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Il mattatore – nel centenario della nascita di Vittorio Gassman

Il film completo

Il primo settembre di cento anni fa nasceva Vittorio Gassman, e qui che parlo di cinema il modo migliore per ricordarlo è questo “Il mattatore”, definizione che gli rimase addosso e che egli sapientemente coltivò. Titolo che era nato dal programma televisivo omonimo in dieci puntate, disponibili su RaiPlay, diretto da Daniele D’Anza con musiche di Fiorenzo Carpi, che allora andò in onda sull’unico canale Rai che era chiamato programma nazionale; produzione di arte varia con sketch che andavano dal teatro al varietà passando per le imitazioni e le parodie e le improvvisazioni, con incursioni nella politica sapientemente filtrate dalla censura governativa; scenette in cui il mattatore era sempre al centro della scena accompagnandosi a colleghi come lui di formazione teatrale, quali i coniugi Paolo Ferrari e Marina Bonfigli e i caratteristi Carlo Romano ed Enrico Viarisio; una sorta di contenitore che era stato ideato dal drammaturgo e sceneggiatore Federico Zardi che ne firmava le puntate assieme allo stesso Gassman, e solo in un paio di occasioni collaborarono il giornalista Indro Montanelli e un altro drammaturgo e sceneggiatore di successo, Guido Rocca, attento osservatore dei costumi la cui prematura morte, a 33 anni, interruppe la sua proficua produzione. L’Enciclopedia della Televisione così definisce il prodotto: “L’impossibilità di incasellare il programma in un genere preciso ha spinto la RAI a definire questa sua pregevole produzione come ‘spettacolo misto’, fluida convivenza di una pluralità di generi e di registri”.

Vittorio Gassman e Dino Risi

Dal programma Rai nacque immediatamente l’idea del film, anche perché all’epoca la televisione era un elettrodomestico di lusso che pochi si potevano permettere, proprio come ci ricorda un veloce dialogo all’inizio del film in cui un vicino di casa invita il mattatore, che nel film si chiama Gerardo Latini, ad andare da lui, con la sua signora, a vedere la televisione: questo anche a informare lo spettatore dell’epoca che il protagonista non si può permettere il lussuoso apparecchio. Dunque, chi non aveva potuto vedere il Mattatore in tivù ora lo poteva vedere al cinematografo, che dato il rapporto costo-beneficio era assai più popolare di quanto lo sia oggi.

Il mattatore che rifà Hitler

Va da sé che il film, pur mantenendo lo spunto degli sketch, si articola con una diversa narrativa: il contenitore è lo stesso protagonista che fuori campo racconta di sé e ci introduce ai vari momenti delle sue avventure, tutte truffaldine, legate al mondo dei simpatici truffatori di quell’Italia che dal dopoguerra si stava preparando al boom economico degli anni ’60. Come recitano i titoli di testa il film nasce “da un racconto di Age & Scarpelli su spunto di Sergio Pugliese, un modo macchinoso per mettere in evidenza i nomi dei tre sceneggiatori sugli altri che contribuirono alla scrittura, ovvero Sandro Continenza, Ettore Scola e Ruggero Maccari, altre firme di lusso. Dirige Dino Risi, quarantenne già di successo che un paio d’anni dopo dirigerà ancora Gassman nell’exploit “Il sorpasso”. Peppino De Filippo fa da spalla di lusso al mattatore e coprotagonista femminile è la bruna Anna Maria Ferrero nel ruolo della moglie, che però sia nei titoli che nel cartellone viene messa dopo la bionda Dorian Gray che ha un ruolo di secondo piano ma evidentemente aderenze di primo piano con la produzione di Mario Cecchi Gori. Altri interpreti di notevole apporto artistico sono Mario Carotenuto, Alberto Bonucci, Fosco Giachetti, Linda Sini, Aldo Bufi Landi, Armando Bandini, Luigi Pavese, Mario Scaccia, Fanfulla, in un piccolo ruolo Enzo Cerusico e come chitarrista del night Fred Bongusto.

Con Peppino De Filippo nella scena in galera

Essendo il protagonista un truffatore il film è una sequela di truffe tanto ben congegnate quanto paradossali e – oggi che siamo abituati a ben altre truffe che ci entrano in casa via telefono e computer – anche datate e ingenue, benché in linea con lo spirito dell’italiano medio la cui predisposizione creativa alla truffa, o per lo meno al raggiro e nel meno peggio dei casi alla fanfaronata, sembra essere inscritta nel DNA, e non a caso il mattatore televisivo è stato trasformato in un truffatore per essere raccontato alle grandi platee cinematografiche. Detto questo la trama è ben congegnata e gli stessi truffatori vengono truffati in una realtà ellittica che sembra non avere alternative: la specchiata onestà non è qualità italiana. Appartengono al gusto dell’epoca anche le figure femminili: la moglie è un’ex soubrette di varietà che, contrariamente alla diffusa narrativa, è una ragazza di integerrimi principi che canta alle rumorose platee maschili che lei è in cerca di un uomo da sposare per mettere su famiglia: il massimo delle aspirazioni femminili allora consentite alle femmine oneste. L’altra donna è al contrario una malvivente e fa la truffatrice di professione lasciando intendere che sia anche di larghe vedute su altre possibilità di guadagno. Nel complesso è sempre un piacere rivedere un Vittorio Gassman che è al meglio delle sue prestazioni ancorché in un prodotto di genere dove non sono concesse sfumature interpretative e tuttavia riesce sempre credibile e fluido anche nelle interpretazioni più bizzarre e grottesche: lo vediamo imitare il divo Amedeo Nazzari col celebre “chi non beve con me peste lo colga” da “La cena delle beffe” (1942, regia di Alessandro Blasetti) che evidentemente il pubblico ancora ricorda a quasi vent’anni di distanza, e parodiare en travesti Greta Garbo, alludendo neanche troppo velatamente al suo aspetto mascolino e al presunto lesbismo: basta questo per andare a (ri)vedere il film.

Con Anna Maria Ferrero

Pinocchio – Benigni uno e due

Pinocchio siamo tutti noi, sempre sospesi fra il bene e il male, i buoni propositi e le tentazioni, l’altruismo e l’autogratificazione. Non sorprende quindi l’affetto che proviamo per questo personaggio che per la maggior parte – io in primis – conosciamo dai derivati della storia originale, un racconto per l’infanzia ottocentesco che in pochi abbiamo letto per intero: “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino” di Carlo Collodi.

Il primo a farne una storia per lo schermo, nel 1940, fu il cartoonist americano Walt Disney che per ispirarsi guardava spesso alle mitologie e alle favore europee, consapevole che tutta la cultura americana, veicolata dai popoli, venivano dal Vecchio Continente; nello specifico la sua famiglia veniva dalla Francia e Disney non è altro che l’anglicizzazione di D’Isigny. Forte del successo del suo primo lungometraggio “Biancaneve e i Sette Nani” produsse “Pinocchio” raddoppiando il budget, ma non ebbe altrettanto successo, soprattutto nella vecchia Europa. Fu però il suo primo film a vincere due Oscar, colonna sonora e canzone originale, e recentemente è stato inserito nella top ten dei capolavori cinematografici. Niente di strano che la favoletta rimaneggiata e adattata da Disney sia stato il nostro punto di riferimento e l’unico Pinocchio di immediata lettura per decenni.

Dobbiamo arrivare al 1972 per avere una produzione italiana col televisivo in sei puntate “Le avventure di Pinocchio” che, nel largo respiro della serie, rende merito al complesso racconto di Collodi: un’opera, così va definita, di eccellenza, che soppianta per sempre nel nostro immaginario il grazioso burattino disegnato da Disney: un capolavoro che rimarrà per sempre nei bambini di allora il punto di riferimento e di confronto per tutto quello che verrà. Anche la sigla di Fiorenzo Carpi resterà impressa nella nostra memoria.

La regia era di Luigi Comencini, Geppetto era Nino Manfredi, la Fata Turchina: Gina Lollobrigida, il Gatto e la Volpe: il duo comico Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Il Giudice: Vittorio De Sica, Lionel Stander: Mangiafuoco, Mario Scaccia e Jacques Herlin: i due dottori, Mario Adorf: il direttore del circo, e potrei continuare con una pletora di grandi caratteristi italiani dell’epoca. Pinocchio, interpretato dal bambino Andrea Balestra, è stato reinventato in un burattino di legno quando era monello, ma che si trasformava in bambino quando faceva il bravo. L’ambientazione era quella povera e rurale della provincia italiana fine Ottocento che restituiva la storia ai suoi luoghi naturali e a Pinocchio il suo accento toscano.

Nel 2002 arriva il “Pinocchio” di Roberto Benigni che con i suoi 45 milioni di euro di budget rimane il film italiano più costoso, prodotto dalla Melampo di Nicoletta Braschi, moglie e musa di Benigni. In concomitanza dell’uscita del “Pinocchio” di Matteo Garrone il film torna in tv dove lo rivedo senza neanche arrivare al finale, confermando e rafforzando l’opinione che ne ebbi allora: è un film egocentrico ed esorbitante, frutto del successo internazionale e degli Oscar per “La vita è bella” come miglior film straniero, miglior protagonista e miglior musica a Nicola Piovani. Un successo che dà alla testa e per il quale ora Benigni guarda all’America e di cui copia gli sforzi produttivi e un certo stile narrativo. Non a caso il film si apre con la carrozza della Fata Turchina trainata da un esercito di topolini bianchi che sembra uscita da un film Disney. Poi prosegue con una riuscitissima sequenza in cui un ciocco di legno caduto da un carretto prende vita e rotola per le vie del paesello con una serie di gag da comiche del cinema muto. Ma non appena il Geppetto di Carlo Giuffrè finisce di creare il suo Pinocchio si capisce subito che è un Pinocchio “pro domo sua”: non c’è traccia del burattino di legno e Benigni recita il suo Pinocchio, con accento toscano, certo, ma con la vocina e la gestualità di un bambino che in un cinquantenne è davvero imbarazzante, per non dire irritante. Già all’inizio avevamo avuto un assaggio dell’andazzo con la Fata Turchina di Nicoletta Braschi che si atteggia e fa la vocina come una bambina che recita, male, alla recita scolastica. Si salva tutto il contesto: scenografia e costumi premiati col Nastro d’Argento e la musica sempre di Piovani. Si salva il corollario dei caratteristi: Kim Rossi Stuart: Lucignolo, Peppe Barra: il Grillo Parlante, il duo comico I Fichi d’India come Gatto e Volpe, Mino Bellei: Medoro, Corrado Pani: il Giudice, Alessandro Bergonzoni: il direttore del circo, Tommaso Bianco come Pulcinella e Stefano Onofri come Arlecchino fra i burattini del Mangiafuoco di Franco Javarone. Ovviamente il film è un successo al botteghino ma viene stroncato dalla critica e, cosa ancora peggiore, è un flop in quell’America per il quale era stato segretamente pensato.

Onestamente non sentivo la necessità di un altro Pinocchio ma quando ho saputo che il progetto era di Matteo Garrone sono rimasto in fiduciosa attesa. Avevo apprezzato moltissimo i suoi “L’imbalsamatore” del 2002 e “Primo amore” del 2004. Nel 2008 “spacca” con “Gomorra” dal libro di Roberto Saviano e che ispirerà la serie tv omonima da una cui costola prende vita il recente “L’Immortale”. Del 2018 è il premiatissimo “Dogman” ma questo “Pinocchio” si inserisce nel percorso avviato con “Il Racconto dei Racconti” ispirato al seicentesco “Lo Cunto de li Cunti” di Giambattista Basile: siamo quindi alla radice della narrativa italiana. E, come quell’altro film, questo “Pinocchio” mi sembra, altrettanto, grandioso e imperfetto.

Ha il merito di riportare il racconto nell’Italia rurale fine ‘800 e di rimettere al centro della storia un burattino di legno. Anche la Fata Turchina torna alle sue origini e come nella storia di Collodi la sua prima apparizione è come fata bambina. Purtroppo la caratteristica di Garrone che ha fatto grandi altri suoi film, in questo genere favolistico risulta essere un difetto: parlo della sua mancanza di empatia coi personaggi, del distacco col quale li racconta, e come per il film tratto da Giambattista Basile questo che ritorna a Collodi è a tratti emozionante e anche pauroso, nell’ottica del bambini, ma assolutamente privo di trasporto emotivo, quasi troppo freddo e razionale nel trattare queste grandi favole: è meritevole l’intento di ridare vita ai classici italiani ma il suo approccio analitico, vincente altrove, toglie smalto alle storie.

Sbagliati il Gatto e la Volpe assegnati a Massimo Ceccherini e a Rocco Papaleo: è evidente che fra i due non c’è feeling e non scatta quella scintilla che c’era fra le coppie comiche di comprovata esperienza come Franco e Ciccio o i Fichi d’India; la francese Marine Vacht è un’intensa e dolcemente seduttiva Fata Turchina che da bambina è Alida Baldari Calabria; Gigi Proietti restituisce grandiosità e burbera umanità a Mangiafuoco e Paolo Graziosi ridà vita a Mastro Ciliegia; Massimiliano Gallo è il Direttore del circo; la cabarettista Maria Pia Timo è la Lumaca e Maurizio Lombardi è il Tonno filosofo che nuota dentro il gran Pesce-Cane (che in Disney è una balena) qui disegnato sui bestiari medievali; Teco Celio è il Giudice, Enzo Vetrano è il Maestro e Domenico Centamore è il pastore; il nano Davide Marotta è il Grillo Parlante in un insieme di compagnia di nani come intelligente scelta registica per la compagnia dei burattini. Il burattino è il bambino Federico Ielapi pesantemente truccato come fosse legno, da premiarne la paziente sopportazione, e sempre credibile nella sua naïveté. Geppetto, dopo la prima ipotesi di Toni Servillo, è naturalmente Roberto Benigni, con un “naturalmente” dal doppio significato: primo, per la sua toscanità, e secondo perché dopo essere stato un improbabilissimo Pinocchio qui è finalmente nel giusto ruolo che gli compete, per età e per divismo: è dimesso e misurato come la regia richiede ma qua e là, si vede, è più forte di lui, gli brilla l’occhio del monello che è.