Archivi tag: franco interlenghi

I vinti – a proposito di mostri

1952. Terzo film di Michelangelo Antonioni dopo “Cronaca di un amore” e “La signora senza camelie”. L’autore, già quarantenne, aveva cominciato ad interessarsi al teatro già da universitario, finché poco meno che trentenne si trasferì a Roma attratto dal sogno della celluloide e cominciò a scrivere per la rivista “Cinema” mentre frequentava pure il Centro Sperimentale di Cinematografia e collaborando alla sceneggiatura del film bellico propagandistico del 1942 di Roberto Rossellini “Un pilota ritorna”. Dopodiché andò in Francia a offrirsi come assistente a Marcel Carné nel film favola “L’amore e il diavolo” sempre del ’42, e l’anno dopo rientrò in Italia a causa della guerra che vedeva le due nazioni su fronti opposti. Lavorò a dei cortometraggi e con Luchino Visconti ad altri progetti che non videro mai la luce, e a guerra terminata partecipò, insieme a Carlo Lizzani e Cesare Zavattini alla sceneggiatura del post-bellico “Caccia tragica”, opera prima di Giuseppe De Santis, la cui opera seconda sarà il capolavoro “Riso amaro”. Antonioni, che non è più un ragazzino, freme, e forte della sua esperienza tecnica dietro la macchina da presa, nonché portatore di messaggi molto personali, debuttò con la storia noir di una coppia in “Cronaca di un amore” in cui lucidamente, e a suo modo, raccontò dei mostri. Con “La signora senza camelie” raccontò il mondo del cinema graffiando via la patina luccicante con la quale il mezzo si era fin lì raccontato, ambiente di mostri esso stesso, e al contempo l’autore introduce uno dei temi che caratterizzeranno la sua cinematografia: la crisi dei sentimenti, lo squallore oltre il sentimentalismo. Qui scrive soggetto e sceneggiatura insieme a Giorgio Bassani, Diego Fabbri, Suso Cecchi D’Amico e Turi Vasile.

Segue questo strano film moraleggiante fatto di tre episodi che nelle filmografie ufficiali di Antonioni viene spesso dimenticato: eppure non è un film secondario o brutto, tutt’altro. La sua debolezza sta forse nella lunga spiegazione in apertura del film, voce fuori campo di Mario Pisu su immagini di repertorio e titoli di giornali che spiegano la poetica del film che vuole raccontare il dramma sociale della violenza gratuita perpetrata da bravi ragazzi di buone famiglie: l’orrore dei mostri che una decina di anni dopo, prendendosi meno sul serio e attraverso la lente deformante del paradosso e del grottesco, Dino Risi racconterà nel suo capolavoro a episodi sfruttando le maschere di Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. Ma non tutti sono portati alla commedia e la grandezza di Antonioni sta tutta nella sua poetica, oltre che nel suo stile lucido e tagliente. Ha viaggiato e ha lavorato in Francia ed è subito evidente che le sue aspirazioni guardano già fuori dai confini nazionali e, benché potendo raccontare storie di crimini tutti italiani che certo non mancavano in cronaca, sceglie di raccontare i tre episodi così come li ha letti sulla stampa internazionale e dedica un episodio alla Francia, uno all’Italia e l’ultimo all’Inghilterra, girati in loco e con troupe tecniche e artistiche locali. E ricordiamoci che in quel 1952 la guerra è finita da appena sette anni.

Francia, Parigi. I bravi ragazzi borghesi covano braci ardenti: la bella Simone cova disprezzo per i genitori e sogna una vita da favola; Pierre è un mitomane megalomane che si racconta come un parvenu, senza vergogna quando favoleggia di essere ricco oltre che desiderato dalle donne, le più anziane delle quali pagherebbero per averlo; i fratelli André e Georges che si fingono studenti modello ma architettano di uccidere l’amico ricco per fare anche loro una vita da favola possibilmente all’estero. Nel gruppo di giovani attori l’unico che ha avuto una brillante carriera è stato Jean-Pierre Mocky che cominciò come attore e poi facendosi assiduo aiuto di Antonioni imparò il mestiere e proseguì come regista, talmente prolifico da riuscire a girare anche tre film in un anno – qui nel ruolo di Pierre, la vittima. Non c’è un ruolo per il 45enne Alain Cuny, che aveva già lavorato con Antonioni in “La signora senza camelie”, e qui l’attore si accontenta di affiancare il maestro italiano come aiuto regista, anche se non farà mai il regista. Alla sceneggiatura si aggiunge la firma del francese Roger Nimier. L’episodio ebbe seri problemi di censura in patria tanto che non fu distribuito fino al 1963.

Questi i fatti: nel settembre del 1952, un uomo che resterà identificato solo come Monsieur I. intentò causa per chiedere che il governo francese sequestrasse il film che all’epoca era ancora in produzione. Il titolo francese del film era “Sans Amour” ed era composto da tre parti, tutte basate su storie vere, una delle quali era un famigerato affair del 1948 in cui un ragazzo di sedici anni aveva sparato a un compagno di classe, apparentemente a causa di una ragazza. Monsieur I. era il padre di quella ragazza, citata come Nicole I. che era stata condannata per complicità nel crimine, ma in quanto minorenne il suo nome restò secretato. Monsieur I. accusava il regista Michelangelo Antonioni e il suo assistente alla regia Alain Cuny di aver girato una storia in cui la ragazza sarebbe stata identificabile. Il governo francese prese le sue severe misure contro l’episodio: In primo luogo l’esportazione del negativo in Italia, dove Antonioni risiedeva, fu vietata; ma il divieto non divenne esecutivo e allora il governo pensò bene di vietare l’episodio in Francia, perché – come scrisse il critico Jean de Baroncelli su Le Monde dieci anni dopo, nel 1963, quando l’episodio fu distribuito sul territorio francese: – “Il Ministero della Giustizia si oppone alla realizzazione di qualsiasi sceneggiatura che evochi una vicenda giudiziaria che coinvolga persone ancora in vita”.

Italia, Roma. Protagonista è il 22enne Franco Interlenghi che aveva debuttato 15enne in “Sciuscià” di Vittorio De Sica, film premiato con l’Oscar. È il bravo ragazzo di buonissima famiglia che non accontentandosi del lusso in cui vive, c’è la servitù che lo chiama “il signorino”, invece di andare all’università si dà al contrabbando di sigarette: perché la gioventù gli brucia dentro e vuole tutto e subito. Ma il trasbordo delle sigarette allo scalo di San Paolo, allora periferia della città, viene interrotto dalla polizia e seguono fuggi fuggi e sparatorie, in una delle quali il giovane mostro uccide un uomo, ma poi nella fuga fa una brutta caduta in cui batte la testa. Rinviene, è sonnolento, raggiunge la sua ragazza e le confessa il delitto in un monologo un po’ troppo retorico, e a rendere ancora meno plausibile il dialogo che segue c’è che lei alla confessione del delitto non batte ciglio: vabbè che è ciecamente innamorata, ma un minimo di sana reazione sarebbe stato logico. È l’episodio meno riuscito e forse anche per questo non ebbe alcun problema con la censura. La ragazza è Anna Maria Ferrero che aveva debuttato nel 1950 nell’opera prima di Claudio Gora “Il cielo è rosso” e da allora è stata attivissima fino a tutti gli anni Sessanta, quando si ritirò per fare la moglie a tempo pieno del francese Jean Sorel, salvo poi pentirsene quando era troppo tardi. Nei ruoli dei genitori la signora del teatro Evi Maltagliati e l’ex baritono Eduardo Cianelli; il caratterista cine-televisivo Mario Feliciani è il commissario di polizia; Francesco Rosi è l’aiuto regista che debutterà come autore sei anni dopo con “La sfida”. Ah dimenticavo: il protagonista muore nel suo letto per le conseguenze del trauma cranico.

Inghilterra, Londra. Il mostro è uno psicopatico egomaniaco megalomane e anche lui vuole fama e ricchezza senza onesto sudore della fronte; è un poeta frustrato e frustrante e poiché il quotidiano scandalistico Daily Witness paga chiunque porti una storia da prima pagina – questa è l’altra mostruosità creatrice di mostri – va a vendere la sua notizia: ha ritrovato il cadavere di una donna e pretende di scrivere lui stesso l’articolo con tanto di sua foto in quanto anche autore del pezzo. Ma la cronaca trita e passa oltre, così dopo qualche giorno, di nuovo in cerca di soldi facili e di fama, confessa l’omicidio, credendo di aver commesso un crimine perfetto per il quale non potrà mai essere condannato. Ovviamente si è sopravvalutato e viene condannato a morte.

L’episodio è riuscitissimo, tanto che incorre nelle ire della censura italiana e tagliato fino a renderlo incomprensibile. Verrà recuperato integralmente e inserito in un altro film a episodi “Il fiore e la violenza” del 1962, che mette insieme, oltre all’episodio di Antonioni girato dieci anni prima, uno girato da Jean Renoir addirittura nel 1937, e uno completamente nuovo di François Reichenbach, poliedrico autore francese che fra le altre cose scrisse delle canzoni per Édith Piaf. Il centratissimo protagonista è interpretato da Peter Reynolds qui certamente nel suo ruolo più importante dato che il resto della sua carriera fu tutta una carrellata di caratterizzazioni in film di serie B; il giornalista lo interpreta il caratterista Patrick Barr. L’anziana patetica vittima è interpretata dall’ex attrice del muto Fay Compton; mentre la ventenne Eileen Moore, che interpreta la passione non corrisposta del protagonista, avrà una carriera di genere.

Il film, che fu presentato senza alcun esito al Festival di Venezia, benché considerato minore nella produzione dell’autore, e anche imperfetto, è certamente molto interessante e sicuramente da recuperare. Ciò che colpisce è che dalla sua analisi in poi, quel tipo di mostri urbani, di generazione bruciata come li definisce nel discorso di apertura, non hanno più smesso di esistere e quei giovani senza valori, o il cui unico valore è la soddisfazione personale a tutti i costi anche attraverso il crimine, sono ancora oggi in cronaca. Antonioni li racconta come figli della guerra, ragazzi nati durante il conflitto, che nella ritrovata pace non hanno più i valori fondanti delle generazioni precedenti e aspirano a un benessere, informe e indistinto, che con il boom economico avverrà solo dieci anni più tardi. Solo due anni dopo la distribuzione italiana re-intitolerà “Rebel Without a Cause” di Nicholas Ray come “Gioventù bruciata”: fu un caso? Sta di fatto che quel film divenne il manifesto di una generazione, di tanti giovani che si videro rappresentati e che si immedesimarono nel protagonista che, al contrario dei giovani frammentati nei tre episodi di Antonioni, è anche accattivante, affascinante. Antonioni avvertiva che avrebbe raccontato la realtà senza abbellirla ma il suo film è stato praticamente dimenticato mentre l’antieroe di James Dean ancora vive: segno che la realtà, al cinema, non può mai essere reale.

Il Generale Della Rovere – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Di cinema, fiction &....: Il Generale Della Rovere, 1959

«Caro Signor Rossellini
ho visto i suoi film ‘Roma città aperta’ e ‘Paisà’ e li ho apprezzati moltissimo. Se ha bisogno di un’attrice svedese che parla inglese molto bene, che non ha dimenticato il suo tedesco, non si fa quasi capire in francese, e in italiano sa dire solo ‘ti amo’, sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei.

Ingrid Bergman»

Inizia così, nel 1948, una storia d’amore cinematografica molto chiacchierata, dato che entrambi erano già sposati, e Roberto Rossellini lo era, poi, nientemeno che con Anna Magnani. Ma andando oltre il pettegolezzo, i due film che Ingrid Bergman cita compongono, insieme a “Germania Anno Zero“, la “trilogia della guerra antifascista” del maestro italiano che, ispirato dal nuovo amore, gira subito con lei un soggetto che era stato pensato per la Magnani, “Stromboli”, la quale gli risponde girando in contemporanea “Vulcano” diretta dall’ebreo tedesco-americano William Dieterle, esponente di quella diaspora di cineasti tedeschi fuggiti negli Stati Uniti a causa delle persecuzioni naziste. Entrambi i vulcanici film non furono però un successo al botteghino. Il sodalizio sentimentale e artistico di Roberto Rossellini e Ingrid Bergman si concluse dopo “Giovanna d’Arco al rogo”, ripresa cinematografica di uno spettacolo teatrale basato sull’omonima opera musicale di Paul Claudel: dopo sei film, nessuno dei quali memorabile, e tre figli, la coppia si separa: la riuscita artistica non era nel pacchetto, il neorealismo italiano che tanto fascino aveva avuto sulla Bergman spettatrice non si addice all’attrice internazionale, la quale torna a recitare in America dove vincerà il secondo di tre Oscar con “Anastasia” mentre Rossellini va in India dove appunto gira “India” del 1958 e conosce e sposa la sua terza moglie, una sceneggiatrice indiana.

I metodi del neorealismo – con l’apparente mancanza di preparazione e, spesso, anche di una sceneggiatura completa, o un’attenta costruzione della scena, che rendono il cinema di Rossellini (e non solo) così simile alla realtà proprio per questa assenza di impostazione tecnica – era sentita allora come indice di modernità, e fu anche di ispirazione per i cineasti della Nouvelle Vague francese, e non solo. Il cinema europeo del dopoguerra faceva necessariamente i conti col conflitto appena concluso, e ogni Paese lo ha raccontato a suo modo, e qui vale la pena ricordare che l’unica nazione a non avere nell’immediato dopoguerra una vera e propria cinematografia fu la Germania “colpevole” di aver dato vita al nazismo e subito divisa nei due blocchi che crolleranno nel 1989; ebbe una cinematografia politicamente spaccata in due, come la nazione, per la maggior parte ispirata proprio al neorealismo italiano: ma mentre a occidente si realizzavano film “rieducativi” antinazisti, a oriente si facevano film “educativi” al socialismo. Per non dire di tutti i professionisti che erano scappati in America dove non solo al cinema faranno grandi cose. Ricordiamo alcuni nomi austro-tedeschi a Hollywood: Fritz Lang, Peter Lorre, Georg Wilhelm Pabst, Otto Preminger, Erich Von Stroheim, Billy (Samuel) Wider, solo per citare i primi che vengono in mente.

1959, finalmente è l’anno di “Il Generale Della Rovere” che nelle intenzioni dell’autore è un film “di transizione”, quasi un ripiego alle necessita produttive e commerciali del momento: dopo l’India avrebbe voluto filmare il Brasile, ed è di quegli anni l’ispirazione a un ampio progetto alla cui realizzazione avrebbe dedicato il resto della sua carriera e della sua vita: un’enciclopedia di stampo scientifico e didattico sullo sviluppo tecnologico degli audiovisivi, e in particolare sulla capacità narrativa della nascente televisione nella quale avrebbe avuto molto da dire ad alti livelli.

È a Parigi dove sta cominciando a lavorare al documentario tv in 10 puntate di “L’India vista da Rossellini” e accetta di girare questo film di stampo tradizionale solo per compiacere i produttori italo-francesi. Il soggetto è di Indro Montanelli che ha firmato la sceneggiatura con Sergio Amidei e Diego Fabbri, che nasce da un’esperienza personale di Montanelli che imprigionato dai tedeschi a San Vittore, Milano, conosce un certo Giovanni Bertoni realmente fucilato dai tedeschi e i cui familiari, dopo l’uscita del film, intentano causa contro il regista per diffamazione nonostante il nome del protagonista sia stato blandamente mutato in Emanuele Bardone; dal successo della sceneggiatura successivamente Montanelli svilupperà il romanzo omonimo.

La diffamazione sta nel fatto che Bertoni/Bardone è un truffatore, giocatore incallito e frequentatore di prostitute, che come fasullo Colonello Grimaldi raggira i parenti di prigionieri millantando aderenze fra i tedeschi e spillando denaro, se non per farli rilasciare, per lo meno evitare di farli trasferire nei campi in Germania. In realtà è in combutta con un sottufficiale della Gestapo al quale passa la metà dei proventi in denaro, quando non li ha persi tutti al tavolo del baccarà. Il generale del titolo è un importante esponente della resistenza italiana che il colonnello Müller contava di catturare per poterlo poi scambiare con importanti prigionieri tedeschi, ma il partigiano viene ucciso in un’improvvida sparatoria e al dunque propone al miserabile truffatore dai modi eleganti di fingersi il Generale Della Rovere nel braccio dei prigionieri politici del carcere di San Vittore, per raccogliere informazioni sulla resistenza. Va da sé che una volta in prigione e a stretto contatto con i veri combattenti per la libertà italiana, il malfattore ha una conversione morale e muore da eroe. Grande successo al botteghino e Leone d’Oro a Venezia, ex aequo con un altro film bellico, sulla prima guerra mondiale, “La grande guerra” di Mario Monicelli che guarda al conflitto con dissacrante ironia.

Oggi il film, pur mantenendo intatta la sua forza narrativa, risente del tempo e mostra, quasi come uno spaccato sul cinema di quell’epoca, la rudimentalità dei mezzi tecnici: è il primo film italiano in cui si usa lo zoom e le ricostruzioni in studio a Cinecittà (il cui ingresso sulla via Tuscolana, corredato di due garitte militari, viene filmato come ingresso di un kommandantur) sono abbastanza riconoscibili soprattutto nell’ambientazione carceraria; le scene più dialogate, molto statiche e con pochi controcampi, sono filmate con gli attori che si posizionano in favore della cinepresa come a teatro si sarebbero posti in favore del pubblico.

Il protagonista, che ha come antagonista il tedesco Hannes Messemer che recita bene anche in italiano, è il 59enne Vittorio De Sica in stato di grazia che, consapevole dell’impegno, per l’occasione rende più fluida e veritiera la sua recitazione, altrove sempre abbastanza manierata e gigionesca. L’anno prima era stato candidato agli Oscar come non protagonista per “Addio alle armi” da Hemingway, regia di Charles Vidor con Rock Hudson e Jennifer Jones; c’era anche Alberto Sordi. Ma la maggior parte dei premi e delle candidature di De Sica sono dovute alla sua attività di regista, dove ha sicuramente dato il meglio di sé firmando film memorabili che qui sarebbe troppo lungo elencare, ma basta ricordare “Il giardino dei Finzi-Contini” del 1970 che rientra in questa casella di film sul Fascismo e la Resistenza.

Nel cast la “partecipazione speciale” di Sandra Milo e Giovanna Ralli, che Rossellini deve essersi divertito nello scambiargli il colore dei capelli, facendo bruna la prima e platinata la seconda. Il terzo nome femminile è quello della francese Anne Vernon, come compromesso della coproduzione. Ma il terzo ruolo più interessante è affidato al caratterista per tutte le stagioni Vittorio Caprioli, sempre a suo agio sia in ruoli drammatici che brillanti. Nella scena finale fra i prigionieri in anticamera per la fucilazione troviamo Ivo Garrani come capo dei partigiani, un giovane Franco Interlenghi e, omaggio al De Sica regista, Lamberto Maggiorani, che nel suo intervento fa riferimento a una bicicletta: da operaio, De Sica ne aveva fatto, un paio d’anni prima, il protagonista di quel “Ladri di biciclette” che riceverà Oscar, Golden Globe, BAFTA e Nastri d’Argento.

Nel 2011 ne è stato fatto un film in due puntate Rai con la regia di Carlo Carlei e l’interpretazione di Pierfrancesco Favino. Un remake cinematografico sarebbe oggi immaginabile con quel George Clooney molto in sintonia con l’Italia e l’antimilitarismo, nonché con quel pizzico di cialtroneria, voluta e controllata, che spesso ritroviamo nelle sue interpretazioni. Chi gli telefona per dirglielo?