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Ostia – opera prima di Sergio Citti

Il film completo

L’ex imbianchino Sergio Citti già dalla metà degli anni ’50 aveva casualmente cominciato a collaborare con Pier Paolo Pasolini, prima come dizionario romanesco vivente per i suoi romanzi di ambientazione romana “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”, poi come sceneggiatore e aiuto regista, finché nel 1970 compie il gran salto e si mette in proprio, si fa per dire, e debutta come regista con un film che riprende le tematiche dei primi film di Pasolini: l’autore friulano è passato oltre e adesso lavora al suo nuovo progetto che sarà chiamato trilogia della vita e che sarà improntato a un erotismo esplicito: “Il Decameron” “I racconti di Canterbury” e “Il fiore delle Mille e una Notte”. Qui soggetto e sceneggiatura sono di entrambi ma come leggiamo subito nei titoli di testa “Pier Paolo Pasolini presenta” e infine, dopo la voce regia che in genere è l’ultima, leggiamo ancora “supervisione tecnica e artistica di P.P.P.” che da un lato vuole rassicurare lo spettatore dato che ormai Pasolini è ufficialmente anche un autore cinematografico di tutto rispetto, e dall’altro è una sorta di imprimatur e viatico al suo delfino che si sta buttando nel mare degli squali.

Alla produzione e distribuzione due nomi secondari dell’ambiente: il direttore della fotografia Alvaro Mancori, che si è anche cimentato come regista in due soli film, e Anna Maria Chrietien che aveva provato a fare la costumista nel peplum “Ercole l’invincibile” del 1964 diretto dallo stesso Mancori, e che poi entrerà nella produzione di altri due film prima di scomparire dal mondo cinematografico: evidentemente la liaison con Mancori si era conclusa; se ne deduce, ed è evidente, che il film è realizzato in assoluto risparmio, ma questo diventa un pregio se a muovere l’intero apparato c’è un regista che sa quello che fa, e il debuttante Sergio Citti, benché supervisionato dal suo maestro, lo è.

Anche la coppia dei protagonisti è assolutamente in linea: Franco Citti, fratello di Sergio, che Pasolini aveva voluto come debuttante “Accattone” nel suo debutto da regista, e il francese già apprezzato il patria Laurent Terzieff che era approdato a Cinecittà nel 1959 con “La notte brava” di Mauro Bolognini sceneggiato da Pasolini da un suo racconto; e poi sempre Pasolini lo aveva diretto dieci anni dopo nella sua “Medea”, dove gli aveva affidato il ruolo del centauro Chirone; quindi possiamo dire che al momento l’attore francese era di casa nell’entourage pasoliniano e sembra naturale che sia entrato da protagonista e primo nome in cartellone nel cast del debuttante Sergio Citti; forse anche con l’intento di riuscire a vendere il film oltralpe dove Pasolini era molto amato. I due protagonisti funzionano bene come fratelli borgatari ladruncoli e sedicenti anarchici come il padre ubriacone, ma non ferventi cattolici come era la madre che, significativamente, è finita al manicomio dove il film comincia: la religione non salva l’anima e piuttosto la corrompe – più pasoliniano di così! Il vero borgataro Citti e l’aristocratico attore teatrale francese Terzieff, a discapito dell’enorme differenza che intercorre fra loro, funzionano bene come coppia di fratelli disfunzionale; il primo perché è assolutamente se stesso nel personaggio che gli ha scritto il fratello, senza i tragici tormenti esistenziali, di derivazione borghese, che il borghese Pasolini immetteva nel mondo dei sottoproletari come lui li vedeva e raccontava; e Franco diretto da Sergio acquista una credibilità che a mio avviso non aveva ancora espresso sotto la direzione del maestro. Laurent Terzieff si mimetizza nel personaggio lontanissimo dalla sua natura proprio perché attore di razza, e la sua faccia scavata e non immediatamente bella lo aiuta a diventare un delinquente ignorante senza tormenti esistenziali, o meglio: con dei tormenti che nel racconto di Citti rimangono puro stato magmatico perché in quel mondo non si conoscono le parole e i processi di auto analisi per esprimerli.

Esemplare la scena in cui Rabbino – è il soprannome del personaggio di Citti in un mondo in cui i soprannomi assurgono a nomi propri – ricorda a Bandiera quella volta in cui da ragazzi, dopo aver fatto i guardoni spiando un vecchio che scopava con una mignotta, si sono baciati sulla bocca e fatto insieme le zozzerie come se fossero stati due fidanzati; e Bandiera non ricorda o non vuole ricordare: noi borghesi intellettuali diremmo rimuove. Scena cardine che all’epoca la critica ha messo al centro della discussione individuando nei due protagonisti una latente omosessualità – senza peraltro parlare dell’incesto fraterno perché essendo gioco fra maschi non c’è rischio di procreazione, che è il tabù principale. A mio avviso l’omosessualità raccontata da Citti è fittizia perché coatta, espressione di necessità contingente, del far di necessità virtù, mancanza di migliori opportunità; omosessualità di ripiego quando – tanto per restare romaneschi – non c’è trippa per gatti, la stessa omosessualità che talvolta si esprime nei luoghi chiusi a lungo corso come le carceri, le navi di una volta, i collegi degli adolescenti, le caserme delle reclute: sfogo di naturali istinti all’accoppiamento che si rivolge al simile in mancanza del diverso, esplosione di testosterone, sperimentazioni sul proprio corpo – anche fra femmine – che però non necessariamente conducono all’omosessualità conclamata e da lì in poi praticata: finita l’emergenza della cattività si torna ai rapporti reali. E di fatto nei due fratelli raccontati da Sergio attraverso suo fratello Franco e il francese cui lui stesso dà la voce al doppiaggio, guarda un po’, non c’è desiderio di natura omosessuale, tutt’altro: diventano rivali quando nella loro vita irrompe una bionda esplosiva; anche il gioco del travestimento con le parrucche, cui la donna li sottopone, benché spinga il nostro giudizio nel verso dell’omosessualità, rimane un’altra divertente sperimentazione: è una posizione ambigua, ancorché coraggiosa, quella del nuovo autore cinematografico che successivamente nelle sue sceneggiature e regie tornerà sull’argomento, come in cerca di pacificazione con un argomento spinoso: esemplare sarà il suo ultimo film “Fratella e sorello”, film oggi riconosciuto di interesse nazionale ma clamoroso fiasco al botteghino.

Meno riuscita, anzi non riuscita affatto – e non ci è dato sapere chi l’abbia doppiata – è l’introduzione nel cast della svedese Anita Sanders, modella molto a suo agio col nudo – poserà diverse volte per Playmen – e nel film ce ne dà ampie dimostrazioni; è scesa in Italia per cercare di bissare il successo di un’altra Anita sua conterranea, quell’Anita Ekberg che in Federico Fellini troverà un pigmalione, il quale però riserverà a quest’Anita numero due solo un piccolo ruolo in topless in “Giulietta degli spiriti”; e ricordiamo che in quegli anni approdò da noi un’altra Anita svedese, Anita Strindberg, che spopolò nei nostri thriller-sexy: il mediterraneo nome Anita era all’epoca molto in voga nelle terre del nord. Anita Sanders, che qui interpreta una di quelle borgatare mignotte per diletto come si sono già viste in altri film d’impronta pasoliniana, è troppo bionda e troppo ben truccata con quegli occhioni da fotomodella in un epoca in cui purtroppo al cinema le belle donne erano sempre ben truccate anche se il personaggio e il contesto non lo richiedevano: che fossero appena alzate dal letto o uscite dalle onde del mare il make-up era sempre perfetto; e la svedesona è troppo nordica e ammaliatrice per essere credibile in una cruda vicenda di borgate. Pasolini la utilizzerà due anni dopo in “I Racconti di Canterbury” e il suo ultimo film sarà “Quell’età maliziosa” del 1975 dove a soli 33 anni interpreta la madre di Gloria Guida che ne ha 20 e allora decide di chiudere lì con la recitazione; nel 1977 fa da assistente alla regia a Sergio Citti sul set di “Casotto” probabilmente solo per metterla a foglio paga e aiutarla a sopravvivere. Importante il commento musicale di Francesco De Masi, compositore attivissimo negli spaghetti-western con talmente tante produzioni all’attivo da essere annoverato tra i nostri più significativi compositori perché ha anche avuto il talento, e il gusto, di non scopiazzare il maestro del momento Ennio Morricone ma di portare avanti uno stile suo personale.

Nel resto del cast, oltre al solito manipolo di veri borgatari attori per caso che non si avvieranno a una carriera professionistica, tornano Ninetto Davoli e l’ex protagonista di “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica che da romano verace si è in quel periodo riciclato con piccoli ruoli nel cinema pasoliniano: Lamberto Maggiorani, come padre della bionda. Altri professionisti sono Gianni Pulone come prete che tenta di confessare i due fratelli al gabbio, e al suo debutto cinematografico la teatrale, poi anche professionista del doppiaggio, Lily Tirinnanzi qui ancora accreditata come Luisa, nel ruolo della madre dei due, e che probabilmente è anche la voce della Sanders.

Il film di debutto di Sergio Citti è dunque un’operina che, pur risentendo dell’ispirazione del maestro, già viaggia su una strada tutta sua introducendo un gusto per il grottesco e il surreale che sembra mediato dal teatro dell’assurdo di un Samuel Beckett e del suo “Aspettando Godot” dove due individui, come i nostri due fratelli, compiono sempre le stesse azioni: Bandiera e Rabbino vivono una vita senza senso dove il senso è proprio quella mancanza di significato, esistenze senza dio e intrise di un’ideologia anarchica solo copiata da un padre pessimo esempio di autorità maschile e, come a teatro, entrambi in attesa che qualcosa accada, e accade quando fra loro s’introduce l’aliena bionda. E Citti sceglie una narrazione altrettanto alienata dove le scene e le sequenze si rincorrono anche senza uno sviluppo logico e con risvolti improvvisi e surreali, come quando la donna comincia improvvisamente a suonare una fisarmonica e i due fratelli si mettono a ballare il tango. E c’è nel film quella verità che è sempre mancata al friulano Pasolini che si è fatto romano per passione dei borgatari romani che ha raccontato dal suo privilegiato punto di vista, sempre borghese ahilui, e secondo le sue necessità narrative socio-filosofiche; Sergio Citti è un vero borgataro romano e la sua verità, che racconta con leggerezza una favola turpe, è sincera e tragicamente disarmante perché lascia intuire sprazzi di autobiografia i cui dettagli non sapremo mai.

Edipo Re

Il film completo

Dopo il salto in avanti con “Medea” torno alla cronologia della filmografia di Pier Paolo Pasolini con l’altra sua tragedia classica che si colloca subito dopo la favola sociale “Uccellacci e uccellini” ma a cui pensava da anni, ancora prima di realizzare il suo debutto con “Accattone” in cui ha fatto debuttare come protagonista Franco Citti, fratello di poco minore di Sergio Citti, entrambi imbianchini, Sergio che tranne apparizioni occasionali resterà al fianco di Pasolini prima come dizionario vivente romanesco e poi via via come assistente alla regia e co-sceneggiatore fino al suo debutto come regista. Per Pasolini è un’opera molto personale perché si confronta con una sua “ansia autobiografica” e con il complesso cui il personaggio di Edipo, assassino del padre e sposo di sua madre, ha dato il nome: “In Edipo io racconto la storia del mio complesso di Edipo. Il bambino del prologo sono io, suo padre è mio padre, ufficiale di fanteria, e la madre, una maestra, è mia madre. Racconto la mia vita mitizzata, naturalmente resa epica dalla leggenda di Edipo”.

Carlo Alberto Pasolini

Di fatto il padre, militare fascista, fu per lui e per sua madre una figura ingombrante perché pare che non fosse marito e padre affettuoso, oltre al fatto che di ritorno dalla guerra d’Africa soffriva di quella che oggi definiamo stress post traumatico da combattimento ma che all’epoca era non più che un disagio mentale cui si accompagnava la violenza. È dunque quasi consequenziale che il giovane Pier Paolo, intellettuale precoce, si immedesimasse nel personaggio della tragedia perché di certo deve aver desiderato di cancellare il padre dalla loro vita, avendo per la madre un amore sacro, scevro da pensieri immediatamente incestuosi, che espliciterà nella poesia “Supplica a mia madre”.

È difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata

alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame

d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu

sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso

alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,

l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione

di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile….

Scrive un film, come anche sarà “Medea”, più visivo che parlato, asciugando al massimo i dialoghi, che nella tragedia teatrale sono tutto, e inserendo qua e là dei cartelli da cinema muto con importanti battute che così divengono come una sorta di titolo della scena che segue: una visione assai personalizzata della tragedia che se da un lato riporta il linguaggio cinematografico agli albori, quando essendo muto è ancora fotografia in movimento – dall’altro piega e asserve il racconto alle sue necessità, che sono: critica alla borghesia e santificazione del proletariato in prima istanza, e poi necessità di adattare la narrazione al cast che intende impiegare, e qui sta la debolezza del suo gusto artistico che sottende la sua personalissima passione per i proletari; aveva dichiarato che solo i sottoproletari possono rappresentare se stessi, e prendendo per buona l’istanza – anche non necessariamente condividendola – la tradisce clamorosamente chiamando Franco Citti a impersonare Edipo. È vero che nella sua calligrafia cinematografica lui ricolloca i personaggi nel suo schema forzatamente dualistico: i proletari e i borghesi, facendo degli uni e degli altri delle emanazioni sociali di quel mondo moderno cui lui appartiene ma che di certo non appartengono al mondo antico da cui quei personaggi provengono: una forzatura che diviene il suo stile; con la nevrotica complicazione, quasi schizofrenica, che lui è un borghese, appassionato di proletariato, che vede nel suo mondo di origine il male assoluto mentre nei semplici, che osserva e che studia e che cerca di imitare perché ama, vede la purezza, il bene supremo: una sorta di personalissima Arcadia intrisa dell’affascinante brutalità e della beata ignoranza dei suoi “Ragazzi di vita”.

Su questa sua linea narrativa assegna il personaggio dell’eroe tragico a un non-attore che s’è inventato lui, che se poteva andar bene come “Accattone” in questo ruolo è decisamente fuori parte: perché se solo un proletario può rappresentare se stesso, secondo quale giudizio un proletario può rappresentare un personaggio classicamente tragico fin lì interpretato a teatro solo da attori di rango? Pasolini fa di Edipo un altro accattone: benché figlio legittimo dei regnanti di Tebe, Laio e Giocasta, e cresciuto a Corinto da altri due regnanti, Polibo e Merope, questo Edipo resta rozzo come rozzo è l’interprete, e l’autore lo colloca nelle periferie archetipe in cui ben trasfigura le baraccopoli e i pratoni fuori Roma dei suoi primi film; ma si fa fatica a credere che questo Edipo col volto di Franco Citti possa pronunciare, o anche solo pensare, parole come responso o costruzioni verbali come se io avessi immaginato, e anche se doppiato da Paolo Ferrari questo linguaggio alto resta assai poco credibile ritagliato sull’interprete, perché gli è alieno tanto quanto l’intera tragedia nella quale mima una disperazione visibilmente appiccicata dalla mimica suggerita dall’autore: mani sul volto a nascondere espressioni disperate che Franco Citti non ha – ma che poi, e onestamente va riconosciuto, recupera nel finale dove si dispera e suda vero sudore proletario nel comprendere l’orrore del personaggio, personaggio che con orrore comprende la sua tragedia; ma data l’evidente inadeguatezza dell’interprete, laddove Edipo fa discorsi un po’ più lunghi, come quando regalmente si rivolge al popolo con parole assai forbite, Pasolini lo filma in campo lunghissimo alternandogli i primi piani muti e, essi sì assai espressivi, di Giocasta che chiusa in casa lo ascolta, interpretata da una davvero regale e levigatissima – sembra quasi una pittura di Tamara di Lempicka – Silvana Mangano che illumina il film con la sua sola presenza.

Silvana Mangano, che meriterebbe una chiacchierata a parte, all’epoca di questo film è già 37enne e vanta una lunga variegata carriera anche con incursioni internazionali; è moglie del produttore Dino De Laurentiis e in questo periodo esprime disagi professionali e personali; già dal decennio precedente ha via via abbandonato i ruoli basati sulla sua statuaria fisicità per la quale ha cominciato a provare un certo dichiarato imbarazzo, forse anche consapevole del fatto che nel cinema si stava imponendo la nuova diva, benché più giovane di lei di soli quattro anni, Sophia Loren; così cerca ruoli diversi nel cinema cosiddetto d’autore, e in quel 1967 lavora per la prima volta con Pasolini e Luchino Visconti nel film a episodi “Le streghe” firmato dai due insieme a Vittorio De Sica e Franco Rossi e costruito dal marito su di lei che è protagonista di tutti gli episodi; per Pasolini sarà subito dopo Giocasta in questo “Edipo Re” e poi di nuovo ancora nell’inedito ruolo, per lei, di una madre borghese frustrata in “Teorema”; mentre per Visconti dipingerà ritratti esemplari in “Morte a Venezia” “Ludwig” e “Gruppo di famiglia in un interno”. Sul piano personale si sente insoddisfatta, soffre di una grave insonnia, e forse teme di essere anche intrappolata, o probabilmente non abbastanza presente, nel ruolo di moglie e madre; e a più riprese ha pensato di abbandonare la recitazione.

Come Laio l’autore fa debuttare il bel 21enne Luciano Bartoli dallo sguardo acuto e tagliente che nell’antefatto del film, vestito da militare come il padre dell’autore, guarda il figlio neonato con un distacco e una durezza agghiaccianti mentre la didascalia del cartello da film muto recita: “Tu sei qui per prendere il mio posto nel mondo, ricacciarmi nel nulla e rubarmi tutto quello che ho. La prima cosa che mi ruberai sarà lei, la donna che io amo. Anzi già mi rubi il suo amore.” E se il giovane debuttante regge bene il primo piano non si può però non notare la troppa differenza di età con la diva che interpreta sua moglie. Dopo questo debutto Bartoli prosegue con una carriera fatta di secondi ruoli nei poliziotteschi con interessanti incursioni anche nel cinema internazionale e nelle produzioni tv.

Antefatto dunque, o prologo, cui segue un epilogo alla fine del film, entrambi ambientati nelle epoche di Pasolini: gli anni ’20 della sua nascita e gli anni ’60 della sua maturità che sono gli stessi anni in cui si gira il film. Nel prologo racconta la nascita borghese di Edipo, che il padre affida a un servo perché se ne disfaccia, e col viaggio del servo comincia il pellegrinaggio nelle terre di nessuno, le distese desolate del Marocco come Grecia antica in cui si sposta l’azione. Nell’epilogo, l’Edipo consapevole della sua tragedia, accecatosi, come un mendicante vaga dal sagrato di una chiesa a una zona industriale, luoghi del benessere e dell’ipocrisia borghese che Pasolini mantiene nel mirino, ed è accompagnato da Angelo che nella tragedia era Ànghelos, una specie di servo tuttofare, un po’ messaggero un po’ angelo custode, affidato al più convincente Ninetto Davoli che recita con la sua voce, giocoso e palpitante insieme, mentre tutti gli altri proletari del film Pasolini li fa doppiare con accenti regionali, per ribadire la loro provenienza sociale. Nel mezzo si svolge la narrazione della tragedia, affidata a sequenze mute e narrazioni scritte, con un lungo peregrinare, anche noioso c’è da dire perché si perde il senso del racconto, di Edipo in cerca di una verità che lo spingerà verso il suo dolente destino: uccidere accidentalmente suo padre e sposare inconsapevolmente sua madre, vittima di un disegno perverso degli dèi.

E in questa sua rilettura socio-antropologica della tragedia di Sofocle, Pasolini risolve l’importante passaggio dell’incontro con la Sfinge in un paio di frettolose battute: perché nella sua visione, direi ansia, di fare indagine sociale, l’incontro col misterico, così come per lui ateo è il rapporto con la religione, non ha significanza e dunque butta via tutto, l’acqua sporca insieme al bambino, come si dice; e paradossalmente, anzi forse proprio a sberleffo, recita lui stesso il ruolo di un gran sacerdote.

Ancora una volta affida all’amico scrittore Francesco Leonetti un ruolo significativo e qui interpreta il servo che Laio ha incaricato sbarazzarsi del neonato. Al padre di Ninetto, Giandomenico Davoli fa recitare il sostanzioso ruolo del pastore che salva il bambino. Per gli altri tre ruoli significativi chiama tre grandi, ognuno a suo modo: Alida Valli che qui è la regina madre adottiva Merope, nella vita è stata una diva di sfolgorante bellezza, dote che la accomuna alla Mangano, ma che già 46enne è in un periodo in cui si sta reinventando dandosi al teatro e a ruoli assai diversificati, percorso nel quale la più giovane Silvana Mangano la seguirà.

Il divo del teatro di sperimentazione Carmelo Bene è anch’egli al suo debutto come attore di cinema, un genere espressivo dove fra regie proprie e provocazioni continuerà a far clamorosamente parlare di sé, ma in definitiva il cinema per lui resterà una parentesi nella sua vulcanica attività: qui interpreta Creonte, fratello di Giocasta.

L’americano Julian Beck, per gentile concessione del Living Theather, come si legge nei titoli di testa, è invece l’intenso veggente Tiresia: scelte assai interessanti da parte di Pasolini che sperimenta con esponenti del teatro sperimentale che lui ricolloca come quintessenza dell’imborghesimento sociale – alla faccia degli artisti sperimentatori la cui ricerca artistica andrebbe nel suo stesso senso.

Il film è stato in competizione a Venezia per il Leone d’Oro che però è andato a “Bella di giorno” di Luis Buñuel; ai Nastri d’Argento vincono il produttore, lo scenografo Luigi Scaccianoce e vanno senza premio i candidati Danilo Donati per i costumi, Giuseppe Ruzzolini per la miglior fotografia a colori, dato che all’epoca c’era ancora il premio separato per il bianco e nero, e per la regia Pasolini, con il premio che è andato a Elio Petri per “A ciascuno il suo” che porta a casa anche il premio al protagonista Gian Maria Volonté, mentre – curiosità – il premio alla protagonista non è stato assegnato e c’erano candidate solo Sophia Loren per “C’era una volta” di Francesco Rosi e Monica Vitti per “Ti ho sposato per allegria” di Luciano Salce: le due signore, rivali a distanza, devono esserci rimaste assai male!

Produce per l’ultima volta Alfredo Bini, il quale se da un lato come produttore dei difficili film pasoliniani è stato premiato, dall’altro gli si sono prosciugati i conti bancari dato che quei film non hanno mai avuto successo commerciale. Bini aveva fatto debuttare lo scomodo autore con “Accattone” e l’intesa fu subito perfetta dato che Pasolini, digiuno di tecniche cinematografiche, accoglie tutti i consigli del produttore che dichiarerà: “È proprio dal conflitto tra il regista e il produttore che nasce la professionalità, perché un fiume che non ha nessun argine non è più navigabile, porta solo distruzione.” Per Bini questo “Edipo Re” è l’opera più riuscita di Pier Paolo e i progetti che seguiranno, “Teorema” e “Porcile”, non lo entusiasmeranno, tanto che dirà: “I film di Pasolini sono capaci di parlare tra le lingue del mondo. Io l’ho abbandonato quando ho cominciato a sentire odore di morte. Ma anche: “Io e Pasolini subimmo una lunga sequenza di carognate. La reazione alle nostre opere fu durissima, e mi investì personalmente. Pasolini aveva in sé un valore artistico oggettivo: era l’uomo che più irritava il quieto stagno italiano nel pieno del boom economico. La sua opera era la spia e insieme l’analisi di un momento preciso che stava cambiando la nostra società, il momento in cui le generazioni che erano uscite dalla guerra si avviavano verso una società consumistica che confondeva sviluppo e progresso. A cambiare totalmente erano le nostre stesse radici: il fatto di mettere in modo inequivocabile la società italiana di fronte a questo cambiamento, e forse anche a un suo tradimento, non poteva essere accettato. Non era accettabile che un marxista, pederasta e dunque già esecrabile, facesse la morale a tutti.

Uccellacci e uccellini (con estemporaneo ritratto di Totò)

Riprendo il discorso sulla cinematografia di Pasolini (dopo opportune e non ultime divagazioni) con le parole che l’autore ha avuto sul suo stesso film: “Uccellacci e uccellini è stato il mio film che ho amato e continuo ad amare di più, prima di tutto perché come dissi quando uscì è “il più povero e il più bello” e poi perché è l’unico mio film che non ha deluso le attese. Collaborare con lui (con Totò) reduce da quegli orribili film che oggi una stupida intellighenzia riscopre fu molto bello: era un uomo buono e senza aggressività, di dolce cera. Voglio ricordare anche che oltre che un film con Totò, Uccellacci e uccellini è anche un film con Ninetto, attore per forza, che con quel film cominciava la sua allegra carriera. Ho amato moltissimo i due protagonisti, Totò, ricca statua di cera, e Ninetto. Non mancarono le difficoltà, quando giravamo. Ma in mezzo a tanta difficoltà, ebbi in compenso la gioia di dirigere Totò e Ninetto: uno stradivario e uno zuffoletto. Ma che bel concertino.”

Il Pier Paolo Pasolini autore cinematografico è ormai, con buona pace degli agguerriti detrattori, una realtà; dopo i primi due discussi film sul sottoproletariato romano coi quali ha lanciato l’imbianchino Franco Citti, e il cameriere Ettore Garofolo al quale ha affiancato la grandiosa Anna Magnani, e lo sberleffo sacro-profano di “La ricotta” nel quale si è avvalso di un grande d’oltreoceano, Orson Welles, eccolo finalmente cimentarsi nella favola tragica con il tono surreale che gli è sempre appartenuto ma che ha finora solo lasciato intuire e per il quale ha la felice intuizione di avvalersi di un altro grande a fine carriera, Totò. Con il distinguo che Totò è stato un grande nella cinematografia di serie B, tranne rare eccezioni, a tal punto che quando Mario Monicelli nel comporre il cast di “Risate di gioia” nel 1960 propose alla Magnani di fare coppia con lui, la diva inorridì temendo di essere squalificata dalla sua presenza.

Totò è una figura immensa. Nato Antonio Vincenzo Stefano da una relazione clandestina, all’anagrafe fu registrato come Antonio Clemente figlio di Anna Clemente e N.N. in quanto al padre naturale, il 25enne Giuseppe De Curtis rampollo di un decaduto ramo cadetto dei marchesi De Curtis, la famiglia vietò di riconoscere il bambino generato con una 17enne popolana: allora succedeva molto sovente, essendo in vigore i rigidi steccati delle classi sociali, che queste naturalmente si mischiassero nel privato delle lenzuola senza però volersi immischiarsi nell’ufficialità dei documenti: le giovani popolane erano spesso prede dei signori presso cui andavano a servizio; anche se in questo caso il divario sociale era solo nominale e nella pratica fittizio: il marchesino Peppino faceva il sarto ambulante presso le case dei ricchi, spesso non nobili, e nelle case dei nobili più nobili di lui; mentre il di lui signor padre pare che facesse addirittura il pittore, che nella pratica significava imbianchino. Nei fatti Peppino continua la sua relazione clandestina con Nannina, la quale con sfrontatezza sfoggia la sua condizione di mantenuta del signorino che la riempie di regali rimediati qua e là ma mai di necessari aiuti concreti, economici.

Totò a otto anni in una foto ufficiale e ben vestito da marinaretto

Solo nel 1921, quando Totò era già un 23enne che calcava le scene, Giuseppe De Curtis ricompose ufficialmente la famiglia sposando Anna e solo anni dopo, nel 1928, riconobbe il giovanotto come frutto dei suoi lombi; pare che questo ritardo fu dovuto al fatto che De Curtis non era convinto della sua reale paternità, tant’è che nella lunga e continuativa relazione non ci furono altri figli e dunque si vociferava che Peppino fosse sterile, tanto quanto Nannina troppo allegra. Il ragazzo Totò, inseguito da queste chiacchiere, era cresciuto nei vicoli in condizioni estremamente disagiate – dimostrando precocemente la passione per l’intrattenimento, passione che gli faceva trascurare gli studi tanto che dalla quarta elementare fu addirittura retrocesso alla terza. Terminate a fatica le scuole dell’obbligo, incorse in un incidente al Collegio Cimino dove era stato iscritto per conseguire la licenza ginnasiale: uno dei precettori lo colpì con un vero pugno durante un improvvisato giocoso incontro di pugilato, e dovette essere un gran bel pugno se gli deviò naso e mento creandogli la maschera con la quale lo abbiamo conosciuto. Comunque sia Totò non terminò gli studi e si diede definitivamente ai palcoscenici del varietà dove cominciò ad esibirsi affinando le sue naturali doti mimiche e mimetiche che aveva sperimentato davanti al pubblico improvvisato dei compagni di scuola e dei mariuoli del quartiere, mentre la madre lo avrebbe voluto avviare alla carriera ecclesiastica: “Meglio ‘nu figlio prevete ca ‘nu figlio artista.”

Cresciuto nel disagio dell’indigenza – i suoi pantaloni vengono ricavati dalle gonne dismesse dalla madre – e col marchio infamante di bastardo a tutto tondo, in lui crebbe anche l’imperante necessità del riscatto sociale volendo dare un nome, e un nome illustre, alla sua ascendenza. Ma vale la pena riferire un episodio della sua infanzia di cui si favoleggia: una volta che i suoi rimediati pantaloni erano stati ricavati da una stoffa fiorata, i suoi coetanei cominciarono a sbeffeggiarlo come ricchione e femminiello; il piccolo Totò si ribellò e togliendosi i pantaloni restò in mutande e cominciò a dimenarsi di fronte ai coetanei per sfregio, ma quello che voleva essere uno sberleffo divenne per gli altri divertimento, tanto che finirono con l’applaudirlo – e non si sa se anche quello per sfregio di ritorno, ma di fatto si delineavano le sue doti di intrattenitore anche se furono anni, per lui, di tristezza e solitudine, per la vergogna di essere povero e figlio di donna nubile.

Liliana Castagnola in una delle foto promozionali che suscitarono la gelosia di Totò e il deterioramento della loro relazione. Il termine sciantosa viene dal francese chanteuse, cantante che si esibiva nei café-chantant eseguendo arie da opere liriche o operette; ma nella pratica partenopea la sciantosa divenne sinonimo di donna fatale e ammaliatrice alle cui doti canore erano preferite quelle fisiche

Acquisito il cognome dei De Curtis, fece ricerche sulla genealogia della famiglia e rintracciò l’ultimo erede del ramo principale, lo squattrinato marchese Gaspare, il quale fu ben felice d’inventarsi una parentela con Totò che nel frattempo stava divenendo un attore famoso: si riconobbero vicendevolmente come cugini benché pare che appartenessero, secondo studi più recenti, a due famiglie ben diverse e distinte. Il 1933 fu un importante anno di svolta: era finalmente divenuto capocomico e anche padre da una relazione assai chiacchierata con la 16enne Diana Rogliani che gli diede Liliana, così battezzata in onore alla sciantosa Liliana Castagnola che per amor suo si era suicidata, e che lui volle far seppellire nella cappella di famiglia che aveva fatto costruire. Sempre in quell’anno si fece adottare, dietro versamento di un vitalizio, da un altro squattrinato marchese, tal Francesco Maria Gagliardi Focas di Tertiveri che le indagini araldiche di Totò indicavano come consanguineo: tutte parentele più presunte che reali come dimostreranno studi successivi ma di fatto “il principe della risata”, come ormai veniva chiamato, ottenne da quelle presunte ascendenze dei titoli per colmare l’oscuro della sua infanzia e da tramandare alla sua discendenza, ora che era divenuto padre. Altisonanti titoli scolpiti nel marmo della sua lapide tombale. Morì nel 1967, l’anno seguente l’uscita di “Uccellacci e uccellini” che rimane il suo ultimo lungometraggio da protagonista; sempre per Pasolini farà in tempo a partecipare a “La terra vista dalla luna” episodio del collettivo “Le streghe” e “Che cosa sono le nuvole?” nel collettivo “Capriccio all’italiana” in cui recita anche nell’episodio “Il mostro della domenica” di Steno. Con “Uccellacci e uccellini” riceve una menzione speciale al Festival di Cannes, e vince come Miglior Protagonista il Nastro d’Argento e il Globo d’Oro.

Ninetto Davoli, Giovanni sui documenti, all’uscita del film è ormai diciottenne ma già sin da quando ne aveva quindici frequenta Pasolini, che lo aveva conosciuto sul set di “La ricotta” dove il ragazzo era andato a trovare il fratello maggiore che vi lavorava come falegname. “Tutto iniziò con una carezza sul capo la prima volta che mi vide e io non sapevo nemmeno chi fosse…”. I Davoli venivano dalla baraccopoli del Borghetto Prenestino dove la famiglia si era trasferita dalla Calabria; baraccopoli romane che se a vent’anni dalla fine della guerra erano ancora una realtà diffusa e plausibile, che l’avanzare del boom economico avrebbe raso al suolo sotto i palazzoni di periferia, oggi sono da considerare un aberrante anacronismo: perché le baraccopoli degli ultimi e dei disperati esistono ancora nei dintorni di Roma e sono abitate dai nuovi calabresi, quelli che vengono da ancora più a sud, gli africani, gli Alì che Pasolini profetizzò nella poesia del 1964 “Alì dagli occhi azzurri”.

Ninetto già due anni prima era tornato nella natia Calabria per fare da esca nei cast estemporanei che Pasolini improvvisava per scegliere fra i locali interpreti e figuranti del suo precedente film “Il Vangelo secondo Matteo” dove egli stesso aveva debuttato come pastorello. Di lui saltano subito agli occhi la simpatia e il sorriso aperto, e l’assoluta alterità rispetto ai cupi Franco Citti e Ettore Garofolo, una leggerezza che lo rende perfetto per questo ulteriore film dell’autore, una favola tragica sulla condizione umana per la quale Pasolini ha voluto, e rivalutato, la maschera di Totò, del quale Ninetto racconta di quella prima volta che andarono a trovarlo a casa: “Ho saputo che quando me ne andai passò il DDT per disinfestare la casa.” Già nel “Vangelo” Ninetto non avrebbe voluto stare davanti la macchina da presa e Pasolini faticò non poco per convincerlo, facendo leva su quello che descrive nella poesia “Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano”: guarda che ti daranno bel soldini. Il salto di qualità interpretativa richiesta in “Uccellacci e uccellini” lo terrorizzò: “Il problema è stato in seguito, per Uccellacci e uccellini, lì dovevo recitare, oddio, dovevo soprattutto essere me stesso.” E Ninetto nel film è se stesso, ed è – con un termine oggi desueto – un birbante, dalla recitazione rozza che però passa l’esame per la grande simpatia che lui esprime come persona; una naïveté che si fa a sua volta maschera bene affiancata a quella nota di Totò: un arlecchino di borgata, malandrino e infido, pavido e feroce insieme, come feroci sono tutte le periferie di Pasolini, senza speranza di riscatto per gli individui che partoriscono. “Rappresentavo quel mondo che avrebbe desiderato, la semplicità, la purezza, l’ingenuità. Un mondo, mi diceva sempre, che sarebbe scomparso” dice ancora Ninetto in un’intervista al Corriere della Sera.

Patrizia e Ninetto Davoli in una recente foto

Il momento di crisi arriva nel 1973 quando Ninetto sposa la sua Patrizia e mette su una famiglia che terrà lontana dai riflettori, e per Pier Paolo è un dramma, come scrive all’amico scrittore Paolo Volponi: “Sono pazzo di dolore. Ninetto è finito. Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso solo a morire o a cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza, disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname pur di stare con lei”.  L’amico eterosessuale (la specifica è d’obbligo dato il contesto) cerca di consolarlo come può, usando toni lirici: “Capisco la tua solitudine e il tuo dolore, so quanto contasse Ninetto per te e so anche che solo un dio potrebbe fartene trovare un altro altrettanto caro e splendente.” In realtà poi il rapporto si ricompone, a tal punto che il poeta diverrà padrino dei due figli della coppia, che in omaggio a lui e al di lui fratello morto verranno chiamati Pier Paolo e Guido Alberto. Quando nel 1975 fu ritrovato a Ostia il cadavere di Pasolini fu Ninetto a riconoscerlo, e conclude l’intervista: “Mi manca Pier Paolo, la persona. Era mio padre, mio fratello, mia madre. È un mondo che mi porto dietro. Non riesco a condividerlo con nessuno.”

Il produttore Alfredo Bini col corvo e Totò fra figuranti e curiosi

Torniamo al film. Pur realizzando una favola surreale e grottesca, Pasolini prosegue il suo discorso intimamente politico sugli ultimi e le periferie e, benché a tratti Roma sia riconoscibile sullo sfondo, e il romanesco di Davoli non lascia dubbi, disegna un mondo irreale, appunto, dove i cartelli a nominare gli uomini illustri delle strade di quella periferia sono: Via Benito La Lacrima – disoccupato, Via Antonio Mangiapasta – scopino, Via Lillo Strappalenzola – scappato di casa a 12 anni; in cui colloca la storia apparentemente senza capo né coda di un padre e di un figlio che si chiamano, guarda un po’, Totò e Ninetto, che all’inizio del film incontrano, come in ogni favola che si rispetti, un corvo parlante cui dà voce lo scrittore Francesco Leonetti che aveva già interpretato Erode Antipa nel Vangelo pasoliniano; un corvo filosofo molto simile al grillo di Pinocchio col quale condividerà la tragica fine, anzi di più, finirà mangiato dai due affamati protagonisti, e all’inizio viene presentato con questa didascalia: “Per chi avesse dei dubbi o si fosse distratto, ricordiamo che il corvo è un intellettuale di sinistra – diciamo così – di prima della morte di Palmiro Togliatti” e dunque, intende Pasolini, di quegli intellettuali duri e puri non ancora minati dal germe del consumismo occidentale: ricordiamo che Palmiro Togliatti, membro fondatore del Partito Comunista Italiano, prese nel 1930 la cittadinanza sovietica e alla sua morte gli fu intitolata la città che noi italiani chiamiamo erroneamente Togliattigrad, mentre per i russi è solo Togliatti, Тольятти, ex Città della Croce sul Volga. Del suo solenne funerale che si svolse a Roma nell’agosto del 1964 (era morto per ictus a Jalta dove era in vacanza con la compagna Nilde Iotti) cui parteciparono circa un milione di persone, Pasolini inserisce nel finale del film ampi stralci di immagini di repertorio.

Dalle chiacchiere moraleggianti del corvo prende vita sullo schermo un racconto morale in cui due frati francescani, stavolta Ciccillo per Totò mentre Ninetto, che come sappiamo non recita ma è se stesso, è sempre Ninetto; i due frati sono stati incaricati da un San Francesco molto marxiano a evangelizzare uccellacci e uccellini, ovvero falchi e passeri, e a porre fine alle loro dispute; in questo segmento i momenti più godibili del film che oggi possiamo definire come meta-linguaggio: i due si rivolgono ai falchi fischiando e ai passeri saltellando, secondo i loro linguaggi e, benché riuscendo nell’impresa di evangelizzazione, non riescono a far fare pace ai due gruppi socialmente lontani degli uccellacci e degli uccellini, parabola delle classi sociali della borghesia e del proletariato. Continuando nel loro percorso senza meta, Totò e Ninetto fanno degli incontri occasionali e anch’essi simbolici: dei violenti proprietari terrieri e una miserabile famiglia, degli immorali attori ambulanti e un grottesco gruppo autocelebrativo di dentisti dantisti. Nel loro percorso hanno la piacevolezza dell’incontro, consumato da entrambi, con una di quelle figure tanto care all’autore, una prostituta sincera generosa e accogliente, di certo meno immorale delle tante espressioni borghesi invise a Pasolini.

Il ruolo di Francesco è andato a Cesare Gelli, giovane attore di rivista in crisi per il declino di quel genere, che ha avuto la capacità di reinventarsi nel teatro classico con Luca Ronconi e poi proseguendo una carriera da caratterista in cinema e tv, oltre che come doppiatore. All’inizio del film ritroviamo la Rossana Di Rocco come autocitazione del Vangelo: lì interpretava l’Angelo, qui interpreta un angelo con ali di cartapesta in una sacra rappresentazione paesana. La prostituta è interpretata dalla giovane italo-jugoslava Femi Benussi (Eufemia) che viene dal teatro ma che da qui in poi – è il suo ruolo più importante e il suo quarto film – si specializzerà in ruoli sexy ed erotici durante tutti gli anni Settanta, sono soldi facili, ma poi abbandona quel genere senza però potersi più riciclare nel cinema generalista perché non le vennero offerte più scritture, cosa che denunciò durante il convegno “La donna nello sfruttamento della pornografia” organizzato nel 1980 dal Circolo della Stampa di Torino: è del 1983 il suo ultimo film “Corpi nudi”. Tornata in Jugoslavia, ne è fuggita durante la guerra civile degli anni Novanta per rientrare a Roma e sparendo totalmente dai radar.

Carlo Croccolo e Totò in uno dei tanti film girati insieme

Altro meta-linguaggio del film sono i titoli di testa, ma anche di coda, con Domenico Modugno che canta i nomi e i ruoli del cast artistico e tecnico: un momento unico nella cinematografia, su musica di Ennio Morricone che cura l’intera colonna sonora che è stata pubblicata in CD solo nel 2006. Fra le altre curiosità va segnalato che il corvo sono in realtà tanti corvi diversi, e tutti sembravano voler cavare gli occhi solo a Totò, chissà forse avvertendo la sua cecità. Di fatti il principe era ormai pressoché cieco da anni e già dal 1957 il suo doppiatore ufficiale, che aveva scelto personalmente, era Carlo Croccolo; doppiaggio che avveniva per le scene girate in esterno, dove non era possibile coi mezzi del tempo avere una traccia sonora di buona qualità e dunque Totò, non potendo leggere il copione in sala di doppiaggio dovette ricorrere a un sostituto; differentemente, le scene girate in interno avevano una buona traccia sonora, seguendo la quale l’attore poteva doppiarsi da solo, e l’apporto di Carlo Croccolo era talmente calzante che non ci siamo mai accorti delle differenze. Anche per “Uccellacci e uccellini” Carlo Croccolo si offrì di proseguire nel suo impegno di doppiatore ufficiale ma Pasolini, forse con l’intento di togliere Totò dalle sue comfort zone per stimolarne la creatività, gli preferì Oreste Lionello. Il film piacque molto alla critica ma non al pubblico, tanto che rimane il film di Totò coi minori incassi. Disponibile su YouTube.

Mamma Roma

Per il suo secondo film Pier Paolo Pasolini alza il tiro e inserendo nel suo immaginario la diva Anna Magnani scrive per lei un personaggio inedito, come scrisse Antonello Trombadori, in cui ammorbidisce la traccia scandalosa di quella sua narrativa da cui ha tratto l’opera prima “Accattone” e a cui si è ispirato il film “Una vita violenta”. Ancora una volta esplora la periferia romana coi suoi borgatari sempre pronti all’illecito e alla scelleratezza, ma al centro del racconto ora c’è una prostituta di mezza età che lascia il mestiere e recupera il figlio adolescente dato a balia a Guidonia, comune a nord-est della capitale, all’epoca centro campagnolo abitato da burini secondo la visione romanocentrica. Essendo protagonista Anna Magnani – è già premio Oscar 1956 per “La Rosa Tatuata” di Daniel Mann e non si contano tutti gli altri riconoscimenti – la sua Mamma Roma non può che essere una donna schietta e di buon cuore, esuberante sia come personaggio che come attrice, e sul set di Pasolini porta, insieme alla spiccata romanità, una grande presenza scenica che è un misto di magnetismo e professionalità, e a tal proposito è esemplare l’inizio del film dove al matrimonio del suo pappone dà il via agli stornelli sberleffo che improvvisano su “fior di…” e cambiando il fiore di volta in volta cambia la rima e il contenuto della strofa: da antica frequentatrice di rumorosi palcoscenici d’avanspettacolo, prima di cominciare fa una brevissima pausa saliente aspettando che tutti i burini alla tavolata facciano silenzio: zitti tutti parla la Magnani!

MAMMA ROMA
Fior de gaggia,
quando canto io canto con allegria,
ma se io dico tutto rovino ‘sta compagnia!
CARMINE
Fiore de sabbia,
tu ridi, scherzi, fai la santa donna,
e invece in petto schiatti da la rabbia.
MAMMA ROMA
Fiore de menta,
fèrmete lingua, chè ce sta n’innocente:
è mejo che nun veda e che nun senta!
SPOSA
Fior de cocuzza,
‘na donna per ‘sti baffi andava pazza,
e adesso che li perde ce va in puzza!
MAMMA ROMA
Fiore de merda,
io me so’ libberata da ‘na corda,
adesso tocca a ‘n’altra a fà la serva!

E finalmente l’autore può scrivere per lei dei bei monologhi in quel romanesco a cui sempre collabora Sergio Citti, lasciando al coro dei borgatari le solite battute colorite e riservando al personaggio del figlio coprotagonista un’attenzione più cinematograficamente fatta di immagini mentre lo segue, e quasi lo spia amorevolmente, per pratoni e distese desolate. In questo ruolo fa debuttare il 15enne (17enne nel film) Ettore Garofolo che scopre mentre serve ai tavoli di un ristorante e al cui personaggio dà il suo stesso nome, di fatto disegnandoglielo addosso, e il ragazzo risulta più convincente – con la sua voce in presa diretta – di quanto non sia stato l’altro debuttante, Franco Citti, qui munito di baffo malandrino e messo nel ruolo secondario ma significativo di Carmine, il protettore dell’anziana prostituta. Nel cast torna Silvana Corsini nell’interessante ruolo di una ragazza maliziosa, leggera nel comportamento ma soprattutto nello spirito, forse un po’ tarda e allegramente inconsapevole di prostituirsi anche per dei ciondoli da nulla, che allegramente accetta il sesso di gruppo molto simile a una violenza. Un altro ruolo di rilievo, la prostituta Biancofiore, va a Luisa Loiano, altra frequentazione pasoliniana, un volto assai somigliante alla siciliana Daniela Rocca. Dalla famiglia Citti stavolta è il momento del padre, Santino Citti come padre della sposa che è Maria Bernardini. L’ex protagonista di “Ladri di biciclette” di De Sica, Lamberto Maggiorani, fa qui la figurazione di un malato all’ospedale.

Come in “Accattone” per l’accompagnamento musicale Pasolini usa la musica classica barocca che crea un interessante contrasto con la povertà delle sue borgate, ma qui la vera colonna sonora è la canzone “Violino tzigano” di Bixio-Cherubini nella versione cantata dal bambino spagnolo Joselito, il cui 45 giri è il preferito da Roma Garofolo. Sul piano visivo, benché Pasolini abbia contestato gli ovvi accostamenti, è evidente che per la tavola a U degli sposi a inizio film si sia ispirato a “Le nozze di Cana” di Paolo Veronesi spogliandola del fasto e della scenografia, mentre per il ragazzo morente nel finale, inquadrato dai piedi, ancora più esplicito è il riferimento è “Il Cristo morto” di Andrea Mantegna.

In concorso al Festival del Cinema di Venezia, non vince niente ma neanche crea lo scandalo dell’opera prima: pubblico e critica sanno già cosa aspettarsi e c’è la curiosità di vedere la Magnani che percorre le periferie di Pasolini, il quale per la prima volta fa muovere la macchina da presa e inventa per lei due belle lunghe carrellate all’indietro con l’attrice che procede dritta e spavalda verso la cinepresa mentre dal buio della notte entrano ed escono dal campo visivo e si accompagnano a lei per un tratto, succedendosi gli uni agli altri, le figure tipiche di quelle notti e di quell’ambiente che Pasolini ben conosce e frequenta, fatto di prostitute, ragazzotti sfaccendati, omosessuali effeminati: un momento di cinematografia da antologia. Ma la critica non si smentisce e attacca il film concentrandosi su Pasolini che avrebbe dovuto continuare a fare il poeta senza immischiarsi nel cinema, e sulla Magnani troppo esuberante e indomabile per quel regista di poca o nulla esperienza, consegnando ai posteri un film giudicato “indecoroso” e vietato stavolta solo ai minori di anni 14.

Su quello che succedeva sul set rimane preziosa la testimonianza dell’aiuto regista Carlo Di Carlo che ha redatto giorno per giorno il “Diario di lavorazione del film Mamma Roma” e lascia note preziose sulla recitazione, quella voluta dall’autore in contrasto con quella con cui era abituata ad esprimersi l’attrice: “La Magnani è di un altro umore, ora che si è “rodata” e si è intesa con Tonino (Tonino Delli Colli, direttore della fotografia). Ha indovinato le luci per il suo naso, che lei chiama “la sciabola”. Seguita però a discutere con Pier Paolo perché insiste a farle recitare le battute staccate e mai unite. Mai una scena intera. Dice che “recita” e non è naturale come la vuole lui, girando in questo modo inconsueto. L’odio, la rabbia, l’umore, insomma, improvviso e secco – com’è richiesto dal copione – non può essere “estratto” battuta per battuta. Ma Pasolini insiste. Le discussioni seguiteranno anche nei giorni a venire e Anna alla fine prenderà l’abitudine e ne sarà contenta.” Questo tipo di lavoro si vede nei dialoghi che Pasolini gira con l’alternanza dei primi piani, botta e risposta, senza costruire mai una vera e propria fluida conversazione fra i due interpreti. Questo dice molto sul Pasolini regista, che sapeva quello che voleva e sapeva tenere testa anche a cotanta Magnani che di sé soleva dire con allegra arroganza: “Io so’ a Magnani, embè?”

Anche Pasolini teneva un suo diario, il “Diario al registratore” dove registrava le conversazioni, e trascrive:
Anna: “Io ho capito benissimo che tu funzioni con degli attori che prendi e plasmi come una materia grezza. Essi, pur con la loro intelligenza istintiva, sono dei robot nelle tue mani. Ora, io non sono un robot.”
Io: “Ma questo è una difficoltà che io avevo calcolato, Anna. Amalgamare te con gli altri era il problema principe del mio nuovo lavoro di regista: ne avevo piena coscienza all’inizio del film. Non sarebbe meglio, su questo, essere reticenti?”
Anna: “No, io credo che occorra avere dei piccoli conflitti di chiarificazione. La via d’intesa tra due persone intelligenti si trova sempre. Altrimenti io ho la sensazione di funzionare senza avere la coscienza di quello che faccio; invece io ho bisogno, assoluto, di avere questa coscienza.”
Più avanti lui confermerà: “In realtà dopo un giorno soltanto, e non più, di crisi, i rapporti tra me e lei sono corsi via lisci, limpidi, leali”.
Se ne deduce che entrambi scesero a compromessi nel rispetto reciproco, arricchendosi entrambi nell’esperienza e arricchendo la storia della nostra cinematografia.

Vale la pena ripercorrere le tappe che hanno segnato l’incontro e la collaborazione fra i due. 1945, a Udine si proietta il film “Roma città aperta” di Roberto Rossellini e il 23enne Pier Paolo percorre in bicicletta 40 km da Casarsa per andare a vederlo. Film che rivedrà nel ’53 quando già si è trasferito a Roma e stavolta si compenetra talmente che ci scrive anche dei versi, che lui stesso leggerà durante una delle tante premiazioni dell’attrice.

Ma che colpo al cuore quando, su un liso
cartellone… Mi avvicino, guardo il colore
già d’un altro tempo, che ha il caldo viso
ovale dell’eroina, lo squallore
eroico del povero, opaco manifesto.
Subito entro: scosso da un interno clamore,
deciso a tremare nel ricordo,
a consumare la gloria del mio gesto.
Entro nell’arena, all’ultimo spettacolo,
senza vita, con grigie persone,
parenti, amici, sparsi sulle panche,
persi nell’ombra in cerchi distinti
e biancastri, nel fresco ricettacolo…
Subito, alle prime inquadrature,
mi travolge e rapisce… l’intermittence
du coeur. Mi trovo nelle scure
vie della memoria, nelle stanze
misteriose dove l’uomo fisicamente è altro,
e il passato lo bagna col suo pianto…
Eppure, dal lungo uso fatto esperto,
non perdo i fili: ecco… la Casilina,
su cui tristemente si aprono
le porte della città di Rossellini…
Ecco l’epico paesaggio neorealista,
coi fili del telegrafo, i selciati, i pini,
i muretti scrostati, la mistica
folla perduta nel daffare quotidiano,
le tetre forme della dominazione nazista…
Quasi emblema, ormai, l’urlo della Magnani,
sotto le ciocche disordinatamente assolute,
risuona nelle disperate panoramiche,
e nelle sue occhiate vive e mute
si addensa il senso della tragedia.
è lì che si dissolve e si mutila
il presente, e assorda il canto degli aedi.

Nel 1960 lui prepara per “Il reporter” un articolo sulla comicità degli attori italiani, e tornerà a riflettere su Anna Magnani che assimila, per la romanità, ad Alberto Sordi. Ma dicendo che le qualità artistiche dell’attrice erano state negli anni svuotate di senso e travisate. Scrive: “Eppure la Magnani ha avuto tanto successo, anche fuori d’Italia: il suo «particolarismo» è stato subito compreso, è diventato subito, come si usa dire, universale, patrimonio comune di infiniti pubblici. Lo sberleffo della popolana di Trastevere, la sua risata, la sua impazienza, il suo modo di alzare le spalle, il suo mettersi la mano sul collo sopra le zinne, la sua testa scapijata, il suo sguardo di schifo, la sua pena, la sua accoratezza: tutto è diventato assoluto, si è spogliato del colore locale ed è diventato merce di scambio, internazionale. È qualcosa di simile a quello che succede per i canti popolari: basta trascriverli, aggiustarli un po’, toglierci la selvatichezza e l’eccessivo sentore di miseria, ed eccoli pronti per lo smercio a tutte le latitudini.”

Dunque anche in lei Pasolini tentava di difendere quella naturalezza che tanto amava nei non professionisti e la stava avvertendo sul rischio di omologazione. E torna a omaggiarla quando è chiamato a collaborare alla realizzazione del volume “Donne di Roma”: “Dall’aria di sfida di Anna, può nascere qualsiasi cosa: ma quello che ci si aspetta sempre, comunque, è che canti. Uno stornello. Di quello vecchi, appena rinnovato da qualche allegra invenzione, e che finisce ridendo. Lei non può che esprimersi cantando, perché ciò che ha da esprimere è una cosa indistinta e intera: la pura vita, sua, e delle generazioni di donne romane che sono state al mondo prima di lei.”

1961, si proietta a Venezia “Accattone” con tutto quel che segue. Alla prima Anna Magnani è fra gli spettatori e in seguito dichiarerà: “Pasolini è un poeta. Mi è bastato vedere Accattone per convincermene. Uno che al primo film riesce a scrivere in quel modo con la macchina da presa, come regista dà tutte le garanzie.” tanto che uscendo dalla sala, ancora esaltata dalla visione, va di corsa dal produttore Alfredo Bini per dirgli: “Mi devi far fare un film con Pier Paolo!” e c’è da ricordare che era ferma da due anni dopo “Risate di gioia” con Totò di Mario Monicelli, film non riuscito, e ora era attentissima alle proposte per non rovinarsi la carriera. Pasolini, che aveva già cominciato a scrivere il film, quando il produttore gli riferì dell’interesse della Magnani ne fu assai felice, dirà più avanti: “Non potevo sperare una protagonista migliore. Nel mondo ci sono cinque o sei attori veramente grandi. Una è Anna Magnani.” anche se Alfredo Bini aveva in realtà della perplessità: “Speravo che Anna Magnani non facesse Mamma Roma perché era come un wurstel su una torta di panna o una ciliegina su un goulash. Ma Pasolini si era fissato con lei. Così andai a trovarla e le dissi che se voleva fare quel film, doveva lavorare gratis, con un 20 per cento sugli utili. All’inizio, urlò e se la prese col suo agente per l’affronto della proposta. Me ne andai convinto che la faccenda fosse archiviata e invece il giorno dopo lei mi chiamò per dirmi che accettava.”

Ancora Pier Paolo su Nannarella: “La vedevo distratta: continuava a fissare una chitarra appesa al muro. “Chi la suona?”, chiedeva ogni tanto al cameriere. E il ragazzo, intimidito dal fatto di trovarsi di fronte l’attrice, non le rispondeva. Ad un tratto chiese che gliela portasse, e cominciò, accompagnandosi con quel povero strumento da trattoria, a modulare impercettibilmente, a fior di labbra, melodie napoletane e siciliane: non ho mai sentito cantare con maggior dolcezza e delicatezza. È questa Magnani assolutamente nuova che voglio portare sullo schermo in Mamma Roma, il mio secondo e ultimo film d’ambiente romano.”

Il suo prossimo impegno cinematografico sarà il cortometraggio “La ricotta” dal film a episodi “Ro.Go.Pa.G.” il cui titolo mette insieme le lettere iniziali dei registi: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti. E le sue citazioni figurative saranno più esplicite.

Accattone – opera prima di Pier Paolo Pasolini

Per il suo debutto come regista cinematografico Pier Paolo Pasolini scrive una sceneggiatura che è il compendio dei suoi precedenti romanzi, per i quali, sia i romanzi che questa sceneggiatura, si avvale del fondamentale aiuto del romanissimo Sergio Citti per il glossario romanesco, perché lui era cresciuto in Friuli (ma nato a Bologna) e aveva esordito ventenne come poeta proprio con un libretto in versi friulani, “Poesie a Casarsa”, amato luogo della sua infanzia, ancora prima di laurearsi in Lettere con 110 e lode, a Bologna, dove era tornato per concludere gli studi. Intanto, mentre studiava, frequentava il cineclub dove si è appassionato ai film di René Clair, un cinema misto di realtà quotidiana abitata da gente comune e di una componente fantastica e onirica, tematiche che caratterizzeranno il cinema del futuro regista Pasolini.

Primo numero di Il Setaccio di cui Pasolini disegnò la copertina

Viveva già i suoi tormenti interiori di omosessuale in un’epoca e in un ambiente caratterizzato dagli uomini duri e puri di stampo fascista: siamo alla fine degli anni ’30. Nell’ambiente universitario comincia a frequentare il GUF, Gruppi Universitari Fascisti, i Campeggi della Milizia e, essendo un ottimo sportivo, le Competizioni Littoriali della Cultura. Aderì anche alla GIL, Gioventù Italiana del Littorio, che avviò la pubblicazione della rivista “Il Setaccio” di cui il ventenne Pasolini fu subito viceredattore, un viceredattore che entrò immediatamente in conflitto col direttore responsabile Giovanni Falzone che, benché la rivista si occupasse di arte, era molto ligio ai dettami del regime e usò la rivista come mezzo di propaganda, quella propaganda tanto a cuore ai vertici del Fascio. La rivista vivrà per soli cinque numeri.

Nell’autunno del 1942 aveva partecipato a un viaggio organizzato nella Germania nazista, affinché le gioventù universitarie dei paesi nazifascisti si potessero incontrare e confrontare – ma in Pasolini, che aveva già sviluppato una sua coscienza sociale, quell’esperienza lo condusse a riflessioni antitetiche a quelle del regime, e tornato a Bologna pubblicò sulla rivista del GUF l’articolo “Cultura italiana e cultura europea a Weimar” in cui si tracciava quello che sarà il Pasolini sempre controcorrente; e di seguito sul “Setaccio” cominciò a tracciare le linee di un programma culturale i cui principi erano quelli dello sforzo di autocoscienza e del travaglio interiore, sia individuale che collettivo, e di un’autonoma e sofferta sensibilità critica: un percorso che di fatto lo poneva già al di fuori del fascismo, ma che intimamente riecheggiava i suoi umani tormenti.

Il primo settembre del 1943 il ventunenne Pasolini fu chiamato alle armi, solo due giorni prima che l’Italia firmasse a Cassibile l’Armistizio con gli Alleati perdendo la guerra e voltando le spalle all’ex alleata Germania; ma essendo di fatto già un militare coscritto, il giovane era sottoposto alle regole dei combattenti, e appena una settimana dopo avere indossato la divisa si vide costretto a consegnare le armi agli ex alleati tedeschi: già allora, e come sempre nel corso della sua vita, Pasolini non consegnò le armi, non le consegnerà mai e vivrà sempre come sulle barricate, e all’epoca per non venire deportato si travestì da contadino tornando a rifugiarsi nella friulana Casarsa. Ma la guerra, coi suoi ultimi colpi di coda, portò una tragedia in casa Pasolini: Guido, il suo amato fratello minore che si era unito ai partigiani mentre in quel Nord Italia ancora resisteva la Repubblica di Salò, venne ucciso in quello che verrà ricordato come l’eccidio di Porzûs che verrà rievocato nel film del 1997 di Renzo Martinelli “Porzûs”. Nel 1947 Pier Paolo aderisce al Partito Comunista. Intanto si era conclusa la carriera militare del padre, che tornando da una prigionia in Kenya affetto da alcolismo e paranoie, oggi diremmo stress post traumatico da combattimento, renderà la vita difficile alla moglie e al figlio superstite al quale, lui che era stato orgogliosamente un militare fascista anche nella guardia personale di Mussolini, non perdona il voltafaccia comunista.

Nel ’49 ci fu il primo scandalo: Pier Paolo venne imputato per atti osceni in luogo pubblico avendo pagato tre ragazzi per una masturbazione collettiva, e la famiglia pagò ad ognuno centomila lire, circa due milioni e mezzo delle ultime lire in valuta di fine millennio, oppure circa mille e trecento euro attuali; ma poiché uno dei minorenni era anche minore di 16 anni, l’imputazione si aggravò in corruzione di minore, ma non essendo sopravvenuta la denuncia della famiglia dell’interessato l’accusa decadde. Ma l’infamia restò: il PCI lo espulse “per indegnità morale e politica” e, come previsto in quei casi, fu anche sospeso dall’insegnamento, professione che aveva fin lì esercitato con competenza e passione. A quel punto non gli rimaneva che l’esilio, o la fuga.

Nel 1950 si trasferisce a Roma con la madre e per le ristrettezze economiche la donna va a lavorare come cameriera. Lui trovò lavoro come insegnante in una scuola privata a Ciampino e per arrotondare andò a fare la comparsa a Cinecittà. Riprese a riscrivere i suoi lavori incompiuti, “Atti impuri” “Amado mio” e “La meglio gioventù”, ma soprattutto cominciò la stesura di “Ragazzi di vita” ispirato dalle conoscenze che via via faceva ora che stava cominciando a vivere con accettazione l’omosessualità, e con un nuovo complice amico, il poeta Sandro Penna, andava su e giù per il lungotevere in passeggiate notturne in cerca di avventure clandestine; fu così che conobbe un giovane imbianchino che, per il suo coloritissimo romanesco, lui elesse a suo dizionario vivente: si chiamava Sergio Citti.

Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano
di Pier Paolo Pasolini

Li osservo, questi uomini, educati
ad altra vita che la mia: frutti
d’una storia tanto diversa, e ritrovati,
quasi fratelli, qui, nell’ultima forma
storica di Roma. Li osservo: in tutti
c’è come l’aria d’un buttero che dorma
armato di coltello: nei loro succhi
vitali, è disteso un tenebrore intenso,
la papale itterizia del Belli,
non porpora, ma spento peperino,
bilioso cotto. La biancheria, sotto,
fine e sporca; nell’occhio, l’ironia
che trapela il suo umido, rosso,
indecente bruciore. La sera li espone
quasi in romitori, in riserve
fatte di vicoli, muretti, androni
e finestrelle perse nel silenzio.
È certo la prima delle loro passioni
il desiderio di ricchezza: sordido
come le loro membra non lavate,
nascosto, e insieme scoperto,
privo di ogni pudore: come senza pudore
è il rapace che svolazza pregustando
chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
essi bramano i soldi come zingari,
mercenari, puttane: si lagnano
se non ce n’hanno, usano lusinghe
abbiette per ottenerli, si gloriano
plautinamente se ne hanno le saccocce piene.
Se lavorano – lavoro di mafiosi macellari,
ferini lucidatori, invertiti commessi,
tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
manovali buoni come cani – avviene
che abbiano ugualmente un’aria di ladri:
troppa avita furberia in quelle vene…
Sono usciti dal ventre delle loro madri
a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
preistorici, e iscritti in un’anagrafe
che da ogni storia li vuole ignorati…
Il loro desiderio di ricchezza
è, così, banditesco, aristocratico.
Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
a vincere l’angosciosa scommessa,
a dirsi: “È fatta,” con un ghigno di re…
La nostra speranza è ugualmente ossessa:
estetizzante, in me, in essi anarchica.
Al raffinato e al sottoproletariato spetta
la stessa ordinazione gerarchica
dei sentimenti: entrambi fuori dalla storia,
in un mondo che non ha altri varchi
che verso il sesso e il cuore,
altra profondità che nei sensi.
In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.

Da lì in poi, coi suoi primi successi nonché scandali letterari, Pasolini divenne una figura centrale della cultura italiana e si avviò anche alla scrittura cinematografica collaborando alla sua prima sceneggiatura nel 1955 per il film “Il prigioniero della montagna” dell’altoatesino Luis Trenker. Seguono le collaborazioni a “Marisa la civetta” di Mauro Bolognini e “Le notti di Cabiria” di Federico Fellini, esperienze fondamentali per la sua futura discesa in campo come regista cinematografico: arriva il momento di “Accattone”. In realtà aveva già scritto una sua sceneggiatura con la quale pensava di debuttare come regista, “La commare secca”; ma per gli impegni professionali, altre sceneggiature e articoli, collaborazioni e attivismo politico, passò il progetto al figlio del poeta suo sostenitore Attilio Bertolucci, il giovane Bernardo Bertolucci, che gli farà da assistente alla regia sul set di questo “Accattone” e che aiuterà a debuttare come regista già l’anno dopo.

Propose il soggetto alla casa di produzione Federiz che il suo amico Federico Fellini aveva fondato con Angelo Rizzoli; Fellini con “Le notti di Cabiria” alla cui sceneggiatura Pasolini aveva collaborato, aveva appena vinto l’Oscar come miglior film straniero. La neo casa produttrice chiese a Pasolini di girare un paio di scene di prova, che non piacquero a Rizzoli e men che meno all’altro socio Clemente Fracassi più angosciato dai numeri che dalle visioni artistiche; ma fu Fellini a dover dire di no a Pasolini: “Fui costretto a dire Pier Paolo non la verità, ma che era meglio aspettare ma lui, intelligente com’era, capì che c’erano resistenze anche da parte mia, cosa non vera, e sorridendo con un po’ di mestizia mi disse: “Certamente non posso fare del cinema come lo fai tu”. Per fortuna incontrò subito Alfredo Bini e il loro sodalizio funzionò. Cercai di farmi perdonare quella presa di distanza, apprezzai persino esageratamente il film e soprattutto mi diedi di fare perché venisse liberato dal blocco della censura. Pasolini scrisse in quell’occasione un articolo sul “Giorno” in cui raccontava tutta la storia con onestà, con molta acutezza e anche con un po’ di umorismo, che non era da lui. In quell’articolo fui da lui battezzato come “l’elegante vescovone” per il modo in cui, con grande imbarazzo, gli diedi la notizia negativa sul film.Mi rimane il rimpianto di non averlo visto più spesso, di non aver approfittato della sua generosità, della sua cultura. E poi, forse, mi illudo, se c’era qualcuno con cui confidarsi, credo che con me l’avrebbe fatto volentieri, probabilmente soltanto per stupirmi. O anche per tentare, come qualche volta è successo, di avere un punto di vista diverso dal suo, che in qualche mondo gli si presentava sempre più atroce, indecifrabile, minaccioso. Una volta mi disse: “la verità è che tutto è caos”, ma in contrasto con questa frase che mi colpì per la sincerità beffarda che conteneva, c’era l’accettazione rassegnata e sconfitta. Aveva una sorta di dolcezza ferita che suggeriva quel fascino misterioso e segreto che ho sempre immaginato avesse Kafka.” Da un’intervista del 1992 di Rita Cirio per L’Espresso.

Così si rivolge al produttore Alfredo Bini che aveva appena debuttato come produttore di “Il bell’Antonio” dal romanzo di Vitaliano Brancati, diretto da Mauro Bolognini e sceneggiato da Pasolini, e il film finalmente si fa secondo la visione del neoregista: molti primi piani, prevalenza dei personaggi sul paesaggio e soprattutto grande semplicità. Nel ruolo del protagonista fece debuttare il fratello minore di due anni di Sergio Citti, Franco Citti, che subito a seguire girerà anche “Una vita violenta”; e se nella sua seconda interpretazione il non-attore è già più a suo agio, in questo debutto risulta davvero impacciato e come tutti gli altri interpreti presi dalla strada corre le battute senza neanche pensarle, a pappagallo, buttandole via nella fretta di liberarsene come accade a chi è impegnato in un progetto che supera le sue capacità e anche la sua comprensione. Fu doppiato da Paolo Ferrari così come Monica Vitti, già uscita dall’anonimato con “L’avventura” di Michelangelo Antonioni, doppia la moglie del protagonista, rendendo di fatto traballante la visione di Pasolini (ma non soltanto sua) secondo cui solo i non-professionisti potevano interpretare sé stessi, perché soggetti incontaminati, puri, privi delle sovrastrutture imposte dalla società: ma se bisogna ricorrere a dei professioni per farli parlare, quanto si mantiene di quella purezza e quanto si può parlare di interpretazione? penso alle vere interpretazioni neorealiste di Lamberto Maggiorani in “Ladri di biciclette” 1948, e Carlo Battisti in “Umberto D.” del 1952 entrambi diretti da Vittorio De Sica, che evidentemente sapeva come dirigere gli attori e insegnare a recitare ai non professionisti. Il meritevolissimo lavoro di Pasolini consiste soprattutto nella scrittura del film, esplosiva per l’epoca, e nella sua realizzazione precisa e pulita, senza voli pindarici stilistici; ma non essendo un attore si limita a mettere in bocca ai suoi borgatari le battute, passando al doppiaggio dove non si poteva fare altrimenti.

Il film fu presentato alla Mostra di Venezia dove ebbe un’accoglienza tempestosa, e a seguire fu il primo film italiano a essere vietato a minori di anni 18. Alla prima romana al cinema Barberini, un gruppo di neofascisti interruppe la proiezione aggredendo gli spettatori con lanci di bombette carta e di finocchi, vandalizzando la sala e arrivando a lanciare bottiglie di inchiostro sullo schermo – dando ragione a Pasolini che così li descriveva. All’uscita nelle sale di tutto il territorio nazionale, il film fu bloccato dalla censura e tutte le copie ritirate. La critica si divise ma in massima parte il film non piacque mentre in una proiezione parigina fu molto apprezzato da Marcel Carné; a seguire vinse il Primo Premio per la Regia al Festival Internazionale del Cinema di Karlovy Vary, in Cecoslovacchia; inoltre Alfredo Bini vinse il Nastro d’Argento come miglior produttore, mentre Franco Citti vinse il Laceno d’Oro al Festival del Cinema Neorealistico e l’inglese BAFTA – a dispetto del mio parere sulla sua recitazione. Nel resto del cast le non professioniste che continueranno a lavorare con Pasolini: Franca Pasut e Silvana Corsini, l’eclettica professionista Adriana Asti che sul set allacciò una relazione con Bernardo Bertolucci più giovane di lei di dieci anni, l’amica scrittrice Elsa Morante che si presta nella figurazione di una detenuta che legge fotoromanzi, e in ruoli minori lo stesso Sergio Citti come cameriere del ristorante sul barcone e il fratello più piccolo Silvio Citti nel naturale ruolo di fratello minore del protagonista. Il resto della masnada di borgatari sono volti che torneranno nel cinema pasoliniano. Archiviata questa sua prima avventura cinematografica, Pier Paolo Pasolini si ritira in una villa al Circeo, ospite di un’amica, per scrivere con Sergio Citti la sceneggiatura del suo secondo film “Mamma Roma” pensando ad Anna Magnani come protagonista.

Il film è disponibile su YouTube.

Una vita violenta – nel centenario della nascita di Pasolini

Quasi tutti conoscono, anche solo per sentito dire, almeno un titolo della filmografia di Pier Paolo Pasolini, ma quasi nessuno conosce questo film tratto dal suo secondo successo letterario omonimo. Il primo era stato “Ragazzi di vita” pubblicato nel 1955 e subito accusato di oscenità perché parlava di prostituzione maschile, nonostante la costituzione della neonata repubblica italiana, entrata in vigore nel 1948, l’immediato dopoguerra, tutelasse nell’articolo 21 la libertà di espressione, che nella società civile era però ancora assai lontana dall’essere rispettata e applicata.

Testo dell’articolo 21 della costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili. In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all’autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s’intende revocato e privo d’ogni effetto. La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica. Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.

Nel 1959, sempre con Garzanti, Pasolini pubblica “Una vita violenta” come sorta di seguito ideale del suo primo romanzo dove erano protagonisti degli adolescenti borgatari romani che nell’immediato dopoguerra vivono di espedienti, non ultima la prostituzione omosessuale nonostante siano di fatto degli eterosessuali. Nel secondo romanzo continua il discorso che gli sta a cuore: i ragazzi di borgata, gli stessi che animano le sue tormentate fantasie erotiche personali, e la vicenda si concentra su un solo protagonista ventenne, più o meno della stessa età in cui erano stati lasciati i ragazzi di vita a fine romanzo. Prima di andare in stampa, forte dell’esperienza precedente, l’editore spinge Pasolini a smussare alcuni passaggi più scabrosi e politicamente più pericolosi, dato che adesso l’autore descrive la parabola politica del protagonista: dapprima fascista per ignoranza e simpatie amicali: un gruppetto di teppisti delinquenti dediti a furti e rapine e violenze; poi democristiano quando la sua famiglia riceve la casa popolare; infine comunista, dapprima per simpatia verso i manifestanti che subiscono le violenze della polizia, nemica comune, poi via via attraverso una reale presa di coscienza politica e sociale.

Il film, uscito nel 1962, è stato girato l’anno precedente su sceneggiatura dello stesso Pasolini insieme a Franco Solinas e alla coppia dei registi Paolo Heusch e Brunello Rondi. Non potendo attingere a notizie certe posso supporre che Pasolini, che già l’anno prima aveva esordito come regista con “Accattone”, non abbia curato anche la regia di questo film perché preso dalla sceneggiatura, e poi dalla lavorazione, del suo secondo film: “Mamma Roma”: troppa carne al fuoco tutta insieme. Consulente per il lessico, come anche nei romanzi, è il romanissimo Sergio Citti (più avanti anche regista) che aveva appena collaborato ai dialoghi di “La giornata balorda” di Mauro Bolognini, e che sarà anche sceneggiatore di “La commare secca” film d’esordio di Bernardo Bertolucci da un soggetto di Pasolini: un momento d’oro per la cinematografia italiana allora inconsapevole di quali grandi personalità stessero entrando in gioco.

Come in “Accattone” è protagonista del film Franco Citti, fratello di Sergio, un manovale borgataro scoperto da Pasolini che diverrà, assieme a Ninetto Davoli, uno dei suoi attori feticcio: un interprete efficace nel rifare sé stesso e i personaggi che provengono dal suo stesso mondo, ma certamente non un interprete a tutto tondo che si mostra debole quando deve esprimere sentimenti espressivamente più estremi come il dolore e l’innamoramento; ma secondo la poetica pasoliniana solo i veri borgatari potevano interpretare sé stessi. La ragazza di cui si innamora e per la quale pensa di mettere la testa a posto è interpretata dalla milanese Serena Vergano, figlia del regista Aldo Vergano che fu fra i maggiori realizzatori del cinema detto dei telefoni bianchi e il cui film più acclamato è il neorealista “Il sole sorge ancora” del 1946, uno dei più importanti film sulla Resistenza. Il professionista Enrico Maria Salerno, attivissimo in quegli anni anche con cinque film l’anno, tratteggia il piccolo ma significativo ruolo dell’attivista comunista che apre al protagonista le nuove prospettive.

Dirige la coppia Heusch-Rondi come da manifesto cinematografico. Paolo Heusch, romanissimo nonostante il cognome, fu e resterà una figura secondaria della nostra cinematografia, cui si deve però il primo film di fantascienza italiano: “La morte viene dallo spazio” del 1958. Brunello Rondi, al suo debutto come regista, è un più affermato sceneggiatore e drammaturgo, che negli anni precedenti aveva dato alle scene un paio di suoi copioni con l’interpretazione proprio di Enrico Maria Salerno diretto da Orazio Costa. Il film si inserisce di diritto nel filone neorealista ed è un ottimo film che andrebbe recuperato e rivalutato giacché i critici contemporanei lo snobbarono, anche perché influenzati dalle polemiche sorte intorno al romanzo. Vale vederlo anche come documento di quell’epoca: per come un ragazzo si approcciava a una ragazza, che le dava del lei e dopo un paio di uscite parlavano già di matrimonio, mentre oggi non si parla di matrimonio neanche dopo anni di convivenza; ma soprattutto per quello che nella sceneggiatura è stato tolto dal romanzo, ovvero la prostituzione omosessuale, perché in quegli anni era un argomento ritenuto assai più osceno della violenza sessuale su una ragazza, che pure è mostrata nel film in pochi fotogrammi di stile espressionista: la cultura dell’epoca consentiva il racconto della violenza su una donna ma non il racconto della degenerazione sessuale del maschio italiano, lo stesso che fino a un paio di decenni prima era stato fascistamente definito italico. Il cinema nel cinema cita l’impegnato “Il generale Della Rovere” di Roberto Rossellini con Vittorio De Sica, del 1959, di cui i fascisti strappano il manifesto, e la commedia scollacciata “Pesci d’oro e bikini d’argento” di Carlo Veo del 1961, che stuzzica le fantasie dei borgatari che vorrebbero tirare giù dal manifesto le bellezze in scandaloso bikini. Interessanti anche gli scorci della periferia romana, quella con la baraccopoli da terzo mondo, come diremmo oggi, e quella del boom edilizio di San Basilio, insieme ai quartieri storici della periferia estrema Pietralata e Garbatella. Un film, che insieme a “Una giornata balorda” e “La commare secca” di quegli anni, su cui aleggia lo spirito pasoliniano, consentono una full immersion in una Roma che non c’è più. Il film è integralmente disponibile su YouTube.