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Il ritorno dei magnifici sette

Dopo il grande successo del 1960 (qui il link con un approfondito ritratto di Yul Brynner) il sequel arriva dopo ben sei anni, segno che non tutto è andato come doveva e d’altronde il protagonista, che fu anche produttore, aveva già altri impegni in corso, ricordiamo soprattutto le escursioni fra i cosacchi della sua natia Russia in “Taras il magnifico” e fra i Maya con “Il re del sole” entrambi diretti da J. Lee Thompson. Alla fine il progetto andò in porto con un impegno ridotto di Brynner sul versante produttivo, il quale aveva puntualizzato che per girare questo sequel non voleva più avere a che fare con Steve McQueen che gli aveva creato non pochi problemi (sempre nel link tutti i dettagli), e McQueen d’altronde si dichiarò disinteressato ritenendo la trama troppo assurda: non che la trama del primo capitolo fosse così realistica, però. Ma se lì c’era alla regia John Sturges che era riuscito a creare un film evento, qui c’è il regista “di genere” Burt Kennedy, ex ballerino e attore teatrale che cacciato dal palcoscenico per scarso talento si è riciclato come sceneggiatore radio-televisivo, passando poi al cinema principalmente come regista di discutibili western serviti nelle più svariate versioni: melodrammatico, parodistico, comico; il suo unico successo arriverà l’anno dopo questo film con “Tempo di terrore” noto da noi anche come “Tempo di uccidere” con Henry Fonda.

Di fatto questo sequel non è male anche se la sensazione del già visto è sempre presente; ci sono bei movimenti di macchina e scoppiettanti sparatorie, e anche alcuni tentativi di innovazione nella trama che gioco forza ricalca quella dell’originale: lì c’era un cattivo che sfruttando terrorizzava un povero villaggio messicano, qui i villaggi diventano tre e il cattivo è spinto dal sentimento di vendetta, di padre cui hanno ucciso i figli, più che dalla brama di potere. A inizio film ci sono poi dei quadretti folcloristici con una corrida, una ballerina di flamenco e una lotta di galli: roba che fa spettacolo e allunga il brodo. Come nel primo film si compone poi il gruppo dei sette cui sono sopravvissuti il personaggio di Brynner che è l’unico del cast originario a tornare.

L’altro era quello di McQueen che si era lamentato della pochezza delle sue battute e che qui sarebbe rimasto molto compiaciuto nel vedere che ora il suo personaggio parlava più di quello del protagonista assoluto: il capo dei “I magnifici sette” che prima parlava tanto qui si fa più taciturno acquistando in fascino enigmatico: viene da pensare che aveva fatto scuola il silenzioso Uomo Senza Nome che Sergio Leone aveva creato nel 1964 inaugurando la sua Trilogia del Dollaro con Clint Eastwood. Il terzo personaggio sopravvissuto era quello di Chico che era stato interpretato dal tedesco Horst Buchholz che con quel film si lanciò nel panorama internazionale e ora non aveva certo intenzione né tempo di rifare il chico messicano in un sequel che si prevedeva senza infamia né lode.

Robert Fuller con Yul Brynner

I nuovi magnifici sette con Brynner al comando furono Robert Fuller in sostituzione di McQueen: un attore principalmente noto per le sue partecipazioni nelle serie western televisive nelle quali prevarrà il resto della sua carriera. Poi, dati i problemi col governo messicano durante la lavorazione del primo film, Il sequel fu girato in Spagna, dove i nostri andavano a girare gli spaghetti-western, e il resto del cast, dei figuranti e delle maestranze furono ingaggiati sul posto; a sostituire Buchholz venne chiamato il già noto il patria Julián Mateos che dopo questo ruolo restò a lavorare in Spagna senza più partecipazioni ad altri film internazionali. Di seguito anche la donna che il personaggio aveva sposato alla fine del film, la messicana Petra già interpretata da Rosenda Monteros, viene qui impersonata da Elisa Montés, un’attrice principalmente teatrale che nella sua carriera cinematografica ha anche lavorato all’estero, e da noi in “Noi siamo le colonne” del 1956 diretto da Luigi Filippo D’Amico.

Jordan Christopher

I restanti quattro dei sette furono: Warren Oates, caratterista anch’egli proveniente dai western tv, che aveva già lavorato col regista Burt Kennedy e che da qui in poi si ritaglierà una carriera cinematografica come interprete di rango; Claude Atkins, già noto attore con volto da duro che qui ha forse il personaggio più interessante, perché il più tormentato; concludono con ruoli decisamente secondari l’americano Jordan Christopher, più cantante che attore con un bel faccino qui spacciato per il messicano Manuel, e il portoghese Virgilio Texeira che già dal decennio precedente si era trasferito negli Stati Uniti ma che tornò in patria per occuparsi di politica e della società degli autori, la nostra SIAE.

Virgilio Texeira e Warren Oates

Accanto a questi nuovi magnifici sette che di magnificenza ne trasudano ben poca, compreso il capostipite Brynner che alla fin fine appare appannato e stanco, brilla invece l’interpretazione dello spagnolo Fernando Rey nel ruolo del prete che fa da portavoce ai ribelli: un attore di gran classe che aveva cominciato in patria come doppiatore di calibri tipo Laurence Olivier e Tyrone Power e che fu lanciato sul grande schermo dal grande Luis Buñuel e che da lì in poi fu presente sia in moltissime produzioni internazionali importanti che in film di genere anche italiani, arrivando a lavorare pure con Franco e Ciccio. La sua interpretazione dà così tanto lustro a questo sequel che verrà scritturato anche nel film successivo “Le pistole dei magnifici sette” per ricoprire un diverso personaggio: cosa che capita raramente. In ogni caso il film, pur senza bissare il successo del primo capitolo, si comportò bene al botteghino tanto da avere un altro seguito, e non solo uno.

Fernando Rey, Julián Mateos ed Elisa Montés

L’arbitro – in omaggio alla memoria di Lando Buzzanca

il film completo

Anche Lando Buzzanca ha preso la via dei più. Aveva compiuto 87 anni ed è stato professionalmente attivo praticamente fino alla fine: la sua ultima partecipazione cinematografica è del 2017 nell’opera prima di Cesare Furesi “Chi salverà le rose?” che è uno spin-off di “Regalo di Natale” di Pupi Avati, film che riprende il personaggio interpretato da Carlo Delle Piane al suo ultimo film; mentre l’ultima partecipazione in assoluto di Buzzanca è nel film tv del 2019 “W gli sposi” di Valerio Zanoli, ultimo film anche per Gianfranco D’Angelo e Paolo Villaggio: tristi conteggi quando i cast sono composti da vecchie glorie.

Lando (Gerlando) nasce a Palermo in una famiglia già nell’ambiente dello spettacolo a vario titolo: lo zio Gino Buzzanca aveva cominciato nel teatro di tradizione e poi ha avuto una lunga carriera cinematografica come caratterista; mentre il padre Empedocle Buzzanca, di mestiere proiezionista, si reinventò anch’egli come caratterista siciliano in alcuni film sulla scia delle carriere di fratello e figlio. Ma Gerlando ha altri obiettivi e 17enne si trasferisce nella capitale per studiare recitazione con Pietro Sharoff mentre per mantenersi campa di lavoretti, cominciando pure a fare piccole cose sia in teatro che al cinema: la classica gavetta, insomma. Il suo debutto ufficiale è in un film di grande successo, “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi che poi lo scritturerà di nuovo per “Sedotta e abbandonata”, e nel frattempo compare in diversi altri film con ruoli grandi e piccoli, e purtroppo pur di lavorare sceglie qualsiasi cosa ritagliandosi il ruolo del siciliano belloccio ma ingenuo se non addirittura tonto in commedie di serie B con qualche incursione nello spaghetti-western e un paio di film con Totò.

Unica perla in quel periodo è il ruolo da protagonista in “Don Giovanni in Sicilia” regia di Alberto Lattuada dal romanzo di Vitaliano Brancati, e in generale anche se la critica resta con lui severa, e a ragione, il pubblico comincia ad amarlo per quel che è: un simpaticone che accende le fantasie femminili senza però diventare davvero minaccioso per i loro mariti che lo trovano sì divertente ma non un modello da imitare né da invidiare o temere. Il vero successo arriva con la televisione dove nel 1970 al fianco di Delia Scala interpreta “Signore e Signora”, un varietà che indagando in chiave grottesca i costumi delle coppie sposate moderne, dell’epoca, è una sorta di sit-com ante litteram; e in risposta al successo televisivo comincia ad avere un suo seguito anche al cinema, fino al successo internazionale con “Il merlo maschio” del 1971 di Pasquale Festa Campanile, un film su voyerismo-esibizionismo che esponendo le grazie di Laura Antonelli è a tutt’oggi è un cult anche in diverse parti del mondo. È in quel periodo, forte del successo personale, che comincia davvero a scegliere i suoi film fra le proposte che gli arrivano sempre più numerose, mostrando però di prediligere il genere per cui i critici lo criticano severamente: la commedia di costume con apprezzabili intenti satirici e di blanda denuncia, ma sempre e inevitabilmente in bilico fra il cinema di serie A e quello di serie B. Pare siano sue le idee dei film “All’onorevole piacciono le donne” il cui titolo completo è “Nonostante le apparenze… e purché la nazione non lo sappia… All’onorevole piacciono le donne” diretto da Lucio Fulci, un maestro del cinema di genere e di tutti i generi, il cui protagonista si ispira all’allora presidente del consiglio Emilio Colombo e che grande scandalo creò; e nello stesso anno, il 1972, del più serio “Il sindacalista” diretto da Luciano Salce, film che omaggia la figura del sindacalista Giuseppe Di Vittorio.

Anche “L’arbitro”, anno 1974, trae ispirazione da un personaggio reale pur facendone chiaramente una bonaria divertita parodia che non suscita reazioni scomposte: l’arbitro siracusano Concetto Lo Bello che nel film diventa l’acese Carmelo Lo Cascio, un altro maschio siculo alle prese con la sua prestanza fisica messa seriamente in discussione e che, insieme allo stress di dover mantenere alti i suoi livelli di professionalità sportiva e l’integerrimo rigore morale, lo porta all’abuso di anfetamine e alla catartica – e comoda per un finale che non si sapeva dove condurre – pazzia. Il film è gradevolmente furbo: pur solleticando il gusto per la commedia sexy e introducendo lo scivoloso ma anche divertente tema della cacarella da febbre intestinale, non diventa mai volgare e si mantiene in bilico sul grottesco e sul satirico senza però mai graffiare. Furbo anche il tema calcistico che mostra riprese dal vero negli stadi e negli spalti, abilmente montate alla narrativa fittizia, con frammenti di vere partite – la Roma-Hellas Verona disputata l’anno prima e conclusa 1-0; in altri frammenti intravediamo in campo gli interisti Sandro Mazzola e Roberto Boninsegna, oltre alle partecipazioni straordinarie dei giornalisti e commentatori sportivi Maurizio Barendson, Nicolò Carosio, Alfredo Pigna e Bruno Pizzul; mentre il laziale Giorgio Chinaglia canta la canzone dei titoli di testa “Football Crazy” senza molta convinzione e con scarsa tecnica canora.

Nel cast brilla per avvenenza la londinese Joan Collins che diventerà una star hollywoodiana di media caratura nonostante i bei ruoli in bei film al fianco di importanti star maschili: viene sempre relegata nel ruolo dell’amante spesso frivola, e l’attrice si adegua anche ai film storici e in costume. Era arrivata in Italia nel 1960 girando a Cinecittà da protagonista “Ester e il Re” di Raoul Walsh, e poi girerà con Ettore Scola “La congiuntura”, e “L’amore breve” con Romano Scavolini in un periodo professionale principalmente europeo in cerca di un riscatto artistico che non raggiungerà. “L’arbitro” è il suo terzo film italiano e vi interpreta una giornalista sportiva, figura assai avanti coi tempi in quel mondo allora esclusivamente maschile, che fa perdere la testa all’arbitro: un ruolo di supporto al protagonista assoluto Lando Buzzanca, oggetto erotico suo malgrado – ma decisamente intenzionale per l’attore – che fa fatica a soddisfare anche la legittima moglie interpretata da una centratissima Gabriella Pallotta, attrice che aveva intrapreso alla grande la sua carriera lavorando con registi importanti ma che poi, essendosi un po’ persa per strada – succede, la fortuna ha un ruolo fondamentale nelle carriere artistiche – decise di smettere di lavorare due film dopo questo; qui è doppiata da Rita Savagnone.

Gabriella Pallotta, con gli occhiali per non fare concorrenza alla Collins, come moglie dell’arbitro che sta asciugando dopo una doccia e dal quale implora la sua razione di sesso settimanale.

Fa da importante spalla all’arbitro il suo guardalinee nonché amico complice e confidente interpretato dall’altro palermitano Ignazio Leone, anch’egli di scuola teatrale dialettale che aveva cominciato in palcoscenico al fianco della coppia destinata al successo Franco e Ciccio. A comporre il quartetto delle due coppie amiche c’è Marisa Solinas come moglie del guardalinee e amica della moglie dell’arbitro con la quale discetta di argomenti come la sessualità femminile e l’orgasmo, temi all’epoca centrali negli slogan delle femministe ma qui nel film relegati a sberleffo come ridicole opinioni da rotocalco femminile, nel film detto Metropolitan orecchiando il reale Cosmopolitan. Altro ruolo importante va al messinese Massimo Mòllica, attore regista e impresario, figura centrale del teatro della sua città. In un ruolo di contorno intravediamo il giovane Alvaro Vitali che presto sarà protagonista di quelle commedie davvero scollacciate e volgari cui Lando Buzzanca ha rinunciato quando a metà dei suoi anni Settanta la commedia satirica di costume, che lui aveva scelto come suo scenario ideale, cede il passo alla commedia sexy di bassa lega. Si darà alla radio dove in “Gran Varietà” creerà la maschera di Buzzanco come erede del suo personaggio tv di “Signore e Signora”.

Tornando al film, è diretto con sagace leggerezza da Luigi Filippo D’Amico, che fu nipote dello storico critico teatrale Silvio D’Amico, da un suo soggetto che ha sceneggiato insieme a Giulio Scarnicci, storico collaboratore della coppia Tognazzi-Vianello, Sandro Continenza, anch’egli braccio destro del Vianello televisivo, e dallo stesso Raimondo Vianello, sceneggiatore di lusso di tante commedie e fine intenditore del tema calcistico. Ne consegue che i dialoghi, che pretendono di essere siculofoni, restano romanocentrici nella costruzioni delle frasi e nel vocabolario; a inizio film Buzzanca pronuncia un improbabile “E che minchia mi dici che va tutto bene, ah?” dove anche l’ah, benché esclamato da un palermitano, risulta finto; inoltre l’arbitro indirizza un primo “figlio di mignotta” specificando che lo dicono a Roma, ma poi una volta sdoganata la mignotta in questo sicilianese da Cinecittà, essa torna nel linguaggio dell’arbitro di Aci Reale come un abituale intercalare. L’unica esclamazione linguisticamente davvero credibile è quando l’uomo, impegnato in un amplesso con la giornalista, al sentire il campanello della porta le dice “Futtitinni!”.

il trenino del liquid party

Fra le modernità che gli sceneggiatori si compiacciono di inserire nel film, e che restano passaggi alquanto appiccicati, c’è il liquid party, dichiaratamente importato dall’Inghilterra, sorta di fluido preludio a un’orgia che non ci sarà, un ridicolo trenino dove ci struscia l’un l’altro e definito dai partecipanti “un millepiedi” che l’arbitro prontamente commenta “e cinquecento culi!”; ovviamente c’è anche l’immancabile macchietta dell’omosessuale che fa l’occhiolino all’imbarazzato maschio alfa. Ci sono poi gli speciosi studi della giornalista sull’acido lisergico che compone l’allucinogeno LDS: momenti di trasgressione cinematograficamente all’acqua di rose, in cui il protagonista si ritrova suo malgrado perché nonostante le sue malefatte extraconiugali egli resta un provinciale dagli integerrimi principi. Sul piano strettamente pruriginoso Lando Buzzanca, mostrandosi come maschio sexy orgogliosamente oggetto – che in una lettura psicologica potremmo definire passivo-aggressivo perché nella sostanza resta sempre un maschio dominante e maschilista – bontà sua con la sua ripetuta nudità da ripetute docce sportive trova il modo di farci intravedere anche il culo in un’amplesso interrotto dove la compiacente Joan Collins ci concede altrettanto, ma assai più fugacemente, perché i centimetri di pelle dell’anglo-americana si misurano in dollari sonanti.

C’è anche il tema politico tratteggiato nella figura del figlio neofascista che, con metodi a dire il vero più sinistroidi e alternativi che fascistoidi e conservativi, contesta l’autorità paterna a suon di pernacchie e poi con morale finale: sembra che il personaggio sia stato scritto proprio per essere di sinistra ma stranamente è diventato di destra – forse proprio per volontà dello stesso protagonista che non ha mai nascosto la sua fede destrorsa e che, nel successivo periodo di declino della sua carriera, ha accusato i produttori e l’intero sistema cinematografico di boicottarlo per questo. Salvo poi diventare a sua volta oggetto di critiche da parte della destra che si è sentita tradita nell’occasione della messa in onda del film tv di Luciano Odorisio “Mio figlio” in cui l’ormai anziano attore interpreta un commissario di polizia che dovrà fare i conti con l’omosessualità del figlio, prima rifiutandola e poi finendo col comprenderla e accettarla; critiche anche queste inutili a dimostrazione del fatto che a voler leggere in chiave politica eventi che di per sé non ne hanno è sempre una grande e anche dannosa sciocchezza. Umana debolezza.

Nel 1965 ha vinto il Laceno d’Oro all’Attor Giovane al Festival del Cinema Neorealistico per “La Parmigiana” di Antonio Pietrangeli e nel 2008 il David di Donatello e il Globo d’Oro come protagonista di “I Viceré” di Roberto Faenza; e nel 2014 riceve anche la Colonna d’Oro alla carriera al Magna Graecia Film Festival di Catanzaro. L’importante è chiudere in bellezza.

Noi siamo 2 evasi – nel centenario della nascita di Raimondo Vianello

Ricordiamo Raimondo Vianello, un altro della classe del ’22, come già abbiamo ricordato Pier Paolo Pasolini, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi che con Vianello formò una coppia di successo nella nascente Rai Radiotelevisione Italiana e che quello stesso anno, il 1959, girarono insieme altri due film, mentre il solo Tognazzi in quell’anno partecipò a ben 14 pellicole, nel segno di una fiorentissima carriera che avrebbe lasciato indietro l’amico Vianello che cinematograficamente non fu mai protagonista assoluto, ma che resta nei nostri ricordi come gran signore della televisione in coppia con la moglie Sandra Mondaini. E come vediamo nel manifesto e nei titoli il suo nome viene terzo dopo Tognazzi e la francese Magali Noël, già attrice e cantante di successo in patria che aveva varcato le Alpi l’anno prima per girare da protagonista “È arrivata la parigina” di Camillo Mastrocinque ma che resta scolpita nel nostro immaginario per i tre film girati con Federico Fellini.

Raimondo nacque a Roma da padre veneto con carriera nella marina militare e dunque soggetto a diversi spostamenti, e con dei quarti di nobiltà per parte di madre che gli conferiranno la sua innegabile eleganza nell’esprimere una comicità, a volte anche noir, più all’inglese rispetto a quella del suo compagno di scena più sanguigno: diversi e complementari. Da adolescente conobbe al liceo il coetaneo Vittorio Gassmann (che poi avrebbe tolto una N al cognome tedesco, doppia consonante recuperata dal figlio Alessandro) quando ancora entrambi non pensavano alla carriera artistica. Neolaureato in giurisprudenza con voti scarsi si dette alla carriera militare e fu sottufficiale dei Bersaglieri, e come tale aderì alla nascente Repubblica Sociale Italiana, anche nota come Repubblica di Salò, che s’instaurò nel Nord Italia fra il 1943 e il 1945: gli Alleati erano già sbarcati in Sicilia risalendo il territorio italiano fino a Napoli, e da Roma in su venne istituito quel regime come cuscinetto e baluardo all’avanzata degli Anglo-Americani, voluto da Adolf Hitler e guidato da Benito Mussolini. Alla fine della guerra e con la caduta del regime nazi-fascista, Vianello fu detenuto nel campo di prigionia creato dagli Alleati a Coltano, presso Pisa, dove si ritrovò – per restare nell’ambito dello spettacolo – con Enrico Maria Salerno, altro giovincello che affascinato dal Fascio aveva aderito alla Repubblica di Salò; con Walter Chiari, che era passato attraverso vari impieghi senza ancora capire cosa fare nella vita e si era arruolato nella Xª Flottiglia MAS e da lì, con un bel salto di qualità, era passato nella Wehrmacht e inviato a combattere in Normandia dove fu leggermente ferito durante il D-Day; altro nome di spicco è Dario Fo, che avendo ricevuto la cartolina precetto della neonata Repubblica si arruolò come volontario nell’esercito fascista, finendo anche lui nel campo e con molte aspre polemiche nei successivi anni ’70 quando diventerà un intellettuale di spicco della sinistra italiana. Anche Tognazzi fu un giovane camerata che aderì alla Brigata Nera della sua Cremona dopo che l’8 settembre del 1943 fu firmato l’armistizio con gli Alleati, ma di questo nelle sue biografie pubbliche non rimane traccia. Altrettanto, Giorgio Albertazzi, con più gravi e precise responsabilità, fu un repubblichino che invece che al campo fu mandato in carcere, dove rimase due anni e poi amnistiato, perché accusato di collaborazionismo e di aver comandato un plotone per l’esecuzione di un partigiano, tutte accuse che lui ha sempre rigettato.

Raimondo Vianello con Mirko Tremaglia

Dunque, molti giovani all’epoca scelsero “la parte sbagliata” come oggi si dice con spirito di pacificazione: alcuni, come Tognazzi appunto, fecero perdere traccia del loro passato, altri rimasero fedeli alle loro idee politiche, e Vianello fu tra questi, pur mantenendo nel privato il suo credo nella consapevolezza che il mondo dello spettacolo è fondamentalmente di sinistra. Alla sua morte però molti fascisti omaggiarono sul web l’onore del camerata Vianello. Mirko Tremaglia, figura storica della destra italiana, ricorderà: “Vianello era con me al campo di prigionia di Coltano, vicino Pisa, nell’estate del ’45. Eravamo 36 mila della Repubblica sociale. Non ha mai rinnegato la sua storia. Come Tognazzi. Come Walter Chiari. Come Giorgio Albertazzi. Loro, quelli di noi che sono diventati personaggi di spettacolo, hanno contribuito molto alla pacificazione, ci hanno avvicinato alla gente.

Alla fine della guerra Raimondo si dedicò allo sport come atleta e dirigente del Centro Nazionale Sportivo Fiamma, sempre vicino all’ambiente fascista come suggerisce il nome, fondata con lo scopo di “contribuire all’elevazione della persona umana e della società in cui vive per mezzo della diffusione e della propaganda della pratica sportiva in tutte le sue forme: agonistica, formativa, ricreativa”, ideali condivisibili in ogni luogo ed epoca, se non quando diventano mezzo di propaganda per idee politiche più specifiche; ente ancora attivo, riconosciuto nel 1976 dal CONI e oggi riconosciuto come “Ente europeo di promozione sportiva, assistenziale, promozione sociale e difesa ambientale”: il tempo smussa ogni asperità. Tornando a Raimondo, non si sa come (la cronaca latita) già nel 1944 era finito sul palcoscenico con la rivista “Cantachiaro” diretta da Garinei e Giovannini e che schierava nomi come Anna Magnani e Carlo Ninchi, titolari della compagnia, oltre a Ave Ninchi cugina di Carlo, Gino Cervi, Marisa Merlini, Lea Padovani, Ernesto Calindri, Gianni Agus e Massimo Serato che era anche compagno di vita della Magnani: nomi che si avvicendarono nelle tre edizioni della rivista; Raimondo, allora come Raimondo Viani, si mise subito in evidenza e da lì il salto al cinema fu ovvio, prima con piccoli ruoli nei film di Totò, Franco e Ciccio, Renato Rascel e Walter Chiari, e poi salendo di ruolo come caratterista e spalla.

Il successo personale arrivò in tv col programma di varietà “Un due tre” che andò in onda dal 1954 al ’59 e dove fece coppia con Tognazzi col quale si era già esibito in palcoscenico fin dal 1951, una coppia che, come vediamo in questo film, funziona benissimo e che avrebbe potuto avere lunga vita come l’altra coppia cinematografica formata da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, ma che con il successo personale di Tognazzi, non ebbe seguito. La chiusura forzata del programma fu decisa dopo che la coppia di burloni si permise di ironizzare su un incidente occorso al presidente Giovanni Gronchi: a una prima alla Scala di Milano, per fare il galante con una signora aveva mancato la sedia finendo col culo per terra; fatto che la stampa ignorò autocensurandosi, ma il duo Tognazzi-Vianello ripeté la scena in tv: Vianello tolse la sedia a Tognazzi che cadde per terra, e alla domanda di Vianello “Chi ti credi di essere?” Tognazzi rispose: “Be’, presto o tardi, tutti possono cadere!” La parodia costò il posto anche al direttore della sede Rai di Milano.

Al banchetto del matrimonio, di fronte a loro s’intravede l’amico Ugo

Nel 1958 durante una scrittura teatrale conobbe la sua futura compagna di vita Sandra Mondaini, che in quegli anni si stava affermando come un nuovo modello di soubrette, più ragazza della porta accanto che femme fatale. Non fu colpo di fulmine, entrambi erano già sentimentalmente impegnati, lei soprattutto stava per accasarsi, ma durante la noia di una tournée si guardarono con più attenzione e quattro anni dopo si sposarono creando anche la longeva coppia artistica di successo che sappiamo. Oltre che nella veste di presentatore e intrattenitore televisivo, quasi sempre accanto alla moglie, fu anche commentatore sportivo e per quasi un ventennio fu co-autore e protagonista con Sandra di “Casa Vianello”. Ma fu anche sceneggiatore cinematografico di commedie, l’ultima delle quali fu l’omaggio al personaggio televisivo inventato da Sandra, “Sbirulino” del 1982 diretto da Flavio Mogherini. A dieci anni dalla morte di entrambi i coniugi, nel 2020 è stato emesso un francobollo commemorativo.

Nel 1961 rifiutò di fare da spalla a Tognazzi nel film “Il federale” diretto da Luciano Salce perché metteva in ridicolo il fascismo, ma per l’amico Ugo si prestò a un cameo nel suo film d’esordio come regista di “Il mantenuto”. Negli ultimi anni Tognazzi, che morì nel 1990, insisteva perché Raimondo scrivesse un film su loro due, che mostrasse alle nuove generazioni di comici quello che si faceva quarant’anni prima, la satira politica passibile di censura, ma Raimondo continuò a declinare l’invito dicendo che sarebbero stati solo due vecchi attori patetici. Sempre nel 1961 nacque il Secondo Canale Televisivo, poi Rai 2, e un dirigente aveva chiesto a Vianello, che era stato allontanato dalla Rai, se avesse qualcosa di pronto da proporre per il nuovo palinsesto, al che lui aveva risposto “Una cosa sul papa” e le porte della Rai giust’appena ridischiuse gli si richiusero in faccia. Come non detto. Tornò in video nel 1963, per la prima volta accanto alla moglie e l’accoppiata, presentandosi rassicurante e affatto trasgressiva, si avviò al successo che sappiamo.

Il film, scritto da Castellano e Pipolo e diretto da Giorgio Simonelli, regista di commedie che aveva contribuito a creare il successo della coppia Franco e Ciccio e che dunque dirige con mano sicura un film scritto bene, è tutto al servizio della nuova coppia che passa da un travestimento all’altro, ed è farcito di battute che ancora oggi fanno sorridere nonostante non siano più fresche di giornata; un film sapientemente costruito a tavolino con dosaggi perfetti di azione e puro divertimento grottesco e surreale, passando per il sexy e con incursioni nel sentimentale con il siparietto della bella e possibile Magali Noël col povero ma bello Maurizio Arena (doppiato da Pino Locchi) qui in partecipazione straordinaria perché all’epoca divo virile e prestante insieme a Renato Salvatori della nascente commedia all’italiana; nel film c’è anche un corredo musicale di tutto rispetto curato da Carlo Rustichelli con i fondamentali interventi anche in video di Fred Buscaglione, che è autore della canzone dei titoli, e che l’anno dopo morirà 38enne in un incidente stradale; mentre Arena morirà 45enne nel 1979 per cause naturali.

Il fotogramma è colorato a posteriori dato che il film è in bianco e nero

La storia comincia con due criminali evasi, uno detto il Bello e l’altro lo Strangolatore, interpretati da Tiziano Cortini e Mirko Ellis, che vagamente somigliano a Bernardo e Camillo, Tognazzi e Vianello, i quali sono banali contabili presso un’agenzia di assicurazioni guidata con pugno di ferro da una nostalgica del regime nazista, di cui il film si fa beffe, interpretata dalla lady di ferro Titina De Filippo che ha una graziosa nipote, Sandra Mondaini già in amore con Raimondo sia nel film che nella vita; i due criminali organizzano la fuga facendosi sostituire dai due sprovveduti quasi sosia, che a loro volta fuggono diventando altrettanto due evasi che passeranno da un travestimento all’altro, anche prostitute e frati, al fine di recuperare la propria innocenza. Il film non perde un colpo ed è certamente ancora oggi molto visto su YouTube data la massiccia presenza di pubblicità, che notoriamente va dove ci sono più visualizzazioni.

Concludono il cast l’altra francese Irène Tunc (doppiata da Maria Pia Di Meo) che è un’ex Miss Francia subito importata nelle commedie italiane, e purtroppo altra morte prematura e violenta: incidente stradale a 37 anni. Olimpia Cavalli e Lilia Landi sono le due prostitute, la mora e la bionda; Maria Del Valle e l’americano Jackie Jones sono i coniugi coinvolti loro malgrado nella vicenda, e per la quota spagnola della coproduzione ci sono Josè Calvo, Julio Riscal e Josè Jaspe. Notevole Magali Noël, che nel recitato è doppiata da Rosetta Calavetta, in un’autocitazione quando nel tabarin (che nei prossimi anni ’60 si sarebbe americanizzato in night club) canta Rififi come già aveva fatto nel noir omonimo di Jules Dassin pochi anni prima.

Nanni Moretti ebbe a dire di Raimondo: “Vianello è un attore di serie A che si accontenta di giocare in serie B”, ma lui aveva un’altra opinione di sé: “Ho meritato quel che ho avuto perché non ho mai cercato niente, non mi sono impegnato. Non ci ho messo la volontà. Mi ha aiutato il caso”.