteriori dettagli. Il film è disponibile su YouTube.

I mostri

Veicolo per due dei divi del momento anche amici nella vita: Ugo Tognazzi che veniva dalla rivista e Vittorio Gassman dal teatro classico, diversissimi quanto intercambiabili, in questo film esplorano la loro intima natura di interpreti: tendente all’esagerazione istrionica Gassman, più misurato e ambiguamente sottile Tognazzi, che per questo fu anche lodato dalla critica: “segna il punto più alto raggiunto da Tognazzi nel film a episodi”, “…in confronto al suo rapinoso, irresistibile, talvolta magari debordante collega [si presenta] come un ‘dritto’ di indole più conciliante e flemmatica. E lo è, magari, però i personaggi più mostriciattoli finiscono per essere poi proprio suoi”. “Nel corso di questo festival dei due emuli di Fregoli, bisogna dare la preferenza a Tognazzi, molto più sciolto, più sottile, più sfumato e più convincente di Gassman. Con lui, la satira è meno diretta. Essa s’insinua e raggiunge meglio lo scopo”.

I due attori nel film “La marcia su Roma” sempre diretti da Dino Risi

Il film del 1962 è stato selezionato fra i 100 da salvare della nostra cinematografia ed è un caposaldo della primissima commedia all’italiana che molto bene si espresse nei film a episodi, spesso firmati da registi diversi, in questo caso addirittura 20 di durata varia, e qui li dirige tutti Dino Risi, già regista affermato che ha scritto il film con Elio Petri che aveva da poco debuttato in regia col drammatico “L’assassino” ma che era sceneggiatore da più di un decennio; con Ettore Scola, anch’egli sceneggiatore da un decennio che debutterà come regista l’anno dopo con “Se permettete parliamo di donne”; e poi con gli sceneggiatori a tempo pieno Agenore Incrocci, Ruggero Maccari e Furio Scarpelli. Al montaggio quello che diverrà un altro regista di genere, Maurizio Lucidi, che come montatore continuava un mestiere di famiglia. Scene e costumi di Ugo Pericoli, musiche di Armando Trovajoli e produzione di Mario Cecchi Gori. Il successo è servito: la feroce critica sociale è piaciuta molto a pubblico e critica.

L’educazione sentimentale

È quella che un italiano medio impartisce al figlio scolaro elementare, fatta di luoghi comuni, proverbi e modi di dire, tutti all’insegna del fare truffaldino come stile di vita e della disonestà intesa come furbizia in un mondo di disonesti, perché i disonesti sono sempre gli altri: un atteggiamento – non solo tutto italiano – sempre corrente. La morale è che quel che si semina poi si raccoglie. Ugo Tognazzi apre il film con questo ritrattino folgorante educando il figlio Ricky Tognazzi (doppiato da un altro bambino, Roberto Chevalier) anche all’arte cinematografica: quello stesso anno il bambino recita di nuovo accanto al padre nell’episodio “Il pollo ruspante” diretto da Ugo Gregoretti nel film “Ro.Go.Pa.G.”. Come collega d’ufficio completa il cast Mario Frera non accreditato nei titoli, come pure la moglie del protagonista e madre del bambino che altri non era che Pat O’Hara, vera madre di Ricky e compagna di Ugo.

La raccomandazione

Vittorio Gassman, reduce dal suo “Il mattatore” prima in tv e poi al cinema diretto sempre da Dino Risi che su di lui aveva disegnato “Il sorpasso” l’anno prima, si prende in giro rifacendo sé stesso in una rilettura un po’ sopra le righe: è un prim’attore teatrale impegnato nell’Otello di William Shakespeare, come realmente lo era stato qualche anno prima in una storica messa in scena curata da lui stesso e in cui ogni sera si alternava con Salvo Randone nei ruoli di Otello e di Jago, spettacolo che è possibile recuperare nella sua versione televisiva su RaiPlay. Nell’episodio un collega meno noto e meno fortunato gli chiede una raccomandazione per un’altra produzione e il primattore, fra bizze in camerino infarcite di classiche sboronate, effettivamente telefona per fare la sua raccomandazione – che però si rivela falsa e ipocrita, e fingendo di negare ciò che invece afferma fa del collega un ritratto ingeneroso e disastroso. Nell’ingrato ruolo del collega si presta il caratterista cine-televisivo Franco Castellani.

Il mostro

Velocissimo, meno di un minuto questo flash che mette in burla la critica sociale. Il titolo di un quotidiano annuncia che un “mostro” ha ucciso i suoi cinque figli e si barrica in casa sulla Pontina, dove a seguire vediamo che la polizia lo va a prelevare. Musica di marranzano perché sia chiaro che il mostro è un immigrato del sud, e poi un fotoreporter fa uno scatto del povero mostro stretto fra i due poliziotti, uno a cui manca un incisivo e l’altro con un occhio storto: altrettanto mostri ma da barzelletta. Il tutto all’insegna di un politicamente scorretto ancora di là da venire nella coscienza civile e all’insegna del quale non avremo più di queste perle.

Come un padre

Come un padre, è come il giovane marito geloso considera l’amico un po’ più anziano nel cui appartamento piomba in piena notte per lamentare il presunto tradimento della moglie, chiedendo all’amico di intercedere, proprio come un padre, per accertarsi che i suoi siano solo timori e malate fantasie. Rassicurato il giovane amico, l’uomo torna a letto dove ad attenderlo c’è la giovane moglie di cui si è appena parlato. Tognazzi recita di sottrazione, con molta misura, dando spazio all’emergente Lando Buzzanca che nei decenni a venire sarà protagonista della commedia sexy all’italiana sempre con questo genere di personaggio, qui però doppiato dal padovano Carlo Reali che garbatamente rifà il suo accento siciliano.

Presa dalla vita

Gassman, come se non ne avesse abbastanza, in questo episodio si sdoppia e interpreta due di quei mostri che si muovono sui set cinematografici: un tuttofare che rapisce una vecchietta e poi il regista dalla chioma argentata che la utilizza nel film malgrado lei. Parabola, e anche un po’ denuncia, di tanti piccoli interpreti dell’appena concluso neorealismo dove gli attori venivano presi dalla strada, appunto, e qui si racconta anche contro la loro volontà. I sei sceneggiatori, o uno dei sei non si sa chi, si sono qui divertiti a ritrarre il regista come una copia di Federico Fellini.

Il povero soldato

Il povero soldato in licenza è venuto dalla provincia nella capitale dove si era trasferita la sorella, per riconoscerne il cadavere: la ragazza è stata trovata assassinata e i giornali cavalcano la notizia con tono scandalistico. Un amico lo accompagna nell’appartamento della ragazza, ex cameriera, come l’amico spiega cautamente, che si è evoluta: si era comprata una casa arredata con ogni confort ai Parioli… Il povero soldato, avvilito, ha trovato il diario della sorella con nomi e cognomi della Roma bene, calendario degli appuntamenti e tariffe in decine di migliaia di lire che lui finge di scambiare per incomprensibili numeri di telefono, e sempre avvilito triste e mortificato, va alla redazione di Paese Sera, quotidiano chiuso nel 1994, chiedendo tre milioni e mezzo per cedere le scottanti memorie che lui, nella sua ignoranza, considera un doloroso lascito sentimentale. Solo alla fine gli sfugge uno sguardo di calcolata furbizia. Con Quinto Parmeggiani come capo redattore.

Che vitaccia!

Qui il mostro è un povero baraccato della periferia romana che non ha neanche i soldi per comprare le medicine a uno dei tanti figli malati, salvo poi spendere gli ultimi spiccioli per andare allo stadio a vedere la squadra del cuore, ‘a Roma. Angela Portaluri è la moglie incinta, probabilmente sempre incinta data la numerosa prole. Le immagini della partita giocata allo Stadio Olimpico di Roma sono quelle reali della partita Roma-Catania giocata il 10 febbraio 1963 e terminata 5-1: Adelmo Prenna segnò l’unico gol del Catania mentre il suo compagno Remo Bicchierai segnò un improvvido autogol.

La giornata dell’onorevole

Sintetico spaccato dell’attività di un uomo politico in cui qualcuno ha voluto vedere Giorgio La Malfa e qualcun altro Giorgio La Pira, comunque di area cattolica poiché il personaggio vive in un convitto di frati domenicani; ma nell’aula parlamentare assistiamo al discorso di un altro mostro, fascista nello specifico, perché centro destra o sinistra sono tutti uguali. Nessuna azione mostruosa o delittuosa viene mostrata nell’episodio, in quanto già l’essere “onorevoli” è di per sé indice di mostruosità: ipocrisia, cinismo, opportunismo e sotterfugi sono il tessuto del mostro politico. Intorno a Tognazzi il vero generale in pensione Ugo Attanasio, suocero di Alberto Lattuada che lo aveva fatto debuttare come figurante, che qui interpreta un generale che fa anticamera; c’è poi il caratterista friulano Carlo Kechler (erroneamente Kecler nei titoli), il caratterista gay Franco Caracciolo come solerte fratino, che sarà nel corpo di ballo delle Ragazze Coccodè nel programma Rai 2 “Indietro tutta!” di Renzo Arbore nonché una delle Sorelle Bandiera in sostituzione di Tito LeDuc. Come figurante non accreditata Gabriella Ferri che a un pranzo sorride alle amenità dell’onorevole.

Latin Lovers (Amanti Latini)

La traduzione fra parentesi che oggi sarebbe superflua all’epoca aveva senso perché non erano in molti a conoscere l’inglese, giacché molti non conoscevano ancora neanche l’italiano. Altro brevissimo episodio, non parlato e accompagnato dalla canzone “Abbronzatissima” di Edoardo Vianello. In un’affollata spiaggia una donna, in quello scandaloso bikini che in quegli anni si andava diffondendo, scivola via dalle mani sinuose dei due amanti latini che le sono ai lati. E le mani dei due uomini continuano a cercare nel vuoto – trovandosi, e stringendosi in un’intesa omoerotica che nulla ha dei maschi latini. Politicamente scorretto ma divertente in quanto tale. La bella è Luciana Vincenzi che nel 1966 parteciperà a Miss Italia dove verrà incoronata solo con la fascia di Miss Cinema, senza però fare una grande carriera cinematografica.

Testimone volontario

Col sempre istrionico Gassman che come avvocato senza scrupoli sfarfalla intorno a Tognazzi che gioca per sottrazione il ruolo di testimone di un omicidio – il primo intimorendo e screditando il secondo. L’episodio appare incompleto perché ci si aspetta dall’abusato povero testimone una finale e risolutiva reazione. Qui il mostro è sicuramente l’avvocato ma gli sceneggiatori hanno perso la ghiotta occasione di fare anche del testimone un mostro esemplare. Nel ruolo della moglie di Tognazzi un’accorata Marisa Merlini, il giudice è Carlo Ragno.

I due orfanelli

Altra maschera esageratamente grottesca per Gassman come mendicante che si accompagna a un giovane cieco sfruttandolo; all’offerta di un oftalmico di poter curare gratuitamente il povero infelice, cambia zona per non perdere la sua personale fonte di sostentamento. Daniele Vargas è il dottore. Il titolo è un dichiarato omaggio, senza alcuna attinenza specifica nella trama, al film omonimo del 1947 con Totò, che a sua volta fu la parodia del muto del 1921 “Le due orfanelle” di David Wark Griffith dove si raccontava che una delle due era cieca: il magistrale cerchio di omaggi e citazioni si chiude. Nell’importante ruolo del cieco dagli occhi assai vivaci, anzichenò, un giovane inspiegabilmente non accreditato e in cui qualcuno ha voluto riconoscere Teo Teocoli.

L’agguato

Altro veloce episodio senza parlato: il pizzardone Tognazzi, in elegante divisa bianca estiva, si apposta dietro l’edicola di un giornalaio per multare gli incauti che si fermano in divieto di sosta per fare un acquisto al volo. Episodio sicuramente ispirato alle reali abitudini di certi tutori dell’ordine. Come vittime si prestano il produttore Mario Cecchi Gori e l’addetto stampa Enrico Lucherini. L’episodio si può inserire nel sottogenere denuncia sociale.

Il sacrificato

Sin dal cartello col titolo la musichetta del maestro Armando Trovajoli suggerisce un sirtaki greco in omaggio alla protagonista femminile Rica Dialina, già Miss Grecia 1954, che recitando con la sua voce in un convincentissimo italiano riesce a tenere testa al quasi monologante Gassman: sfruttatore seriale delle donne e dei loro sentimenti, ma che dice di sacrificarsi per il loro bene spingendole a farsi lasciare. Archetipo del maschio italico ancora in giro come mostro predatore. La francese Françoise Leroy, di cui non si conoscono altri film, è l’amante successiva.

“Vernissage”

Il termine francese del titolo, virgolettato, al contrario del precedente inglese “Latin lovers” non ha bisogno di traduzione perché evidentemente già all’epoca nel nostro uso comune. Siamo nell’Italia del boom economico in cui l’italiano medio firma pacchi di cambiali per regalarsi il nuovo necessario, in questo caso una fiammante Fiat 600. Dopo il felice acquisto Tognazzi telefona alla moglie e poi sistema sul suo nuovo cruscotto i magneti con San Cristoforo, patrono dei viaggiatori in genere, e un “pensa a noi” con foto di moglie e figlio. Uscito dal salone la prima cosa che fa con l’auto nuova è andare a caricare una prostituta: santa ipocrisia della classe media. Il cortometraggio è un chiaro rifacimento in chiave borghese dell’episodio “Che vitaccia!” ambientato nel sottoproletariato ma con medesima dinamica ego-consumistica: lì lo stadio qui la prostituita. Il titolo è nell’immediato incomprensibile e necessita di una rilettura assai più sottile: se per vernissage si intende una mostra d’arte qui l’arte messa in mostra è il consumismo: le auto nel salone e le prostitute sul viale. Nel ruolo della prostituta una giovane Isabella Biagini non accreditata.

La Musa

Si fa ma non si dice. Gassman torna a gigioneggiare nei panni femminili di una musa letteraria che come componente di giuria di un concorso letterario, assai caldamente spinge ad assegnare il premio ad un improbabilissimo debuttante, assai ruspante, nella cui camera d’albergo va a impartirgli gli ultimi preziosi consigli prima di spegnere la luce spingendo l’aitante giovanotto, fresco di doccia e in accappatoio, sul letto; sul nero del buio udiamo gli ultimi suoni: un bicchiere che cade e lei che chiede “Dove sei?” in un finale aperto in cui il giovanotto è forse riuscito a sfuggire alle grinfie dell’interessata musa. Si fa ma non si dice: molti concorsi erano o sono truccati? molti critici letterari erano o sono venduti? o solo interessati alle camere da letto? Si fa ma non si dice: l’innominato premio si ispira chiaramente al più importante premio letterario del momento, il Premio Strega, e il look del Gassman-Musa con quei fili di perle sull’abito nero dalla vertiginosa scollatura sulla schiena, rimanda molto alle vera musa dello Strega, la scrittrice Maria Bellonci, che però tacque sul film e non seguì nessuna polemica: è una dichiarata e “innocente” presa in giro e l’attore riporterà il personaggio nel televisivo “Studio Uno”, diretto da Antonello Falqui e condotto da Mina, alla quale il Gassman-Musa dichiarerà di essere la creatrice del “Premio Cerasella”: una divertente gag che forse arrivò come smentita: tutto è bene quel che finisce bene. Nel ruolo del giovane scrittore ruspante lo stuntman Salvatore Borgese qui nel suo primo ruolo parlato in barese e doppiato da Stefano Satta Flores.

Scenda l’oblio

Qui i mostri sono una coppia dell’alta borghesia che al cinema stanno vedendo la scena di un film neorealista in cui un plotone di soldati tedeschi ha appena fucilato degli inermi civili contro un muro, e quel “semplice muro con le tegoline sopra” è il modello che ispira lui per la loro nuova villa: un genere di mostri sempre fra noi. La di lui degna consorte è Luisa Rispoli, attiva in pochi film con piccoli ruoli in quegli anni Sessanta anche come Maria Luisa Rispoli.

La strada è di tutti

Velocissimo ritratto per Gassman come altro mostro sempre attuale sulle nostre strade: il flemmatico ma anche polemico pedone che faticosamente attraversa sulle strisce pedonali fra auto che “incollano”, poi sale sulla sua Fiat 600 dal look sportivo e diventa un altro di quei pirati della strada.

L’oppio dei popoli

L’oppio dei popoli, che secondo Karl Marx era la religione, qui è la televisione seguendo l’opinione di tanti intellettuali e, in questo caso specifico, di molti cineasti: perché la televisione toglieva spettatori al cinema e solo nei decenni più recenti i due mezzi sono diventati intercambiabili. Tognazzi si fa molto espressivo pur nella maschera inespressiva dello spettatore imbambolato davanti alla tv da cui proviene la lunga credibile traccia sonora di un film americano alla cui conclusione l’annunciatrice ricorda il titolo “Salto nello spazio” di Peter Baldwin, annunciando fra i programmi dell’indomani altre pesanti dosi di oppio al popolo: la ventesima puntata del romanzo sceneggiato “La cieca di Sorrento”, che però uscì come film diretto da Nick Nostro in quello stesso 1963; il primo titolo è d’invenzione e sembra un omaggio poiché Baldwin è realmente esistito come attore americano, interprete di film di fantascienza, adottato dal nostro cinema con un importante ruolo in “Era notte a Roma” di Roberto Rossellini, 1960; Baldwin poi sposò Emi De Sica, figlia di Vittorio De Sica col quale collaborò come aiuto regista prima di tornare negli USA dove si riciclò come regista televisivo negli anni ’70, dunque una sua regia nel 1963 è improbabile. Qui Tognazzi si ritrova nel medesimo triangolo amoroso di “Come un padre” ma stavolta nel ruolo del cornuto; la bella moglie in baby-doll sul cui primo piano si apre l’episodio accompagnato dalla voce di Nico Fidenco che la dice bella cantando “Tornerai… Suzie” è interpretata dalla francese (il film è in coproduzione) Michèle Mercier che diventerà famosa con il ciclo di film su “Angelica”. Il giovane amante è l’aitante Marino Masè che quell’anno fu protagonista per Jean-Luc Godard in “Les Carabiniers”. Sempre a proposito della televisione come oppio dei popoli alla fine ci viene detto che l’unico programma che il cornuto protagonista non guarda è “Tribuna politica” certo perché troppo attinente alla realtà.

Il testamento di Francesco

Ancora la televisione come scenario. L’episodio si apre col telegiornalista Riccardo Paladini, non nuovo a queste brevi partecipazioni cinematografiche, che nella sala trucco della Rai ripassa le notizie da leggere in video. Accanto a lui Gassman impersona un forbito personaggio che tormenta il truccatore con continue richieste, perché attentissimo all’immagine di sé che sta per dare in tv; e lì in diretta televisiva lo scopriamo essere un sacerdote che commenta le parole di San Francesco sulla vanità umana.

La nobile arte

Ironia sin dal titolo giacché nel pugilato di cui l’episodio tratta non c’è nulla di nobile: tolti gli ideali dei combattenti è solo questione di ingaggi e scommesse. I due attori concludono insieme il film con un episodio drammaturgicamente più complesso esibendosi in due caratterizzazioni che, pur spinte e grottesche, mantengono l’afflato umano delle grandi interpretazioni: personaggi che bene avrebbero potuto essere sviluppati in un lungometraggio a sé stante. Sono entrambi due ex pugili suonati, Tognazzi che si è fatto impresario e Gassman, ex campione d’Italia, che ora gestisce una trattoria sul litorale romano. Per necessità economica il primo e cedendo alle lusinghe della gloria il secondo, tornano in campo con l’amara conclusione che tutti già sappiamo. Gli altri interpreti: Lucia Modugno è la moglie di Gassman, il caratterista Mario Brega realmente appassionato di boxe è uno degli allibratori mentre il vero campione Ottavio Panunzi si presta a salire sul ring nel match finale.

Facendo i conti sono 20 episodi di cui 8 per ogni attore da protagonista e 4 con entrambi. Il film ebbe due sequel: “I nuovi mostri” nel 1977 sempre con Risi alla regia che stavolta si divise il compito con Mario Monicelli e l’Ettore Scola che qui è ancora sceneggiatore, mentre al cast principale si aggiungono Alberto Sordi, già maestro di mostruosità per suo conto e con una cinematografia tutta sua, e Ornella Muti. Segue il terzo capitolo “I mostri oggi” nel 2009, anno in cui i protagonisti originali non sono più fra noi e che si rivelerà non più che una inutile sequenza di barzellette.

E per la prima volta sullo schermo… Ugo Tognazzi, ma anche Carlo Croccolo

Il film completo

Il film viene oggi ricordato come il debutto cinematografico di Ugo Tognazzi e passa in secondo piano la notizia che fu anche il debutto di Carlo Croccolo: entrambi caratteristi secondo la vecchia classificazione di genere, ma il primo si accreditò come uno dei nostri divi nel trentennio 1960-1990, mentre il secondo restò in secondo piano, proprio come caratterista, seppur di lusso, e principalmente spalla e poi anche doppiatore di Totò quando il principe della risata divenne praticamente cieco e non riusciva più a leggere le battute in sala di doppiaggio, giacché i film non venivano girati in presa diretta. In seconda istanza fu anche il debutto sullo schermo della coppia radiofonica Billi e Riva, già attiva negli spettacoli di rivista e, separatamente, già attori cinematografici.

Il 28enne Tognazzi, che cinque anni prima aveva sfiorato il debutto da professionista accanto a Wanda Osiris, è già un affermato attore comico del varietà, un genere di spettacolo leggero oggi scomparso che, come dice il nome, era uno spettacolo di arte varia con numeri musicali eseguiti dal vivo da un’orchestrina, canzoni, balletti, scenette, imitazioni e quant’altro, condotti da un presentatore che di solito era anche il capocomico e con la presenza di almeno una soubrette, il cui compito era cantare e ballare ma soprattutto mettere in mostra centimetri di pelle nuda, come il resto del corpo di ballo.

Il varietà si era affermato in Italia alla fine degli anni ’30 come evoluzione dal café-chantant incorporando artisti di strada e anche circensi, fantasisti imitatori e facce toste d’ogni genere – come quelli che oggi si esibiscono sui social – i quali, andando in scena dovunque, dal rinomato teatro agli spazi aziendali ai cine-teatri agli angoli nei caffè – sulle prime francesizzavano i nomi degli interpreti per richiamarsi all’originale forma di spettacolo importata da oltralpe e creare un richiamo da vedette internazionale soprattutto alla soubrette, termine mutuato dal teatro brillante francese ottocentesco, che in quella lingua stava per servetta, ruolo teatrale malizioso e brillante, e proprio col termine brillante venne rinominata la soubrette dal nostro fascismo che aborriva i termini stranieri, e in quell’autarchia linguistica non mancarono gli adattamenti subretta e subrettina; nella nostra rivista era in realtà era la regina dello spettacolo, la più attesa dal rumoroso pubblico principalmente maschile, con entrate in scena spettacolari, costumi e trucco vistosi, andamento sinuoso e ancheggiante, atteggiamento fortemente seduttivo; un ruolo di cui la Osiris fu l’esponente più di spicco e anche l’ultima del suo genere, poiché proprio negli anni Cinquanta si affermò un nuovo tipo di soubrette, più moderna e meno appariscente, quasi da ragazza della porta accanto, professioniste che sapevano cantare ballare e recitare in modo assai più professionale: Delia Scala, Lauretta Masiero, Sandra Mondaini, Marisa Del Frate, ragazze che dalla morente rivista teatrale passarono alla nascente rivista televisiva.

Fra i vari numeri della rivista, oltre al presentatore che poteva anche essere un comico o un imitatore come pure un cantante, c’erano il finedicitore che del fine dicitore di testi classici faceva la parodia, il giocoliere o illusionista, i comici, solisti o in coppia, i balletti di fila spesso sgangherati ed eseguiti da ballerine seminude che fuori dal palcoscenico arrotondavano col mestiere più antico del mondo, fino alla specialità tutta italiana della macchietta, un genere che mischiava la canzone brillante e satirica al monologo comico: il termine definiva sia il genere che i personaggi, i quali erano sempre esasperazioni caricaturali di tipi come il guappo, lo sciupafemmine, la femminista (en travesti e dunque in chiave fortemente satirica) il politico o l’ignorante, maschere che esprimevano quasi sempre doppi sensi osceni ma anche riletture surreali e grottesche della società. Il varietà viveva anche dell’improvvisazione nata dallo scambio di battute, spesso salaci, fra gli artisti e il pubblico esigente e irriverente. Esempi di macchiette che al meglio dell’espressione del genere divennero famose, sono il Gastone di Ettore Petrolini e il Ciccio Formaggio di Nino Taranto, passando per il Felice Sciosciammocca di Eduardo Scarpetta che però divenne anche personaggio di commedie a tutto tondo e che Totò portò sugli schermi dei cinema. Nelle lezioni di recitazione si spiega che un personaggio ha tre dimensioni (le stesse su cui Luigi Pirandello imbastì la gran parte della sua produzione letteraria) ovvero: come il personaggio è, dunque il chi è, il come appare ovvero come esso si rappresenta o come viene percepito, e come si sviluppa nell’arco dell’azione scenica. La macchietta invece, come le maschere della commedia dell’arte, non ha profondità né sfaccettature: è piatta, uniforme e unidirezionale.

L’invenzione della macchietta è dovuta al napoletano Nicola Maldacea, un canzonettista fine ‘800 che introdusse all’interno della canzonetta dei momenti recitati per rafforzare la caricatura del personaggio: “Come un disegnatore, mi ripromettevo di dare al pubblico un’impressione immediata schizzando il tipo, segnandolo rapidamente, rendendone i tratti salienti. Da ciò l’origine della parola macchietta, che è propria dell’arte figurativa: schizzo frettoloso, che renda con poche pennellate un luogo o una persona in modo da darne un’impressione efficace con la massima spontaneità caricaturale.” da “Le memorie di Nicola Maldicea” pubblicate da Bideri nel 1933. A lui si deve l’invenzione della macchietta del viveur, ovvero il bello dalla testa vuota; e al massimo della sua fama interpretò macchiette scritte per lui, in anonimo, anche da Trilussa e Salvatore Di Giacomo. Macchietta, schizzo, sinonimo dell’inglese sketch.

Lo spettacolo di varietà, di natura ruspante, fu rinominato spettacolo di rivista quando ad organizzarlo furono veri impresari teatrali, con piglio professionale e dispendio di mezzi per scene e costumi oltre che con la scrittura di artisti di prima grandezza, in un contenitore che non era più una sequenza di numeri slegati ma aveva un filo conduttore e pertanto c’era anche un copione scritto, benché lo spazio per l’improvvisazione fosse sempre in campo. Altro genere di spettacolo che derivò dal varietà fu l’avanspettacolo, che in pratica era il fratello povero della rivista; esso si creò in risposta ai provvedimenti del regime fascista degli anni ’30, come gli sgravi fiscali per quei teatri che si convertivano in cinematografo nel segno dichiarato della modernità: ma l’intento non dichiarato era quello di togliere voce a un certo tipo di comicità, perché la comicità è (o era, e sempre dovrebbe essere) eversiva e libera da imposizioni – mentre il cinema, con le nascenti pellicole edulcorate dei telefoni bianchi e le produzioni dichiaratamente propagandistiche, era un perfetto megafono per l’ordine costituito.

Una compagnia di avanspettacolo sullo spazio antistante lo schermo cinematografico

L’avanspettacolo raccoglieva gli scarti delle compagnie di varietà allo sbando e trovò spazio, con assoluta povertà di mezzi, come intrattenimento per quel pubblico ancora più rumoroso e distratto che conveniva nella sala per assistere al film, anzi al filmo o alla filma, dato che la ricercata italianità fascista aborriva i termini che non finissero con una vocale perché di oscura matrice straniera; anche i nomi propri dovevano adattarsi a quella regola così che, fra i tanti, Renato Rascel divenne Rascele e Wanda Osiris divenne Osiri. La dura esperienza dell’avanspettacolo formò però artisti di prima grandezza come Totò e in generale grandi professionisti del palcoscenico. Il declino dell’avanspettacolo portò su quegli arrangiati spazi scenici donne sempre più denudate fino a introdurre definitivamente il numero dello spogliarello in concomitanza a un certo genere di produzioni cinematografiche che si stavano avviando verso il filone dei film sexy, poi soft-core e infine hard-core, trasformando definitivamente le vecchie sale cinematografiche di periferia in cinema porno. Mentre il più nobile fratello maggiore, il teatro di rivista, morì d’inedia con l’avvento della televisione nei cui spettacoli di varietà del sabato sera convennero i vari artisti; con il cinema, come in questo caso, che celebrava un genere di cui non si sapeva ancora che era un morto che cammina, e che oggi ritroviamo come documento di archeologia teatrale.

Questo film nasce, come l’anno prima “I pompieri di Viggiù”, dal successo di una canzonetta orecchiabile scritta da Armando Fragna, autore ricordato soprattutto per le colonne sonore dei film di Totò, che fu anche direttore d’orchestra per la Rai che allora era solo radio nazionale con diverse sedi sul territorio e diverse orchestre che facevano il giro delle sedi, le più note delle quali furono le orchestre dirette dai maestri Cinico Angelini, Pippo Barzizza, Lelio Luttazzi. L’orchestra del maestro Fragna aveva fra i suoi cantanti fissi Claudio Villa, il Quartetto Cetra e questa Clara Jaione per la cui voce brillante il maestro scrisse alcuni brani che divennero celebri. La televisione non esisteva ancora e la radio, nelle versioni più economiche, era ormai praticamente in ogni casa, dove era considerata un apparecchio lussuoso con la sua elegante struttura in legno, quando non nella più ricca radica, se non addirittura come mobiletto vero e proprio; un apparecchio che aveva già versioni più economiche in bakelite, una resina termoindurente che fu la mamma della plastica. Dunque, se una canzone arrivava al successo veniva mandata in onda per anni perché non era ancora l’epoca delle hit-parade e poi delle top-list che hanno contribuito a bruciare i brani prima in pochi mesi e infine in un paio di settimane. Ho un personale ricordo di mia madre che ancora canticchiava “I cadetti di Guascogna”, una canzonetta pacifista che parla di tre cadetti che, benché di Guascogna, territorio francese, vengono dalla Spagna e sono diretti a Bologna, solo per giocare sul suono GN, promettendo pace a amore a chi quella canzone canterà.

Enrico Viarisio e Anna Magnani in “Tempo Massimo”

Va da sé che il successo della canzone deve essere sfruttato anche per riempire le sale cinematografiche, allora era facile impresa, e il film viene scritto in quattro e quattr’otto da Vittorio Metz, umorista sceneggiatore e già autore di riviste, con l’ineffabile coppia Age e Scarpelli, ovvero Agenore Incrocci e Furio Scarpelli, e col prolificissimo eclettico Marcello Marchesi. Alla regia la mano sicura di Mario Mattoli, già impresario teatrale che ben conosceva la materia: con la sua compagnia “Spettacoli Za-Bum” aveva avuto la brillante intuizione di scritturare per la rivista dei già affermati attori di prosa, che dopo quell’esperienza passarono subito al cinema, e sono nomi come Vittorio De Sica, Alberto Sordi, Aldo Fabrizi, Anna Magnani ed Erminio Macario. Salto di genere che fece anche l’impresario Mattoli allorquando, poiché con la sua agenzia aveva cominciato anche a produrre film, all’improvvisa indisposizione del regista Carlo Ludovico Bragaglia debuttò come regista con “Tempo massimo” nel 1934, con un cast di attori che già aveva sotto contratto, protagonisti Vittorio De Sica e la cantante Milly (Carolina Mignone), sorella dell’attrice Mity (Gaetana Mignone) che era moglie del regista-produttore, e nel ruolo di una cameriera c’era anche la 26enne Anna Magnani al suo terzo film.

Ma torniamo a Ugo Tognazzi. Già attore comico e organizzatore di spettacoli di rivista amatoriali, alla fine della guerra, nel 1945 tenta la sorte e dalla sua Cremona va a Milano a esibirsi in un concorso per dilettanti, dove trionfa e da gran vincitore e ottiene la sua prima scrittura professionale in una compagnia di giro dove viene notato dall’entourage della Wandissima e subito scritturato per la prossima rivista della Osiris, contratto per il quale rompe il precedente pagando una pesante penale; poco male perché nell’attesa che il nuovo progetto prenda forma lui è comunque stipendiato, ma i tempi si allungano a dismisura e alla fine, nel marasma dell’immediato dopo guerra, l’impresario svanisce nel nulla e la compagnia, fin lì pagata, si scioglie senza neanche essersi artisticamente formata. Fu così che Ugo Tognazzi non lavorò con Wanda Osiris. Ma il giovane comico era ormai nel giro e viene scritturato per la rivista “Viva le donne” scritta da Marcello Marchesi per la soubrette Erika Sandri; e da lì in poi il successo del giovanotto è tutto in crescita e girerà l’Italia con le riviste di Erminio Macario e Lauretta Masiero. A quel punto il passaggio al cinema è solo questione di tempo e di opportunità, e questa occasione arriva con questa banda scarruffata di cadetti militari dove viene messo in coppia con uno che viene dagli stessi palcoscenici del varietà, anch’egli trionfatore al concorso milanese per amatoriali, ma benché più giovane di Ugo di due anni, Walter Chiari ha già cinque film all’attivo e un Nastro d’Argento come miglior attore esordiente tre anni prima per il sentimentale “Vanità” diretto da Giorgio Pàstina: è lui il nome di punta della produzione e certamente quello più pagato; seguono tre comici di più lungo corso, due dei quali, Billi e Riva, formano una coppia, e per arrivare al nome di Tognazzi bisogna andare oltre il titolo per trovarlo staccato sugli altri comprimari.

La coppia di comici, che non si erano mai incontrati in palcoscenico, funziona bene, così come la coppia è funzionale a un film che nel suo animo è corale; ma proprio in questa coralità il duo Chiari-Tognazzi perde forza perché le situazioni in cui vengono messi – due amici innamorati della stessa donna, che bonariamente litigano e si fanno i dispetti – vivono di battute fiacche e i due comici mancano di quell’affiatamento e anche di quella faccia tosta che li avrebbe potuti portare oltre il copione scritto, e cedono il passo a vecchie volpi che sul set fanno quello che gli pare: la più matura coppia Billi e Riva, Mario Billi e Riccardo Riva, già separatamente artisti di rivista che insieme formarono una coppia comica di grande successo radiofonico; c’è poi il cantant’attore Carlo Campanini che nel ruolo del burbero (si fa per dire) sergente del battaglione dei coscritti alla leva fa davvero di tutto e di più inventando per il suo personaggio un’interminabile sequela di strafalcioni linguistici per una comicità oggi vecchia ma che aveva senso all’epoca, quando l’Italia era ancora una nazione dove l’analfabetismo totale sfiorava il 15% della popolazione con l’eccezione della Sardegna che arrivava quasi al 70%, in un contesto dove non esisteva ancora la scuola dell’obbligo, un progetto di riforma che nel dopoguerra si era arenato per le ostruzioni degli associazionismi di professori e maestri, e solo nella seconda metà degli anni ’50 maturò la consapevolezza sociale, e di riflesso politica, della necessità di formare culturalmente nuove generazioni nell’ottica di uno sviluppo economico che porterà al boom degli anni ’60, con classi scolastiche anche di quaranta alunni. Dunque, in quel contesto di ignoranza diffusa, le gag con strafalcioni a raffica erano divertenti perché esasperazione di un’esperienza collettiva reale ma oggi, se non si contestualizza quel tipo di comicità, può risultare stucchevole, come davvero stucchevole è tutta la prima parte del film con i qui pro quo dei due brillanti amici che devono cedere il passo al belloccio di turno, con i rimbrotti familiari alla brava ragazza da molti contesa, e la vita di caserma dove le battute militaresche scritte a tavolino lasciano il tempo che trovano. Resta l’incontro sul set di artisti che diverranno amici e continueranno a divertirsi e a divertire in coppie stagionali, come quelle formate in tv da Walter Chiari e Carlo Campanini o dello stesso con un Ugo Tognazzi in libera uscita dalla solida coppia formata con Raimondo Vianello.

Il tenore Ferruccio Tagliavini, del quale apprezzo più la cravatta che le doti canore

Il film prende il volo nella seconda parte, quando il battaglione di allegri commilitoni che si erano autonominati “I Cadetti di Guascogna” in omaggio alla note canzone che canticchiano mentre marciano, per una serie di eventi che ha una punta di diamante che dirò, organizzano un loro spettacolo di varietà per salvare dalla bancarotta la compagnia di professionisti che era incorsa in un incidente – e qui il film diventa veramente divertente perché porta sullo schermo, allora come oggi, uno spaccato degli spettacoli di varietà che allora non erano frequentati dalle grandi masse che invece si potevano permettere il prezzo del biglietto del cinema, e che oggi sono documento di una forma di spettacolo che non esiste più. A coronare il trionfo della compagnia amatoriale dei militari arriva nientemeno che il grande tenore, come dice il manifesto, Ferruccio Tagliavini, che già era stato protagonista al cinema con “Voglio vivere così” sempre diretto da Mario Mattoli, proseguendo sempre da protagonista con una serie di sette musicarelli; il tenore all’epoca formò insieme a Tito Schipa e Beniamino Gigli un trio fra i più noti, ma non ci fu nessun impresario a metterli insieme come accadde alla fine del Novecento coi “Tre Tenori” Placido Domingo, José Carreras e Luciano Pavarotti. Insieme a lui si esibisce nell’improvvisata rivista il suo amico pianista classico Luciano Sangiorgi, meno noto e dunque non in cartellone. E il lieto fine è servito.

E veniamo alla promessa punta di diamante. Nell’imminenza dell’organizzazione della serata evento, Riccardo Billi che interpreta un militare che già fu artista di varietà, raggira il padre della bella figliola al centro della contesa sentimentale, spacciandosi per Anna Magnani in una riuscitissima divertentissima imitazione, un siparietto messo nel film per la sua specificità, con battute fulminanti, come quando il raggirato, insolentito dalla donna che però gli sembrava la sua amata Nannarella, dice fra sé: “Ma guarda che screanzata!… SCREANZATA?… Ma allora è LEI!” e più avanti la finta Magnani, a una parolaccia che a lui sfugge, si schernisce: “Ma io ce campo co ‘e parolacce!”. Anna Magnani, coetanea di Riccardo Billi, quello stesso 1950 sarebbe andata nelle sale col controverso “Vulcano” diretta da William Dieterle in risposta a “Stromboli” dove il suo recente ex Roberto Rossellini dirigeva la sua nuova fiamma Ingrid Bergman, dando vita a quella che dalla stampa venne definita “la guerra dei vulcani”. Ed era già una stella di prima grandezza, basta ricordare fra i suoi titoli “L’onorevole Angelina” di Luigi Zampa e “Assunta Spina” dello stesso Mario Mattoli, tanto da meritarsi un’imitazione, che insieme è omaggio e sberleffo.

E infine Carlo Croccolo, debuttante 23enne che in quel 1950 iniziò alla grande partecipando a un’altra cinquina di film e girandone addirittura 12 l’anno dopo. A mio avviso il suo debutto è quello meglio riuscito, perché non fa parte di una coppia affiatata, Billi e Riva, né è accoppiato per l’occasione, Chiari e Tognazzi, ma è un solista che riesce a spiccare sui tanti commilitoni con la sua interpretazione del soldato Pinozzo, tontolone del nord Italia a cui lui, napoletano verace, dà un convincente accento che sembra veneto ma viene poi detto torinese, e vabbè, un personaggio così ben riuscito che lui lo conserverà nel suo repertorio di macchiette. Se alla quantità avesse preferito la qualità avrebbe probabilmente fatto un altro tipo di carriera perché aveva i numeri giusti, ma è andata così, ha fatto da spalla e supporto a Totò, ha doppiato Oliver Hardy dopo che Alberto Sordi ha lasciato l’impegno, e quando ci fu necessità doppiò addirittura entrambi i personaggi della coppia comica Stanlio e Ollio.

Il resto del cast. Nel ruolo del giovane militare bello che ruba la bella alla coppia dei giovani comici effettivamente meno belli, c’è Gianni Musy accreditato col nome d’arte Gianni Glori, attore il cui viso diverrà subito più scavato riservandogli ruoli da antagonista, come Tognazzi lo impiegò nella sua prima regia “Il mantenuto”. La ragazza contesa è la graziosa Fulvia Mammi che non sfondando al cinema ha recitato in teatro e in tv e si è dedicata al doppiaggio e all’insegnamento; il padre e la zia sono i caratteristi Virgilio Riento, che è la vittima della finta Magnani, e Ada Dondini. Nel ruolo della soubrette al centro di un equivoco c’è Diana Dei, nella vita inseparabile compagna di Mario Riva. Fra i commilitoni troviamo il recentemente scomparso Enzo Garinei e, non accreditati, nonostante i ruoli sostanziosi, ci sono Aldo Giuffrè e Arnoldo Foà come militari in carriera. L’attore e regista Mario Landi scrisse su “Film d’oggi”: “Purtroppo l’ovvietà delle battute e delle situazioni non ha permesso ai migliori, Chiari e Tognazzi, di apparire a fuoco e così tutto il sostegno comico della vicenda si appoggia alla dozzinale disinvoltura di Billi e Riva.” Landi era un intellettuale laureato in giurisprudenza che aveva frequentato l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, che fra il 1954-59 dirigerà in tv la coppia Tognazzi-Vianello, e il suo giudizio, benché poco generoso con la coppia dei più anziani comici, fotografa una verità. Il film fu un clamoroso successo che diede a Billi e Riva nuovo fulgore.

Il buono, il brutto, il cattivo

Nel 1964 era cominciata l’avventura con “Per un pugno di dollari” che era proseguita l’anno dopo con “Per qualche dollaro in più” e nel 1966 si completa quella che verrà definita la trilogia del dollaro con “Il buono, il brutto, il cattivo” e ancora una volta le verità sulla genesi sono diverse e addomesticate, e sono tutte buone se consideriamo che la memoria non è mai una verità assoluta ma solo un verosimile punto di vista su un fatto che viene visto da diverse prospettive. Con la tendenza a dimenticare o abbellire dettagli che riteniamo secondari ma che possono essere centrali in un differente punto di vista.

Lo sceneggiatore Luciano Vincenzoni ricorda di aver portato il suo amico vicepresidente della United Artists per l’Europa, con tutto il suo staff, al Supercinema di Roma a vedere “Per qualche dollaro in più”: “C’erano tremila persone. Videro il film in un tripudio di risate e di applausi e vollero andare subito al Grand Hotel a firmare il contratto. Pagarono come minimo garantito una cifra che era tre volte superiore alle più rosee previsioni del produttore. Come usano gli americani, la prima cosa che dissero quando firmarono il contratto fu: ‘Adesso crosscollateralizziamo, compensiamo profitti e perdite con il prossimo film; qual è il prossimo?’ Non avevamo un progetto. Col tacito assenso di Leone e Grimaldi, cominciai a inventare. ‘Un film su tre mascalzoni che corrono dietro a un tesoro attraversando la guerra civile, un po’ nello spirito della Grande Guerra (del 1959 di Mario Monicelli) che voi avete distribuito in America’. E quelli subito: ‘Lo compriamo: quanto costa?’, senza che ci fosse un soggetto scritto, solo sulle parole. Io quindi mi rivolsi a Leone e chiesi: ‘Quanto?’. Leone disse: ‘Cosa, quanto?’. Gli dissi: ‘Il film che gli ho appena venduto’. Onestamente, era un miracolo, senza una storia, solo facendo un po’ di scena. Grimaldi e Leone mi chiesero: ‘Cosa gli hai detto?’. Io dissi: ‘Una storia sulla guerra civile con tre attori; ditemi la cifra’. Grimaldi disse: ‘Beh, che ne dici di ottocentomila dollari?’. Io risposi: ‘Facciamo un milione’. Mi volsi verso Lopert e dissi: ‘Un milione di dollari’. Lui mi rispose: ‘Affare fatto’.”

Sergio Donati

L’aiuto regista Sergio Donati ricorda qualche dettaglio in più: “Grimaldi era pronto a vendere i diritti di ‘Per qualche dollaro in più’ negli Stati Uniti e in Canada. E esattamente in quello stesso periodo Luciano Vincenzoni collaborava con Ilya Lopert ed era un ottimo amico di Arnold e David Picker della United Artists. Erano a Roma. Lui convinse Lopert a portare quelli della UA a una grande proiezione di ‘Per qualche dollaro in più’… e Luciano riuscì davvero a vendere il film alla United Artists e ci guadagnò il 10 per cento di tutti i profitti e anche una percentuale su quello successivo, ‘Il buono, il brutto, il cattivo’.” Un dettaglio non da poco la percentuale sui profitti.

Mentre i ricordi di Sergio Leone sono più romantici e al contempo creativi, come si conviene: “Non sentivo più tutta quella pressione per offrire al pubblico un diverso tipo di film. Ora potevo fare esattamente il film che volevo… fu mentre riflettevo sulla storia di ‘Per qualche dollaro in più’, e su ciò che la faceva funzionare, sulle diverse motivazioni di Van Cleef e di Eastwood, che trovai il nucleo del terzo film… Da sempre pensavo che il buono, il cattivo e il violento non esistessero in senso assoluto e totalizzante. Mi sembrava interessante demistificare questi aggettivi nell’ambientazione di un western. Un assassino può fare mostra di un sublime altruismo, mentre un buono è capace di uccidere con assoluta indifferenza. Una persona in apparenza bruttissima, quando la conosciamo meglio, può rivelarsi più valida di quanto sembra – e capace di tenerezza… Incisa nella memoria avevo una vecchia canzone romana, una canzone che mi sembrava piena di buon senso comune: È morto un cardinale che ha fatto bene e male. Il mal l’ha fatto bene e il ben l’ha fatto male. In sostanza era questa la morale che mi interessava mettere nel film.”

Alberto Grimaldi

Riportati i dovuti distinguo sulla produzione sempre guidata da Alberto Grimaldi ma con l’apporto determinante degli americani, Leone si concentra sulla scrittura del suo terzo spaghetti-western che sarebbe anche stato il primo con budget in dollari e che fino a quel momento si sarebbe dovuto intitolare “I due magnifici straccioni” con protagonisti di nuovo l’ex star tv Clint Eastwood e il miracolato Lee Van Cleef che, tornando a recitare, finalmente si era potuto pagare le bollette e ora andare anche orgoglioso della sua Mercedes nuova. Ma Vincenzoni lì per lì si era inventato e venduto una storia con tre protagonisti, ambientata durante la guerra civile americana, e dovendo lavorare su quella traccia, e con un budget che arrivava a un miliardo di quelle lire, lo sceneggiatore propose di cooptare un’altra coppia di professionisti, Age & Scarpelli, Agenore Incrocci e Furio Scarpelli, una coppia la cui scrittura dava il meglio nell’umorismo popolaresco e nella satira di costume, maestri della commedia all’italiana che si erano anche cimentati nel genere cappa e spada ma mai nei western che fino a quel momento erano un sottogenere da non prendere in considerazione; e in quello stesso anno i due erano anche impegnati nella scrittura di “Signore & signori” di Pietro Germi, insieme all’amico Vincenzoni, del film a episodi “I nostri mariti” regia di D’Amico-Risi-Zampa e di “L’armata Brancaleone” di Mario Monicelli: scusate se è poco.

Age & Scarpelli

Ma la collaborazione fu per Leone da cancellare: “Il contributo dei due sceneggiatori era un disastro. Erano battute e nient’altro. Non potei usare nemmeno una delle cose scritte da loro. Fu la peggiore delusione della mia vita. Mi toccò riprendere in mano il copione con alcuni negri.” dove per negri si intendevano quelli che oggi vengono più correttamente definiti ghost writer. Sergio Donati, aiuto regista non accreditato nonché negro, concorda aggiungendo: “Nella versione finale del copione non è rimasto praticamente nulla che abbiano scritto loro. Avevano scritto solo la prima parte. Una riga appena. Erano lontanissimi dallo stile di Leone. Da parte sua, quella di tirarli dentro era stata una scelta tipica. Aveva bisogno di provare qualcosa di nuovo. E fu una sofferenza. Più che un western, Age e Scarpelli avevano scritto una specie di commedia ambientata nel West.” E Vincenzoni, che ha poi dichiarato di aver scritto la sceneggiatura in soli undici giorni, ben presto lasciò il progetto poiché i rapporti con Leone si andavano deteriorando, e quasi per dispetto si dedicò ad altri due western: “Il mercenario” di Sergio Corbucci e “Da uomo a uomo” di Giulio Petroni, tanto la sua firma sarebbe rimasta insieme a Age & Scarpelli e altrettanto la sua percentuale sugli utili.

Eli Wallach e Sergio Leone sul set

Fatti fuori tutti i co-sceneggiatori Leone resta da solo col suo negro (di altri negri non si sa) a concludere la sceneggiatura e in un’intervista alimenterà il mito di se stesso raccontando di elementi autobiografici sparsi in tutt’e tre i personaggi: “Nel mio mondo, sono gli anarchici i personaggi più veri. Li conosco meglio perché le mie idee sono più vicine alle loro. Io sono fatto di tutti e tre. Sentenza non ha anima, è un professionista nel più banale senso del termine. Come un robot. Non è questo il caso degli altri due personaggi. Considerando il lato metodico e cauto del mio carattere, sono simile al Biondo: ma la mia profonda simpatia andrà sempre dalla parte di Tuco… sa essere toccante con tutta quella tenerezza e umanità ferita. Ma Tuco è anche una creatura tutto istinto, un bastardo, un vagabondo.” Specificando che il Biondo è il personaggio fil rouge, l’uomo senza nome di Clint Eastwood, chiamato Joe nel primo film e il Monco nel secondo; Sentenza, intuizione molto bella e significativa per un nome, è il personaggio cattivo di Lee Van Cleef; mentre Tuco Ramirez, l’ultimo arrivato, è un messicano ricercato per una miriade di crimini ed è il personaggio che Sergio Leone ha amato di più: “Tuco rappresenta tutte le contraddizioni dell’America, e in parte anche le mie. Avrebbe voluto interpretarlo Gian Maria Volonté, ma non mi sembrava una scelta giusta. Sarebbe diventato un personaggio nevrotico, e io invece avevo bisogno di un attore dal naturale talento comico. Così scelsi Eli Wallach, di solito impegnato in parti drammatiche. Wallach aveva in sé qualcosa di chapliniano, qualcosa che evidentemente molti non hanno mai capito. E per Tuco fu perfetto.” E in un’altra intervista: “Eli Wallach l’ho preso per un gesto che fa nella ‘Conquista del West’, (grandioso film a episodi all-star e firmato da quattro registi) quando scende dal treno e parla con Peppard (l’attore George Peppard). Vede il bambino, figlio di Peppard, si volta di scatto e gli spara con le dita facendogli una pernacchia. Da quello ho capito che era un attore comico di estrazione chapliniana, un ebreo napoletano: si poteva fare tutto con lui. Infatti ci siamo molto divertiti a stare insieme.”

I tre attori col regista sul set

Insomma, Leone e Wallach “stavano insieme” e fra i due ci fu una così tanta sintonia da fare ingelosire Clint Eastwood. Il regista addirittura permise all’attore, col quale condivideva anche un bizzarro umorismo, di apportare cambiamenti al personaggio lasciandogli inserire il ricorrente segno della croce e facendogli scegliere il costume in tutta autonomia. Mentre Eastwood lo aveva tenuto sui bracieri ardenti anche perché lui stesso non sapeva che fare del suo futuro: la serie tv si era conclusa e i primi due film della trilogia erano usciti negli Stati Uniti, un successo di pubblico sull’onda del quale l’attore immaginava per sé altre prospettive – ma non gli arrivava ancora nessun’altra offerta, e quando Leone gli offrì quest’altro film per lui era l’unica proposta sul piatto. Ma leggendo il copione si rese subito conto che il personaggio di Tuco era più importante del suo e chiese all’autore di ridimensionarlo. “Ci mancò poco che non facesse la parte del Biondo. – ricorderà Leone – Dopo aver letto il copione trovò in effetti che il ruolo di Tuco fosse troppo importante, che fosse il migliore dei due ruoli. Tentai dunque di ragionarci: ‘Il film è più lungo degli altri due. Non puoi essere tutto solo. Tuco è necessario per la storia, e resterà come ho voluto che fosse. Devi capire che è il comprimario… e il momento in cui appari tu, è la star che fa la sua apparizione’.” E in effetti gli costruisce un’entrata in scena degna di un prim’attore che entra in palcoscenico, ma anche la presentazione degli altri due personaggi è notevole, come già lo era nei precedenti film grazie al suo uso particolarissimo dei primi piani. Ma l’attore ancora nicchiava perché immaginava per sé un futuro da star assoluta, e infatti a seguire girerà film senza comprimari troppo ingombranti: subito dopo aver debuttato come regista col thriller “Brivido nella notte” sarà il protagonista della serie di cinque film dell’Ispettore Callaghan. Solo con la maturità, e con la sicurezza che gli verrà dall’essere autore dei suoi film, si confronterà alla pari con altri talenti ed è del 1992 il suo western della terza età “Gli spietati” col quale farà jackpot agli Oscar.

Ma intanto non era contento del copione e Sergio Leone e gentile signora dovettero volare in California per convincerlo, e la signora Leone, l’ex ballerina del Teatro dell’Opera di Roma Carla Ranalli, ricorderà: “Clint Eastwood con sua moglie Maggie venne al nostro albergo… io spiegai che il fatto che avesse al suo fianco altri due grandi attori non avrebbe potuto che rafforzare la sua statura. A volte anche una grande star che interpreta un ruolo più piccolo insieme ad altri grandi attori può trarre vantaggio dalla situazione. A volte fare un passo indietro voleva dire farne due avanti.” Poi, mentre le due mogli facevano le mogli e parlavano fra loro, Eastwood e Leone si scontrarono molto duramente e fu lì che il loro rapporto cominciò a incrinarsi. Alla fine, ancora con un nulla di fatto, Leone disse alla moglie: “Se interpreta la parte ne sarò felicissimo. Ma se non lo fa – beh, visto che sono stato io a inventarlo – domani dovrò inventarne un altro come lui.” Dopo due giorni di trattative l’attore accettò di fare il film ma volle essere pagato 250mila dollari più il 10% sui profitti in tutti i territori occidentali, un accordo che la produzione concluse ma che non lasciò contento Leone, che ormai per l’attore non aveva più stima.

Per il ruolo del cattivo, Sentenza, ancora una volta Leone voleva coinvolgere Charles Bronson, gli piaceva proprio, ma ancora una volta non se ne fece nulla perché Bronson era impegnato sul set di “Quella sporca dozzina” di Robert Aldrich. In ballo c’era sempre Lee Van Cleef che però era un uomo dal carattere mite e l’autore temeva che non riuscisse a dare il meglio in quel ruolo di spietato assassino, sottovalutando le doti interpretative dell’attore. Poi, una volta assegnato il ruolo, il personaggio venne da sé: l’espressione cupa e pensierosa e gli occhi socchiusi, già di una forma tagliente, a mandorla, rendono Sentenza lo stereotipo ideale del cattivo che farà scuola, e solo dopo Leone dichiarerà, ancora una volta mitizzando la realtà: “Van Cleef aveva già interpretato un ruolo romantico in ‘Per qualche dollaro in più’. L’idea di fargli interpretare un personaggio che fosse l’opposto di quello mi intrigava.” Riguardo al suo contratto l’attore ricorda: “Sul primo film non potevo trattare, visto che non riuscivo nemmeno a pagare il conto del telefono. Feci il film, pagai il conto del telefono ed esattamente un anno dopo, il 12 aprile del 1966, fui chiamato di nuovo per fare ‘Il buono, il brutto, il cattivo’. E insieme a questo, feci anche ‘La resa dei conti’. Ma ora, invece di fare seventeen thousand dollars, ne stavo facendo a hundred e qualcosa, merito di Leone, non mio.” “La resa dei conti” è un altro spaghetti-western diretto da Sergio Sollima, sempre prodotto da Grimaldi che avendo sotto contratto sia l’attore che Ennio Morricone li piazza nel film come protagonista e compositore, l’attore nell’ennesimo ruolo di cacciatore di taglie. Anche riguardo al compenso ci sono delle divergenze: altre fonti affermano che per il primo film Van Cleef fu pagato 10mila dollari mentre lui in seguito ne ricorda 17mila, forse non volendo dichiarare che era stato sottopagato se si considera che Eastwood al suo primo ingaggio ne aveva avuti 15mila. Retroscena di poco conto ma che danno spessore al racconto, come ad esempio il fatto che l’attore fosse terrorizzato dai cavalli, come pure Wallach “altro stracittadino negato per la sella”, parole del negro Sergio Donati; gli fu assegnato un cavallino docile e ammaestrato, ma per farglielo montare bisognava aiutarlo con un sedia, e anche farlo smontare era una farsa. Donati riporta anche un altro aneddoto, sul fatto che l’attore fosse un uomo davvero mite a differenza dei tanti personaggi che ha interpretato: “Doveva prendere a schiaffi una prostituta, e non riusciva neanche a far finta. L’attrice, che era Rada Rassimov, gli diceva ‘Ma dai, non ti preoccupare anche se ti scappa una sberla vera, non m’importa, picchiami…’ Lui spiegava arrossendo che proprio non gli riusciva di alzare le mani su una donna, era più forte di lui.” Altra curiosità: anche in questo film Lee Van Cleef indossa lenti a contatto colorate data la sua eterocromia: aveva gli occhi di colore diverso, uno verde e uno blu, e proprio per i suoi occhi il suo personaggio si guadagnò l’appellativo di Angel Eyes nella versione inglese del film, invenzione dello stesso Leone. A Van Cleef mancava anche la falange distale (la falange finale) del dito medio della mano destra, che con un po’ di attenzione è possibile vedere in alcune inquadrature mentre impugna il fucile. Ma le curiosità sulla lavorazione sono tante e le vedremo più avanti.

Aldo Giuffrè

Fra gli altri personaggi è importante quello che compare in una sola scena, padre Ramirez, fratello di Tuco, col quale ha una bella scena a contrasto essendo i due all’opposto sul piano morale; lo interpreta Luigi Pistilli, che torna a lavorare con Leone e che fu un veterano degli spaghetti-western dove in genere impersonava i cattivi. Un volto inatteso in un western è invece quello di Aldo Giuffrè, assai noto al pubblico per la sua intensa attività sia teatrale che cinematografica che televisiva, e questo rimane il suo unico western senza considerare la parodia “Due mafiosi nel Far West” con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Qui interpreta il tormentato ruolo di un capitano nordista, alcolizzato, tentato da idee anarchiche perché stanco di una guerra dove deve sacrificare inutilmente i suoi uomini.

Il plastico del campo di concentramento di Andersonville sulla base del quale Sergio Leone fece costruire le sue scenografie, delle quali Lee Van Cleef dirà: “Il campo di prigionia che Sergio aveva costruito non era niente di che – solo poche case e un sacco di steccati. Ed era sovraffollato, ma ti dava l’impressione che durante la guerra civile dovesse essere proprio così. Era come alcune immagini che avevo visto di Andersonville.”

A tal proposito Leone aveva fatto molte ricerche storiche e ambientali per scrivere il film: “Ciò che mi interessava era da un lato demistificare gli aggettivi, dall’altra mostrare l’assurdità della guerra… la Guerra Civile nella quale i personaggi si imbattono, dal mio punto di vista, è inutile, stupida: non è portata avanti per una giusta causa. La frase chiave del film è quella di un personaggio (il Biondo) che commenta la battaglia del ponte: “Mai visto morire tanta gente… tanto male”. E Leone continua: “Faccio vedere un campo di concentramento nordista… ma in parte stavo pensando ai campi nazisti, con le loro orchestre di ebrei. Volevo mostrare l’imbecillità umana in un film picaresco insieme alla realtà della guerra. Lessi da qualche parte che 120mila persone morirono nei campi sudisti come Andersonville, ma da nessuna parte venivano citati gli stermini dei campi di prigionia nordisti. Si sente sempre parlare del comportamento vergognoso dei perdenti, mai dei vincitori. Così decisi di mostrare lo sterminio in un campo nordista. Agli americani questo non piacque… la guerra civile americana è un soggetto quasi tabù, perché la sua realtà è folle e incredibile. Ma la vera storia degli Stati Uniti è stata costruita su una violenza che né la letteratura né il cinema avevano mai mostrato come si deve. Personalmente tendo sempre a contrastare la versione ufficiale degli eventi – senza dubbio questo si deve al fatto che sono cresciuto sotto il fascismo. Ho visto in prima persona come si possa manipolare la storia, per cui metto sempre in dubbio quello che viene divulgato. Per me è diventato un riflesso incondizionato.” E ancora: “Gli autori americani non approfondiscono a sufficienza la loro stessa storia. Nel preparare ‘Il buono, il brutto, il cattivo’ scoprii che, durante la guerra civile, in Texas c’era stata una sola battaglia, il cui vero obiettivo era la proprietà delle miniere d’oro del Texas. Lo scopo della battaglia era di impedire al Nord (o al Sud) di mettere per primo le mani sull’oro. Così, mentre ero a Washington, cercai di trovare ulteriore documentazione su questo avvenimento. Il bibliotecario, lì alla Biblioteca del Congresso, la più grossa biblioteca del mondo, mi disse: ‘Credo che si sbagli. Il Texas, dice, signore? Deve esserci un errore. In America nessuno ha mai combattuto una battaglia per le miniere d’oro, e in ogni caso la guerra civile non è mai arrivata al Texas. Torni fra due o tre giorni e le farò qualche controllo. Ma sono sicurissimo che si sbaglia’. Beh, ritornai dopo due o tre giorni, e questo tizio mi guardò come se avesse visto un fantasma. ‘Ho qui otto libri’, disse, ‘e tutti fanno riferimento a questo particolare avvenimento. Come diavolo faceva lei a saperlo? Lei legge solo l’italiano, perciò come ha fatto a scoprirlo? Adesso capisco perché voi italiani fate film così straordinari. Sono vent’anni che sono qui, e non c’è stato un solo regista americano che si sia mai preoccupato di venire a informarsi sulla storia del West’. Beh, adesso ho anch’io una biblioteca enorme – a Washington, per otto dollari, ti fotocopiano un libro intero!“.

Altri interpreti: torna l’amico Mario Brega qui super cattivo con occhio di vetro; lo spagnolo Antonio Casas già in “Il colosso di Rodi” di Leone e contemporaneamente in “La resa dei conti” insieme a Van Cleef; la serba italiana Rada Rassimov nel ruolo della prostituta schiaffeggiata, e ancora Antonio Casale, Livio Lorenzon, l’altro spagnolo Molino Rojo come capitano in prigionia con la gamba in gangrena, e l’americano dal brutto muso Al Mulock che ha la peggio contro Tuco che lo liquida con una battuta che farà scuola, e che è anche critica a tanti western americani: “Quando si spara si spara, non si parla!” Tuco, che in quella scena esce nudo dalla vasca da bagno mostrando velocemente le chiappe pelose, una cosa all’epoca e in quel genere inaudita ma che diventa divertente nelle mani di Sergio Leone, e che prepara un’altra battuta clamorosa con il Biondo che gli dice: “Levati la pistola e mettiti le mutande” al che Tuco gli risponde un: “Vado, l’ammazzo e torno!” che farà storia: diventerà un modo di dire quando si andava a fare qualsiasi cosa per rientrare subito, come anche andare a comprare il latte o portare giù il cane: vado l’ammazzo e torno. Che divenne anche il titolo di un altro western di Enzo G. Castellari, film sfacciatamente e interamente fatto di omaggi e citazioni. Ma ci fu anche un “Il bello, il brutto, il cretino” con Franco e Ciccio regia di Giovanni Grimaldi (nessuna parentela col produttore Alberto). Un’altra parodia sarà “Il bianco, il giallo e il nero” di Sergio Corbucci starring lo stesso Eli Wallach. Fino al più recente (2008) coreano “Il buono, il matto, il cattivo” di Kim Ji-woon. Ma c’è anche un fumetto della Marvel Comics che con il medesimo titolo schiera Capitan America, Deadpool e Wolverine, e ci sarà anche Dylan Dog e altro ancora.

Di nuovo dal punto di vista linguistico il set era una babele ma stavolta c’erano tre protagonisti che almeno fra loro potevano recitare in inglese mentre il resto degli attori e dei figuranti parlavano italiano e spagnolo; solo Wallach, che conosceva il francese, si rivolgeva in quella lingua agli italiani, anche durante il girato; e a Leone pare che poco importasse del parlato: lui parlava poco e male l’inglese, aveva poi l’abitudine di cambiare le battute all’ultimo momento e, avendo già disponibile la musica di Morricone, amava averla sui set mentre girava, per ispirare gli attori, cosa che piaceva molto a Eastwood, ma che non aiutava al momento di dover doppiare il tutto, sia in italiano che in inglese per il mercato estero. Mickey Knox, il direttore del doppiaggio americano, ha dichiarato: “Sergio aveva una pessima traduzione dall’italiano e, nella maggior parte dei casi, gli attori americani cambiavano le battute mentre doppiavano… io sapevo quello che avrebbero dovuto dire, perché avevo il copione italiano… ma dovevo trovare le battute giuste, non solo per mandare avanti la storia, ma anche perché corrispondessero al movimento delle labbra. Non è una cosa facile da fare. Di fatto, mi ci vollero sei settimane per scrivere quello che chiamano ‘il copione col labiale’. Normalmente per un film ce l’avrei fatta fra i sette e i dieci giorni. Ma quello non era un film normale.” L’aiuto regista non accreditato Sergio Donati che era stato mandato a controllare il doppiaggio americano, aggiunge: “A ‘semplificare’ le cose arrivò pure Clint Eastwood il quale ormai, dopo il terzo film con Leone, stava con lui in un reciproco cordiale rapporto tipo ‘senza di me non saresti nessuno, brutto stronzo’. Clint con una faccia da western sbatté il suo ‘shooting script’ sul leggio e disse con la voce gelida e sussurrante che conoscete tutti: ‘Io ripeto esattamente quello che ho detto sul set’. Sapendo benissimo di rovinarci in quanto era tradizione leoniana sconvolgere completamente i dialoghi durante il montaggio.” Per l’Italia ancora una volta Clint fu doppiato da Enrico Maria Salerno, Van Cleef da Emilio Cigoli e Eli Wallach dal caratterista della voce un po’ nasale Carlo Romano, mentre Luigi Pistilli fu doppiato da Nando Gazzolo che nei primi due film aveva doppiato Gian Maria Volonté.

Nel 2014 l’editore Bompiani pubblica il romanzo di Nelson Martinico “Il buono, il brutto e il figlio del cattivo” fatto ritirare dal commercio dagli eredi di Leone, ma per chi lo volesse esistono delle copie in vendita online. L’idea del figlio del cattivo lascia supporre un sequel, che in effetti fu pensato dallo script-doctor Luciano Vincenzoni che pure aveva abbandonato Leone e la sua impresa, Leone che dal canto suo non aveva nessuna intenzione di realizzare un seguito; ma come ormai ci è evidente l’ineffabile Vincenzoni era uno che amava forzare la mano, e avendo scritto una prima traccia di sceneggiatura ambientata venti anno dopo, aveva anche contattato gli attori per sentirne la disponibilità; Eli Wallach fu subito della partita e della sceneggiatura dirà “Tuco sta ancora cercando quel figlio di puttana. E scopre che il Biondo è stato ucciso. Ma suo nipote è ancora vivo, e sa dove è nascosto il tesoro. Così Tuco decide di inseguirlo.” Clint Eastwood pare che sin da subito non fu entusiasta del progetto tanto che il testimone del suo personaggio passa a un probabile nipote, si rende però disponibile come voce narrante ma soprattutto voleva entrare nella produzione: piatto ricco mi ci ficco. Accertato che anche Sergio Leone non era disponibile come regista, lo sceneggiatore contattò Joe Dante offrendo a Leone il ruolo di coproduttore: era necessario che il titolare del franchising fosse della partita in un qualsiasi ruolo; ma l’ormai maestro dello spaghetti-western guardava molto oltre e non diede il permesso di utilizzare il suo titolo né i suoi personaggi. Fine della storia. Però per il suo successivo film, “C’era una volta il West” in cui finalmente avrà nel cast il tanto desiderato Charles Bronson, Leone aveva contattato i tre attori per chiedergli di interpretare dei camei: i tre killer che attendono il protagonista alla stazione, sarebbe stato divertente e iconico; Van Cleef e Wallach furono subito disponibili ma Eastwood si negò e l’autore dovette ripiegare su altri caratteristi.

Chi volesse acquistare una copia del famoso poncho lo può cercare online

Sotto finale Clint Eastwood trova un poncho e lo indossa, diventando il personaggio dei due primi film: un’auto citazione dell’autore, nient’altro. Ma questo ha scatenato tutti quelli che ancora oggi cercano nei tre film connessioni e riferimenti incrociati, volendo addirittura stabilire una cronologia; così se nell’ultimo film Eastwood trova il poncho significa che è un prequel, ma storicamente non funziona perché la guerra civile è posteriore alla conquista americana del Texas ancora messicano dei primi film. Di fatto i tre film sono nati autonomamente e anche casualmente, senza un preciso ordine né progetto da parte di Sergio Leone che però, negli anni, ricamando la sua stessa leggenda, dirà che sin dall’inizio aveva pensato nella sua interezza la Trilogia del Dollaro.

Le riprese avvennero come sempre principalmente in Spagna, e stavolta con l’approvazione del regime franchista che mise a disposizione l’esercito spagnolo per assistenza tecnica, e perché no anche spionaggio, e ben 1500 soldati entrarono a far parte del ricchissimo cast di comparse e figuranti. Esercito che venne in aiuto per la scena in cui il ponte viene fatto esplodere. Ricorda Donati: “Il miglior ‘artificiere’ del cinema allora era Baciucchi, a ‘living legend’: ma non aveva mai avuto a che fare con un botto di quelle dimensioni. Mise una trentina di cariche di tritolo, ma ogni volta l’esplosione delle prime mandava a puttane il resto dei contatti elettrici, così il ponte non saltava tutto in una volta come voleva Sergio.” Il ponte che Leone aveva fatto costruire era vero, transitabile e lungo quaranta metri, ma poiché l’artificiere di Cinecittà aveva fallito arrivò un colonnello dell’esercito spagnolo con una squadra di specialisti e per riprendere l’azione erano state piazzate ben dodici macchine da presa. Durante il conto alla rovescia, al “meno dieci” il capitano dell’esercito confuse una parola detta da un tecnico delle cineprese con il segnale di far esplodere il ponte: avevano concordato in spagnolo vaya, ma a un vai in italiano il militare premette il pulsante dieci secondi prima del tempo convenuto e le macchine da presa, avviate in tutta fretta, riuscirono a filmare solo la ricaduta dei detriti. Leone andò su tutte le furie: “Adesso lo ammazzo!” andava gridando, ma il colonnello gli disse: “Ricostruirò io il ponte, ma non fucili quest’uomo.” e il ponte fu ricostruito in una notte, pronto per un altro botto, e Eastwood e Wallach rischiarono di esserne travolti. Eastwood ricorda: “Se io e Wallach ci fossimo trovati nel punto stabilito da Leone, con tutta probabilità ora non sarei qui a raccontarvelo.” Fu proprio lui a volersi mettere in una posizione più sicura, e nonostante ciò, solo per un caso fortuito non venne colpito da un grosso frammento di pietra proiettato dall’esplosione a meno di un metro dalla sua testa, come si può chiaramente notare rivedendo la sequenza. Eastwood avrà molto a ridire sull’approssimazione della sicurezza nei set di Leone tanto da consigliare a Wallach di “non fidarsi mai di nessuno in un film italiano.”

Ma le disgrazie non finiscono qui: Eli Wallach rischiò di lasciarci la pelle per ben tre volte: prima per poco non si avvelenò con una bottiglia di acido che un tecnico aveva lasciato vicino alla sua bottiglia di acqua minerale; poi, in una delle scene delle finte impiccagioni, allo sparo il cavallo si imbizzarrì e corse via al galoppo con l’attore in groppa e con le mani legate dietro la schiena; un’altra scena assai rischiosa fu quella in cui lui e Mario Brega dovevano saltare dal treno in corsa, e la sequenza fu perfetta, ma nella scena successiva, quella in cui per spezzare la catena la mette sul binario dove passerà il treno, i tecnici e lui stesso non si erano resi conto che i gradini di ferro del treno sporgevano di circa 30 centimetri e che se l’attore si fosse alzato qualche attimo prima sarebbe stato decapitato; ma per fortuna era andata bene, e siccome cinematograficamente si poteva sempre migliorare, Leone chiese a Wallach di ripeterla: e a quel punto l’attore dove mandò il regista?

E mentre le riprese del film procedevano, la notizia che il nuovo western di Sergio Leone era in produzione fece subito il giro del mondo, quel mondo in cui Leone era già famoso. A questo punto il regista si è voluto togliere qualche sassolino dalla scarpa e in un’intervista per Il Messaggero dirà: “Sì, adesso posso fare quello che voglio. Ho firmato un contratto favoloso con la United Artists. Sono padrone di scegliere quello che voglio, soggetti, attori, tutto. Mi danno quello che voglio, mi danno. Solamente i signori burocrati del cinema italiano cercano di mettermi i bastoni fra le ruote. Loro fanno i film a tavolino col bilancino del farmacista. Quattro attori e mezzo italiani, due virgola cinque spagnoli, uno statunitense. No, gli ho detto, voi i film me li dovete far fare come voglio io, oppure me ne vado in America o in Francia, dove mi aspettano a braccia aperte!”

Le novità stilistiche introdotte da Sergio Leone sono tante e una è aver spogliato i personaggi del western da quel manicheismo tutto americano in cui i buoni sono buoni e i cattivi sono cattivi, e vi introduce una complessità psicologica che condurrà al western moderno, e questo pur restando nell’ambito delle maschere che come tali agiscono, dei tipi ben precisi che però con la sua narrazione apportano alla storia punti di vista diversi. E veniamo al triello: se nel duello sono in due nel triello sono in tre. Grandissimo finale, grandissima invenzione che farà scuola. Il maestro se la prende comoda, allunga i tempi e crea tensione, alterna campi lunghi a primissimi piani in un montaggio che da lento si fa via via più veloce. Una sequenza che non avrebbe avuto lo stesso impatto emotivo se non ci fosse stato il commento sonoro di Ennio Morricone. Leone ha ricordato: “Volevo un cimitero che potesse evocare un antico circo. Non ne esisteva nemmeno uno. Così mi rivolsi al responsabile spagnolo degli effetti pirotecnici che si era occupato della costruzione e della distruzione del ponte. Mi prestò 250 soldati, e questi costruirono il tipo di cimitero di cui avevo bisogno, con diecimila tombe. Quegli uomini lavorarono per due giorni pieni, e fu fatto tutto. Da parte mia non si trattava di un capriccio, l’idea dell’arena era cruciale, con una morbosa strizzatina d’occhio, perché i testimoni di questo spettacolo erano tutti morti. Insistetti perché la musica esprimesse la risata dei cadaveri all’interno delle tombe. I primi tre primi piani degli attori ci presero tutta la giornata: volevo che lo spettatore avesse l’impressione di guardare un balletto. La musica diede un certo lirismo a tutte queste immagini, così la scena divenne una questione di coreografia quanto di suspense.” Sono sette minuti senza alcun dialogo e anche all’inizio del film non si sente una sola parola prima di dieci minuti: parlano gli sguardi. George Lucas ha dichiarato di aver preso ispirazione dai primi piani leoniani per le riprese di “Star Wars: Episodio III – La vendetta dei Sith” nel duello finale tra Anakin Skywalker e Obi-Wan Kenobi. Inoltre la sequenza del triello viene studiata all’università del cinema di Los Angeles, fotogramma per fotogramma, come mirabile esempio di montaggio. Inoltre diverse scene del film sono state utilizzate per uno studio sulle funzioni superiori del cervello umano pubblicato il 12 marzo 2004 sulla rivista “Science”.

Per la prima volta Ennio Morricone scrive la sua musica sulla sceneggiatura e non più sul girato, una colonna sonora che ancora una volta venderà in tutto il mondo e avrà centinaia di scopiazzature; e qui introduce uno di quei suoi adagi larghi e solenni che vanno dritti al cuore, uno di quelli che ameremo in “C’era una volta in America” o “Mission”. E come la colonna sonora, il film spopolò in tutto il mondo lasciando a bocca aperta i boss della United Artists perché mai nessun altro western doc aveva raggiunto quei risultati, e al box office si piazzò terzo dopo “La Bibbia” di John Huston e “Il Dottor Zivago” di David Lean.

Alcuni stralci della critica. L’americano Roger Ebert, che successivamente incluse il film nella sua personale lista dei migliori film, affermò che nella sua prima recensione “descrisse un film da 4 stelle dandogliene solo 3, forse perché si trattava di uno spaghetti-western e quindi non poteva essere considerata arte”Enzo Biagi: “Per fare centro tre volte, come è appunto il caso di Sergio Leone, bisogna essere dotati di vero talento. Non si imbroglia la grande platea, è più facile ingannare certi giovanottoni della critica, che abbondano in citazioni e scarseggiano in idee.” Assolutamente ingeneroso Alberto Moravia che era più vicino al cinema di Pier Paolo Pasolini: “Il film western italiano è nato non già da un ricordo ancestrale bensì dal bovarismo piccolo borghese dei registi che da ragazzi si erano appassionati al western americano. In altri termini il western di Hollywood nasce da un mito; quello italiano dal mito del mito. Il mito del mito: siamo già nel pastiche, nella maniera.” Ma siamo anche in un altro mondo dove i grandi sono grandi ognuno a suo modo.

Noi donne siamo fatte così

1971. Un titolo che è di per sé un manifesto, una dichiarazione di status e di intenti, ma che fallisce entrambi i punti perché in una buona metà degli episodi non è protagonista la donna con il suo sbandierato modo di essere bensì la situazione del racconto, a volte sviluppata in una vera e propria trama ma per lo più sono episodi che rimangono situazioni senza sviluppo narrativo, sketch, scenette da varietà televisivo, barzellette. E la donna è solo il mezzo espressivo. E’ un peccato perché l’occasione era ghiotta: Monica Vitti protagonista assoluta di uno di quei film a episodi tanto in voga all’epoca, che nel 1963 avevano avuto come protagonista femminile Sofia Loren in “Ieri, oggi, domani” diretta da Vittorio De Sica e accompagnata passo passo dal coprotagonista Marcello Mastroianni. Qui dirige Dino Risi e non c’è spazio per coprotagonisti maschili, e dove il ruolo di comprimario in pochi casi si fa importante viene affidato a differenti attori, che in ordine di apparizione sono: Enrico Maria Salerno, Carlo Giuffrè, Ettore Manni.

Donna oggetto con Enrico Maria Salerno in “Zoe – Romantica”

12 episodi per 112 minuti di film, in media 9,33, con episodi più lunghi e complessi, veri cortometraggi, e altri davvero veloci come siparietti, il primo dei quali in apertura del film è anche muto, che offrono a Monica Vitti l’occasione di cimentarsi in 12 ritratti diversi in cui recita credibilmente con diverse cadenze regionali e interpreta anche un’americana, una tedesca e una hostess poliglotta. Gli episodi vengono introdotti da un cartello che li intitola col nome della donna protagonista e solo nei titoli di coda si apprende che ogni episodio aveva un titolo proprio, che come si vuole in narrativa introduce allo spirito del racconto più del semplice laconico nome femminile.

Siciliana vittima-carnefice in “Alberta – Il mondo cammina” con Carlo Giuffré

Da “Noi donne siamo fatte così” ci si aspetta un film che nei suoi episodi racconti la donna nei suoi molteplici e complessi aspetti, anche pre rivoluzione settantottina, anche nel tono grottesco che si è scelto e nel quale la protagonista è notoriamente a suo agio. In realtà sono donne che più che raccontare come sono fatte, dunque dal loro punto di vista, raccontano storie totalmente maschili in cui la donna, per lo più, rimane la costola di un Adamo che si avvia in quegli anni settanta a essere seriamente messo discussione, e dunque il film è già vecchio e fuori fuoco già alla sua uscita nelle sale.

Ancora donna oggetto in “Teresa – Schiava d’amore” con Ettore Manni

Unici riferimenti alla realtà del tempo: una veloce battuta sul divorzio, legalizzato in Italia l’anno prima, ed evidentemente non ancora metabolizzato dagli autori tanto da spingerli a scriverci sopra un intero episodio; lo sciopero delle lavoratrici di un biscottificio; la guerra del Vietnam; la citazione del programma radiofonico “Chiamate Roma 3131” qui adattato in “Chiamate Roma 2121”, un episodio che pericolosamente fa l’apologia dello stupro. C’è poi il ritratto di una coppia iper moderna della Roma bene, come si dirà all’epoca in seguito al successo del film di critica sociale “Roma bene” di Carlo Lizzani, di quello stesso anno; coppia aperta che vanta libere frequentazioni erotiche extra coniugali ma che alla fine danno sfogo alla loro intima natura di siciliani, ovviamente gelosi come la narrativa pretende, e si uccidono a vicenda. In questo episodio la Vitti fa di nuovo la coppia siciliana creata con Carlo Giuffré che l’aveva disonorata in “La ragazza con la pistola” diretto da Mario Monicelli tre anni prima, grande successo che in qualche modo ridisegnò la sua immagine presso il pubblico, dopo che era stata per il compagno di vita Michelangelo Antonioni musa della tetralogia detta dell’incomunicabilità. Il resto sono ritratti di donne senza tempo occasionalmente inserite in un luogo specifico per darle la possibilità di sfoggiare calate dialettali diverse, compreso il napoletano dell’episodio “Annunziata” ovvero “Mamma” in cui è madre di 22 figli e orecchia l’episodio “Adelina” di “Ieri, oggi, domani” ispirato a un reale fatto di cronaca.

Dirige Dino Risi, maestro della commedia con le unghie affilate che ha già firmato capolavori come “Il sorpasso” e fra i film a episodi “I mostri”; ma qui il suo sguardo cinico e tagliente non basta a dare spessore a una serie di barzellette. Un film ancora gradevole per la presenza di Monica Vitti e che, dati i numerosi anche brevi episodi, si può vedere a tempo perso, magari facendo zapping quando nel canale in visione c’è la pubblicità. Nel complesso uno di quei film a episodi troppo legati alla fantasia maschile e maschilista degli autori – Age e Scarpelli, lo stesso Dino Risi, Ettore Scola, Rodolfo Sonego, Luciano Vincenzoni, Giuseppe Catalano, più un anonimo che firma “Eliana – La guerra del Vietnam” che potrebbe celare la stessa Monica Vitti, corrispondente di guerra italiana gravemente mutilata, nell’ospedale da campo in Vietnam, che al presidente americano in visita rivolge un fulminante “…li mortacci tua!”. Il film fu praticamente ignorato nelle sale, mentre la critica salva il mestiere della Vitti e non infierisce sul prodotto. Monica Vitti si rifarà inanellando tre successi: “La Tosca” diretta da Luigi Magni, “Teresa la ladra” diretta dal suo compagno Carlo Di Palma e “Polvere di stelle” di e con Alberto Sordi.

Una giovanissima Ileana Rigano, accreditata come Riganò, nel ruolo muto ma essenziale della graziosa camerierina della coppia siciliana Vitti-Giuffré