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Leonora addio – l’addio a Vittorio del fratello Paolo

Quest’anno c’è stato un altro film su Luigi Pirandello che è passato praticamente inosservato in sala, e oggi già disponibile su Sky, di cui vale la pena parlare dopo il clamoroso successo di “La stranezza” di Roberto Andò che racconta fra invenzione narrativa e ricerca storica i tormenti dell’autore sulla composizione del suo dramma “Sei personaggi in cerca d’autore”. Dirige Paolo Taviani, per la prima volta in solitaria dopo la morte del fratello Vittorio, di due anni più anziano, avvenuta nel 2018 quand’era 89enne. E Paolo, oggi 91enne, torna di nuovo a Pirandello: con Vittorio avevano firmato dalle novelle pirandelliane il riuscitissimo “Kaos” nel 1984 e il meno riuscito “Tu ridi” nel 1998, in una cinematografia fatta principalmente di ispirazioni letterarie e di alternanze di film belli e meno belli, ma mai brutti, e “Leonora addio” è purtroppo da iscrivere nella categoria dei film meno riusciti, ancorché premiato all’interno del Festival di Berlino 2022 col premio indipendente Fipresci (Fédération internationale de la presse cinématographique), ricordando che in quel festival erano stati incoronati con l’Orso d’Oro nel 2012 per il sorprendente “Cesare deve morire”.

“Leonora addio” è un film enigmatico, per certi versi incomprensibile e che a tratti si rivela ostico, nonostante sia molto elegante sul piano stilistico, addirittura semplice sul piano narrativo con i suoi scarni dialoghi e le sequenze girate da maestro ma piane e senza scossoni, addirittura prevedibili nei pochi momenti grotteschi che però non fanno sorridere perché virano al nero.

“Per lo schietto e geniale rinnovamento nell’arte scenica e drammatica”.

Dopo l’incipit in cui vediamo Pirandello ricevere il Premio Nobel per la letteratura nel 1934 in filmati di repertorio, ci sono i titoli di testa e la dedica a Vittorio: che è la chiave di lettura di questo film scomposto, un lungo addio a un fratello, un amico, un complice, un compagno d’arte. E il tema del film è la morte. Pirandello muore due anni dopo aver ricevuto il premio e le sue disposizioni, scritte già nel 1911, sono precise: “Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo, appena arso, sia lasciato disperdere, perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra della campagna di Girgenti, dove nacqui.

Taviani passa dai cinegiornali al suo cinema mantenendo lo stesso bianco e nero con la fotografia di Simone Zampagni, in cui l’unico colore ad accendersi è il rosso del fuoco del forno crematorio. Da qui cominciano le disavventure delle ceneri in un racconto surreale ma purtroppo vero. In quel 1936 l’Italia era governata dal regime fascista, idee cui peraltro lo stesso Pirandello aveva entusiasticamente aderito già nel 1924 e l’anno dopo sarà tra i firmatari del Manifesto degli Intellettuali Fascisti redatto da Giovanni Gentile. Dunque l’apparato politico con Benito Mussolini in testa si sentì in dovere di appropriarsi delle ceneri e di disporne a proprio modo, e senza considerare le volontà del Trapassato organizza quello che sarà il primo dei tre funerali cui Pirandello andrà incontro suo malgrado, e le ceneri vengono murate in una colombaia al cimitero del Verano. Dopo la Liberazione dal regime nazi-fascista, nel 1947, alcuni studenti agrigentini fra cui Andrea Camilleri, dettaglio non citato nel film, sollecitarono il trasferimento delle ceneri nella terra natia secondo le precise disposizioni dell’illustre Agrigentino, e su interessamento del presidente del consiglio dei ministri Alcide De Gasperi, le ceneri conservate in una preziosa anfora greca che già fu di proprietà dello stesso Pirandello, cominciano l’avventuroso surreale viaggio, custodita e accompagnata da un attento delegato del Comune di Agrigento che nel film è interpretato dal comprimario emergente pluripremiato Fabrizio Ferracane.

Marta Abba davanti all’urna con le ceneri di Pirandello depositata al museo civico

Ma in città c’è un altro ostacolo: il vescovo Giovanni Battista Peruzzo, interpretato da uno dei fedelissimi dei Taviani, Claudio Bigagli, si oppone al corteo funebre perché i resti erano stati anti-cristianamente cremati e non si poteva esporre un’urna greca, pagana: a qualcuno venne l’idea di nascondere l’imbarazzante urna dentro una più cristiana bara: Camilleri si attesta la paternità del brillante quanto ridicolo ma necessario sotterfugio, ma Taviani nel suo film attribuisce l’idea a un prete, un non definito Don Biagio interpretato da Biagio Barone; ma non finisce qui e le ceneri devono passare attraverso altri sberleffi. Avvenuto il secondo funerale l’anfora rimase però depositata nel museo civico perché si attendeva la conclusione del monumento funerario disposto dal comune e dai figli e da costruire nella villa pirandelliana, ma passarono altri quindici anni prima della terza e conclusiva cerimonia funebre nel 1962. Parte delle ceneri che non entrarono nel contenitore metallico disposto per l’ultima sepoltura alla fine vennero disperse nel mare, così come erano state le originarie volontà di Pirandello.

Sul set Paolo Taviani in basso a sinistra Claudio Bigagli in piedi a destra.

A questo punto il mare vira dal bianco e nero al colore con la fotografia di Paolo Carnera e comincia la seconda parte del film, totalmente slegata dalla prima: la messa in film dell’ultimo racconto scritto da Pirandello pochi giorni prima di morire, “Il chiodo”, ispirato da un fatto di cronaca nera avvenuta ad Harlem, New York. Bastianeddu, interpretato dal ragazzino già in carriera Antonio Pittiruti, è stato portato dal padre Turiddu, Federico Tocci, via dalla madre e dalla Sicilia per fare fortuna in America; il ragazzino si rende colpevole di un inspiegabile crimine: con un chiodo uccide un’orribile bambina dai capelli rossi, sue le parole, e agli inquirenti spiega solo che il chiodo era caduto apposta, on purpose, da un carretto e lui si era ritrovato apposta davanti alla sua vittima, senza alcun’altra logica spiegazione. Nella vicenda reale il processo si conclude con l’assoluzione del ragazzo evidentemente ritenuto momentaneamente incapace di intendere e di volere. Nel film, Bastianeddu da adulto, in campo lunghissimo, va sulla tomba della sconosciuta ragazzina che aveva ucciso, e su quella tomba torna e ritorna negli anni, sempre più vecchio, a scontare la sua vera pena.

Due differenti film sotto uno stesso titolo che però non parla di nessuno dei due: altro dettaglio non da poco che spiazza critica e pubblico. “Leonora addio” è il titolo di un altro racconto di Pirandello, titolo che a sua volta l’autore aveva preso da un’aria da “Il Trovatore” di Giuseppe Verdi i cui versi sono: “Sconto col sangue mio / L’amor che posi in te!… / Non ti scordar di me! / Leonora, addio!” Se ne deduce che l’addio del titolo è per Paolo Taviani un ermetico addio al fratello, così come l’intero film che gli ha dedicato è sul tema della morte: narrativamente quella di Pirandello; e poi del dolore di chi resta, quello di Bastianeddu sulla tomba della vittima senza motivo e sconosciuta. Due film non per platee dai gusti facili, e belli se presi separatamente, ma il cui accostamento lascia spiazzati, ancor più dopo il titolo, perché per l’autore rimasto fratello unico è il criptico personalissimo omaggio alla sua metà di sempre: Pirandello è Vittorio, Bastianeddu è Paolo – e questa è una semplificazione assai grossolana.

I pugni in tasca – opera prima di Marco Bellocchio

Il film completo

1965, il ’68 è dietro l’angolo, e Marco Bellocchio realizza questo suo primo lungometraggio dando voce a disagi assai personali, senza sapere che stava realizzando un manifesto sociale: il suo malessere è lo stesso di tanti suoi coetanei che scenderanno per le strade a manifestare un diffuso disagio per una società fatta di schemi prestabiliti ancora radicati su vecchi modelli antecedenti il secondo conflitto mondiale se non addirittura ottocenteschi, che spingeranno la massa della nuova forza lavoro, studenti e operai, cui si affiancheranno gli intellettuali, verso la rottura con le rigide tradizioni, Dio Patria Famiglia, attraverso il comunismo l’anarchismo e il nichilismo.

“Volevo raccontare una storia molto personale, nella quale potessi riconoscermi. Pensai a un tema che aveva attraversato la mia adolescenza, quell’aspetto infelice della vita di famiglia in cui alcuni, soprattutto mio fratello Paolo, distruggevano ogni possibilità di gioia, obbligandomi a nascondermi. In partenza c’era il protagonista, che vuole restare in famiglia e dominarla eliminando i fratelli ‘imperfetti’ o improduttivi. Poi ho costruito gli altri personaggi, in particolare la madre. Alcune cose venivano dalla mia famiglia, altre erano frutto di fantasia. Ho attinto anche alla mia cultura, un po’ al surrealismo, un po’ alla letteratura, un po’ a quel che era diventata la mia vita. La storia è nata così. Sapevo anche di dover realizzare un film piuttosto intimo, perché i soldi erano pochi. Quindi il grosso del film andava girato all’interno di una casa. Si partì in modo tradizionale, proponendo il progetto a piccoli produttori e distributori, ma nessuno ne voleva sapere. Per le riprese avevamo preventivato venti milioni di lire. Andai da mio fratello: la sceneggiatura non gli piaceva, ma mi lasciò una parte del nostro patrimonio e ottenne un prestito bancario. Così mi ritrovai a essere di fatto produttore del film, con Doria come produttore esecutivo. Non era un grosso budget, anche se oggi si realizzano opere prime con ancor meno. Il soggetto dei ‘Pugni in tasca’ l’ho scritto a Londra, dove ero andato forse perché non sapevo bene che fare (frequentai dei corsi di cinema di Thorold Dickinson, era questa la scusa, con una piccola borsa di studio). L’idea del soggetto era la condensazione di fantasticherie di anni, di tutta una storia di solitudine dentro la famiglia. Eravamo testimoni, io e i miei fratelli, di una follia cui nessuno poteva mettere rimedio, e che veniva subita con reazioni nostre sempre uguali. Dalle fantasticherie di allora nacque un intreccio, crebbero dei personaggi. Poi naturalmente la storia si sviluppò diversamente, quando doveva diventare un film e ancora mentre il film veniva girato.” Bellocchio ha poi raccontato la sua famiglia nel documentario autobiografico “Marx può aspettare”.

In questo suo primo film la figura paterna è assente (come suo padre già morto da anni) e la figura materna, che come quella reale è una fervente cattolica che negli anni ha accumulato una collezione della rivista Pro Familia che vedremo nel film, è una donna cieca, simbolicamente cieca verso i bisogni e la natura dei figli, e narrativamente funzionale al racconto che l’autore sviluppa. I quattro figli sono altrettanto simbolicamente e sinteticamente sviluppati dalla sua realtà familiare: Leone, il piccolo, è un disagiato mentale che soffre anche di epilessia, il male di famiglia di cui soffre anche Alessandro su cui s’incentra il racconto, e il maggiore Augusto è quello che ha assunto, com’era d’uso, il ruolo di capofamiglia in assenza del pater familias: è l’unico che lavora e ha una sana vita sociale, va anche a puttane come tutti i maschi esempio cardine della società, mentre gli altri tre oziano in casa fra claustrofobie reali e mentali in cui si acuiscono i disagi e le tare latenti. “In quella villa sono tutti malati” è una battuta del film.

E la villa che fa da set è la casa dell’eredità materna fuori città dove i Bellocchio andavano in estate. Una casa in cui sono del tutto assenti la radio e soprattutto la televisione con la Rai che aveva avviato le trasmissioni ufficiali dieci anni prima, e l’apparecchio era ancora un bene di lusso da tutti ambito; così nella famiglia che Bellocchio mette insieme, la sera si legge ancora un libro o si gioca a carte, come non è inusuale ascoltare dischi di musica classica. In questa famiglia-tipo, provinciale benestante e oziosa, a mio avviso la figura meno definita è quella di Giulia, l’unica sorella, come se Bellocchio non sapesse come raccontare il mondo femminile, e ne fa un’entità indistinta, sottomessa, donna e bambina, che legge l’Almanacco Topolino e ha sulla testiera del letto la fotografia di Marlon Brando in “Fronte del porto”, una donna-bambina alternativamente tentata dal machismo di Augusto e dall’inafferrabile inconsistenza di Alessandro, Ale o Sandro, che però prende una posizione ed esprime il suo punto di vista solo nel finale.

In quei primi anni ’60 era arrivata dalla Francia la Nouvelle Vague, la nuova ondata, anch’essa nata da movimenti giovanili con l’intento di rifondare la narrativa cinematografica francese che sul finire degli anni ’50, in risposta a una crisi sociale interna, era diventata estremamente moraleggiante con situazioni e personaggi e dialoghi molto idealizzati e poco realistici; così una nuova generazione di registi, tutti intorno ai vent’anni, cominciano a girare film a basso costo e con mezzi di fortuna, nelle case private o per strada, come una sorta di diario intimo collettivo che esprime, insieme alla sincerità, la loro giovanile inquietudine. I nome di quei ventenni sono Claude Chabrol, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Éric Rohmer, François Truffaut… Così anche da noi si avviarono delle produzioni che promuovessero dei nuovi debutti, e se da un lato ci fu l’opera prima, nonostante quasi quarantenne e già poeta e intellettuale affermato, di Pier Paolo Pasolini con “Accattone”, avevano debuttato anche Elio Petri con “L’assassino”, i Fratelli Taviani in co-regia con Valentino Orsini firmarono “Un uomo da bruciare” e l’opera seconda estremamente politica “Prima della rivoluzione” di Bernardo Bertolucci che ancora più giovane di Bellocchio aveva debutta con “La commare secca” sotto l’egida di Pasolini. Tutte produzioni ed esperimenti meritevoli di attenzioni ma che al botteghino non ebbero l’esito sperato, così quando Bellocchio fu pronto per presentare il suo progetto, nei produttori non c’era più l’entusiasmo dei primissimi anni ’60.

Enzo Doria

“Per mesi ho cercato insieme a Doria persone che potessero partecipare con dei quattrini al progetto. Non le abbiamo trovate. Allora i miei fratelli, Tonino e Piergiorgio, hanno chiesto un piccolo prestito alla banca e l’hanno garantito. Il prestito era di circa 20 milioni e con questi venti milioni è stato fatto il film. Loro erano convinti di perdere questi soldi, ma che comunque valesse la pena di perderli anche perché erano un mio diritto patrimoniale, dal momento che mancando mio padre io ero padrone di alcuni beni immobili, nessuno mi regalava niente. I produttori non accettavano il progetto perché ritenevano la storia incredibilmente scadente, non vendibile.” Enzo Doria racconterà: “Io venivo da Genova, ero a Roma già da qualche anno, dove avevo fatto il Centro Sperimentale con Bellocchio. Ho cominciato come attore, poi ho fatto l’aiuto regista, un po’ di edizione e casualmente il produttore, perché non avevo nessun altro sbocco. ‘I pugni in tasca’ è stato scritto a Londra, dove eravamo andati tutti a studiare l’inglese. Mi è piaciuto il tipo di storia, in quanto anche la mia famiglia viene dalla zona collinosa fra l’Emilia e la Liguria. Anch’io ho avuto strane storie in famiglia, tabù di malattie e cose del genere. Mi ha affascinato questa storia anche perché andando su da lui, da Bellocchio, dove poi abbiamo girato il film, ho visto questa villa isolata con degli alti cipressi intorno che rendono il posto protetto e solitario. È stato faticosissimo trovare una distribuzione. Nessuno capiva perché volevamo fare questo film.” Per lui questa sarà la prima impresa produttiva che gli varrà il Nastro d’Argento e produrrà i debutti di Silvano Agosti e di Salvatore Samperi. Mentre Tullio Kezich, critico e sceneggiatore, a quei tempi anche produttore, racconterà: “Al culmine della mia carriera di direttore artistico della società cinematografica 22 Dicembre, non partecipai a un’impresa che mi avrebbe dato gloria imperitura. All’epoca il fatto di aver realizzato fra l’altro un paio di film di Olmi, ‘I basilischi’ (1963) di Lina Wertmüller e ‘II terrorista’ (1963) di De Bosio attirava nei nostri uffici tutti gli esordienti del cinema italiano, incluso il giovanotto ad honorem Roberto Rossellini con il quale allestimmo ‘L’età del ferro’ (1964). E così in mezzo a tanti altri si presentarono un giorno, con l’aria di darsi coraggio reciprocamente, due timidi. Mi sottrassi alla loro vista barricandomi nella mia stanza (erano troppi, in quei giorni, gli illusi e i frustrati che facevano perdere tempo) e dopo un po’ mi raggiunse il nostro brutale organizzatore dicendo: ‘Te li ho risparmiati, ringraziami, erano proprio due imbranati. Quello che vuole fare il regista, figurati, mi ha raccontato un soggetto pazzesco, la storia di uno che ammazza tutta la famiglia’. Passò molto tempo prima che mi rendessi conto di aver mandato via insalutati Marco Bellocchio e il suo produttore Enzo Doria.” La sedicente gloriosa 22 Dicembre chiuse i battenti proprio l’anno di uscita di “I pugni in tasca”.

Se le cose fossero andate diversamente il film avrebbe avuto come protagonisti la coppia nazional-popolare Gianni Morandi e Raffaella Carrà, e avrebbe certamente funzionato. Il duo Bellocchio-Doria, rendendosi conto di doversi presentarsi al botteghino con un film difficile, opera prima di uno sconosciuto, ebbe la brillante idea di coinvolgere nel cast quei beniamini del pubblico televisivo per garantirsi una più facile visibilità. Morandi aveva vent’anni, era un ex bambino prodigio che aveva cantato nelle feste e nelle sagre di paese e ormai sfornava un successo dietro l’altro, da “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” a “Non son degno di te” sulla scia dei quali aveva girato un paio di musicarelli. Raffa, già attrice bambina, ancora 17enne si era diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia ma fra cinema teatro e radio, benché lavorando molto e anche molto apprezzata, stentava ancora a raggiungere il grande successo, che le arrivò solo negli anni ’70 con la tv. Ma mentre su di lei Bellocchio ci aveva solo fatto un pensiero, con Gianni ci furono delle vere e proprie trattative: il giovane cantante voleva assolutamente fare il film ma la casa discografica con cui era sotto contratto, la RCA, glielo impedì perché quel film rischiava di rovinare la sua immagine di bravo ragazzo di successo. Fine dei giochi nazional-popolari.

“Marco Bellocchio, che stava preparandosi a girare ‘I pugni in tasca’, mi propose per la parte del protagonista. Su due piedi rimasi incerto, poi l’idea mi interessò moltissimo. Tutti mi sconsigliavano, Lionetti, il mio scopritore, in testa, la casa discografica eccetera. In effetti, era una parte del tutto opposta al mio personaggio così come si era affermato in quegli anni. Ma io la volevo fare a tutti i costi. Bellocchio mi cercava e tutti gli altri facevano il possibile per fargli perdere le mie tracce. Io però ero deciso. A quel punto, visto che non c’era altra strada, Lionetti mi affrontò e mi disse: ‘Se lo fai, ti spezzo una gamba’. La parte fu affidata a Lou Castel.”

Bellocchio aveva sognato anche interpreti internazionali come Susan Strasberg fresca di Golden Globe per “Le avventure di un giovane” di Martin Ritt; mentre per il ruolo del fratello maggiore aveva pensato al francese Maurice Ronet, anch’egli all’epoca nome di punta specializzato in ruoli di giovani borghesi ambigui e tormentati. Intanto non aveva ancora trovato il suo protagonista, per il quale aveva anche provinato senza successo il 24enne Franco Nero da un paio d’anni sul mercato cinematografico già con ruoli in cui metteva in risalto la sua prestanza fisica più che il tormento interiore che il personaggio di Bellocchio richiedeva. Fu per caso che il giovane autore si imbatté in Lou Castel, che frequentava come auditore straniero il corso di regia al Centro Sperimentale: lo vide in mensa e incuriosito dalla sua espressione assorta gli propose un provino, benché poi non fosse davvero convinto: gli sembrava troppo timido e tranquillo, e anche lento. Ma durante la prova accadde un piccolo contrattempo tecnico: l’operatore aveva dimenticato di attaccare alla presa di corrente la spina della batteria della macchina da presa, e al momento di girare, in un silenzio carico di tensione, all’ordine del regista “motore! azione!” non successe nulla; e ciò fece scoppiare la tensione accumulata da Castel in un irrefrenabile risata liberatoria, un po’ isterica, che convinse Bellocchio a dargli la parte: “È lui, è lui, è spaccato!” si era messo a gridare entusiasta. Una risata che sarà ripetuta nel film insieme a tutte le altre personalizzazioni che l’interprete apporterà arricchendo il personaggio che nella scrittura non aveva la disarmante dolcezza che gli profonderà l’interprete, rendendo ancora più agghiacciante e incomprensibile la psicopatia di Alessandro. Fu così permeante l’adesione dell’attore al personaggio che durante la lavorazione Bellocchio si adattò all’improvvisazione dell’interprete, cambiando anche le scene, e accadde pure che per le reazioni isteriche e addirittura violente di Castel più volte si dovettero interrompere le riprese, tanto che Marino Masè, nel ruolo del fratello maggiore, assai irritato arrivò a schiaffeggiare il collega, e un esempio di questo scoppio d’ira è rimasto montato in una scena del film. “Volevo diventare regista – dirà l’attore – ma poi con Bellocchio sono diventato alleato di un regista: l’attore deve fare sempre la regia interna di una scena”.

Nato Ulv Quarzéll a Bogotà da un padre diplomatico svedese e da madre irlandese ha, come Marco Bellocchio, un fratello gemello: “Ulv è ‘lupo’ in norvegese. E ho un fratello gemello di nome Björn, ‘orso’. È stata nostra madre che in seguito ha francesizzato i nostri nomi, per evitare problemi amministrativi”. Il padre, che aveva scelto quei nomi dalla natura e dalle fiabe norrene, nel privato era un sognatore e idealista, e come tale aveva deciso di trascorrere il resto della sua vita in Colombia mentre la madre, divorziando, riportò con sé i figli in Europa. Dai 6 anni Ulv frequentò dapprima i college londinesi, ma poi seguendo la madre giramondo crebbe anche in Giamaica e a New York, finché approdò in patria alla rigida Royal Sweden dove subì atti di bullismo. Intanto la madre, inquieta artista comunista, era approdata a Roma entrando nel mondo del cinema come collaboratrice a sceneggiature di autori come Federico Fellini e Mario Monicelli. Lou, 17enne lascia gli studi e va a fare il contadino in Germania, breve parentesi conclusasi per una lite col padrone – è già un giovane ribelle in linea con quello che sarà – e infine si riunisce con la madre nella Roma cinematografica. Frequenta i corsi di recitazione di Alessandro Fersen e poi entra al Centro Sperimentale di Cinematografia.

Lou Castel in “Il Gattopardo”

Aveva debuttato con un piccolissimo ruolo non accreditato in “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, il quale avendolo notato gli chiese di restare oltre le riprese, per conoscersi meglio, ma il ragazzo rispose che aveva fatto le sue otto ore per avere la sua busta paga e se ne andò, sempre insofferente irriverente e sovversivo, voltando forse le spalle a un altro tipo di carriera. “I pugni in tasca” sarà il suo vero debutto cinematografico nel quale, pur recitando in italiano, per il suo forte accento straniero verrà doppiato da Paolo Carlini. Continuerà con una bella carriera nel cinema italiano, lavorando con Damiano Damiani, Carlo Lizzani, Liliana Cavani, e infilando un altro successo con “Grazie zia” del debuttante Salvatore Samperi; fino alla sua espulsione dall’Italia nel 1972 come indesiderato per la sua militanza nell’estrema sinistra in un’Italia fortemente democristiana: fu portato quasi a braccetto dai militari su un aereo che lo riportò a Stoccolma dove non conosceva più nessuno, e da lì comincia un’altra carriera, più internazionale, anche tornando clandestinamente in Italia: fondamentalmente è un individuo poliglotta e senza patria.

Anche Paola Pitagora, di due anni più grande di Lou, ha frequentato i corsi di Fersen e il Centro ed è un’attrice emergente, pure in teatro, molto eclettica: comincia come presentatrice alla Rai e scrive anche canzoncine di successo per lo Zecchino d’Oro ed è proprio con la sua partecipazione a questo film che s’impone definitivamente all’attenzione di critica e pubblico; all’inizio aveva pensato di rifiutare per le situazione crude e sul piano morale anche scabrose, ma fu l’allora fidanzato, il pittore e attore Renato Mambor, a convincerla ad accettare. Un paio d’anni più tardi diventerà beniamina del pubblico televisivo come Lucia in “I Promessi Sposi” di Sandro Bolchi. Il belloccio Marino Masè è il fratello maggiore, l’unico la cui vita ha un senso nel sentire dell’alienato Alessandro; l’attore, scomparso 83enne nel maggio di quest’anno, anch’egli figurante nel Gattopardo viscontiano, era appena stato protagonista per Jean-Luc Godard nel controverso “Les Carabiniers” e si avvierà anche a una brillante carriera internazionale. La madre cieca è interpretata dalla caratterista napoletana Liliana Gerace, mentre il figlio piccolo è interpretato dall’attore per caso Pier Luigi Troglio, eclettico personaggio che sarà poi storico scrittore e filantropo nella sua nativa Bobbio, patria anche di Bellocchio, dove è poi stato segretario della Democrazia Cristiana locale; e l’intero cast partecipò al film solo con un rimborso spese. Per il cast tecnico, il compagno di corso dell’autore Silvano Agosti si occupa del montaggio, ma si fece mettere nei titoli col nome di un suo amico, Aurelio Mangiarotti, probabilmente perché non intendeva accreditarsi come montatore dato che lui stesso aveva studiato regia e avrebbe presto debuttato sotto l’egida del medesimo produttore e assicurandosi pure il divo francese che era sfuggito all’amico Bellocchio. E come per il suo cortometraggio di debutto anche per questo primo lungometraggio il nuovo giovane autore si assicura il commento sonoro di un grande professionista, Ennio Morricone. All’inizio il titolo del film avrebbe dovuto essere il più semplice ed esplicativo “Epilessia”, poi si pensò a “L’età verde” e infine venne cambiato col più evocativo “I pugni in tasca” per dire della rabbia repressa, nascosta, compressa; senza sapere – è la magia dell’ispirazione – che quel titolo era l’inconsapevole citazione di un altro ribelle, Arthur Rimbaud, nella sua poesia “La mia bohème (fantasia):

Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;
E anche il mio cappotto diventava ideale;
Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo fedele;
Oh! quanti amori splendidi ho sognato!
 
I miei unici pantaloni avevano un largo squarcio.
Pollicino sognante, nella mia corsa sgranavo
Rime. La mia locanda era sull'Orsa Maggiore.
- Nel cielo le mie stelle facevano un dolce fru-fru
 
Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade
In quelle belle sere di settembre in cui sentivo gocce
Di rugiada sulla fronte, come un vino di vigore;
 
Oppure, rimando in mezzo a fantastiche ombre,
Come lire tiravo gli elastici
Delle mie scarpe ferite, un piede vicino al cuore!

Una copia del film appena montato ma senza la post produzione, dunque incompleto di musiche e col sonoro imperfetto della presa diretta, venne presentata alla commissione di ammissione al Festival di Venezia, che la rifiutò; ma in seguito vinse il Premio Città di Imola attribuito a opere che rappresentassero la provincia italiana e vinto in precedenza da Pier Paolo Pasolini, Ermanno Olmi ed Eriprando Visconti; per gratitudine Marco Bellocchio girò a Imola il suo secondo lungometraggio “La Cina è vicina”. Vinse poi il Nastro d’Argento per il miglior soggetto e la Vela d’Argento a Locarno per la miglior regia. Dopodiché fu distribuito anche in Francia (Les poings dans les poches), nella Germania Occidentale (Mit der Faust in der Tasche), Regno Unito e Stati Uniti (Fist in His Pocket).

Dal punto di vista formale il film risente ancora del morente neorealismo ma si fa nuovo psicodramma e sicuramente attinge alla Nouvelle Vague, senza una precisa trama però, con scene e moduli che si ripetono come cercando di risolvere un puzzle in cui mancano dei pezzi, in cui la narrativa è l’assurdo assunto del protagonista: liberare il fratello maggiore, l’unico individuo sano e produttivo, dal fardello di una famiglia malata. Un orrore venato di sarcasmo quanto d’inquietante disarmante dolcezza che ancora oggi rende il film uno spettacolo esemplare, nonostante tutti gli orrori più espliciti cui ci ha assuefatti la cinematografia moderna: se lo si guarda in cerca di forti emozioni il film è datato, ma ai suoi tempi dev’essere stato davvero angosciante perché era ancora (per poco) l’epoca di un cinema rassicurante dove l’istituto della famiglia era un caposaldo indiscusso. Oggi i nostri ragazzi sterminano la famiglia per ripicca, per la paghetta, per accedere subito a una risibile eredità, mentre l’antieroe di Bellocchio si fa esecutore materiale di un malessere collettivo, narrativamente simbolizzato nel suo individuale, che sta per spazzare via le rassicuranti ma già marcescenti idee di Dio Patria e Famiglia.