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Palazzina Laf – opera prima di Michele Riondino

Con l’opera prima di Michele Riondino ritorna il cinema di impegno civile, quello che negli anni Sessanta e Settanta vide dietro la macchina da presa autori come Francesco Rosi, Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, per dire i primi che mi vengono in mente: cinematografia che aveva una sua ragione d’essere scoprendo come racconto la denuncia sociale e le malefatte del potere, cinema che in quegli anni si proponeva come alternativa alla commedia all’italiana; cinematografia che non ha mai smesso di esistere e che si è ravvivata in questi ultimi due decenni dei Duemila.

Il tarantino Riondino, trasferitosi a Roma per frequentare l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, è uno di quei fortunati che ce l’hanno fatta in un ambiente in cui la fortuna conta più del talento: e lui il talento ce l’ha, insieme a un suo discreto fascino che certo non guasta. Accumula candidature ai premi ma afferra solo il Premio Guglielmo Biraghi assegnato dai giornalisti per “Dieci inverni” del 2009 del debuttante Valerio Mieli. Fino a questi David di Donatello 2024 in cui è ovviamente candidato come regista debuttante accanto a Beppe Fiorello per “Stranizza d’amuri”, Micaela Ramazzotti per “Felicità” e Paola Cortellesi che con “C’è ancora domani” porta via il premio, come da previsioni; al suo film vengono però assegnati due premi di peso: quello per il miglior protagonista a lui personalmente e quello per il non protagonista a Elio Germano, oltre alla miglior canzone originale a Diodato (Antonio) anche lui tarantino benché nato ad Aosta, ma si sa che la gente del sud si sposta molto.

Non sorprende il debutto socialmente impegnato di Riondino: a Taranto è nel “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” nato nel 2012 per puntare l’attenzione pubblica sui problemi tarantini legati all’occupazione e all’Ilva nello specifico, comitato che organizza in città il concertone del 1° maggio chiamato “Uno maggio Taranto libero e pensante” di cui il nostro è da qualche anno anche direttore artistico insieme a Diodato, guarda un po’, e il trombettista siracusano (di Augusta) Roy Paci. La sceneggiatura che Riondino ha scritto insieme al napoletano Maurizio Braucci che non è l’ultimo arrivato: “Gomorra” e “Reality” di Matteo Garrone, “Pasolini” e “Padre Pio” di Abel Ferrara, “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, “Martin Eden” di Pietro Marcello, per ricordare i film più noti alla cui scrittura ha partecipato; “Palazzina Laf” dove il LAF e l’acronimo di “laminatoio a freddo” che è lo stabilimento accanto alla palazzina in questione, si ispira al romanzo di un altro tarantino, Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore decisamente impegnato sul fronte sociale, che in “Fumo sulla città” ha raccontato le malefatte nell’Ilva del Gruppo Riva che l’aveva acquisita nel 1995 quando l’impresa parastatale fu privatizzata; disgraziatamente lo scrittore è morto all’improvviso poco prima di poter prendere parte alla scrittura del film, che nei titoli di coda gli è dedicato: aveva 40 anni.

Alessandro Leogrande

L’anno dopo la capitale albanese Tirana gli ha intitolato una via del centro riconoscendogli l’impegno che lo scrittore profuse a quella nazione col suo libro-inchiesta “Il naufragio” nel quale ha raccontato l’affondamento della Kater I Rades in cui perirono 81 persone dei 120 migranti, per lo più famiglie con bambini, che nel 1997 si erano imbarcati per raggiungere le coste pugliesi ma la nave fu speronata accidentalmente da una corvetta della nostra Marina Militare impegnata in una manovra di respingimento.

Il film, che non possiamo dire biografico perché è a tutti gli effetti un racconto di finzione, pone il punto di vista di un operaio (Riondino) cooptato da un dirigente (Germano) che in cambio di fittizie fugaci e ingannevoli regalie introduce come sua spia nella palazzina in cui venivano confinati gli impiegati di concetto che si erano opposti alla “novazione” del contratto, ovvero l’illegale declassamento a operai, pratica oltremodo pericolosa per persone che non avevano la preparazione specifica per stare ai macchinari: fatti reali, personaggi fittizi.

Film solido e decisamente diretto con mano ferma e felice, ma a tratti poco accattivante: senza voler diventare rigoroso documentario si fa veicolo per due belle interpretazioni ma la scrittura, scegliendo questa via, avrebbe dovuto essere più generosa con gli attori inserendo un paio di quelle necessarie (a mio avviso) scene madri, monologhi o scene forti, che gratificano gli interpreti e strizzano l’occhio al pubblico – che essendo il fruitore finale e principale va in qualche modo assecondato: a tal proposito basta fare il confronto con le altre opere prime in gara a cominciare dal furbissimo film della Cortellesi che giustamente trionfa. E difatti quest’opera prima di Riondino, rispettabilissima e molto apprezzata dalla critica, è stata praticamente ignorata dal pubblico: ha incassato 750 mila euro in tutto. E se da un lato mi viene da dire “peccato” dall’altro penso “che serva da lezione”. È sbagliato anche o soprattutto il titolo: “Palazzina Laf” dice il contenuto del film ma non è accattivante quanto “C’è ancora domani” che dice il film ma incuriosisce, o “Stranizza d’amuri” o, paradossalmente, “Felicità” che invita a comprare il biglietto ma non racconta assolutamente il film, tradendo poi le aspettative del pubblico: altra trappola in cui non cadere perché il passaparola è determinante. Gli editori, quelli che fanno i libri, sanno quanto siano importanti il titolo e la copertina, e si impongono sempre sulla visione ristretta degli autori. Tornando al film, il titolo del romanzo “Fumo sulla città” sarebbe stato senz’altro più vincente dato che richiama “Mani sulla città” glorioso film di Francesco Rosi del 1963 sulla speculazione edilizia dell’allora boom economico.

Il camaleontico Elio Germano, sempre un passo avanti, era stato chiamato da Riondino per il ruolo dell’operaio protagonista, ma l’attore romano che qui recita in perfetto tarantino, ha scelto il ruolo dell’antagonista perché ha anche il talento di chi sa scegliere i ruoli e ha fatto centro, lasciando all’autore la patata bollente del protagonista che altrettanto fa un ottimo lavoro aggiudicandosi anche lui il premio, ma schivando di un filino il centro: il personaggio è un operaio abbastanza ignorante e anche un po’ ottuso, tanto da lasciarsi infinocchiare dal padrone, ma a Michele Riondino che lo interpreta alla perfezione rimane però, nel suo personale sguardo umano, una luce di intelligenza che il personaggio non ha: sto cercando il pelo nell’uovo, lo so. E qui di seguito mi lancerò in una sterile provocazione, tanto per fare pettegolezzo.

C’è un altro attore pugliese cui il neo autore avrebbe potuto rivolgersi: Riccardo Scamarcio, che rispetto a Riondino (gli è una decina d’anni più anziano) vive su un altro pianeta e di certo i due non sono amici. Si erano ritrovati insieme sul set dell’inutile remake Mediaset del 2006 del glorioso sceneggiato Rai “La freccia nera” da Robert Luis Stevenson allora diretto da Anton Giulio Majano che nel 1968 aveva lanciato Loretta Goggi e Aldo Reggiani, e nel remake lanciando Scamarcio che ne era protagonista accanto a Martina Stella che fece parlare di sé solo per il seno nudo; mentre Riondino aveva un ruolo secondario. Sono poi stati di nuovo insieme nell’infelice fiction Rai “Il segreto dell’acqua” sempre protagonista Scamarcio, Riondino in un ruolo di supporto.

Riondino e Scamarcio si fronteggiano sul set

Diciamola tutta: i due non si sopportano. Avevano già fatto a botte, per finta sul set, beninteso, quando entrambi recitavano gli studenti nella serie Rai “Compagni di scuola” e su richiesta di Riondino la cosa si è ripetuta, sempre per finta, per carità, sul set di questo “Il segreto dell’acqua”, come lo stesso attore ha raccontato a Vanity Fair, e anche lì c’è da capire quanto ci sia di giornalisticamente vero e quanto di ulteriormente fiction: “Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, Riccardo mi è stato subito sul c…! Ma come, io ho una storia idilliaca con la Lodovini (Valentina, n.d.r.) e basta che arrivi uno Scamarcio qualsiasi per rompere tutto? Per di più, il mio personaggio non doveva mai reagire, ma io ho protestato” e ha ottenuto quello che voleva: fare a botte con lo Scamarcio qualsiasi.

Diversità, fra i due, fondamentali. Scamarcio è intemperante, da ragazzo ha cambiato diverse scuole fino a ritirarsi definitivamente dagli studi probabilmente senza neanche conseguire legalmente il diploma; va a Roma a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia e anche lì abbandona perché insofferente alle regole e all’autorità – al contrario del più ordinato Riondino che conclude il corso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e comincia a lavorare in teatro. Debuttano entrambi in tivù e il più anziano Scamarcio diventa fortunosamente un sex-symbol col giovanilistico “Tre metri sopra il cielo” diventando richiestissimo da registi e produttori: scegliendo accortamente, anche con l’illuminante guida della sua più anziana compagna (fino al 2018) Valeria Golino conosciuta nel 2004 sul set di “Texas” dell’esordiente Fausto Paravidino, si piazza nelle produzioni più interessanti lavorando anche all’estero e recitando in inglese e francese, e facendosi anche produttore oltre che occasionalmente sceneggiatore: insomma si dà da fare. Non ha (ancora) debuttato in regia.

Riondino, che ahilui non è mai assurto al ruolo di sex-symbol, tornando appena possibile al teatro (cosa che Scamarcio ha frequentato da guest star) come già detto resta culturalmente e politicamente legato alla sua terra, segno di una coscienza sociale che in un mestiere che si fa col coltello fra i denti può essere a volte un freno piuttosto che uno slancio – a meno di non farsi autori con una propria visione di cinema, che è quello che adesso ha fatto. Però non ha mai preso parte a produzioni internazionali né men che meno ha recitato in lingue straniere. È stato protagonista di “Il giovane Montalbano”, una produzione con la quale la Rai ha tentato il ringiovanimento del glorioso personaggio per liberarsi dall’ormai ingombrante Luca Zingaretti, che stanco di ripetere il personaggio non ne voleva più sapere, salvo poi accettare compensi stratosferici per continuare stancamente il suo “Montalbano sono”. Riondino è poi stato Pietro Mennea nella bio-fiction sempre Rai e al momento è protagonista della serie “I Leoni di Sicilia” su Disney+.

Dice il neo autore: “Il film racconta una storia vera che in pochi sapevano. La Palazzina Laf si chiama così per il nome di un reparto dell’acciaieria ex Ilva dove venivano reclusi, o condannati a stare in attesa, 79 operatori che non hanno accettato di firmare una clausola contrattuale che li avrebbe demansionati a operai. Ma quegli operatori erano altamente qualificati: ingegneri, geometri, informatici. Quando sono arrivati i Riva nel 1995 avevano subito detto di non aver bisogno di impiegati ma solo di operaiE, per una sorta di rimodulazione dell’assetto produttivo dell’azienda, avrebbero dovuto licenziare un certo numero di persone. In quei contratti però c’era l’art. 18, che impediva al proprietario di licenziare senza giusta causa. Il reparto lager è un reparto italiano e non solo di Taranto, ecco perché questo film non parla solo dell’ex Ilva. Veniva usato alla Fiat, nelle realtà industriali molto importanti per costringere i lavoratori, che si trovavano in quelle determinate condizioni, a licenziarsi o a commettere quell’errore che avrebbe prodotto la giusta causa.”

Gli altri interpreti del film sono tutti tarantini o pugliesi: Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo, Domenico Fortunato, Marta Limosani, Michele Sinisi, con Eva Cela nel ruolo della fidanzata, che essendo per nascita albanese (è arrivata in Italia a due anni) il suo ruolo rende implicito omaggio all’autore del romanzo scomparso prematuramente e onorato in Albania.

Gli occhiali d’oro – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Dopo “La lunga notte del ’43” e “Il giardino dei Finzi Contini” terzo e a tutt’oggi ultimo film dalla narrativa che Giorgio Bassani dedicò alla sua Ferrara e contestualmente al periodo fascista della città, essendo egli stesso uno di quegli ebrei che vissero sulla propria pelle le leggi razziali emanate nel 1938. Il giovane Bassani era all’epoca studente universitario a Bologna e gli fu concesso di proseguire gli studi, si sarebbe laureato l’anno dopo, mentre non erano più consentite le nuove iscrizioni agli ebrei, di pari passo all’epurazione del corpo docenti. L’io narrante, un universitario ebreo che è chiaramente l’alter ego dello scrittore, nel romanzo non ha un nome e nel film, scritto dallo stesso regista Giuliano Montaldo con Nicola Badalucco e Antonella Grassi, viene chiamato Davide Lattes, figlio di Bruno Lattes che a sua volta è il nome di uno dei personaggi che frequentano il giardino dei Finzi-Contini, romanzo dove a sua volta si cita la vicenda che viene raccontata in questo romanzo: se nel Bassani scrittore i rimandi e le autocitazioni sono frequenti, gli sceneggiatori ne prendono atto e proseguono sulla strada tracciata per restare fedeli allo spirito che anima quelle narrazioni: Ferrara come luogo eletto di una comunità che si autodefinisce “popolo eletto”. Nel romanzo e nel film procedono di pari passo le vicende dell’io narrante e del medico narrato: un omosessuale di mezza età che innamorandosi di un giovane arrivista crea scandalo e viene emarginato dalla benpensante società dell’epoca, emarginazione che procede specularmente a quella che lo studente subisce a causa della sua religione.

Nicola Farron e Philippe Noiret

Vidi il film al cinema alla sua uscita nel 1987 e già allora non mi convinse del tutto benché all’epoca non sapessi motivare chiaramente le mie impressioni: riferivo al mio gusto personale; rivisto oggi confermo e specifico: manca di pathos, è ben confezionato ma calligrafico. Manca l’atmosfera cupa dei tempi bui cui ci si avviava in quegli anni, che il debuttante Florestano Vancini aveva saputo infondere alla sua lunga notte del ’43, e soffre di quel patinato manierismo che si respirava nel giardino dei Finzi-Contini filmato da Vittorio De Sica. Detto ciò il film ebbe successo e si aggiudicò alcuni premi tecnici: a Venezia l’Osella d’Oro per i costumi di Nanà Cecchi e le scenografie di Luciano Ricceri, e poi David di Donatello alla musica di Ennio Morricone che comunque non è fra quelle che continuiamo ad ascoltare. Il cast, come nella migliore tradizione italiana dei decenni passati, è un’insalata di interpreti stranieri e italiani, qui giustificata dal fatto che si tratta di una coproduzione Italia Francia Jugoslavia; insalate per fortuna non più consentite alle produzioni italiane odierne in cui c’è l’obbligo della presa diretta dove gli eventuali interpreti stranieri devono recitare in italiano o fare ciò che sono, gli stranieri, e in cui all’eventuale necessario doppiaggio saranno gli stessi attori a usare la propria voce, a meno che non rinuncino personalmente; una battaglia, quella della voce-volto lanciata dall’impegnatissimo Gian Maria Volonté già alla fine degli anni ’70: un complesso argomento che meriterebbe un approfondimento a parte.

Rupert Everett e Valeria Golino

Davide Lattes, con la voce di Tonino Accolla, ha il volto di Rupert Everett fresco del successo del britannico “Another Country: la scelta” diretto dal polacco Marek Kanievska nel 1984; va da sé che viene scritturato dai nostri produttori e in quel 1987 è protagonista per Francesco Rosi in “Cronaca di una morte annunciata” e di questo film di Montaldo. L’anziano medico, doppiato da Sergio Rossi, è impersonato dal francese di casa in Italia Philippe Noiret, che in quella pratica di coproduzioni e finte produzioni italiane con attori stranieri, si accaparrò molti ruoli assai interessanti che sarebbero potuti andare ai nostri colonnelli: Gassman, Mastroianni, Manfredi, Sordi, Tognazzi. Protagonista femminile è l’emergente Valeria Golino che recita con la sua voce ingolata non del tutto gradevole all’epoca, viziati com’eravamo dalle voci perfette del doppiaggio, migliore attrice rivelazione l’anno prima premiata col Globo d’Oro per “Piccoli fuochi” di Peter Del Monte, e qui candidata inopinatamente (a mio avviso brava ma non da premio) come protagonista ai David di Donatello, insieme a Noiret: entrambi restarono a bocca asciutta perché i premi agli attori protagonisti andarono a Marcello Mastroianni e Elena Safonova per “Oci ciornie” di Nikita Sergeevič Michalkov. Il bel mascalzone di cui s’innamora il medico è impersonato da un altro emergente che poi non rispettò la promessa di una brillante carriera, Nicola Farron, che si esibisce in un nudo integrale sotto la doccia che ancora vale il limite di età alla visione del film su YouTube, anch’egli doppiato da Fabio Boccanera.

Il professor Amos Perugia di Roberto Herlitzka accompagnato all’uscita dall’ateneo dai suoi studenti mentre sullo sfondo si grida “Ebreo! ebreo!” e “Eia eia alalà”.

Altri nomi di spicco sono la centratissima Stefania Sandrelli come malefica pettegola e soprattutto Roberto Herlitzka perfettamente in ruolo essendo egli stesso un ebreo che bambino sfuggì al nazi-fascismo col padre che riparò in Argentina: qui nei primi dieci minuti del film interpreta il professore universitario epurato. I genitori del protagonista sono interpretati dal serbo Rade Markovic e dalla romana di nobili origini Esmeralda Ruspoli. Nel ruolo di uno studente universitario un giovane Luca Zingaretti. Il film, che di diritto si inserisce sotto l’etichetta Fascismo e Resistenza, è oggi considerato un caposaldo anche del filone film LGBT.

Di Giuliano Montaldo bisogna ricordare che come tanti dei suoi coetanei debuttò con un film legato al racconto del fascismo, “Tiro al piccione”, tema che continuerà ad esplorare in altri suoi riusciti lavori come “Gott Mit Uns” e “L’Agnese va a morire”. Nel 2007 è stato insignito del David di Donatello alla Carriera e nel 2018 vinse il David come attore non protagonista per “Tutto quello che vuoi” di Francesco Bruni. Mentre il suo ultimo film da regista è “L’industriale” del 2011 con Pierfrancesco Favino. Oggi ha 93 anni.

La lunga notte del ’43 – Fascismo e Resistenza in un’opera prima d’autore

Prima della problematica collaborazione con Vittorio De Sica per la sceneggiatura de “Il giardino dei Finzi-Contini”, film dal quale Giorgio Bassani ritirò la sua firma, lo scrittore bolognese di nascita e ferrarese d’adozione aveva felicemente affidato all’esordiente concittadino Florestano Vancini un altro suo racconto che il regista riscrisse per il cinema insieme a Ennio De Concini e Pier Paolo Pasolini – il primo già affermato professionista della scrittura filmica che un paio d’anni dopo riceverà l’Oscar per la sceneggiatura di “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi, il secondo già divisiva personalità della cultura qui alla sua terza sceneggiatura dopo aver co-scritto “Le notti di Cabiria” di Federico Fellini e “La notte brava” da un suo stesso racconto diretto da Mauro Bolognini: dunque l’esordio del 34enne Vancini, già documentarista di lungo corso, avviene sotto i migliori auspici. Di lui abbiamo appena visto “Il delitto Matteotti”.

Il racconto è “Una notte del ’43” che chiude la raccolta “Cinque storie ferraresi” pubblicata nel 1957 e con la quale lo scrittore vinse il Premio Strega; nel racconto Bassani inventa uno uomo alla finestra che sarà spettatore involontario di una tragedia, e attraverso il suo sguardo racconta un preciso fatto storico, quello che verrà ricordato come “l’eccidio del Castello Estense” in cui il 15 dicembre del 1943 furono fucilati undici oppositori al regime fascista come rappresaglia all’omicidio di un federale. Il protagonista del racconto è un ex fascista che adolescente partecipò alla Marcia su Roma del 1922, e nel presente narrativo proprietario di una farmacia e gravemente infermo a causa della sifilide contratta ai tempi di gloria, e per la quale avendo perso l’uso delle gambe se ne sta tutto il giorno alla finestra – una situazione che ricorda assai da vicino un altro infermo affacciato alla finestra nel celeberrimo film di Alfred Hitchcock “La finestra sul cortile” del 1954 da un racconto giallo di Cornell Woolrich che risale ai primi anni ’40 ma che fu pubblicato in Italia solo in seguito al successo del film, nel 1956, lo stesso anno in cui Bassani pubblicò i suoi racconti su cui già lavorava da anni, dunque è improbabile che l’italiano sia stato ispirato dall’americano il cui protagonista è un fotoreporter testimone involontario di un uxoricidio mentre il farmacista ferrarese è testimone di una ben più seria e reale tragedia.

Florestano Vancini con i suoi co-sceneggiatori di rango aggiunge al fattaccio storico un melodramma privato cinematograficamente molto efficace, inventando per il farmacista Pino Barilari la bella e devota moglie Anna, che intristita dal peso dell’infelice matrimonio casualmente rincontra la vecchia fiamma Franco Villani, e il fuoco della passione torna a divampare fra le stoppie della sua arida esistenza. L’aitante Franco viene da una famiglia di antifascisti e lui personalmente, dopo l’armistizio firmato dall’Italia con gli Alleati l’8 settembre del ’43, si era dato alla macchia allorché Benito Mussolini, che aveva riparato in Germania era tornato fondando in quel nord Italia la Repubblica di Salò, territorio sul quale nazisti e repubblichini fascisti continuavano a imperversare con le loro leggi repressive e persecutorie rastrellando tutti i pusillanimi, gli uomini abili e arruolabili (oggi si dice impiegabili in quanto altrettanto forza-lavoro) per mandarli al fronte o nei campi di concentramento.

Quella notte del ’43 che diventa lunga nel titolo del film, è quella in cui la bella Anna finalmente si concede all’antica fiamma; era uscita di casa di nascosto dal marito che però quella sera non aveva preso il suo solito sonnifero: l’uomo, insonne, si rimette alla finestra in tempo per assistere alla fucilazione degli antifascisti rastrellati nottetempo, fra loro anche il padre di Franco, accusati di un delitto che non avevano commesso, quello del Federale appena nominato da Alessandro Pavolini, in realtà fatto uccidere da tal Carlo Aretusi soprannominato Sciagura che voleva per sé la carica fascista; l’arresto dell’anziano avvocato Villani aveva tragicamente interrotto la clandestina notte d’amore tra il figlio e Anna, la quale rientra all’alba giusto in tempo per essere vista dal marito ancora alla finestra: il melodrammatico cerchio si chiude e finalmente la donna gli rinfaccerà la “malattia schifosa” che ha avvelenato il loro matrimonio.

Dell’autore, qui alla sua opera prima, è evidente il lungo apprendistato come documentarista perché dirige con mano ferma un film tecnicamente perfetto e drammaturgicamente assai pregnante con questa sua dichiarata attenzione ai drammi privati come specchio della storia collettiva che caratterizzeranno la sua cinematografia, come se avesse sentito la necessità di creare un ponte fra il rigore del documentario e la fantasia del cinema narrativo; un film che risente della lezione neorealista e che comincia a esplorare un nuovo filone in cui Florestano Vancini sarà maestro: il cinema d’impegno civile. Il film che compone è livido come i tempi che narra: il protrarsi di una guerra già prossima alla fine, gli ultimi inutili e feroci colpi di coda del regime, il protagonista consumato da una malattia all’epoca fortemente debilitante quanto infamante, la moglie dibattuta fra un affetto sincero ormai fraterno e la necessità di continuare ad amare, il pragmatismo dell’amante che sceglie la fuga in Svizzera alla realizzazione di un antico amore, l’ambiguità degli uomini in camicia nera.

Per approfondire l’argomento:
Breve storia delle riviste di cinema in Italia

Cast di primordine. Enrico Maria Salerno, che continuerà a lavorare con Vancini aggiungendo altre perle alla sua cinematografia – “Le stagioni del nostro amore” 1966, “La violenza: quinto potere” 1972 – è qui il patetico farmacista che l’autore racconta come appassionato di film, di certo trasferendogli una sua personale passione, che legge la rivista Cinema e che consiglia alla moglie quali film andare a vedere, chiedendole al ritorno se i protagonisti sullo schermo si sono baciati per farsi raccontare quei baci: acutissima nota poeticamente introspettiva che racconta il bisogno d’amore dell’uomo intrappolato nella sua infermità; e visto che ci siamo l’autore fa citare al personaggio alcuni film dell’epoca, di quel cinema di regime fra polpettoni storici e musicarelli e favole con i telefoni bianchi, come breve passaggio di storia del cinema che qui riferisco: “Il leone di Damasco” e “La cena delle beffe”, “Violette nei capelli” ma anche il nazista antiebraico “Suss l’Ebreo”.

Il protagonista del racconto diventa nel film il comprimario della vera protagonista, sua moglie Anna, intensamente interpretata dall’inglese Belinda Lee di ottimi studi teatrali in patria ma affermatasi, suo malgrado, solo nel cliché di bionda sexy svampita che tanto piaceva all’uomo medio; va da sé che i produttori nostrani si accorsero di lei e la bella inglese venne in Italia nel 1957 a girare il peplum “La Venere di Cheronea” soggetto e sceneggiatura del giovane Damiano Damiani non ancora regista. L’attrice, attraversando burrascose vicende sentimentali, si trasferì in Italia senza però scrollarsi di dosso il cliché che si era portata dietro insieme al resto dei bagagli. Il primo a utilizzarla come vera attrice in un ruolo serio fu Francesco Rosi ne “I magliari” e l’anno dopo è in questo film. Non avrà il tempo di consolidare la sua carriera come attrice di grandi doti perché morirà l’anno dopo in un incidente stradale in California, appena 25enne.

Nel ruolo dell’amante un altro attore di rango, Gabriele Ferzetti, che nonostante sia più anziano di Salerno di una decina d’anni regge bene il confronto, grazie anche al fatto che l’altro interprete non teme di mostrare la sua incipiente calvizie nel rendere il suo personaggio di perdente. Ferzetti, attivo anche in teatro fin dagli anni ’40, manterrà il suo personaggio di uomo dal fascino spesso ambiguo fino al riconoscimento internazionale come cattivo nell’unico 007 interpretato da George Lazemby. Tornerà a lavorare con Vancini nel 1963 con “La calda vita”.

L’ambiguo fascista detto Sciagura è interpretato da un monumento dello spettacolo italiano: Gino Cervi. Classe 1901, appassionato di teatro sin da bambino (il padre era critico teatrale) cominciò a calcare le scene come filodrammatico e già nel 1925 fu scritturato come primo attor giovane nella compagnia di Luigi Pirandello accanto a primi attori come Marta Abba e Ruggero Ruggeri, interpretando il ruolo del Figlio nel discusso (all’epoca) “Sei personaggi in cerca d’autore”, la cui genesi è stata recentemente narrata da Roberto Andò in “La stranezza”. Subito baciato dal successo lavorò con le migliori compagnie fino a diventare prim’attore e poi capocomico; ovviamente il cinema si accorse di lui che debuttò nei primi anni ’30 e, poiché si era nell’epoca del cinema di regime, divenne un divo dei film eroici-storici. Nel 1960, quando uscì con questo film in cui si divertì a fare la carogna, era già da anni il popolarissimo Don Peppone nei film col francese Fernandel nel ruolo di Don Camillo nella saga dalla narrativa di Giovannino Guareschi. Cervi, generalmente impegnato in commedie, due anni dopo questo film tornerà in un ruolo drammatico in un altro film su Fascismo e Resistenza: “Dieci italiani per un tedesco; via Rasella” di Filippo Walter Ratti. Co-produce il film suo figlio Antonio, Tonino Cervi, che sarà anche regista nonché padre dell’attrice Valentina Cervi.

Concludono il cast dei ruoli principali: Andrea Checchi nel ruolo dell’effettivo farmacista del negozio di Barilari, che fu un altro grande interprete come comprimario, dotato di una recitazione asciutta e assai moderna per quell’epoca ancora intrisa di un certo manierismo ereditato dal cinema di regime. I caratteristi Nerio Bernardi e Isa Querio interpretano i genitori di Ferzetti mentre come loro figlia adolescente c’è la bruna 17enne Raffaella Pelloni che quello stesso anno si era diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia dopo avere abbandonato l’accademia di danza per la quale non aveva grandi qualità; mancano pochi anni perché indossi un caschetto biondo e assuma il nome d’arte di Raffaella Carrà suggeritole dallo sceneggiatore-regista televisivo Dante Guardamagna, appassionato di pittura, che associando il nome di Raffaella a quello di Raffaello Sanzio lo accoppiò col cognome Carrà dal pittore Carlo Carrà: nacque così la Raffa che tutti conosciamo e che da lì in poi, non riuscendo a sfondare come attrice si diede al varietà televisivo. Tutti gli interpreti del film parlano con le loro voci tranne Andrea Checchi, doppiatore a sua volta probabilmente impegnato altrove che qui ha la voce di Giuseppe Rinaldi, e l’inglese Belinda Lee che fu doppiata dalla querula Lydia Simoneschi già doppiatrice delle dive d’oltreoceano, che purtroppo infonde al personaggio un che di artefatto che stona con l’impianto sonoro generale.

Il film, molto apprezzato da pubblico e critica, è stato inserito tra i 100 film italiani da salvare. Giorgio Bassani, dopo questa prima esperienza di scrittore rappresentato al cinema, e di autore impegnato nella narrazione delle malefatte fasciste, dieci anni dopo lo sarà ancora col già detto “Il giardino dei Finzi-Contini” e poi ancora nel 1987 con “Gli occhiali d’oro” diretto da Giuliano Montaldo.

Il giardino dei Finzi Contini – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Sarò controcorrente: secondo me questo film non è fra i migliori di Vittorio De Sica. Tratta un argomento importante, è vero, è tratto da un importante romanzo, è altrettanto vero, ed ebbe grande successo anche oltreoceano dove notoriamente sono assai sensibili riguardo al tema dell’ebraismo: il film negli Stati Uniti si aggiudicò l’Oscar come miglior film straniero ed ebbero la candidatura per la miglior sceneggiatura non originale Ugo Pirro e Vittorio Bonicelli; e poi candidatura al Grammy per la musica di Manuel De Sica, figlio maggiore del regista, qui alla sua terza colonna sonora; Vittorio De Sica vinse anche l’Orso d’Oro a Berlino e il britannico BAFTA dove ci fu la candidatura di Ennio Guarnieri per la miglior fotografia. Premi in Italia: David di Donatello come miglior film e David Speciale al protagonista Lino Capolicchio; Nastro d’Argento a Romolo Valli come miglior attore non protagonista e a Giancarlo Bartolini Salimbeni per la miglior scenografia; e per finire Globo d’Oro a Fabio Testi come miglior attore rivelazione. Elencati per dovere di cronaca premi e riconoscimenti specifico che nel mio essere controcorrente sono in buona compagnia perché all’epoca non tutta la critica fu d’accordo nell’elogiare il film e Morando Morandini sul quotidiano milanese “Il Giorno” scrisse che era eccessivamente melenso. Be’ lo è.

Secondo me questo stile, melenso per Morandini, eccessivamente patinato aggiungo io, non è in linea con la miglior produzione di De Sica che nasce nel neorealismo e anche quando si trasforma in commedia mantiene certe radici veristiche e veraci, popolari e popolane, mentre la vita agiata di questa oziosa famiglia altoborghese, tutti leccati in abiti fra il bianco e il color crema, non appartiene al regista e dunque la racconta per luoghi comuni dove la quotidianità si fa cicaleccio e birignao: una leggiadria certo necessaria a far risaltare la tragedia incombente delle persecuzioni nazi-fasciste, ma non fosse stato per il risvolto drammatico questo ritratto di famiglia in un esterno sarebbe potuto diventare parodia: i Finzi-Contini, con trattino come nel romanzo di Giorgio Bassani, che sono “altro” nella comunità ebraica della Ferrara dell’epoca, restano “altro” anche nella cinematografia di De Sica.

Già l’inizio è imbarazzante dal punto di vista sonoro: Livia Giampalmo, che effettivamente era agli inizi in sala di doppiaggio, doppia Dominique Sanda quasi facendo il verso alle querule doppiatrici d’antan delle sofisticated comedies hollywoodiane, come dandosi un tono perché sta dando voce a una signorina di buonissima famiglia: stonatissima e fasulla; più avanti ci si fa l’orecchio, giocoforza, ma arriva subito anche il doppiaggio altrettanto stonato di Roberto Del Giudice che dà voce a Helmut Berger: l’atmosfera generale è che stiano giocando a fare le persone fini.

Alessandro D’Alatri, recentissimamente morto 68enne dopo una lunga malattia, recita nel film il ruolo del protagonista da adolescente, ma aveva debuttato 14enne l’anno prima da protagonista nel piccolo film di avventura e formazione (di cui non rimane traccia) “Il ragazzo dagli occhi chiari” di Emilio Marsili (due soli film nel portfolio e anch’egli sparito senza lasciare traccia) e poi in Rai con un piccolo ruolo nella miniserie “I fratelli Karamazov” diretta da Sandro Bolchi, dopodiché smette di recitare e da giovane adulto negli anni ’80 è al top come regista di pubblicità, debuttando come regista cinematografico solo nel 1991, 36enne, con “Americano Rosso” che gli varrà il David di Donatello come miglior regista esordiente; era una commedia sentimentale guarda caso ambientata nel 1934 con lo stesso entroterra fascista di questo film di De Sica cui resta legato il suo nome come giovane attore. Nel ruolo di Micol da giovane c’è l’ex attrice bambina Cinzia Bruno che aveva debuttato a tre anni proseguendo la carriera di giovane attrice anche in radio e nel doppiaggio ma per un problema alle corde vocali ha dovuto abbandonare la carriera artistica ed ha aperto un’agenzia di viaggi.

Proprio per il ruolo di Micol, De Sica aveva seriamente considerato Patty Pravo ma non se ne fece niente perché Patty era troppo impegnata, era appena arrivata al successo con “La bambola” (canzone che odiava perché dava l’immagine di una donna totalmente dipendente dall’uomo), inoltre la sua casa discografica stava battendo il ferro ben caldo: in quel 1970 era al successo con “La spada nel cuore” e poiché stava costruendosi una brillante carriera come cantante non volle distrarsi col cinema, tanto che in seguito rifiutò anche “Professione: reporter” di Michelangelo Antonioni: oggi se ne dice pentita. Però l’anno prima aveva doppiato Jacqueline Kennedy nel documentario di Gianni Bisiach “I due Kennedy”.

Alla sceneggiatura del film, come detto firmata da Bonicelli e Pirro, inizialmente partecipa anche l’autore del romanzo, Giorgio Bassani, che però abbandona il progetto per insanabili divergenze col regista, tanto da chiedere, e ottenere, che il suo nome venisse tolto dai titoli. Pare che il punto di rottura fu l’esplicitazione nel film della relazione fra Micol e il comunista milanese Malnati, che nel romanzo è solo accennata da Giorgio che è l’io narrante. E non si può dire che per lo scrittore sia stato il capriccio autorale di uno che non comprende le esigenze cinematografiche, perché egli stesso era da tempo attivo sia come soggettista che sceneggiatore, per non dire che aveva anche doppiato Orson Welles diretto da Pier Paolo Pasolini nell’episodio “la ricotta” del film “Ro.Go.Pa.G.”.

Lino Capolicchio è il protagonista Giorgio, nome autobiografico dell’autore che in qualche modo si rispecchia nel personaggio, ebreo come lui, che narra le vicende reali di una famiglia ferrarese cui nel romanzo sono stati cambiati i nomi (tranne quello del cane Jor) e alcuni dettagli: da qui forse il suo attaccamento a certi passaggi della sua narrativa che nel film non sono stati rispettati. Micol è interpretata dall’ex modella francese Dominique Sanda che dopo un’intenso debutto il patria con Robert Bresson che la diresse in “Così bella, così dolce”, subito viene adottata dai cineasti italiani a quell’epoca sempre affascinati dalle bellezze straniere, tanto c’era il doppiaggio: lo stesso anno gira con Bernardo Bertolucci “Il conformista” e si avvia a una carriera in film d’autore con personaggi tormentati e ambigui. Oggi è una bella signora 71enne che si dedica principalmente al teatro. Mentre ricordiamo che Capolicchio è morto 79enne lo scorso anno: la sua scomparsa ha creato un’impennata di visioni di questo film che fino a quel momento era in chiaro su Sky Cinema e che dopo la sua morte è passato a pagamento su Sky Primafila per sfruttare commercialmente la grande richiesta, e infine scompare del tutto; oggi è visibile a pagamento su Prime Video. Restaurato nel 2015 è reperibile in chiaro su YouTube una vecchia versione per il mercato anglofono con titolo e sottotitoli in inglese.

Ferrara, con Roma e Venezia, era una delle città con maggiore popolazione ebraica, e anche dopo la chiusura del ghetto in epoca fascista rimase un importante centro per la comunità, tanto che alle prime restrizioni vi confluirono ebrei da altre province pensando di trovare un ambiente più favorevole grazie alla presenza del deputato fascista ferrarese Italo Balbo e del suo amico Renzo Ravenna che fu uno dei due soli ebrei (l’altro fu il triestino Enrico Paolo Salem) a ricoprire il ruolo di podestà, fino all’emanazione delle leggi razziali che non risparmiò neanche loro. Ferrara dunque fu un centro nevralgico che anche il regista ferrarese Florestano Vancini racconterà nei suoi film.

Il giardino del titolo è quello della villa che realmente a Ferrara, e poi nel romanzo e infine del film, divenne ritrovo e porto franco per tutti gli ebrei e chiunque altro fosse inviso al regime fascista che aveva cominciato le persecuzioni e le restrizioni sociali; metafora di un sogno bello e impossibile che la realtà andrà a dissacrare. Romanzo e film raccontano come la comunità ebraica non si rese conto di quanto stava accadendo; ci fu chi reagì cercando di mimetizzarsi e si iscrisse al Fascismo, come il suddetto podestà della città e come il padre del protagonista interpretato da Romolo Valli, chi davvero senza poter comprendere, perché si era tutti italiani e da secoli, a memoria umana, non c’erano più state divisioni per ragioni religiose e men che meno razziali. Come detto a Romolo Valli, gran signore del teatro sempre in ruoli di supporto al cinema, è andato il riconoscimento del Nastro d’Argento. A Fabio Testi nel ruolo di Malnate è andato il Globo d’Oro come unico premio in una lunga carriera iniziata appena quattro prima come controfigura sul set di “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone che in seguito gli affida un ruolo in “C’era una volta il west” che però taglia in post-produzione perché non ottimale; ma è un aitante belloccio e dopo una serie di piccoli ruoli è protagonista in un paio di film di serie B; è qui alla sua prima occasione in un film importante e l’industria cinematografica che sta puntando su di lui lo premia per sdoganarlo fra quelli che contano. Conclude il cast dei ruoli principali l’altro bello e possibile già ex modello austriaco Helmut Berger che Luchino Visconti aveva diretto proprio come ragazzaccio austriaco in un episodio del film “Le streghe” e che lancerà come protagonista in “Ludwig” un paio d’anni dopo.

Curiosità letteraria, nel romanzo c’è un prossimamente: Giorgio racconta a Malnate di un’episodio accaduto in città poco tempo prima, che riguarda un otorinolaringoiatra coinvolto in uno scandalo omosessuale per il quale si tolse la vita; nomina il personaggio come Athos Fadigati, personaggio protagonista di un altro romanzo al quale stava lavorando: “Gli occhiali d’oro” che con la regia di Giuliano Montaldo diverrà film nel 1987. Una lettura integrale del romanzo “Il Giardino dei Finzi-Contini” a più voci, è stata realizzata dalla Rai di Torino, e poi una riduzione radiofonica e andata in onda su Radio 3. La New York City Opera e il National Yiddish Theatre Folksbiene ne hanno realizzato lo scorso anno un adattamento operistico presso il Museo del Patrimonio Ebraico di Manhattan.

Il delitto Matteotti – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Gran bel film del 1973 che Florestano Vancini ha diretto da una sceneggiatura scritta con Lucio Battistrada, che pur rievocando minuziosamente fatti e personaggi di un momento preciso della nostra storia non è mai didascalico, anzi assai dinamico e coinvolgente e conserva una tale freschezza spettacolare per la quale potrebbe essere stato girato oggi.

Fatti e persone della vicenda. Nel 1924 il deputato Giacomo Matteotti, segretario del Partito Socialista Unitario, in un’infuocato intervento alla Camera dei Deputati mette in discussione il risultato delle elezioni politiche in cui il Partito Nazionale Fascista aveva ottenuto la maggioranza attraverso brogli e intimidazioni squadriste, di fatto denunciando l’operato di Benito Mussolini al momento Presidente del Consiglio dei Ministri ma non ancora Duce. Mussolini dà l’incarico di assassinare Matteotti ad uno dei suoi migliori e spietati sicari, Amerigo Dumini, un dandy facinoroso figlio e nipote di artisti fiorentini nato in America, da cui il nome di battesimo, che rientrato in Italia rinuncia alla cittadinanza statunitense per buttarsi anima e corpo nella Prima Guerra Mondiale come volontario fra gli Arditi del Battaglione della Morte del Regio Esercito Italiano: nomenclature che già dicono tutto di sé e delle proprie specifiche; a guerra conclusa continuò ciò per cui era nato e che meglio sapeva fare: menar le mani e uccidere, ed entrò nelle prime formazioni fasciste della sua città, Firenze, dove nel 1921 fonda il settimanale “Sassaiola fiorentina” per propugnare la sua idea di un fascismo particolarmente violento e oltranzista: un gentiluomo del manganello e dell’olio di ricino che al momento dei fatti narrati vanta, se ne vanta proprio, già otto omicidi. Il ritrovamento del cadavere di Matteotti, agevolato dal regime, avviene solo quattro mesi dopo quando non è più possibile stabilire le precise cause della morte; intanto le indagini in sede civile proseguono mettendo a repentaglio la tenuta del governo che vorrebbe avocare a sé il fascicolo. A quel punto Mussolini, con l’avallo del re Vittorio Emanuele III colpevole di non aver compreso la portata dei fatti, scioglie le camere e di fatto si fa Duce (nella Roma antica era un titolo onorifico concesso a capi militari vittoriosi o a funzionari civili benemeriti) del partito unico che per vent’anni guiderà l’Italia attraverso la soppressione della libertà di stampa e di pensiero e di tutto l’armamentario fascista ben noto.

Florestano Vancini recita un dirigente del PCI in “Cadaveri eccellenti” di Francesco Rosi nel 1976.

Il ferrarese Florestano Vancini, di quattro anni più giovane del Carlo Lizzani di cui ho detto nel precedente articolo, proprio per questi pochi anni probabilmente manca l’impegno attivo nella Resistenza contro il Fascismo e il suo impegno si trasferirà tutto nella sua cinematografia; dopo una proficua carriera come documentarista debutta nel 1960 con “La lunga notte del ’43” tratto da una delle “Cinque storie ferraresi” con cui Giorgio Bassani vinse il Premio Strega, film che parla di fascismo e antifascismo. Da lì in poi Vancini prosegue con una cinematografica di impegno civile e politico con uno sguardo alle storie intime e sentimentali dei personaggi che le compongono: in questo film racconta la vicenda collaterale, non strettamente necessaria alla narrazione principale ma che inquadra l’atmosfera dell’epoca, dell’aggressione al giornalista torinese Piero Gobetti che morì esule in Francia non ancora 25enne per le conseguenze dell’aggressione squadrista, e in una delicata scena lo racconta nell’intimità della sua casa con la moglie. E le due aggressioni, quella a Matteotti e quella a Gobetti, il regista le filma in modo identico raccontando col suo stile lo stile di quelle violenze, con primi piani e dettagli della dinamica confusione di membra – immettendo nell’aggressione a Matteotti dei fermo immagine che scandiscono drammatizzano e dilatano i tempi della violenza, con un magistrale montaggio di Nino Baragli che esalta lo stile dell’autore il quale mostra di non essere intimidito dalla narrazione precisa di fatti e ci mette del suo, andando oltre la cronaca romanzata e facendo poesia. Nel cast tecnico Dario Di Palma direttore della fotografia, musiche molto incisive di Egisto Macchi, scene di Umberto Turco e costumi di Silvana Pantani; al trucco, determinante, quel Rino Carboni col cui nome è ancora oggi possibile acquistare prodotti per il make-up.

A interpretare la giovane coppia ci sono il somigliantissimo palermitano Stefano Oppedisano, già attivo al cinema e nel doppiaggio che ha sempre mancato la grande occasione, e la nascente diva del teatro d’avanguardia romano Manuela Kustermann, e il meglio deve ancora venire.

Gastone Moschin, Vittorio De Sica, Franco Nero, Mario Adorf, Riccardo Cucciolla

Franco Nero, quasi irriconoscibile sotto un trucco che lo fa di oltre dieci anni più anziano, (ma che rimane assai più bello dell’uomo politico) è il protagonista del titolo che apre il film con l’acceso intervento in parlamento che condannò Matteotti alla morte: l’attore recita con foga e indiscutibile talento un monologo assai lungo e complesso, veramente da applauso, e lascia la sua impronta sul resto di un film corale dove si fronteggiano attori altrettanto eccellenti, alcuni davvero di rango. Il tedesco figlio naturale di un calabrese Mario Adorf, attivissimo nel cinema italiano, interpreta probabilmente il miglior Mussolini visto sullo schermo ma c’è da dire che questa performance in verità conta due interpreti: Adorf ci mette la maschera e la mimica ma l’interpretazione vocale è tutta del doppiatore Ivo Garrani, e le due interpretazioni non sono separabili l’una dall’altra. Ricordiamo che oltre a Rod Steiger, Mussolini è stato interpretato da George C. Scott nella serie tv “Mussolini: the untold story”, Antonio Banderas nell’altra serie tv “Il giovane Mussolini”, Bob Hoskins nel film tv “Io e il Duce” di Alberto Negrin, Claudio Spadaro in “Un tè con Mussolini” di Franco Zeffirelli, Massimo Popolizio nel satirico “Sono tornato” di Luca Miniero, Filippo Timi in “Vincere” di Marco Bellocchio e un’altra serie tv è in preparazione con Luca Marinelli.

Nel resto del cast nomi di rango che fanno a gara a chi lascia il segno più incisivo. Umberto Orsini, doppiato però da Gianni Musy, tratteggia l’assassino Amerigo Dumini come un’adorabile canaglia, e fra i politici oppositori in parlamento Gastone Moschin è il socialista Filippo Turati, Riccardo Cucciolla è il comunista Antonio Gramsci, il regista Damiano Damiani che è doppiato da Michele Gammino presta la maschera al democratico Giovanni Amendola; il caratterista teatrale Giulio Girola che aveva debuttato al cinema sei film prima in “La dolce vita” di Federico Fellini è qui alla sua ultima interpretazione nel ruolo di Vittorio Emanuele III. Vittorio De Sica impersona con la sua solita autorevolezza il giudice Mauro Del Giudice (nomen omen) un integerrimo magistrato già fermo sostenitore dell’indipendenza della magistratura in quel fascismo che tutto permeava, il quale indaga sul delitto assistito e controllato dal fascista Umberto Tancredi interpretato da Renzo Montagnani. Da citare e ricordare: l’ex povero ma bello Maurizio Arena ingrassato e con un carriera ormai in declino qui nel ruolo di un comunista, il cantautore Gino Santercole fa il camerata fascista, Pietro Biondi e Cesare Barbetti sono due giornalisti di regime. E ancora: Mico Cundari, José Quaglio, Ezio Marano nell’impossibilità di ricordare tutti i nomi di attori noti e meno noti che compongono questo riuscitissimo affresco.

Per il suo successivo film Florestano Vancini tornerà nella sua Ferrara con una storia d’amore degli anni ’30 “Amore amaro” sempre in epoca fascista e sempre attraverso la lente della sua personale Resistenza: quando l’impegno professionale e artistico coincidono totalmente con l’impegno civile.

Mussolini ultimo atto – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Nell’occasione del 25 aprile, festa italiana dalla liberazione dal nazi-fascismo, La7 manda in onda questo film del 1974 e colgo l’occasione per andare a rivedere alcuni dei film d’autore che trattarono l’argomento.

Erano passati trent’anni dalla fine della guerra e se dal punto di vista politico e sociale quello sembra un periodo lontanissimo perché da allora regna al governo la Democrazia Cristiana e nell’immediato il territorio italiano ha il problema contingente del terrorismo di destra e sinistra, in realtà per tanti è ancora molto vicino: i 20enni di allora sono la classe dirigente e quelli che allora erano nell’età di mezzo, fra i 40 e i 50, sono negli anni ’70 ancora viva memoria – dunque un film che rivive l’episodio della fine del duce tocca nervi ancora vivi, sia nei nostalgici che in tutti quanti gli altri che cercavano la via del futuro.

Il romano Carlo Lizzani, classe 1922, all’epoca dei fatti era un 20enne che si era unito alla Resistenza Romana formatasi in città dopo l’8 settembre 1943 in seguito a quella che storicamente viene definita “mancata difesa di Roma” (ma anche “occupazione tedesca di Roma”) da parte del Regio Esercito, e che operò fino al 4 giugno 1944, data della liberazione della città da parte degli Alleati; nella Resistenza confluirono sia militari che civili, sia con forme di boicottaggio passivo, ovvero senza l’uso di armi, che organizzandosi in vere e proprie formazioni paramilitari. Lizzani, sceneggiatore nel periodo neorealista, debuttò come regista poco meno che 30enne prima col documentario “Nel mezzogiorno qualcosa è cambiato” che è possibile vedere alla fine dell’articolo, e poi col film “Achtung, banditi!” che rievoca un episodio della resistenza partigiana a Genova, dunque già nell’ambito del film storico di militanza su cui ritornerà, concedendosi qualche divagazione farà anche un western, rimanendo negli anni fedele al suo genere d’esordio, distinguendosi anche nel noir-poliziesco con ricostruzioni di delitti di cronaca. Dunque questo suo film sugli ultimi giorni di Benito Mussolini a trent’anni dal fatto sembra quasi un atto dovuto, anche se forse non pienamente riuscito.

Lizzani scrisse il film con lo scrittore Fabio Pittorru che si era dato alla sceneggiatura, (tentando l’anno dopo anche lui la disagevole via della regia) che ha dato il meglio di sé nella scrittura di poliziotteschi con qualche incursione nella commedia sexy: questa sceneggiatura rimane la sua prova più impegnativa. Il film che ne viene fuori è un’opera rigorosa, forse troppo perché manca di pathos, e benché ricca di dettagli nella ricostruzione, resta poco spettacolare: rimane un film “a tema” scandito con la freddezza dei dettagli che lo colloca a metà strada fra il documentario storico e il cinema narrativo, e se del documentario ha il necessario rigore del film narrativo non ha la spettacolarità, come se l’attenzione alla documentazione avesse tolto slancio allo spettacolo o come se, forse e soprattutto, Lizzani col suo passato di partigiano avesse voluto – e c’è riuscito – mantenersi al di sopra delle parti senza metterci il suo personale umano punto di vista. Il film risulta didascalico e poco coinvolgente anche se tecnicamente perfetto.

Produce il palermitano Enzo Peri, che laureato in filosofia e giurisprudenza era andato a frequentare anche la California University, e con questo suo background di cultura alta e internazionale torna in Italia e si dà al cinema, prima tentando la strada della regia (un documentario e un western) e poi dedicandosi esclusivamente alla produzione di alcuni film (a tutt’oggi solo cinque) cosiddetti impegnati; non sorprende dunque che il film, schierando divi americani sia, com’è evidente dal labiale, girato in inglese certamente per facilitare una distribuzione internazionale dove fu rilasciato col titolo “Last Days of Mussolini”.

L’interpretazione di Rod Steiger non aiuta, per quanto la sua performance sia misurata e aderente: ma aderente a cosa? L’americano, già premio Oscar per “La calda notte dell’Ispettore Tibbs” (1968) e già in Italia nel 1971 con Sergio Leone per “Giù la testa”, sembra fuori posto nel ruolo del duce, di questo duce in declino e in fuga, e per quanto bene possa interpretare gli scatti d’orgoglio e gli sguardi ora furenti della bestia in gabbia e ora vacui dell’uomo perduto, la figura di Benito Mussolini non diventa mai sua, non gli appartiene, non appartiene alla sua cultura: è quella che in gergo si definisce interpretazione scollata. Non convince neanche l’altrove sempre ottima Lisa Gastoni come Claretta Petacci. Già come personaggio, benché somigliante, è poco credibile perché troppo anziana per il ruolo: Clara o Claretta, Clarice sui documenti, era di 29 più giovane del duce mentre l’attrice è di soli 10 anni più giovane dell’attore e risulta poco credibile quando nel film dice che già adolescente si era innamorata dell’uomo politico: narrativamente nuoce la mancata differenza di età perché sarebbe apparsa dolorosamente assai più patetica una giovane donna ciecamente innamorata di un uomo che ha il doppio della sua età; e benché portatrice di un minimo di pathos sentimentale anche il suo personaggio risulta didascalico fin dalla scrittura.

Nella prima parte del film c’è la partecipazione di gran lusso di Henry Fonda che impersona autorevolmente quel Cardinale Schuster, proclamato beato da Giovanni Paolo II, che nella sua epoca e nel clero fu fra i tanti che si impegnarono nell’intento di cristianizzare il fascismo perché, va ricordato, Il fascismo era nato come un movimento politico anticlericale con venature anticattoliche e anticristiane, venature che poi il lungimirante Mussolini, allorché fu a capo del governo, da buon politico smussò riavvicinandosi alla chiesa con cortesi concessioni auspicando di giungere “in un tempo più o meno lontano” – beninteso – a comporre il dissidio fra Chiesa e Stato che egli giudicava “funesto per entrambi e storicamente fatale”: ipocrisia ad alti livelli. Nel film si racconta il momento in cui promosse nell’arcivescovado di Milano un incontro fra Mussolini in fuga verso la Svizzera, dove aveva già trasferito diversi milioni di lire, e alcuni rappresentanti dei partigiani con l’intento di concordare una resa incruenta del duce; duce già tampinato dai Tedeschi che in quanto alleato lo volevano per sé e con sé, e dagli Americani che in quanto vincitori lo volevano trasferire in una prigione dorata degli Stati Uniti per tenerlo da conto allorquando e semmai il comunismo della vittoriosa Russia avesse preso piede in Europa. Di Fonda resta da dire che anche lui come l’altro americano era di casa a Cinecittà avendo girato con Leone “C’era una volta il West” e con Tonino Valerii “Il mio nome è Nessuno”.

Nella parte centrale del film troviamo Lino Capolicchio che è il partigiano Pier Luigi Bellini delle Stelle, Pedro come nome di battaglia, il cui nome resta famoso per avere intercettato Mussolini in fuga travestito da soldato tedesco fra gli altri nazisti in ritirata. Nell’ultima parte entra in scena Franco Nero – all’epoca divo italiano di prima grandezza che l’anno prima era stato protagonista di “Il delitto Matteotti” di Florestano Vancini, altro film che entra nella mia piccola lista – è qui nel ruolo del partigiano Walter Audisio, Valerio in battaglia, che prese in consegna Mussolini per eseguirne la fucilazione, e con lui la Petacci che si ostinava a non volersi separare dall’uomo della sua vita che divenne l’uomo della sua morte: al momento della fucilazione del duce la donna si frappose restando colpita. Nel resto del cast Massimo Sarchielli come Alessandro Pavolini, figura di spicco dell’apparato fascista che finì appeso a Piazzale Loreto insieme al suo capo e Giacomo Rossi Stuart perfettamente bilingue interpreta il capitano italo-americano Jack Donati. Nando Gazzolo ha doppiato Rod Steiger e Giorgio Piazza Henry Fonda. Musica di Ennio Morricone eseguita da Bruno Nicolai.

Il film, che si apre con un cinegiornale e si chiude con documenti d’epoca rimane esso stesso come rigorosissima documentazione.

Il documentario opera prima di Carlo Lizzani

IL SOSPETTO – omaggio a Francesco “Citto” Maselli

Sarò sincero, non sono mai stato un fan dell’appena scomparso 92enne Francesco Maselli e trovando su YouTube questo suo importante film che ho visto per la prima volta, confermo la mia posizione: il suo impegno politico e sociale prevarica l’attenzione per il pubblico, tant’è che i suoi film non hanno mai avuto grande riscontro al botteghino. Ci sono film di maestri coevi, Francesco Rosi Florestano Vancini ed Elio Petri tanto per citare i primi che mi vengono in mente, che pur indagando la politica e il sociale non derogano da quella che dovrebbe una delle regole portanti del cinema: la spettacolarità, che non sono solo botti e botte da orbi, ma soprattutto scrittura accattivante e ritmo coinvolgente: chi continuerebbe a leggere un libro che risulta ostico se non noioso sin dalle prime pagine?

Francesco Maselli è “nato bene” come si diceva una volta, in una famiglia di intellettuali romani: suo padre era un critico d’arte che ospitava nel suo salotto i bei nomi intellettuali e progressisti dell’epoca, ed era intimo amico di Luigi Pirandello che gli dava da leggere in anteprima i suoi manoscritti, e fu proprio Pirandello a tenere a battesimo Francesco affibbiandogli il nomignolo Citto. Il ragazzo si dimostrò anch’egli un intellettuale precocissimo: a sette anni aveva già imparato l’Amleto a memoria; e a tredici, durante l’occupazione tedesca della capitale, portava armi e cibo ai partigiani del Gap, Gruppo d’Azione Partigiana; e a seguire, a soli quattordici anni riuscì entrare nell’allora clandestino Pci, Partito Comunista Italiano. In quegli anni gira anche i suoi due primi cortometraggi in 8mm fra i 15 e i 17 e ancora 17enne viene accettato al Centro Sperimentale di Cinematografia da cui si diploma 19enne; sarà subito assistente di Luigi Chiarini, critico e teorico del cinema fra i fondatori del Centro, suo padrino professionale, oltre ad affiancarsi come aiuto di Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti: insomma, il giovane Citto “nato bene” non ha dovuto sgomitare per lavorare coi migliori. Si comincia già a delineare il suo talento come documentarista che è in linea coi suoi impegni politici e civili e probabilmente proprio in questo tipo di cinematografia riesce a dare il meglio: perché essendo film dichiaratamente documento non hanno l’obbligo – ammesso che sia un obbligo – della spettacolarità, ovvero di dover piacere al grande pubblico. Perché questo sarà il nodo irrisolto di tutta la cinematografia di Citto Maselli: non riesce a piacere al pubblico di massa, tanto che per indagare questo aspetto andrà anche in analisi. Di fatto l’autore mette sempre in primo piano la politica che, di fatto, è la sua formazione emotiva, quella che ha formato l’adolescente; racconta i suoi personaggi e struttura i suoi film secondo una visione intimamente marxista, facendone dei casi-limite, esempi di un’umanità e di contesti sociali che finiscono con l’essere poco accattivanti e indigesti al botteghino.

Prendiamo ad esempio questo “Il sospetto” del 1975, che per non essere confuso col film omonimo del 1941 di Alfred Hitchcock “Suspicion” in originale, verrà distribuito come “Il sospetto di Francesco Maselli” (poi ci sarà un altro film omonimo nel 2012 del danese Thomas Vinterberg). Ambientato nella Torino del 1934, centro nevralgico di interessi politici della sinistra operaia per la gran massa di operai della Fiat, racconta di un dirigente del Partito Comunista Italiano in clandestinità perché si è nel bel mezzo del cosiddetto ventennio fascista.

Scorcio parigino del film

L’ambientazione è inappuntabile e accattivante, si fa grande sfoggio di auto d’epoca e di comparse bene acconciate, e la cinematografia di Giulio Albonico insieme al montaggio di Vincenzo Verdecchi scarnificano l’opera rendendola fascinosamente essenziale, senza sbavature e inutili compiacimenti – ma già alla base del progetto c’è una scrittura – sceneggiatura di Franco Solinas (già critico cinematografico per il quotidiano comunista l’Unità) da un soggetto dello stesso Maselli – che sembra non tenere conto degli spettatori: è scritto come se parlasse solo ai tesserati del partito, dando per scontati dettagli informazioni e utili raccordi che vengono a mancare a chi non è addentro a quelle specifiche dinamiche, col risultato che io spettatore “non iniziato” e non iscritto al Partito Comunista faccio fatica ad entrare nello spirito del film, della sua narrazione; è esemplare il finale del film con il lungo monologo-spiegazione del funzionario del partito fascista, che dà un senso all’intero impianto del film ma che nelle mani di altri cineasti sarebbe potuto diventare un confronto più serrato e drammaticamente vivo; e l’intera storia che contiene tutti gli elementi di un thriller – il sospetto che ci sia un traditore fra le fila dei comunisti e l’indagine per smascherarlo – viene invece condotta come un film a tesi che spiega solo le dinamiche interne al partito: le tesi appunto e i contrasti, i dirigenti in clandestinità e quelli in esilio all’estero, l’allontanamento ideologico dal Partito Socialista Italiano, le direttive imposte dall’alto e il sacrificio individuale.

Ne è protagonista il sempre centratissimo Gian Maria Volonté, anch’egli comunista attivissimo: proprio in quel 1975 fu eletto consigliere regionale del Lazio, carica da cui si dimise appena sei mesi dopo, motivando: “Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia: io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso” a dimostrazione che la purezza e l’integrità ideologica non possono andare di pari passo con l’attività politica sul campo che deve fare i conti con le varie realtà trasformando l’iniziale ideologia in fatti concreti. A latere bisogna sempre ricordare che quelli erano i cosiddetti anni di piombo (modo di dire derivato dal film omonimo del 1981 della tedesca Margarethe Von Trotta) del terrorismo di destra e sinistra che aveva fatto del territorio italiano un campo di battaglia, si suppone col supporto dei servizi segreti americani che temevano l’espandersi della comunista Russia nell’Europa Occidentale: già nel film si parla dell’Unione Sovietica come ideologico faro dell’umanità. E anche in tale contesto va collocata l’ispirazione politica di autore e protagonista.

Fanno da contorno a Volonté un insolito Renato Salvatori per chi lo ricorda brillante giovanottone che era arrivato al successo negli anni ’50 con la trilogia di Dino Risi dei “Poveri ma belli” e, nonostante fosse quasi sempre doppiato ebbe anche bei ruoli in film drammatici; ma per Salvatori quegli anni ’70 erano già gli anni del declino: aveva ceduto all’alcolismo e consequenzialmente veniva chiamato per ruoli meno impegnativi benché sempre tenuto in considerazione da amici e colleghi; morirà 55enne di cirrosi epatica. Nel ruolo della dirigente italiana in esilio a Parigi c’è la parigina Annie Girardot, amica di famiglia essendo l’ex moglie di Salvatori con il quale era rimasta in affettuosi rapporti: si erano conosciuti nel 1960 sul set di “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, film che peraltro segnò l’apice della carriera di lui come interprete drammatico. Nel ruolo di un altro dirigente di partito c’è il torinese doc Felice Andreasi che era appena divenuto noto come ospite fisso del televisivo “Il poeta e il contadino” condotto da Cochi e Renato. Chiude il cast dei ruoli principali il sempre eccellente Pietro Biondi, l’unico ancora in vita fra gli elencati, nel ruolo del monologante agente dell’OVRA, la polizia politica fascista. Accreditato nel cast benché con un ruolo da figurante in campo lunghissimo c’è l’emergente Gabriele Lavia che già al cinema aveva avuto ruoli da protagonista: si suppone che il suo personaggio si sia perso in sala di montaggio.

protagonista e regista

L’occasione della scomparsa di Citto Maselli mi accende la curiosità sulla sua filmografia che non ho mai frequentato, con un focus sui lavori collettivi, i cosiddetti film a episodi, e quelli più onestamente politici e documentaristici. Nel 1981 Maselli ha confessato a Paese Sera: “Ho un’ambizione che non ho mai rivelato a nessuno, nemmeno a me stesso. È quella di essere dimenticato come regista e riscoperto, invece, come fotografo… La cosa più orribilmente sincera che abbia mai detto.” E inquadrati in quest’ottica i suoi film sono più fotografici che narrativi, nel senso che staticamente si focalizzano su personaggi e situazioni senza raccontarne lo sviluppo, la dinamicità, il divenire, e in questo modo congelando ogni afflato emotivo. Interessante la sua svolta negli anni ’80 con quattro film incentrati sulla donna: “Storia d’amore” del 1986 gran successo al Festival di Venezia dove l’autore vince il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria mentre alla protagonista Valeria Golino va la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. Nel 1988 segue lo sperimentale “Codice privato” con Ornella Muti unica interprete del film, nominata ai David di Donatello, ai Nastri d’Argento agli European Film Awards e vincitrice del Ciak d’Oro. Del 1990 sono gli altri due film con protagonista Nastassja Kinski, “L’alba” e “Il segreto”, film però entrambi clamorosamente bocciati dalla critica senza dire che il pubblico li ha praticamente ignorati.

Francesco Maselli, oltre a essere cineasta non ha mai abbandonato l’attività politica dedicandosi in particolare alla scrittura saggistica e mantenendo il suo ruolo, fondamentale, come militante della sinistra italiana. Nel 2001 dette vita alla Fondazione Cinema nel Presente riunendo una trentina di autori rappresentativi di tutte le generazioni del cinema italiano, fra i quali: Francesca Comencini, Wilma Labate, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo, Ettore Scola e Pasquale Scimeca; fondazione che produrrà molti di quei documentari collettivi in cui ha dato il meglio di sé. Andiamo a riscoprirlo.

Grazie zia – opera prima di Salvatore Samperi

Enzo Doria come Gionata in “Il vecchio testamento” del 1962 diretto dal generalista Gianfranco Parolini, dove ha ricoperto anche il ruolo di segretario di produzione

Il prode Enzo Doria, già attore belloccio che dopo essere apparso sugli schermi ha voluto fare le cose per bene frequentando il Centro Sperimentale di Cinematografia dal quale si è diplomato nel 1960, sin da subito aveva mostrato interesse per gli altri aspetti delle produzioni ricoprendo vari ruoli dietro le quinte, fino a farsi anche sceneggiatore e regista, ma il cui ruolo più importante rimane quello di produttore il cui primo avventuroso impegno sarà l’andare a braccetto col debuttante autore Marco Bellocchio alla ricerca di finanziamenti per “I pugni in tasca”. Ci ha preso gusto e a tambur battente ha prodotto altri due debutti, Silvano Agosti col censuratissimo “Il giardino delle delizie” e Salvatore Samperi con questo “Grazie zia”.

Di qualche anno più giovane del suo indiscusso modello, quel Marco Bellocchio appena giunto al successo, come lui viene da un’agiata famiglia borghese, di Padova, abbandona l’università per andare a iscriversi al Centro Sperimentale di Roma, che però lascia senza concludere il biennio per buttarsi nel movimento studentesco del 1968 e dichiararsi antiborghese e anti familista, più dichiaratamente di Bellocchio che invece esprimeva tormenti più personali; nel frattempo è assistente volontario, dunque non pagato, di Marco Ferreri, mentre gira anche da regista dei documentari industriali. Così, quando a 25 anni s’impegnerà in questo suo primo lungometraggio di finzione, conosce già bene il mestiere: si tratta solo di raccontare una storia. E la sua storia parte appunto dal suo modello, Marco Bellocchio con “I pugni in tasca”, di cui reimpiega lo svogliato attore feticcio Lou Castel in una vicenda dai tratti simili, l’implosione della famiglia borghese con un protagonista che ancora sogna la strage e anela il suicidio; ma mentre Bellocchio creava senza saperlo un paradigma cinematografico e sociale, Samperi è già sulle barricate del ’68, che è l’anno di produzione del film, e le istanze politiche sono tutte lì, dichiarate, anche con autocritica: il suo protagonista è un figlio di papà altrettanto disturbato come il protagonista di Bellocchio, che come molti giovani dell’epoca cavalca l’onda della rivoluzione sociale per dare sfogo solo ai suoi personali istinti autodistruttivi e nichilisti, senza progettualità né prospettive; gli fa da contraltare la figura dell’intellettuale di sinistra interpretata da Gabriele Ferzetti, seriamente impegnato e motivato, che però il giovane disprezza solo perché mosso da personale gelosia. Alvise è un paraplegico psicologico che è in grado di alzarsi dalla sedia a rotelle se motivato da momentanei impulsi e personali motivazioni, che fa la sua battaglia da adulto bambino su un plastico del Vietnam le cui vittime annota minuziosamente su una lavagna. Esemplare l’inizio del film: dopo l’elettrochoc cui viene sottoposto, panacea pseudo medica di quegli anni, intravediamo in una breve sequenza il suo autoritario padre sempre inquadrato di spalle o, se in campo lungo, nascosto alla nostra vista da una pianta: a simboleggiare la sua effettiva assenza come genitore.

C’è di nuovo, in Samperi rispetto a Bellocchio, l’aspetto erotico, e poi incestuoso in seconda istanza, a mettere in discussione l’impianto familiare benestante e borghese: il 17enne Alvise (ma l’attore è di quasi dieci anni più grande) è verosimilmente con gli ormoni in subbuglio, oltre a tutto il resto dell’armamentario di disturbi veri o presunti, e la bella zia fisioterapista presso cui viene mandato acuisce le sue già distorte fantasie. Molto bella la sequenza in cui il ragazzo osserva gli ospiti della zia cogliendone gli aspetti più intimi ed erotici: un erotismo di gran classe fatto di piccoli gesti inconsapevoli, sguardi e tensioni, che sfoceranno negli inevitabili rapidi amplessi che si consumeranno anche in modo un po’ arruffato.

Annie Girardot fu la prima scelta dell’autore ma rifiutò la parte che andò a Lisa Gastoni, attrice perfetta per il ruolo, giusta al momento giusto. “Io sono convinta che ciascuno di noi ha una sua età. Ci sono dei momenti fisici – perché nel cinema è soprattutto questione di momenti fisici – che ci sono più adatti, più giusti. In genere si chiamano ‘incontro col personaggio’. In fondo il mio vero incontro col personaggio è avvenuto quando avevo ventinove anni, girando ‘Grazie zia’. All’età quindi di una donna nella sua pienezza, alla soglia della trentina. Non ero vecchia ma neppure giovane. Però ero fisicamente ed emotivamente giusta per il ruolo.”

Una giovanissima Lisa Gastoni a inizio carriera

Lei, nata nel 1935 da padre italiano e madre irlandese, nel dopoguerra si trasferisce a Londra dove comincia come fotomodella e anche attrice senza mai sfondare davvero. Torna in Italia dove continua a fare cinema ancora senza grossi exploit fino a “Svegliati e uccidi” del 1966 di Carlo Lizzani dove – e bisogna ricordare che è sentimentalmente legata al produttore Joseph Fryd – interpreta la compagna del “solista del mitra” Luciano Lutring e si aggiudica il Nastro d’Argento; e per il ruolo di questa zia riceverà la Targa d’Oro ai David di Donatello, rilanciando la sua carriera come stella di prima grandezza; ma nei successivi prossimi anni Settanta sceglie di lavorare poco ma bene con registi e film di qualità, e vince un secondo Nastro d’Argento per “Amore amaro” di Florestano Vancini; ma per la sua scelta stilosa perde un po’ il contatto col grande pubblico sempre affamato di facili emozioni, e sul finire di quegli anni ’70 si ritira dalle scene lasciando il campo libero alla più giovane Laura Antonelli che lo stesso Samperi porterà al successo con “Malizia”; mentre da un altro lato si affermerà come diva sexy dei B movie Edwige Fenech. Lisa Gastoni tornerà di nuovo in gran spolvero nel nuovo millennio e fra cinema e tv ottiene altre candidature a premi prestigiosi, a cominciare dalla sua partecipazione a “Cuore sacro” di Ferzan Ozpetek, autore nella cui cifra stilistica va notato che ama reimpiegare vecchie glorie: Lucia Bosè, Erika Blanc, Massimo Girotti, Ilaria Occhini, Anna Proclemer…

Nella bella intervista di Mario Sesti, Lisa Gastoni dice una cosa non banale e interessante: che quando su una sceneggiatura ci sono troppe firme qualcosa non va. Viene citato anche il suo ultimo film diretto da Ferzan Ozpetek

Il film, nonostante nelle intenzioni dell’autore sia un manifesto politico di quegli anni, passerà alla storia come un cult che ha innestato il filone erotico nella commedia all’italiana, e anche Samperi, esaurita l’ispirazione politica che non ha portato grandi incassi alle sue imprese, si alternerà fra la commedia, anche sperimentale, vedi “Sturmtruppen”, e quel filone sexy di qualità che tanta immediata fama gli ha dato al suo debutto, tornando a deliziare le platee maschili con “Malizia” appunto, “Peccato veniale”, “Scandalo” e via discorrendo, un elegante erotismo sempre innestato sul disfacimento dell’istituzione della famiglia. Nel 1991 l’autore, evidentemente ormai col fiato corto, tenta col sequel “Malizia 2mila“, film assai problematico con tristi strascichi oltre che clamoroso insuccesso. Per Samperi è un personale colpo di grazia e smette di fare cinema, tornando solo dopo una decina d’anni a dirigere fiction per Canale 5, fino alla sua morte improvvisa a 68 anni.

Interessante il commento musicale di Ennio Morricone che ha composto un’inconsueta filastrocca cantilenante che torna quasi ossessiva nell’arco dell’intero film: “Guerra e pace, pollo e brace”; inoltre c’è anche l’altrettanto inconsueta “Filastrocca vietnamita” di Sergio Endrigo. Al montaggio torna il recalcitrante Silvano Agosti che stavolta si firma Alessandro Giselli e il film viene ammesso alla sezione ufficiale del Festival di Cannes del 1968, edizione che fu però cancellata dalle agitazioni studentesche del Maggio Francese: un dispiacere per autore e produttore mentre il protagonista di certo se la rideva sotto i baffi. Oltre alla Targa d’Oro a Lisa Gastoni il film si aggiudica anche il Nastro d’Argento per la miglior fotografia in bianco e nero di Aldo Scavarda. Salvatore Samperi si aggiudicherà l’attenzione di critica e pubblico, anche se per ragioni differenti: il titolo diventa subito sinonimo di situazioni scabrose ed erotismo pruriginoso, e avviando il filone della commedia sexy all’italiana resterà suo malgrado il capostipite del proficuo sotto-filone familiare in cui si contano: “Grazie… nonna” di Marino Girolami con Edwige Fenech, “Le dolci zie” di Mario Imperioli, “La cognatina” di Sergio Bergonzelli, “La cugina” di Aldo Lado, “Cugini carnali” di Sergio Martino, “Il vizio di famiglia” di Mariano Laurenti, “Peccati in famiglia” di Bruno Gaburro, “Cara dolce nipote” di Andrea Bianchi, “Bello di mamma” di Rino Di Silvestro, “Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno” di Luciano Salce e “Oh mia bella matrigna” di Guido Leoni che segna l’unica interpretazione cinematografica della valletta Sabina Ciuffini; qui tralasciando molti altri film che pur senza riferimenti alla famiglia nel titolo si inseriscono di diritto in questo sotto-filone cui lo stesso Samperi ha continuato a dare il suo contributo con “Peccato veniale” “Nenè” e “Casta e pura”.

Lou Castel, che fin dal primo set che ha frequentato, “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, ha mostrato di non essere particolarmente interessato al concetto di “carriera” perché è un estremo eccentrico che non intende sottomettersi a un sistema di auto celebrazione in cui ci si auto rappresenta; già col successo di “I pugni in tasca” si defilò dai classici dibattiti con pubblico e stampa che seguirono, mettendo la scusa che non parlava bene l’italiano: in realtà era depresso dall’esito oltremodo positivo del film perché il successo gli dimostrava che anche quel film d’autore era un’impresa commerciale come tutte le altre. Idealista duro e puro dunque, fino al nichilismo del paradosso secondo cui un film di qualità, politicamente e socialmente impegnato, non deve avere successo commerciale. Ma suo malgrado diventa un celebrità transalpina e così comincia ad accettare qualsiasi cosa, che si tratti di film artistici o di serie B tutto fa brodo per permettergli di finanziare le cause di quell’estrema sinistra a cui ha aderito con tutte le scarpe, e versa tutti i suoi guadagni nell’organizzazione maoista “Servire il popolo” con questa motivazione: “Molti giovani della borghesia hanno fatto lo stesso, vendendo la loro auto o il loro appartamento. D’altro canto, di attori che hanno fatto lo stesso, ce n’erano pochi o niente.” E fu espulso dal democristiano e cattolicissimo governo italiano come indesiderato. Il disgusto per la popolarità che gli deriva dal suo lavoro di attore si esprime ancora in questo racconto: “Ricordo una volta che stavo chiacchierando con un ragazzo che mi aveva visto il giorno prima in ‘Grazie zia’ di Salvatore Samperi, un dramma piuttosto sulfureo ed erotico dove interpretavo un ragazzo che seduceva la zia. Io stavo cercando di convincerlo della necessità di una rivolta, ma la sua unica ossessione era se avessi scopato o meno l’attrice, Lisa Gastoni.” E ha raccontato pure allegramente che Louis Malle lo cercava senza trovarlo perché lui era a fare la sua rivoluzione, e non lo ha più trovato. Nonostante ciò la sua carriera di attore non-attore ha continuato, e anche se l’emergenza estremista si è acquietata lui rimane sempre un uomo controcorrente. Oggi ha 79 anni e nel 2016 Pierpaolo De Santis ha realizzato su di lui il documentario biografico “A pugni chiusi”.