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Oppenheimer – Miglior Tutto (o quasi) Oscar 2024

7 premi su 13 nomination sia agli Oscar che ai BAFTA per le medesime categorie, 5 Golden Globe, 4 Critics Choise Awards, 3 SAG-AFTRA, un Grammy Award alla colonna sonora di Ludwig Göransson, e l’inserimento nel National Board Rewiew fra i 10 migliori film dell’anno. Per non dire degli incassi record, anzi lo stiamo dicendo. Tutto questo nonostante il film sia sostanzialmente ostico trattando di materie astratte come la fisica e la quantistica e raccontando un protagonista non particolarmente simpatico in un contesto storico e accademico fatto di nomi e circostanze che dicono poco o nulla al grande pubblico: tolti i rassicuranti (perché conosciuti) Albert Einstein e il presidente Harry Truman, sono tutti personaggi alcuni dei quali Premi Nobel che fanno solo girare la testa. Ma la forza del film, scritto dallo stesso regista dalla biografia “Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica” di Kai Bird e Martin J. Sherwin che già vinse il Premio Pulitzer, sta nella sua struttura che mescola i generi spy thriller e legal drama interpuntati da accattivanti veloci effetti che visualizzano l’astrusità (per noi comuni spettatori) della materia quanto mai oscura, e la confezione è talmente perfetta che ci tiene incollati allo schermo nonostante le tre ore di visione. Gli Oscar vinti sono Miglior Film, Miglior Regista, Miglior Protagonista, Miglior non Protagonista, Miglior Fotografia a Hoyte Van Hoytema e Miglior Montaggio a Jennifer Lame.

Ma c’è da aggiungere che molto del merito va anche alle superlative interpretazioni dell’insieme, sin nei ruoli più piccoli dove spesso ritroviamo nomi di prim’ordine, e questo fa la differenza: la grandezza di un film, e conseguentemente del suo autore, si vede anche dall’adesione che al progetto viene da conclamati protagonisti che pur di esserci si accontentano di ruoli secondari: ci sono i già premi Oscar Matt Damon (miglior sceneggiatura originale nel 1998 insieme all’amico Ben Affleck per “Will Hunting – Genio Ribelle”) il quale non ha mai disdegnato i ruoli da comprimario se ne vale la pena e che qui ha uno dei ruoli più corposi, il fratello del suo amico Casey Affleck (miglior non protagonista nel 2017 per “Manchester by the Sea”) ed entrambi già con ruoli secondari nel cast di “Interstellar” sempre di Christopher Nolan.

Gary Oldman

In ruoli davvero minori Rami Malek (miglior protagonista nel 2019 per “Bohemian Rhapsody” dove ha impersonato Freddy Mercury), Sir Kenneth Branagh (7 candidature e un solo Oscar nel 2022 per la miglior sceneggiatura originale del biografico “Belfast”) e Gary Oldman (miglior attore nel 2018 per “L’ora più buia” dove è stato Winston Churchill) che qui con una sola scena lascia la sua impronta come presidente Truman il quale pensa basti pulirsi le mani con un fazzoletto di seta dal sangue versato dalla bomba atomica che rivendica come sua.

Ci sono poi i già candidati all’Oscar Florence Pugh (nel 2020 per “Piccole Donne”) che qui pervade la prima parte del film come tormentata amante segreta di Oppenheimer, e soprattutto Robert Downey Jr. che come vero antagonista complottista si aggiudica l’Oscar best supporting actor dopo aver ricevuto le candidature per “Charlot” nel 1993 e “Tropic Thunder” nel 2009.

Robert Downey Jr.

E ci sono a vario titolo i già protagonisti o noti comprimari sia di film che di serie tv: Emily Blunt nel ruolo della moglie del fisico che qui si aggiudica la sua prima nomination all’Oscar come best supporting actress; Josh Hartnett, Jason Clarke, James D’Arcy, Dane DeHaan, Alden Herenreich, Tony Goldwin, David Krumholz, Scott Grimes, Gregory Jbara, Tim DeKay, Jeff Hephner, James Remar, Gustaf Skarsgård, James Urbaniak, Josh Zuckerman e per ultimo, anche nei titoli, il quasi irriconoscibile Matthew Modine che fu giovane promessa hollywoodiana: Coppa Volpi al Festival di Venezia per “Streamers” (1983) di Robert Altman e poi protagonista assieme a Nicholas Cage (che al contrario ha saputo mantenersi sulla breccia) dello struggente “Birdy” (1984) di Alan Parker e in “Full Metal Jacket” (1987) di Stanley Kubrick; ma dopo qualche altro film la sua carriera è tutta in discesa fino a venire quasi del tutto dimenticato.

Come generosamente ha titolato MoviePlayer

Chiudo l’elenco del fitto cast con gli ex attori bambini ormai divenuti interpreti di rango Alex Wolff, Michael Angarano e Josh Peck; ci sono poi il figlio d’arte Jack Quaid (di Dennis Quaid e Meg Ryan) e i meno noti al grande pubblico Dylan Arnold come fratello del protagonista, Tom Conti che veste i panni di Einstein, Danny Deferrari come Enrico Fermi e Benny Safdie che è principalmente regista indipendente in coppia col fratello Josh.

Cillian Murphy a confronto con il vero Robert Oppenheimer

Protagonista assoluto l’intenso Cillian Murphy premiato con la statuetta più ambita alla sua prima candidatura. Ricordando che ha già lavorato con Nolan in “Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno” e in “Dunkirk”, bisogna notare che il regista londinese preferisce lavorare con interpreti britannici suoi conterranei: qui oltre a Murphy, Emily Blunt, Florence Pugh, Kenneth Branagh, James D’Arcy e Tom Conti oltre ad altri, non dimenticando anche il Christian Bale della trilogia sul Cavaliere Oscuro. Ma se l’autore è riconoscibile nella composizione del casting lo è soprattutto per il suo stile: ama raccontare i tormenti interiori passando per le ossessioni e gli inganni – in quest’ottica è davvero magistrale l’interpretazione di Robert Downey Jr. – e i confini della realtà anche solo come percezione interiore dei suoi personaggi – qui ben esplicitati nella figura di Oppenheimer con le sue visioni e i suoi tormenti.

Christopher Nolan sul set

Da ricordare anche la polemica dell’autore con la Warner Bros. che aveva prodotto i suoi precedenti film: “Alcuni dei più grandi registi e delle star più importanti della nostra industria sono andati a dormire pensando di lavorare per lo studio più prestigioso e si sono svegliati scoprendo di lavorare per il peggior servizio streaming.” aveva dichiarato polemicamente Nolan allorché la major aveva deciso di distribuire tutto il suo catalogo 2021 (la pandemia ha rilanciato l’home video) in contemporanea sia nelle sale che in streaming su tv e pc; e difatti, passato con questo film alla Universal, si legge nei titoli che il film è scritto e diretto “per il cinema”. E la Warner Bros. per fargli dispetto fece uscire il suo blockbuster su “Barbie” proprio in contemporanea all’uscita di “Oppenheimer”, ma gli attori di entrambi i cast, più lungimiranti e accoglienti delle case produttrici, invitarono il pubblico ad andare a vedere i due film in un solo pomeriggio come un doppio spettacolo, l’evasione e l’impegno, e tra le celebrity a fare da apripista seguendo il consiglio e fare da traino al grosso del pubblico ci sono stati Tom Cruise, che era già nelle sale con “Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte uno” e che non ha perso l’occasione per parlare anche del suo film, e lo sfaccendato cineamatore Quentin Tarantino; e a quel punto si è creato un altro dibattito: in che ordine vederli? la stampa chiamò il fenomeno Barbernheimer e il merchandising si buttò a capofitto nell’impresa creando magliette e ogni altra sorta di gadget… che poi uno dice: le americanate!

Povere creature! – Leone d’Oro e Oscar 2024

Ovvero quando in Italia proprio non ci azzeccano coi titoli. Dietro questo film c’è un romanzo, “Poor Things!” appunto, che l’eclettico artista scozzese Alasdair Gray diede alle stampe nel 1992 e che da noi Marcos y Marcos tradusse come “Poveracci!” che se uno lo comprava senza sapere cosa, poteva pensare che si trattasse di un romanzo inedito di Pier Paolo Pasolini sulle sue periferie romane; ma la casa editrice milanese dovette subito rendersi conto della figuraccia tant’è che lo stesso anno uscì con un’altra edizione reintitolata “Vita e misteri della prima donna medico d’Inghilterra” facendo pensare stavolta a un saggio storico su Elizabeth Blackwell che fu la prima donna a laurearsi in medicina nel 1849; doveva essere molto faticoso alla Marcos y Marcos – che orgogliosamente si sono dedicati esclusivamente alla traduzione e diffusione di letteratura straniera – pensare a un titolo più rispettoso dell’originale, magari lasciandolo così com’è dato che ormai tutti comprendiamo due parole come poor things. Risultato: le vendite non decollarono e il geniale – in patria – autore scozzese restò da noi misconosciuto. Ma con eccezionale tempismo da standing ovation (su cui indagherò) la piccola casa editrice Safarà (anch’essa con vocazione straniera dedicata alla pubblicazione di opere lontane nello spazio e nel tempo, come si legge sul sito) con sede in Pordenone, dunque periferia geografia e periferia editoriale, fa il colpaccio acquisendo per tempo i diritti ed esce in contemporanea col film al Festival di Venezia, entrambi i lavori, libro e film stavolta intitolati “Povere Creature!”: film e libro di successo.

Alasdair Gray

Il progetto del film non è cosa recente. Nel 2009 l’autore greco Yorgos Lanthimos arrivato proprio in quell’anno alla ribalta con “Dogtooth”, suo terzo lungometraggio tutto greco (il titolo originale era “Kynodontas”) incoronato miglior film al Festival di Cannes nella categoria Un Certain Regard cui seguirono le candidature al British Film Awards e all’Oscar, forte della recentissima fama acquisita in ambito internazionale, andò fino in Scozia per chiedere ad Alasdair Gray, scrittore drammaturgo e artista visivo, di concedergli i diritti del romanzo in questione, e quando arrivò a casa dello scrittore fu sorpreso dall’accoglienza: lo scozzese aveva visto e apprezzato molto il suo film e il greco lo ricambiò esprimendogli la sua ammirazione per quel romanzo che nessuno aveva mai pensato di trasporre per il cinema, fino a ispirarsene: l’inizio di “Dogtooth” e l’inizio del romanzo hanno un aspetto identico: in entrambe le narrazioni i genitori tengono i figli chiusi in casa senza nessun contatto col mondo esterno, reale. Nel film poi le cose procedono in maniera assai più inquietante che nel romanzo, il quale attraverso una narrazione pastiche rimane una favola morale con evidentissimi rimandi al Frankenstein di Mary Shelley e con richiami anche ai mondi narrativi di Arthur Conan Doyle e Lewis Carroll: il romanzo gotico fine ‘800. Da buoni nuovi amici il 75enne scozzese portò il 36enne greco in giro per Glasgow a mostrargli i luoghi reali che aveva inserito nella storia, storia che però era quanto mai irreale, lontana dagli altri suoi romanzi in cui raccontava una città più realistica con indagini sul sociale.

Alasdair Gray a una sua mostra

Le “povere cose” del romanzo, in cui l’autore inserisce anche delle tavole illustrate di propria mano firmate però con lo pseudonimo di William Strang, si muovono in una fantasiosa epoca vittoriana raccontata come iperbole per continuare a parlare dei temi cari: le disuguaglianze sociali, l’ambiguità delle relazioni interpersonali e la ricerca dell’identità – temi cari anche all’autore greco che di suo aggiunge un gusto assai noir ellenicamente intriso di eros e thanatos: il progetto prese il via restando però come lungo work in progress data la difficoltà dell’impresa.

Una delle illustrazioni di Gray: è evidente che lo stile è stato ripreso nelle scenografie del film.

I film successivi di Lanthimos si aprono alle coproduzioni internazionali e vengono girati in lingua inglese, ma restano ancora nell’ambito delle produzioni indipendenti, però con l’arrivo sui set dei primi divi: Colin Farrell, Rachel Weisz e in un ruolo secondario l’apprezzata ma non ancora nota Olivia Colman per “The Lobster” (2015) Premio della Giuria a Cannes, candidatura all’Oscar per la sceneggiatura e al Golden Globe per Colin Farrell che ha rilanciato la sua carriera che s’era avviata in fase discendente; Farrell torna nel successivo film affiancato da Nicole Kidman in “Il Sacrificio del Cervo Sacro” (2017) con la sceneggiatura premiata a Cannes più molte altre candidature in altri premi – ma sono film ancora a basso costo che trattano le tematiche noir e grottesche tipiche dell’autore. Il 2019 è l’anno della consacrazione (anche se ancora gli sfugge l’Oscar personale) col triangolo lesbico nei palazzi reali inglesi del 1700 in “La Favorita” dove per la prima volta l’autore lavora su una sceneggiatura non sua, e per il ruolo della protagonista restò fermo su Olivia Colman che vincerà Oscar e Golden Globe divenendo una delle attrici più richieste; mentre per l’altra protagonista, dopo che Kate Winslet ha lasciato il progetto, offrì il ruolo a Cate Blanchett che però ringraziando declinò; a quel punto Lanthimos ripescò Rachel Weisz che non si fece problemi nell’essere una terza scelta e anzi si disse molto stimolata considerando il ruolo come “il più succoso” della sua carriera, paragonando la sceneggiatura a “Eva contro Eva” ma più divertente perché mossa dalla passione e dal sesso.

Protagonista e regista sul set

Emma Stone si autocandidò: aveva chiesto al suo agente di metterla in contatto col regista, che dopo averla incontrata le chiese di prendersi un insegnante per acquisire l’accento british, e la Stone s’impegnò così tanto che fra i due scoccò una scintilla professionale, tanto che Lanthimos le anticipò il suo progetto su “Poor Things”.

“Dopo il relativo successo di ‘La Favorita’ – ha dichiarato il regista – dove in realtà ho realizzato un film leggermente più costoso che ha avuto successo, le persone erano più propense a permettermi di fare qualunque cosa volessi, quindi sono tornato al libro di Gray e ho detto: ‘Questo è quello che voglio fare.’ È stato un processo lungo, ma il libro era sempre nella mia mente.” Processo talmente lungo che nel 2019 Alasdair Gray se ne andò 85enne senza aver potuto vedere il film tratto dal suo romanzo: il progetto fu ufficialmente annunciato nel 2021, in piena pandemia Covid, con Emma Stone che fece il grande salto da attrice scritturata a co-produttrice: “È stato molto interessante essere coinvolta nel modo in cui il film veniva messo insieme, dal cast ai capi dipartimento a ciò che è stato messo insieme. Alla fine, Yorgos è stato colui che ha preso quelle decisioni, ma io sono stato molta coinvolta nel processo, che è iniziato durante la pandemia; stavamo contattando le persone, facendo il casting e tutto il resto durante quel periodo, perché non potevamo andare da nessuna parte.” Mentre era chiusa in casa, pensando al personaggio sperimentò di farsi una tintura che accidentalmente risultò nera corvina, cosa che non era nelle sue aspettative; ma quel look che contrastava con la sua carnagione chiara piacque al regista e decisero di mantenerlo. Nel costruire il personaggio di Bella Baxter, l’attrice era attratta dall’idea di ritrarre una donna rinata con una mentalità libera dalle pressioni sociali: “Chiaramente, questo non può realmente accadere, ma l’idea che tu possa ricominciare daccapo come donna, con un corpo già formato, e vedere tutto per la prima volta e provare a capire la natura della sessualità, o del potere, o del denaro o della scelta, la capacità di fare delle scelte e di vivere secondo le proprie regole e non quelle della società: ho pensato che fosse un mondo davvero affascinante in cui compenetrarmi. Era il personaggio più gioioso al mondo da interpretare, perché non ha vergogna di nulla. E’ nuova, sai? Non ho mai dovuto costruire un personaggio prima che non avesse cose che gli erano accadute o che non gli erano state imposte dalla società per tutta la vita. È stata un’esperienza estremamente liberatoria essere lei.”

Si proseguì con la composizione del cast e per i ruoli maschili firmarono il veterano Willem Dafoe nel ruolo del frankensteiniano creatore di Bella che ogni giorno si è sottoposto a sei ore di trucco e parrucco, e il cinematograficamente poco noto ma già premiato comico americano di origine egiziana Ramy Youssef come suo aiutante e promesso sposo della creatura: entrambi, per prepararsi ai ruoli, hanno frequentato una scuola per becchini. Mark Ruffalo prese il ruolo del fascinoso manipolatore avvocato che introduce Bella nel mondo reale pensando di poterla usare come oggetto di piacere e al contempo controllare, non immaginando che la voglia di vita di lei avrebbe preso il sopravvento scompaginando tutte le regole vittoriane sulle quali l’uomo basava ogni sua convinzione: interpretazione molto autoironica e divertente. Nel ruolo del sadico marito della prima vita della protagonista l’emergente Christopher Abbott.

Si aggiungono Margareth Qualley (figlia di Andie McDowell) come nuova creatura in sostituzione della transfuga Bella, e nel ruolo della tenutaria del bordello Kathryn Hunter nata in America da genitori greci come Aikaterini Hadjipateras e poi naturalizzata britannica: forte caratterista che per la sua fisicità viene spesso chiamata sui set di film in costume; la nera francese Suzy Bemba, vista come protagonista della serie tv francese sul balletto “L’Opéra”, è una delle prostitute; e come crocieristi sul transatlantico il filosofo nero Jerrod Carmichael che principalmente è un altro comico televisivo e la rediviva 80enne Hanna Schygulla, indimenticata star di tutti gli anni ’70 fino alla metà degli ’80, nel divertito ruolo di una vecchia ricca signora dallo spirito assai innovativo rispetto a quell’Ottocento.

Oscar anche ai costumi di Holly Waddington che ha lavorato a stretto contatto con l’autore per rendere attraverso il guardaroba la crescita e lo sviluppo di Bella, dall’infanzia con abiti gonfi al corsetto che la fascia alla fine del film; anche l’attrice produttrice ci ha messo del suo pensando che nella sua infanzia Bella si veste in modo più tradizionale (si fa per dire, visti i costumi) mentre via via che cresce sceglie di vestirsi in modo più bizzarro – in un contesto surreale e grottesco dove qualsiasi cosa è plausibile.

E Oscar anche alla scenografia firmata dagli inglesi James Price e Shona Heath a cui in un secondo tempo si è aggiunto l’ungherese Zsuzsa Mihalek per i set interamente costruiti in studio in Ungheria, con i fondali dipinti in stile vecchia Hollywood secondo la visione del regista, e partendo dalle illustrazioni che Gray aveva realizzato per illustrare il suo romanzo, Lanthimos ha invitato gli scenografi a liberare tutta la loro follia: sono stati così realizzati, oltre alle versioni in miniatura per i campi lunghi, quattro enormi set in stile Escher, con versioni distorte e vertiginose delle capitali europee in cui Bella viaggia, come visioni nate dalla fantasia del personaggio ancora bambina.

Distorsioni visive accentuata anche dalla visione registica che col direttore della fotografia Robbie Rayan (candidato) hanno usato spessissimo le lenti deformanti come il grandangolo e il fish-eye. Un altro compiacimento autorale è l’uso del bianco e nero in molte sequenze all’inizio del film, che è generalmente gradevole pur senza essere compreso appieno, e qui arrivano le dotte spiegazioni: Lanthimos parte dal fatto che secondo eminenti studi i neonati cominciano a vedere il mondo in bianco e nero e solo dopo, lentamente, cominciano a riconoscere i colori: dunque il b/n del film è lo stato mentale della rinata Bella. Inoltre il b/n, sempre nelle intenzioni del regista, rimanda ai primi film horror con Frankenstein. Io da solo come spettatore medio non c’ero arrivato.

Oscar anche a trucco e acconciature di Nadia Stacey, Mark Coulier Josh Weston. Non premiato con l’Oscar come Miglior Film, categoria che invece è stata premiata ai Golden Globe insieme alla protagonista, e con il Leone d’Oro al Festival di Venezia. Solo candidatura per la sceneggiatura firmata dall’australiano Tony McNamara (di nuovo l’autore si è fatto da parte come sceneggiatore) e per i non protagonisti Willem Dafoe e Mark Ruffalo; solo nomination anche per il musicista Jerskin Fendrix qui debuttante come compositore di colonna sonora.

Ariane Lebed

E poiché Yorgos Lanthimos non se ne sta con le mani in mano, fra un film e l’altro ha realizzato due cortometraggi che è il caso di definire d’autore: nel 2019 con Matt Dillon ha realizzato “Nimic” e nel 2022 durante la lavorazione di “Poor Things” con Emma Stone ha girato “Bleat”, cortometraggi che sarebbe interessante andare a vedere. E al momento sta già ultimando il prossimo film “Kind of Kindness” di cui pochissimo si sa, se non che è stato girato a New Orleans e che dovrebbe uscire la prossima estate; nel cast di nuovo la Stone con Willem Dafoe e Margareth Qualley, ma stavolta è tornato a scrivere lui la sua sceneggiatura col suo amico di sempre Efthimis Filippou; e ricordiamoci, ora che è diventato una star hollywoodiana, che deve ancora piazzare anche la moglie attrice francese Ariane Labed per la quale, oltre a un ruolo di cameriera in “Lobster” non ha ancora trovato una parte succosa; intanto lei è l’altra protagonista della serie francese “L’Opéra” insieme a Suzy Bemba: si suppone che il colore della pelle nelle grandi produzioni sia determinante per l’assegnazione delle quote etniche.

Già si parla del prossimo film sempre con la Stone, perché squadra vincente non si cambia (a meno che un pettegolezzo dell’ultim’ora non ci sveli una loro relazione anche amorosa) che dovrebbe essere il remake della commedia fantasy sud-coreana “Save the green planet”: staremo a vedere cosa accadrà sui grandi schermi e sui grandi rotocalchi. Loro intanto, regista e attrice, interrogati dalla stampa, scherzano: “Facciamo schifo, e lo sappiamo. Perciò ci continuiamo a provare!”

Da qui in poi non si parla più del film ma di finanza ed editoria.

Gennaio 2016. La Elgo Holding con sede a Londra che è proprietaria di oltre 25 aziende sparse nel mondo, ha investito nell’assetto societario dell’azienda pordenonese dmyzero srl che si occupa di comunicazione aziendale ed editoria avendo creato un’innovativa sintesi fra i due settori: due marchi che hanno unito le loro storie per creare una realtà unica e condivisa, capace di evolvere insieme nel tempo: la D’Orsi Studio che opera nell’ambito della comunicazione visiva ai più diversi livelli e la Safarà Editore, una casa editrice che si dedica alla pubblicazione di letteratura e saggistica internazionale e che è tra le 58 case editrici europee vincitrici del bando Europa Creativa, un programma che premia la traduzione e promozione di opere letterarie di qualità firmate da autori provenienti dai più diversi paesi dell’Unione Europea. Elgo, scegliendo D’Orsi Studio per sviluppare la comunicazione delle oltre 25 aziende del gruppo, ha acquisito anche la casa editrice con l’intento di sviluppare importanti progetti editoriali di levatura mondiale. Da qui la dritta della più o meno imminente realizzazione del film dal romanzo già malamente edito in Italia. Marcos y Marcos che ne deteneva i diritti per l’Italia è stata ben lieta di sbarazzarsene e Safarà, che nasconde la longa manus di Elgo, ha fatto il colpaccio. Se è vero che bisogna trovarsi al posto giusto nel momento giusto, è anche vero quello che diceva mia nonna: i soldi fanno i soldi e i pidocchi fanno i pidocchi.

Comandante

Edoardo De Angelis è un regista napoletano, anzi un autore, da tenere d’occhio; e la napoletanità non è solo una nota biografica ma lo specifico della sua cinematografia. In una decina d’anni ha realizzato cinque film in una parabola crescente sia dal punto di vista dell’impatto su critica e pubblico che su quello prettamente stilistico. Si è diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 2006 con il cortometraggio “Mistero e passione di Gino Pacino” dove racconta in napoletano stretto la storia surreale di un uomo che sogna di fare l’amore con Santa Lucia e che per il senso di colpa perde la vista: parabola tragica e grottesca; cortometraggio che va a finire in Serbia al “Küstendorf Film and Music Festival” dove, vincendo il premio della critica, incontra Emir Kusturica che lo supporterà nella realizzazione del primo lungometraggio, co-producendone nel 2011 l’opera prima “Mozzarella Stories”, Luca Zingaretti fra gli altri, una storia altrettanto grottesca e visionaria che continua a muoversi nell’ambiente partenopeo raccontando però una storia originalissima, che all’epoca pochi hanno visto ma che non passa inosservata alla critica; Francesco Alberoni scrisse sul “Corriere della Sera”: “Gli artisti spesso intuiscono il senso dei tempi. Lo ha fatto Edoardo De Angelis nel suo bellissimo e divertente film”. Un film che oggi varrebbe la pena recuperare.

Il talentuoso autore non perde tempo e con l’amico Pierpaolo Verga fonda la casa di produzioni “O’Groove” con la quale realizza nel 2014 il noir napoletano “Perez.”, Zingaretti protagonista, film col quale arrivano i primi riconoscimenti importanti: ai Nastri d’Argento viene candidato per il miglior soggetto e si aggiudica due premi, a Zingaretti va il Premio Hamilton Behind the Camera e a Simona Tabasco nel ruolo di sua figlia il Premio Guglielmo Biraghi; oltre al Globo d’Oro sempre al protagonista.

Nel 2016 dirige un episodio dei tre del collettivo “Vieni a vivere a Napoli” e l’intenso, tragico e doloroso, “Indivisibili”, che nella storia di due gemelle siamesi ritrova uno sprazzo di grottesco, ma ancora più amaro e feroce: le due gemelle si esibiscono come cantanti “fenomeno” nelle feste di paese, sfruttate dalla famiglia in un ambiente di squallida periferia partenopea, e arriva una caterva di altri riconoscimenti fra candidature, su cui sorvolo, e premi ricevuti: 6 David di Donatello, 6 Nastri d’Argento, 6 Ciak d’Oro, un Globo d’Oro, 4 premi minori al Festival di Venezia e altri 3 al Bari International Film Festival. Il 2018 è l’anno di un altro film di storie dolorose e di solitudini ancora ai margini del capoluogo campano, “Il vizio della speranza” e sono altri riconoscimenti fra cui finalmente quello al miglior regista, ma lontano, al Tokyo International Film Festival, che non è poco. Nel 2020 si dedica al teatro con una “Tosca” per il teatro San Carlo di Napoli, e la televisione realizzando per la Rai il primo di una trilogia delle commedie “in famiglia” di Eduardo De Filippo: “Natale in casa Cupiello” cui seguiranno “Non ti pago” e “Sabato, Domenica e Lunedì”. Il biennio 2021-22 lo dedica alla serie Netflix “La vita bugiarda degli adulti” dal romanzo di Elena Ferrante.

E si arriva a questo “Comandante” con un triplo salto mortale: è il primo film che De Angelis gira lontano da Napoli, è il primo film italiano moderno ambientato in un sottomarino (c’è un precedente del 1955 che diremo) ed è il suo primo con un budget da film internazionale: 14 milioni e mezzo di euro con il pieno sostegno della Marina Militare che ha aperto alla produzione i suoi archivi con i diari di bordo di Salvatore Todaro, il personaggio protagonista interpretato da Pierfrancesco Favino sempre più a suo agio nel riprodurre le cadenze e i dialetti dei personaggi biografici che sempre più spesso interpreta. Alla sua uscita nell’autunno 2023 il film ha incassato poco più di 3 milioni restando assai lontano dal suo costo ma c’è ancora da rifarsi con i diritti tv – al momento è su Paramount+ – con lo streaming, i DVD, il mercato estero su cui non è ancora uscito e il probabile ritorno di fiamma nel pubblico di casa nostra dopo gli eventuali auspicabili premi nostrani.

il vero Salvatore Todaro

Pur iscrivendosi di diritto nel genere bellico, e nel sottogenere sottomarini, il film è crepuscolare, intellettuale, poetico. De Angelis continua la sua ricerca sui personaggi a disagio nel loro contesto, e con lo scrittore Sandro Veronesi che debutta come sceneggiatore, scrive un film con dialoghi e monologhi che hanno una cadenza da tragedia classica dove al protagonista si contrappone un coro, con momenti surreali, come quando tutti, comandante in testa, marciano cantando e ritmando “Parlami d’amore Mariù” come dedica d’amore alle donne che avevano lasciato a casa, e dedicata dal compositore Nino Bixio alla propria moglie, su testo di Ennio Neri per il film “Gli uomini, che mascalzoni…” diretto da Mario Camerini nel 1932 e per la voce del 30enne Vittorio De Sica; la canzone ebbe così tanto successo da divenire per tutti gli italiani un inno all’amore che successivamente fu cantata dai più grandi, anche della lirica.

Coraggiosi momenti surreali, nel film, e grotteschi persino, che si integrano perfettamente nella narrazione riuscendo a coinvolgere ed emozionare, perché il linguaggio alto e ricercato, poetico, da tragedia classica appunto, si sporca dei tanti dialetti che il sommergibile contiene nella sua varia umanità, così sintetizzato dal personaggio del comandante: “Questa è l’Italia unita. Arriva qui un livornese, un siciliano… sono più che stranieri, sono abitanti di due pianeti diversi, e lontani per lingua, cultura, temperamento… eppure proprio il crogiolo di tutti i dialetti, i piccoli manufatti e le grandi opere dell’ingegno, e le ottuse credenze pagane, la rivoluzione egualitaria del cristianesimo e le vecchie reliquie – si sono fusi… è il nostro tesoro. Proprio questo bordello, meraviglioso, e putrido, è l’Italia”: è un’altissima scrittura cinematografica che riesce a mettere insieme ispirazione letteraria e lingua parlata, con monologhi che potrebbero anche diventare repertorio da provino per attori e attrici – perché in un film necessariamente tutto al maschile non mancano le figure femminili: le brevi scene come cartoline ricordo della moglie del comandante, interpretata da Silvia D’Amico, e il monologo della donna che sul pontile guarda partire i marinai, monologo che è valso alla sua interprete Cecilia Bertozzi il Premio David Rivelazioni – Italian Rising Stars, un monologo recitato con voce fuori campo, come un pensiero, e che comincia: “Questo vento, io lo so dove li soffia tutti questi ragazzi, li soffia a morire…” giusto per dare qui il sapore del lirismo della scrittura di De Angelis e Veronesi, che dopo aver concluso il film hanno novellizzato la sceneggiatura per Bompiani.

Immagino che per questa sua scrittura che guarda dentro i cuori e le menti piuttosto che mostrare muscoli, il film potrà piacere più in Europa, e in Giappone dove l’autore è già stato premiato, che in quegli Stati Uniti che tanti film hanno dedicato ai sottomarini. Detto questo il film non manca di pathos e di tensione narrativa in un equilibrio assolutamente magistrale che esplora il limite fra la cieca obbedienza militaresca e la lungimirante pietas umana, con i tanti momenti riflessivi che si alternano a quelli d’azione e tensione: un gran film che secondo me non è stato compreso a fondo. Era in concorso al Festival di Venezia, anche come film d’apertura sostituendo il già programmato “Challengers” – il film americano di Luca Guadagnino la cui uscita è stata posticipata dalla Metro-Goldwyn-Mayer a causa dello sciopero degli attori – ma lì non ha ricevuto nessun premio, neanche minore; ricordiamo che il Leone d’Oro è andato a “Povere Creature” di Yorgos Lanthimos, mentre due Leoni d’Argento sono andati al giapponese Ryūsuke Hamaguchi per “Il male non esiste” e al nostro Matteo Garrone per “Io capitano” che si è aggiudicato anche il Premio Marcello Mastroianni per il debuttante senegalese Seydou Sarr, film che è anche candidato negli Stati Uniti come miglior straniero al Golden Globe e all’Oscar. Film che non ho ancora avuto l’opportunità di vedere. In ogni caso, da quello che leggo, troppa roba con cui confrontarsi, ma io resto un fan di questo film al quale auspico di rivalersi nei prossimi premi nazionali.

Il regista col protagonista

Riguardo ad alcune critiche sul web ne trovo un paio a firma femminile che ideologicamente, e per partito preso, accusano il film d’essere “testosteronico” e ironizzano sulle poche figure femminile come “prefiche”, senza minimamente aver compreso il film sul piano artistico e cinematografico: l’ideologia acceca ed è sciocco volere immaginare, e fin anche pretendere, figure femminili più importanti in una storia che non ne contiene: è come quel politically correct che pretende di rivedere storie e personaggi che appartengono a un’epoca in cui il politically correct non esisteva.

il Cappellini originale

Gran lavoro per lo scenografo Carmine Guarino, concittadino e collaboratore di De Angelis fin dal di lui debutto. Ha ricreato una copia a grandezza naturale del sommergibile Comandante Cappellini il cui nome completo era “Comandante Cappellini – Aquila III – U. IT. 24 – I. 503”. Tranne qualche rara immagine dello scafo non esistono fotografie dell’interno, che è stato costruito nel parco divertimenti Cinecittà World utilizzando come materiale di partenza la replica di un U-Boot costruita per il film statunitense del 2000 “U-571” diretto da Jonathan Mostow, mentre lo scafo esterno è stato costruito col supporto della Marina Militare e di Fincantieri nel bacino navale dell’Arsenale Militare di Taranto, nel cui mare ha poi navigato come una scatola vuota per le riprese esterne. Le riprese subacquee si sono svolte nel Mare del Nord al largo del Belgio da cui provengono alcuni dei personaggi e degli interpreti del film. Mentre gli effetti visivi, che hanno preso il 10% del budget, sono stati curati dall’americano Kevin Tod Haug, fedele collaboratore di David Fincher: un titolo su tutti “Fight Club”, 1999. La curiosità è che il Cappellini è comparso, sempre in copia più o meno conforme, nel 1954 nel film “La grande speranza” di Duilio Coletti; nel film tv anglo-tedesco “L’affondamento del Laconia”, un transatlantico inglese convertito al trasporto di truppe e prigionieri che fu affondato dai tedeschi nel 1942, con il Cappellini che fra altri soccorse i naufraghi; c’è poi un altro film tv del 2022 giapponese “Sensuikan Cappellini-go no boken” che però parte da un aneddoto per raccontare una storia di fantasia. E anche il film di De Angelis, come tanti altri film storici, è incorso in qualche errore o anacronismo: viene usato l’Inno dei Sommergibilisti che però fu creato un anno dopo la vicenda narrata.

Per comporre il cast l’autore partenopeo affida ai suoi fedeli i ruoli principali: il napoletano Massimiliano Rossi, fin qui sentito recitare solo in napoletano più o meno stretto, e col regista fin da “Mozzarella Stories”, è il comandante in seconda e intimo amico del protagonista col quale comunica – primizia assoluta – in dialetto veneto; e ricordiamo che il comandante Todaro era per nascita messinese ma trasferito a Chioggia con la famiglia allo scoppio della Prima Guerra Mondiale; Gianluca Di Gennaro, nipote del cantante Nunzio Gallo, che ha cominciato a recitare da bambino vent’anni fa, qui alla sua prima collaborazione con De Angelis nel ruolo del marinaio Vincenzo Stumpo che dà la vita per salvare l’intero equipaggio, con un altro bellissimo monologo interiore mentre sott’acqua disincaglia il sommergibile da una mina inesplosa: “Andate voi, andate… tanto io sono morto… e che me ne fotte a me?” si conclude il suo monologo. A un altro giovane napoletano, Giuseppe Brunetti, va il ruolo del cuoco di bordo Gigino il Magnifico, già con De Angelis nel televisivo Rai “Natale in casa Cupiello” e anche nella serie Netflix “La vita bugiarda degli adulti”, della cui scrittrice Elena Ferrante è stato anche nel cast della terza stagione della serie Rai “L’amica geniale” creata da Saverio Costanzo. I naufraghi belgi che il Comandante accoglie nel sommergibile sono interpretati da Johannes Wirix, che avendo studiato recitazione presso l’Accademia Silvio D’amico a Roma nell’ambito del Progetto Erasmus, recita anche in italiano e nel film fa da traduttore; Johan Heldenbergh interpreta il suo capitano e Lucas Tavernier è il marinaio belga infame, per usare un termine partenopeo.

Completano il cast Arturo Muselli, noto al pubblico televisivo per il suo ruolo nella serie Sky “Gomorra”; l’ex bambino Giorgio Cantarini che a 5 anni ha esordito come figlio di Roberto Benigni nel film premio Oscar “La vita è bella” aggiudicandosi come primo italiano, e come più giovane, il premio Young Artist Award scherzosamente detto Kiddie Oscar, e che tre anni dopo fu anche in un altro film da Oscar come figlio di Russell Crowe in “Il Gladiatore” di Ridley Scott, e oggi ventenne sta cercando una nuova collocazione artistica; per la rappresentanza siciliana c’è Giuseppe Lo Piccolo che abbiamo visto nell’opera prima di Giuseppe Fiorello “Stranizza d’amuri”. In un cameo l’87enne Paolo Bonacelli.

“Comandante”, titolo assoluto impegnativo ed esplicativo, è anche titolo di altri due film: il documentario del 2003 di Oliver Stone su Fidel Castro, e con l’articolo il fu un film con Totò del 1963. Questo di Edoardo De Angelis, oltre che a mio avviso bello, è anche importante in quanto film bellico biografico, e anche necessario, per conservare la memoria della storia e dei fatti, complessi e schizofrenici, che ci hanno condotto fin qui, a oggi. Dove noi siamo culturalmente più schizofrenici che complessi.

Felicità – opera prima di Micaela Ramazzotti

Il 2023 è stato un anno felice per i debutti alla regia di attrici e attori, a cominciare dall’acclamatissima opera prima di Paola Cortellesi “C’è ancora domani” che ha sbancato il botteghino; e vale la pena annotare il documentario biografico della polacca italianizzata Kasia Smutniak che in “Mur” racconta la zona geografica caldissima, di grande attualità, tra la sua Polonia e la Biolorussia; e sul versante maschile debuttano gli attori Alessandro Roja con il suo “Con la grazia di Dio”, Michele Riondino con “Palazzina LAF” e il figlio d’arte Brando De Sica con “Mimì – il principe delle tenebre” oltre ad altri interessanti registi puri (non attori) i cui nomi non ci dicono nulla nell’immediato. Ma non tutti hanno goduto o ancora godono dell’attenzione del pubblico, come nel caso di questo debutto che al Festival di Venezia, presentato nella Sezione Orizzonti, ha ricevuto il Premio Spettatori, e una benevola attenzione della critica che però non ha mancato di segnalare alcune debolezze del film.

A mio avviso la debolezza principale sta proprio nell’attrice che dichiaratamente ha realizzato un film sulla scia del suo personale percorso artistico, senza tentare vie meno comode, come quello della Smutniak, o come quell’altro meno riuscito di Jasmine Trinca che con “Marcel!” ha tentato una favola drammatica senza riuscire a maneggiare appieno il materiale, però; o l’originale thriller psicologico “Tapirulàn” molto ben diretto e interpretato da Claudia Gerini.

Il film di Micaela Ramazzotti, che ha incassato meno di 600 mila euro, è già in chiaro su Sky Cinema per accompagnare l’uscita della serie “Un amore” che interpreta insieme a Stefano Accorsi che l’ha ideata e prodotta, e per l’occasione è intervistata da Omar Schillaci nel suo programma “Stories” nel quale si racconta con una voce da donna adulta che mi stupisce perché mi ero convinto che il suo tono sempre cantilenante di bambina un po’ imbronciata, che è il marchio tipico delle sue interpretazioni, fosse il suo naturale modulo espressivo.

Molto generosamente cita il successo della Cortellesi, rivendicando il ruolo delle attrici nel nostro cinema, e nell’insieme si racconta rivelando che per costruirsi la carriera ha seguito un modello: all’inizio ha capito che andava la svampita e come tale si presentava ai provini e sui set, procedendo passo passo nella carriera di attrice dopo il suo debutto a tredici anni come interprete dei fotoromanzi “Cioè” e il suo primo ruolo significativo lo ebbe a 21 anni come “Zora la vampira” che fu il debutto dei fratelli registi accreditati come Manetti Bros. Il grande successo, e la svolta anche nella vita privata, arriva con “Tutta la vita davanti” di Paolo Virzì, col quale scoccò una scintilla sul set tanto da convolare a nozze; nel film, che le valse la nomination ai David di Donatello come non protagonista, era una giovane madre scombinata, un ruolo che immergeva in un contesto drammatico la svampita che l’aveva condotta fin lì; è un personaggio molto riuscito e Micaela, che fedele alla sua ricerca della via che porta al successo prende a cavalcare anche quel tipo di donna che lei definisce “storta”, un tipo nel quale il pubblico e la critica la apprezzano: è intensa, indifesa e forte al contempo, e dimostra anche sicure doti di commediante, tanto che – volendo fare uno di quegli inutili accostamenti che però aiutano la lettura – un po’ ricorda Monica Vitti.

Avevo notato che funzionavano i personaggi svampiti, leggeri, – racconta a Omar Schillaci – quindi i registi un po’ li ho presi In giro fingendo di essere veramente svampita, leggera, frivola. Poi a un certo punto me lo sentivo stretto, sentivo che forse ero anche io un po’ fraintesa come persona. E allora ho iniziato ad amarle veramente queste donne e a studiarmele seriamente, a scegliere quei personaggi e scegliere appunto le loro storture. Perché ho sempre amato chi sbaglia, l’imperfezione, chi cade e si rialza. Mi è sempre piaciuto portare al cinema quelle donne lì”. Ma è anche vittima di queste sue donne “storte” che le riescono così bene e su questa traccia comincia a pensare al suo film da debutto autorale; lo scrive insieme all’amica attrice livornese Isabella Cecchi, un’eredità affettiva che le è rimasta dal marito livornese ormai ex, e la non identificata Alessandra Guidi. In realtà nessuna delle tre sembra avere un percorso formativo di scrittura cinematografica e proprio la sceneggiatura è la parte più debole del film, insieme all’inevitabile sensazione di dejà vu: quante famiglie problematiche abbiamo visto al cinema?

Perché l’argomento potesse passare indenne da queste forche caudine avrebbe avuto bisogno di qualcosa di nuovo, un punto di vista personale, più forte; invece il film percorre la via della commedia drammatica, in cui l’ex marito è maestro, che sembra essere la nuova commedia italiana del nuovo millennio. La scrittura soffre anche di tante ingenuità, a cominciare dalla vecchissima gag delle parole tecniche o straniere storpiate, una gag che si rifà all’avanspettacolo, a un’epoca in cui l’ignoranza era diffusa e ci si rideva sopra: ma oggi che una certa ignoranza è drammaticamente di ritorno, ancora più grossolana e anche cattiva, essa non fa più neanche sorridere e arriva cinematograficamente patetica; per non dire delle caratterizzazioni dei personaggi e di certe situazioni che sono rimaste nel grezzo stadio embrionale.

C’è poi il suo personaggio di sempiterna svampita in salsa drammatica, personaggio che qui sdoppia nella figura del fratello disadattato, e stavolta davvero la misura è colma: perché se lei maneggia con sicurezza il suo modulo recitativo, a Matteo Olivetti, che abbiamo visto debuttare nel film di debutto dei Fratelli D’Innocenzo “La terra dell’abbastanza”, non riesce altrettanto: l’attore non sembra maturo per personaggi di un tale spessore, e la cosa grave è che continua a biascicare incomprensibilmente come in quel debutto, dove però il biascichio era lì funzionale.

Dal punto di vista tecnico, puramente registico, il film è invece molto ben confezionato: basta notare la sequenza d’apertura che si svolge su un set cinematografico dove la nostra lavora come parrucchiera, con un dolly ripreso da un altro dolly in un gioco di specchi dove il cinema racconta il cinema. Per il resto, come dicevo, l’autrice fa partire la sua storia di famiglia “storta” da quei set cinematografici che da attrice ben conosce, non riuscendo a immaginarsi come autrice in un contesto diverso: insomma va sul sicuro, si butta col salvagente, e coinvolgendo gli amici: il regista Giovanni Veronesi, col quale però non ha girato alcun film, fa sé stesso; e si affida ad ottimi professionisti: fotografia di Luca Bigazzi, montaggio di Jacopo Quadri e musiche dell’ex cognato Carlo Virzì al quale deve in qualche modo la sua fortuna di attrice: era stato lui a notarla e a presentarla al fratello Paolo.

Anche il titolo, “Felicità”, appare alquanto improbabile in questa storia di dissoluzioni familiari, tanto che i giornalisti gliene hanno chiesto conto, e Ramazzotti ha spiegato: “L’ho scelto perché è una parola che sta sulla bocca di tutti noi, quasi sempre durante la giornata, sia ai bambini che ai grandi, è una parola che mi piaceva, è facile, si ricorda. La felicità per quanto riguarda il mio film viene dal meraviglioso termine greco eudaimonìa che è il percorso che una persona fa per arrivare a quella famosa felicità, salire su quel benedetto treno. Perché la felicità insomma, oggi come oggi, è difficile trovarla, bisogna quasi inventarsela. Invece l’eudaimonìa è una conquista, un percorso che uno fa, uno stile di vita, è un andargli incontro.” In realtà i giornalisti hanno chiesto, e l’autrice ha dovuto spiegare, perché nel finale sorella e fratello si avviano verso una loro personale presa di coscienza, consapevolezza – ma la felicità è un po’ troppo oltre – e cinematograficamente il finale è debole, resta lì, sospeso, non finale aperto ma solo non conclusivo. Felicità resta solo una bella parola accattivante che strizza l’occhio al pubblico, per poi deluderlo.

Di gran livello il resto dei coprotagonisti. L’ex comico televisivo Max Tortora, giunto in età più che matura si sta reinventando come caratterista di lusso nel cinema romano e romanesco; fu proprio nel film di debutto dei D’Innocenzo che per la prima volta si confrontò con un personaggio drammatico a tutto tondo; è qui il padre di famiglia della tossica famiglia, con un personaggio evidentemente scritto su di lui: si ostina a fare il comico e l’intrattenitore che in età avanzata sogna ancora una brillante carriera ma intanto sbarca il lunario esibendosi nei centri per anziani. Anche il ruolo della madre è scritto su misura per Anna Galiena, attrice con studi e frequentazioni internazionali, che ebbe il suo exploit a 41 anni nel 1990 nel sensuale ruolo del titolo in “Il marito della parrucchiera” accanto a Jean Rochefort e diretta da Patrice Leconte; fama che nell’immediato le portò qualche altro bel ruolo ma con l’avanzare degli anni la sua carriera si è stabilizzata nei ruoli di supporto ancorché importanti.

Qui Ramazzotti le offre un’autocitazione quando il personaggio ricorda il suo passato di parrucchiera che tutti desideravano. Detto questo, l’ottuso razzismo e la grettezza dei personaggi, benché resi benissimo dagli interpreti, sono nella scrittura grossolani, a dir poco.

Assai funzionale e ben tratteggiato il marito della protagonista, un intellettuale interpretato con contenuto istrionismo da Sergio Rubini, un personaggio in cui probabilmente confluiscono anche alcune dinamiche private dell’attrice, ma un personaggio che corre anch’esso verso un finale che vuole essere una svolta drammatica a sorpresa e che invece risulta arraffazzonato. In un piccolo ruolo, quello dell’attore con le mani lunghe, Marco Cocci, rockettaro toscano cooptato al cinema da Paolo Virzì, qui a riprova del fatto che l’ex famiglia d’arte toscana dell’ex marito è divenuta anche la famiglia dell’attrice romana.

In un piccolissimo inconcludente ruolo, neanche un cameo, l’ex bellissima francese Florence Guérin attiva anche in Italia dalla seconda metà degli anni ’80 come icona erotica che nulla ha lasciato all’immaginazione – che nel 1998 però, a 33 anni, interruppe la sua carriera a causa di un gravissimo incidente stradale nel quale perse il figlio di cinque anni, restando lei stessa in coma per lungo tempo e subendo diversi interventi chirurgici; è tornata a recitare nel 2000, soprattutto per la televisione francese, con lo pseudonimo di Florence Nicolas prendendo come cognome il nome del figlio perduto.

In conclusione il debutto di Micaela Ramazzotti come regista è un film con molte imperfezioni che però è nell’insieme scorrevole e gradevole, non a caso il premio del pubblico a Venezia. Se ci sarà un’opera seconda mi auguro che si affidi anche per la scrittura a dei comprovati professionisti, per partire sotto i migliori auspici dalle fondamenta delle sceneggiatura. E che abbandoni le vie già percorse e comode. L’abbiamo vista nuda sul settimanale “Max” e sul grande schermo, ha vinto un David di Donatello, quattro Nastri d’Argento e due Ciak d’Oro, è parimenti amata da pubblico e critica, e oggi che ha 45 anni deve trovare la forza di reinventarsi, a cominciare dal ruolo di regista, o passerà presto nei ruoli secondari della zia svampita dai facili costumi.

I magnifici sette – con un ritratto di Yul Brynner

All’inizio c’è “I sette samurai” del 1954 di Akira Kurosawa con Toshiro Mifune che fu un successo internazionale candidato ai BAFTA nel 1956 e agli Oscar nel 1957 ma già vincitore del Leone d’Argento al Festival di Venezia del 1954. Poi ci fu Yul Brynner.

Yul Brynner in una foto del 1943

Julij Borisovič Briner all’epoca era già la star Yul Brynner ma vediamone un ritrattino, a cominciare dalla data della sua nascita sulla quale ha inspiegabilmente mentito invecchiandosi, forse per darsi più autorevolezza e restiamo nell’ambito delle ipotesi perché le sue motivazioni non sono mai state chiarite; sulla sua tomba è riportato come anno di nascita il 1920 ma lui aveva dichiarato alla stampa di essere nato nel 1915 sull’isola russa di Sachalin col nome di Tadje Khan cercando di vantare una discendenza da Gengis Khan: nulla di strano in un ambiente, Hollywood, dove le biografie s’inventavano a tavolino, solo che lui non lasciò che altri lo facessero per lui. In realtà era nato a Vladivostok da padre russo ingegnere minerario di origine svizzera e da madre con ascendenze nomadi Buriati e Rom, tanto che lui fu sempre molto vicino a quei popoli fino a diventare presidente onorario dell’Unione Mondiale Rom. Quando Julij aveva sette anni la madre si separò dal marito fedifrago e se lo portò in Manciuria, Cina, all’epoca sotto il controllo giapponese dove, avviando un fiorente commercio internazionale, iscrisse lui e la sorella maggiore Vera alla sede locale della londinese YMCA, Young Men’s Christian Association, sigla che fu un grande successo dei Village People del 1978 che hanno ironizzato sullo stare in una scuola cattolica e che ancora oggi fa ballare chiunque, cattolici e non.

Julij e Vera studiarono anche musica e canto e impararono il cinese, ma temendo l’aggravarsi delle tensioni col Giappone la madre ritrasferì la famiglia, stavolta a Parigi, dove tutti impararono anche il francese, e dove il ragazzo esercitò vari mestieri, debuttando quattordicenne come chitarrista al cabaret “Hermitage” cantando canzoni russe e rom: la conoscenza della musica che aveva studiato con la sorella sarà fondamentale nella sua carriera.

Fu anche eccezionalmente trapezista nel “Cirque d’Hiver”, a riprova delle sue capacità ginniche, dove però in seguito a una caduta, ancora 17enne divenne dipendente da oppioidi per sedare il dolore costante alla spina dorsale. Ma non tutti i mali vengono per nuocere se si è nati sotto una buona stella: una sera mentre acquistava oppio da uno spacciatore conobbe un altro consumatore abituale, il poeta scrittore drammaturgo e artista visuale Jean Cocteau che lo introdusse nel bel mondo bohemien facendogli conoscere Pablo Picasso, Salvador Dalì, Marcel Marceau e il giovane bell’attore Jean Marais con cui Cocteau aveva una relazione, frequentazioni che lo incuriosirono al mondo dell’arte recitativa, e non si esclude che anche il giovanissimo aitante Julij abbia sperimentato all’epoca l’omoerotismo; di fatto lui e Cocteau restarono amici per la vita e nel 1960 parteciperà al film sperimentale e autobiografico dell’autore francese “Il testamento di Orfeo”. Intanto, per la sua dipendenza il giovanotto fu mandato in Svizzera dove guarì definitivamente dagli oppioidi, che però sostituì col vizio del fumo che lo condurrà alla morte per un cancro ai polmoni.

Il futuro divo hollywoodiano tornò a Parigi riprendendo a frequentare i bohemien fra i quali conobbe un amico americano di Cocteau, il fotografo George Platt Lynes che ritroverà a New York quando a vent’anni raggiunse, insieme alla madre, la sorella che si era già trasferita negli USA per inseguire la carriera di cantante lirica: nel 1950 Vera fu nel cast dell’opera “Il Console” di Gian Carlo Menotti e fu anche la protagonista della “Carmen” di Georges Bizet in una produzione tv: la loro madre che da giovane aveva studiato come attrice e cantante si realizzò attraverso i figli.

Erano gli anni in cui gli Stati Uniti furono coinvolti dal Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, e i timori di quel conflitto avevano fatto arrivare in America, insieme a tantissimi altri artisti europei, anche un altro russo, l’attore regista Michail Čechov, nipote del drammaturgo Anton Čechov, nella cui compagnia Brynner iniziò a studiare recitazione mentre lavorava come speaker in francese per le trasmissioni dell’esercito USA alla Resistenza europea. Alla fine della guerra, mentre il suo maestro veniva candidato all’Oscar come non protagonista per “Io ti salverò” di Alfred Hitchcock, Julij, che ancora parlava uno scarso inglese con forte accento russo, in cerca di soldi facili poserà per la collezione privata di nudi maschili del fotografo Platt Lynes – all’epoca gli omosessuali danarosi andavano spesso in giro armati di macchine fotografiche… – foto che poi verranno pubblicate solo dopo la morte dell’attore e che ancora oggi sono oggetto di collezionismo. Cominciò a calcare le scene a Broadway finché nel 1949 debuttò nel poliziesco “Il porto di New York” noto da noi anche come “La belva di New York” dell’ungherese László Benedek. Nel 1951 arriva il momento di svolta: è protagonista del musical “The King and I” musicato da Richard Rodgers su libretto di Oscar Hammerstein II, dove per interpretare il Re del Siam si rasò a zero la testa, dato che peraltro stava già perdendo i capelli, e per la sua interpretazione vinse il Tony Award.

Arrivarono anche i produttori cinematografici sempre alla ricerca di successi e macchine per far soldi: Charles Brackett Darryl F. Zanuck acquisirono i diritti della pièce per trarne un film, affidando la regia a Walter Lang e confermando nel ruolo del protagonista maschile l’ancora sconosciuto ma già premiato Brynner, anche insostituibile per la sua specificità. “Il re ed io” fu un altro grande successo e lanciò l’attore fra le stelle del cinema procurandogli l’Oscar nel 1957 per la migliore interpretazione maschile, battendo calibri come James Dean e Rock Hudson per “Il gigante” diretto da George Stevens, Kirk Douglas che era stato Vincent Van Gogh in “Brama di vivere” diretto da Vincent Minnelli, e Laurence Olivier anche regista di “Riccardo III” da William Shakespeare. Nel ricevere la statuetta dalle mani di Anna Magnani, che aveva vinto l’anno prima con “La Rosa Tatuata” di Daniel Mann, Brynner pronunciò una battuta che diverrà famosa: “Spero non sia un errore, perché non lo darò indietro per nulla al mondo”. Fu anche il primo divo a sfoggiare la testa pelata e anche per questa novità, oltre al suo indubbio fascino, divenne un sex symbol e molti altri uomini rinunciarono a toupet e parrucchini sfoggiando orgogliosi la pelata “alla Yul Brynner”: aveva lanciato non una moda ma uno stile di vita, e anche se per esigenze produttive in alcuni film sfoggiò di nuovo la chioma, personalmente mantenne lo stile per il resto della vita. Il film ispirò anche una serie televisiva del 1972 intitolata “Anna ed io” in cui Brynner riprese il suo ruolo.

Quel 1956 fu per l’ormai 36enne attore un anno magico perché interpretò altri due grandi successi: nel congeniale ruolo di un russo in “Anastasia” dell’ucraino Anatole Litvak accanto a una Ingrid Bergman in gran spolvero per il suo ritorno a Hollywood dopo la pausa italiana col marito Roberto Rossellini che ne aveva appannato l’immagine internazionale, film che le fece vincere l’Oscar lo stesso anno in cui lo vinse Brynner; ma soprattutto lui fu il crudele faraone Ramses nel kolossal “I dieci comandamenti” di Cecil B. De Mille starring Charlton Heston nel ruolo di Mosè, un ruolo e un film che lo confermarono come star internazionale.

E di film in film duetta anche con la nostra Gina Lollobrigida sostituendo in corsa Tyrone Power che era morto durante le riprese in “Salomone e la Regina di Saba” diretto da King Vidor che dopo questo film abbandonerà il cinema, salvo dirigere un documentario nel 1980; l’improvviso coinvolgimento in quel film fece posticipare all’attore il suo progetto di un film su Spartacus, e se ne avvantaggiò Kirk Douglas che a sua volta c’era rimasto malissimo perché William Wyler gli aveva preferito Charlton Heston per “Ben-Hur”, e accelerando i tempi Douglas interpretò il suo “Spartacus” con la veloce sceneggiatura di Dalton Trumbo e la regia di Stanley Kubrick: in quei giochi di potere fra star Yul Brynner, che era l’ultimo arrivato, restò col cerino più corto in mano, ma lui non era tipo da cerino corto.

I magnifici sette in una foto promozionale: Yul Brynner, Steve McQueen, Horst Buchholz, Charles Bronson, Robert Vaughn, Brad Dexter, e James Coburn.

Poco male. L’attore, che aveva già messo su una propria casa di produzioni, stava già lavorando a un altro progetto: “I magnifici sette” come remake di “I sette samurai”. L’attore aveva acquisito i diritti di una sceneggiatura con la quale aveva deciso di debuttare come regista avendo Anthony Quinn come protagonista; erano amici sin da quando Quinn aveva debuttato come regista in “I bucanieri” e ora progettavano uno scambio di ruoli e di cortesie: Brynner alla regia con Quinn protagonista: troppo bello per essere vero, perché il nostro decise di prendersi il ruolo del protagonista abbandonando la regia per la quale non si sentiva pronto – e non fu mai regista – affidandola a Martin Ritt dal quale era già stato diretto l’anno prima in “L’urlo e la furia”. Questo improvviso cambio di programma mandò su tutte le furie Anthony Quinn che citò in giudizio l’amico Brynner asserendo che loro due insieme avevano sviluppato il progetto ed elaborato molti dettagli del film, ma poiché non c’era nulla di scritto il querelante perse la causa: fine di un’amicizia. Nel frattempo “L’urlo e la furia” si era rivelato un fiasco al botteghino e questo raffreddò i rapporti fra il regista e l’attore-produttore che affidò la regia a John Sturges, il quale aveva infilato una serie di successi a cominciare dal western “Sfida all’O.K. Corral”. Anche la sceneggiatura fu oggetto di contese ma tralasciamo i dettagli tecnici per andare diretti a un’altra ben più sostanziosa contesa: quella con Steve McQueen.

Sturges lo voleva nel cast essendo rimasto entusiasta della sua performance in un ruolo secondario nel suo precedente film bellico “Sacro e profano” con Frank Sinatra e Gina Lollobrigida; l’attore era un nome emergente che da protagonista al cinema aveva solo interpretato l’horror fantascientifico di serie B “Blob, fluido mortale” perché al momento era sotto contratto come protagonista per la serie tv “Ricercato vivo o morto”, 1958-1961, prodotta da Dick Powell che aveva lasciato la carriera di attore cinematografico per passare alla regia e alla produzione televisiva dove era al momento impegnato con l’ultima sua prova d’attore “I racconti del west”, 1956-1961, e alla morte di Powell nel ’61 le serie vennero chiuse; ma intanto, poiché la lavorazione del western si sarebbe accavallata con le riprese televisive, Powell non volle liberare McQueen dall’impegno; ma lui, che era già noto per le sue intemperanze, essendo notoriamente anche un provetto pilota, su consiglio del suo agente inscenò un finto incidente automobilistico per il quale si fece rilasciare un finto referto medico secondo il quale avrebbe dovuto indossare un tutore cervicale: la lavorazione della serie fu messa in pausa e nel suo periodo “di recupero” McQueen fu libero di girare con Sturges e Brynner, tanto il film sarebbe stato girato in Messico lontano da occhi indiscreti: allora non c’erano gli smartphone e i social a sputtanarci.

Durante le riprese, però, si creò una notevole tensione tra lui e Yul Brynner che era di fatto l’unico vero protagonista, e a McQueen non andava giù che il suo personaggio avesse solo sette battute nella sceneggiatura originale e a nulla era valsa la rassicurazione del regista che gli aveva promesso di inserirlo il più possibile in ogni inquadratura anche se non aveva battute: e infatti nel film lo vediamo che gigioneggia di lato o appena dietro mentre il protagonista fa la sua scena; come i peggiori guitti del palcoscenico fece di tutto per disturbare il protagonista e attirare l’attenzione su di sé, come lanciare una moneta durante uno dei discorsi di Brynner o facendo tintinnare le cartucce del suo fucile; c’era poi che Brynner, essendo più basso di lui, costruiva un piccolo cumulo di terra per sembrare alto quanto lui, dandogli l’opportunità di scalciare via quel cumulo di terra quando gli passava accanto. Finché Brynner esasperato una volta non lo afferrò per le spalle e da qui in poi si riconosce lo stile dei due: Brynner disse alla stampa, che era venuta a conoscenza delle tensioni, che lui non aveva mai litigato con i colleghi ma semmai con le produzioni. Mentre McQueen non si trattenne e dichiarò: “Non andavamo d’accordo. Una volta mi è venuto contro, davanti a tante altre persone, e mi ha afferrato per le spalle. Era arrabbiato per qualcosa. Lui non cavalca bene e non sa niente di armi, quindi deve aver pensato che io rappresentassi per lui una minaccia. Io ero nel mio elemento, lui no. Quando lavori in una scena con Yul, dovresti stare assolutamente immobile e a tre metri di distanza… beh io non lavoro così.” Era evidente che non lavorasse così. La parola definitiva la appose Robert Vaughn nella sua autobiografia del 2008, allorquando era l’ultimo superstite di quei magnifici sette: “Steve era estremamente competitivo. Non gli bastava avere solo successo: doveva avere più successo di chiunque altro.”

Robert Vaughn festeggia col suo amico James Coburn il riconoscimento della stella sulla Hollywood Walk of Fame nel 1998.

Robert Vaughn fu scritturato per il ruolo del pistolero tormentato che indossa sempre i guanti come simbolo del distacco che vuole mettere fra sé e quello che fa; fin lì era stato un attore con molta televisione nel curriculum e che era stato appena candidato a Oscar e Golden Globe per il suo primo ruolo importante accanto a Paul Newman in “I segreti di Filadelfia” diretto da Vincent Sherman, e come l’attore dichiarerà l’aiuto del più importante collega era stato determinante: i due frequentavano la stessa palestra e Vaughn, che aveva appena ricevuto la proposta per un provino, gliene parlò sapendolo scritturato come protagonista; Newman si disse entusiasta, lo vedeva perfettamente nel ruolo, e si offrì di fargli da spalla al provino: cosa inaudita dato che i provini si facevano e si fanno con qualcuno dello staff che legge fuori campo, e ovviamente il sostegno del divo fu determinante. Sturges lo aveva scelto proprio per quella sua interpretazione e al colloquio gli disse: “Non abbiamo una sceneggiatura, solo il film di Kurosawa su cui lavorare. Ti dovrai fidare. Ma gireremo a Cuernavaca, ci sei mai stato? la adorerai: è la Palm Springs del Messico.” Ovviamente l’attore ci stava e il regista continuò: “Ottima scelta, giovanotto. E conosci altri bravi giovani attori? ho altri quattro posti da riempire.” Vaughn suggerì l’amico ed ex compagno di studi James Coburn che venne scritturato come l’esperto lanciatore di coltelli, ma essendo praticamente uno sconosciuto avrà il nome per ultimo e in piccolo sul cartellone. In ogni caso il tormentato ruolo di Robert Vaughn, dopo quello del protagonista è il più definito e interessante, e l’attore ha reso magnificamente la lotta interiore del personaggio in tensione fra la codardia e l’eroismo. Per Coburn, invece, che era un fan accanito di “I sette samurai” avendolo già visto per ben 15 volte, essere dentro il remake era per lui come realizzare un sogno e avrebbe accettato qualsiasi ruolo, e gli toccò quello che era stato rifiutato dal più anziano e già protagonista di altri western Sterling Hayden.

Charles Bronson e Brad Dexter

Anche per Charles Bronson il film fu una svolta: faccia da duro ma dall’atteggiamento mite aveva avuto numerosi ruoli secondari in decine film fra cinema e televisione compreso quel “Sacro e profano” da cui il regista avrebbe cooptato anche McQueen, e da “I magnifici sette” in poi fu considerato una star. Anche Brad Dexter aveva alle spalle decine di partecipazioni con ruoli secondari ma al contrario degli altri “magnifici” rimase un caratterista generico oggi dimenticato, qui alla sua apparizione più significativa.

A completare il cast dei “sette” venne chiamato dalla vecchia Europa il giovane tedesco emergente Horst Buchholz su cui i produttori hollywoodiani avevano appuntato gli occhi dopo averlo apprezzato come protagonista del film “Le confessioni del filibustiere Felix Krull” tratto da un romanzo di Thomas Mann e diretto da Kurt Hoffmann, vincitore nel 1958 del Golden Globe come miglior film straniero. Dopo il ruolo del protagonista Chris Adams di Brynner e quello del tormentato Lee di Vaughn il suo Chico è il personaggio più accattivante, anche perché a lui sono assegnate – fra i vari siparietti che raccontano i diversi personaggi – le scene romantiche del nascente amore fra il giovane pistolero e la chicana Petra di Rosenda Monteros. E se Rosenda restò perlopiù a recitare in Messico film e telenovelas, Horst si avviò a una carriera internazionale che lo vide spesso anche sui set italiani.

Ma non dimentichiamo il cattivissimo contro cui si battono tutt’e sette gli eroi malgrado loro: il non più giovanissimo – ha 45 anni – Eli Wallach che all’epoca aveva nel curriculum solo tre film in cui si era messo benissimo in luce, e che avrà una lunghissima carriera come comprimario spesso in ruoli da cattivo e caratterista di lusso, anche lui spesso in Italia a cominciare dagli spaghetti-western di Sergio Leone. Nel ruolo del vecchio messicano saggio e filosofo Brynner ha voluto il già vecchio conterraneo Vladimir Sokoloff che da giovane aveva studiato recitazione a Mosca proprio insieme a quel Kostantin Stanislavskij il cui metodo diverrà il nuovo vangelo degli attori di qua e di là dell’Atlantico; fu un eccellente caratterista che per la sua maschera vagamente esotica ha interpretato nella sua carriera più di una trentina di etnie diverse.

Quando Akira Kurosawa vide questo remake del suo “I sette samurai” si complimentò con John Sturges che rimase assai impressionato e commosso per i complimenti del maestro giapponese. Ma in chiusura non dimentichiamo la musica di Elmer Bernstein che s’impone sin dalle prime note all’inizio del film e che oggi è diventata un classico da riascoltare fra le migliori colonne sonore: nel 2005 l’American Film Institute l’ha inserita all’ottavo posto fra le 25 migliori colonne sonore, così come il film stesso è divenuto un classico da vedere e rivedere, che ebbe tre sequel (1966-69-72) una serie televisiva (1998-2000) e il remake in chiave fantascientifica “I magnifici sette nello spazio” diretto da Jimmy T. Murakami e dal non accreditato Roger Corman, in realtà remake non ufficiale in quanto il titolo originale era “Battle Beyond the Stars”, esplicitato nella distribuzione italiana; in entrambe le produzioni c’è il ritorno di Robert Vaughn con differenti personaggi. Del 2016 è il remake col nero Denzel Washington nel ruolo del protagonista per quanto fosse assai improbabile che nell’epoca narrata un nero avesse un ruolo così di rilievo.

Di quei magnifici sette il primo a lasciarci fu Steve McQueen a 50 anni nel 1980, a causa di un tumore da esposizione all’amianto, materiale che era impiegato negli ambienti da lui frequentati: studi cinematografici, navi, ambienti motoristici. Era scampato a morte violenta quando l’8 agosto del 1969, invitato dall’amico Jay Sebring sarebbe dovuto andare a casa della comune amica Sharon Tate la notte in cui furono uccisi dagli hippies psicopatici della cosiddetta Manson Family di Charles Manson che non partecipò all’agguato in quanto solo mandante. L’attore ne rimase così scosso che da quel momento in poi portò sempre con sé una pistola. Le sue ceneri sono state disperse nell’Oceano Pacifico.

Il 10 ottobre 1985 a 65 anni morì Yul Brynner per cancro ai polmoni e alcuni mesi prima volle registrare un breve video da rendere pubblico dopo la sua morte in cui esortava a non fumare: “Adesso che non ci sono più ti dico: non fumare. Qualunque cosa tu faccia, non fumare.” E’ sepolto in Francia e a Vladivostok la sua casa natale è stata trasformata in museo e gli è stata eretta una sua statua a grandezza naturale, che lo ritrae con i costumi del Re del Siam, nella classica posa più volte assunta nel film: gomiti larghi, pugni chiusi sui fianchi. Il suo stesso giorno morì anche Orson Welles con cui aveva recitato nel 1969 in “La battaglia della Neretva” diretto dal montenegrino Veljko Bulajić.

Nel 2002 se ne sono andati in tre: l’82enne Charles Bronson per una polmonite, benché negli ultimi anni la sua salute andasse peggiorando velocemente su più fronti: prima aveva subito un intervento per una protesi all’anca e alla fine gli erano stati diagnosticati l’Alzheimer e un carcinoma del polmone. È sepolto in un cimitero nel Vermont, vicino a casa sua. il 74enne James Coburn se n’è andato a causa di un arresto cardiaco, e le sue sue ceneri sono state interrate in un cimitero di Los Angeles. E Brad Dexter, morto a causa di un enfisema, all’età di 85 anni. Il 2003 è l’anno di Horst Buchholz che morì 69enne a causa di una polmonite contratta dopo un intervento chirurgico all’anca in un ospedale di Berlino. L’ultimo ad andarsene è stato l’84enne Robert Vaughn per leucemia nel 2016. Ma il bello del cinema è che saranno sempre vivi.

I vinti – a proposito di mostri

1952. Terzo film di Michelangelo Antonioni dopo “Cronaca di un amore” e “La signora senza camelie”. L’autore, già quarantenne, aveva cominciato ad interessarsi al teatro già da universitario, finché poco meno che trentenne si trasferì a Roma attratto dal sogno della celluloide e cominciò a scrivere per la rivista “Cinema” mentre frequentava pure il Centro Sperimentale di Cinematografia e collaborando alla sceneggiatura del film bellico propagandistico del 1942 di Roberto Rossellini “Un pilota ritorna”. Dopodiché andò in Francia a offrirsi come assistente a Marcel Carné nel film favola “L’amore e il diavolo” sempre del ’42, e l’anno dopo rientrò in Italia a causa della guerra che vedeva le due nazioni su fronti opposti. Lavorò a dei cortometraggi e con Luchino Visconti ad altri progetti che non videro mai la luce, e a guerra terminata partecipò, insieme a Carlo Lizzani e Cesare Zavattini alla sceneggiatura del post-bellico “Caccia tragica”, opera prima di Giuseppe De Santis, la cui opera seconda sarà il capolavoro “Riso amaro”. Antonioni, che non è più un ragazzino, freme, e forte della sua esperienza tecnica dietro la macchina da presa, nonché portatore di messaggi molto personali, debuttò con la storia noir di una coppia in “Cronaca di un amore” in cui lucidamente, e a suo modo, raccontò dei mostri. Con “La signora senza camelie” raccontò il mondo del cinema graffiando via la patina luccicante con la quale il mezzo si era fin lì raccontato, ambiente di mostri esso stesso, e al contempo l’autore introduce uno dei temi che caratterizzeranno la sua cinematografia: la crisi dei sentimenti, lo squallore oltre il sentimentalismo. Qui scrive soggetto e sceneggiatura insieme a Giorgio Bassani, Diego Fabbri, Suso Cecchi D’Amico e Turi Vasile.

Segue questo strano film moraleggiante fatto di tre episodi che nelle filmografie ufficiali di Antonioni viene spesso dimenticato: eppure non è un film secondario o brutto, tutt’altro. La sua debolezza sta forse nella lunga spiegazione in apertura del film, voce fuori campo di Mario Pisu su immagini di repertorio e titoli di giornali che spiegano la poetica del film che vuole raccontare il dramma sociale della violenza gratuita perpetrata da bravi ragazzi di buone famiglie: l’orrore dei mostri che una decina di anni dopo, prendendosi meno sul serio e attraverso la lente deformante del paradosso e del grottesco, Dino Risi racconterà nel suo capolavoro a episodi sfruttando le maschere di Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. Ma non tutti sono portati alla commedia e la grandezza di Antonioni sta tutta nella sua poetica, oltre che nel suo stile lucido e tagliente. Ha viaggiato e ha lavorato in Francia ed è subito evidente che le sue aspirazioni guardano già fuori dai confini nazionali e, benché potendo raccontare storie di crimini tutti italiani che certo non mancavano in cronaca, sceglie di raccontare i tre episodi così come li ha letti sulla stampa internazionale e dedica un episodio alla Francia, uno all’Italia e l’ultimo all’Inghilterra, girati in loco e con troupe tecniche e artistiche locali. E ricordiamoci che in quel 1952 la guerra è finita da appena sette anni.

Francia, Parigi. I bravi ragazzi borghesi covano braci ardenti: la bella Simone cova disprezzo per i genitori e sogna una vita da favola; Pierre è un mitomane megalomane che si racconta come un parvenu, senza vergogna quando favoleggia di essere ricco oltre che desiderato dalle donne, le più anziane delle quali pagherebbero per averlo; i fratelli André e Georges che si fingono studenti modello ma architettano di uccidere l’amico ricco per fare anche loro una vita da favola possibilmente all’estero. Nel gruppo di giovani attori l’unico che ha avuto una brillante carriera è stato Jean-Pierre Mocky che cominciò come attore e poi facendosi assiduo aiuto di Antonioni imparò il mestiere e proseguì come regista, talmente prolifico da riuscire a girare anche tre film in un anno – qui nel ruolo di Pierre, la vittima. Non c’è un ruolo per il 45enne Alain Cuny, che aveva già lavorato con Antonioni in “La signora senza camelie”, e qui l’attore si accontenta di affiancare il maestro italiano come aiuto regista, anche se non farà mai il regista. Alla sceneggiatura si aggiunge la firma del francese Roger Nimier. L’episodio ebbe seri problemi di censura in patria tanto che non fu distribuito fino al 1963.

Questi i fatti: nel settembre del 1952, un uomo che resterà identificato solo come Monsieur I. intentò causa per chiedere che il governo francese sequestrasse il film che all’epoca era ancora in produzione. Il titolo francese del film era “Sans Amour” ed era composto da tre parti, tutte basate su storie vere, una delle quali era un famigerato affair del 1948 in cui un ragazzo di sedici anni aveva sparato a un compagno di classe, apparentemente a causa di una ragazza. Monsieur I. era il padre di quella ragazza, citata come Nicole I. che era stata condannata per complicità nel crimine, ma in quanto minorenne il suo nome restò secretato. Monsieur I. accusava il regista Michelangelo Antonioni e il suo assistente alla regia Alain Cuny di aver girato una storia in cui la ragazza sarebbe stata identificabile. Il governo francese prese le sue severe misure contro l’episodio: In primo luogo l’esportazione del negativo in Italia, dove Antonioni risiedeva, fu vietata; ma il divieto non divenne esecutivo e allora il governo pensò bene di vietare l’episodio in Francia, perché – come scrisse il critico Jean de Baroncelli su Le Monde dieci anni dopo, nel 1963, quando l’episodio fu distribuito sul territorio francese: – “Il Ministero della Giustizia si oppone alla realizzazione di qualsiasi sceneggiatura che evochi una vicenda giudiziaria che coinvolga persone ancora in vita”.

Italia, Roma. Protagonista è il 22enne Franco Interlenghi che aveva debuttato 15enne in “Sciuscià” di Vittorio De Sica, film premiato con l’Oscar. È il bravo ragazzo di buonissima famiglia che non accontentandosi del lusso in cui vive, c’è la servitù che lo chiama “il signorino”, invece di andare all’università si dà al contrabbando di sigarette: perché la gioventù gli brucia dentro e vuole tutto e subito. Ma il trasbordo delle sigarette allo scalo di San Paolo, allora periferia della città, viene interrotto dalla polizia e seguono fuggi fuggi e sparatorie, in una delle quali il giovane mostro uccide un uomo, ma poi nella fuga fa una brutta caduta in cui batte la testa. Rinviene, è sonnolento, raggiunge la sua ragazza e le confessa il delitto in un monologo un po’ troppo retorico, e a rendere ancora meno plausibile il dialogo che segue c’è che lei alla confessione del delitto non batte ciglio: vabbè che è ciecamente innamorata, ma un minimo di sana reazione sarebbe stato logico. È l’episodio meno riuscito e forse anche per questo non ebbe alcun problema con la censura. La ragazza è Anna Maria Ferrero che aveva debuttato nel 1950 nell’opera prima di Claudio Gora “Il cielo è rosso” e da allora è stata attivissima fino a tutti gli anni Sessanta, quando si ritirò per fare la moglie a tempo pieno del francese Jean Sorel, salvo poi pentirsene quando era troppo tardi. Nei ruoli dei genitori la signora del teatro Evi Maltagliati e l’ex baritono Eduardo Cianelli; il caratterista cine-televisivo Mario Feliciani è il commissario di polizia; Francesco Rosi è l’aiuto regista che debutterà come autore sei anni dopo con “La sfida”. Ah dimenticavo: il protagonista muore nel suo letto per le conseguenze del trauma cranico.

Inghilterra, Londra. Il mostro è uno psicopatico egomaniaco megalomane e anche lui vuole fama e ricchezza senza onesto sudore della fronte; è un poeta frustrato e frustrante e poiché il quotidiano scandalistico Daily Witness paga chiunque porti una storia da prima pagina – questa è l’altra mostruosità creatrice di mostri – va a vendere la sua notizia: ha ritrovato il cadavere di una donna e pretende di scrivere lui stesso l’articolo con tanto di sua foto in quanto anche autore del pezzo. Ma la cronaca trita e passa oltre, così dopo qualche giorno, di nuovo in cerca di soldi facili e di fama, confessa l’omicidio, credendo di aver commesso un crimine perfetto per il quale non potrà mai essere condannato. Ovviamente si è sopravvalutato e viene condannato a morte.

L’episodio è riuscitissimo, tanto che incorre nelle ire della censura italiana e tagliato fino a renderlo incomprensibile. Verrà recuperato integralmente e inserito in un altro film a episodi “Il fiore e la violenza” del 1962, che mette insieme, oltre all’episodio di Antonioni girato dieci anni prima, uno girato da Jean Renoir addirittura nel 1937, e uno completamente nuovo di François Reichenbach, poliedrico autore francese che fra le altre cose scrisse delle canzoni per Édith Piaf. Il centratissimo protagonista è interpretato da Peter Reynolds qui certamente nel suo ruolo più importante dato che il resto della sua carriera fu tutta una carrellata di caratterizzazioni in film di serie B; il giornalista lo interpreta il caratterista Patrick Barr. L’anziana patetica vittima è interpretata dall’ex attrice del muto Fay Compton; mentre la ventenne Eileen Moore, che interpreta la passione non corrisposta del protagonista, avrà una carriera di genere.

Il film, che fu presentato senza alcun esito al Festival di Venezia, benché considerato minore nella produzione dell’autore, e anche imperfetto, è certamente molto interessante e sicuramente da recuperare. Ciò che colpisce è che dalla sua analisi in poi, quel tipo di mostri urbani, di generazione bruciata come li definisce nel discorso di apertura, non hanno più smesso di esistere e quei giovani senza valori, o il cui unico valore è la soddisfazione personale a tutti i costi anche attraverso il crimine, sono ancora oggi in cronaca. Antonioni li racconta come figli della guerra, ragazzi nati durante il conflitto, che nella ritrovata pace non hanno più i valori fondanti delle generazioni precedenti e aspirano a un benessere, informe e indistinto, che con il boom economico avverrà solo dieci anni più tardi. Solo due anni dopo la distribuzione italiana re-intitolerà “Rebel Without a Cause” di Nicholas Ray come “Gioventù bruciata”: fu un caso? Sta di fatto che quel film divenne il manifesto di una generazione, di tanti giovani che si videro rappresentati e che si immedesimarono nel protagonista che, al contrario dei giovani frammentati nei tre episodi di Antonioni, è anche accattivante, affascinante. Antonioni avvertiva che avrebbe raccontato la realtà senza abbellirla ma il suo film è stato praticamente dimenticato mentre l’antieroe di James Dean ancora vive: segno che la realtà, al cinema, non può mai essere reale.

IL SOSPETTO – omaggio a Francesco “Citto” Maselli

Sarò sincero, non sono mai stato un fan dell’appena scomparso 92enne Francesco Maselli e trovando su YouTube questo suo importante film che ho visto per la prima volta, confermo la mia posizione: il suo impegno politico e sociale prevarica l’attenzione per il pubblico, tant’è che i suoi film non hanno mai avuto grande riscontro al botteghino. Ci sono film di maestri coevi, Francesco Rosi Florestano Vancini ed Elio Petri tanto per citare i primi che mi vengono in mente, che pur indagando la politica e il sociale non derogano da quella che dovrebbe una delle regole portanti del cinema: la spettacolarità, che non sono solo botti e botte da orbi, ma soprattutto scrittura accattivante e ritmo coinvolgente: chi continuerebbe a leggere un libro che risulta ostico se non noioso sin dalle prime pagine?

Francesco Maselli è “nato bene” come si diceva una volta, in una famiglia di intellettuali romani: suo padre era un critico d’arte che ospitava nel suo salotto i bei nomi intellettuali e progressisti dell’epoca, ed era intimo amico di Luigi Pirandello che gli dava da leggere in anteprima i suoi manoscritti, e fu proprio Pirandello a tenere a battesimo Francesco affibbiandogli il nomignolo Citto. Il ragazzo si dimostrò anch’egli un intellettuale precocissimo: a sette anni aveva già imparato l’Amleto a memoria; e a tredici, durante l’occupazione tedesca della capitale, portava armi e cibo ai partigiani del Gap, Gruppo d’Azione Partigiana; e a seguire, a soli quattordici anni riuscì entrare nell’allora clandestino Pci, Partito Comunista Italiano. In quegli anni gira anche i suoi due primi cortometraggi in 8mm fra i 15 e i 17 e ancora 17enne viene accettato al Centro Sperimentale di Cinematografia da cui si diploma 19enne; sarà subito assistente di Luigi Chiarini, critico e teorico del cinema fra i fondatori del Centro, suo padrino professionale, oltre ad affiancarsi come aiuto di Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti: insomma, il giovane Citto “nato bene” non ha dovuto sgomitare per lavorare coi migliori. Si comincia già a delineare il suo talento come documentarista che è in linea coi suoi impegni politici e civili e probabilmente proprio in questo tipo di cinematografia riesce a dare il meglio: perché essendo film dichiaratamente documento non hanno l’obbligo – ammesso che sia un obbligo – della spettacolarità, ovvero di dover piacere al grande pubblico. Perché questo sarà il nodo irrisolto di tutta la cinematografia di Citto Maselli: non riesce a piacere al pubblico di massa, tanto che per indagare questo aspetto andrà anche in analisi. Di fatto l’autore mette sempre in primo piano la politica che, di fatto, è la sua formazione emotiva, quella che ha formato l’adolescente; racconta i suoi personaggi e struttura i suoi film secondo una visione intimamente marxista, facendone dei casi-limite, esempi di un’umanità e di contesti sociali che finiscono con l’essere poco accattivanti e indigesti al botteghino.

Prendiamo ad esempio questo “Il sospetto” del 1975, che per non essere confuso col film omonimo del 1941 di Alfred Hitchcock “Suspicion” in originale, verrà distribuito come “Il sospetto di Francesco Maselli” (poi ci sarà un altro film omonimo nel 2012 del danese Thomas Vinterberg). Ambientato nella Torino del 1934, centro nevralgico di interessi politici della sinistra operaia per la gran massa di operai della Fiat, racconta di un dirigente del Partito Comunista Italiano in clandestinità perché si è nel bel mezzo del cosiddetto ventennio fascista.

Scorcio parigino del film

L’ambientazione è inappuntabile e accattivante, si fa grande sfoggio di auto d’epoca e di comparse bene acconciate, e la cinematografia di Giulio Albonico insieme al montaggio di Vincenzo Verdecchi scarnificano l’opera rendendola fascinosamente essenziale, senza sbavature e inutili compiacimenti – ma già alla base del progetto c’è una scrittura – sceneggiatura di Franco Solinas (già critico cinematografico per il quotidiano comunista l’Unità) da un soggetto dello stesso Maselli – che sembra non tenere conto degli spettatori: è scritto come se parlasse solo ai tesserati del partito, dando per scontati dettagli informazioni e utili raccordi che vengono a mancare a chi non è addentro a quelle specifiche dinamiche, col risultato che io spettatore “non iniziato” e non iscritto al Partito Comunista faccio fatica ad entrare nello spirito del film, della sua narrazione; è esemplare il finale del film con il lungo monologo-spiegazione del funzionario del partito fascista, che dà un senso all’intero impianto del film ma che nelle mani di altri cineasti sarebbe potuto diventare un confronto più serrato e drammaticamente vivo; e l’intera storia che contiene tutti gli elementi di un thriller – il sospetto che ci sia un traditore fra le fila dei comunisti e l’indagine per smascherarlo – viene invece condotta come un film a tesi che spiega solo le dinamiche interne al partito: le tesi appunto e i contrasti, i dirigenti in clandestinità e quelli in esilio all’estero, l’allontanamento ideologico dal Partito Socialista Italiano, le direttive imposte dall’alto e il sacrificio individuale.

Ne è protagonista il sempre centratissimo Gian Maria Volonté, anch’egli comunista attivissimo: proprio in quel 1975 fu eletto consigliere regionale del Lazio, carica da cui si dimise appena sei mesi dopo, motivando: “Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia: io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso” a dimostrazione che la purezza e l’integrità ideologica non possono andare di pari passo con l’attività politica sul campo che deve fare i conti con le varie realtà trasformando l’iniziale ideologia in fatti concreti. A latere bisogna sempre ricordare che quelli erano i cosiddetti anni di piombo (modo di dire derivato dal film omonimo del 1981 della tedesca Margarethe Von Trotta) del terrorismo di destra e sinistra che aveva fatto del territorio italiano un campo di battaglia, si suppone col supporto dei servizi segreti americani che temevano l’espandersi della comunista Russia nell’Europa Occidentale: già nel film si parla dell’Unione Sovietica come ideologico faro dell’umanità. E anche in tale contesto va collocata l’ispirazione politica di autore e protagonista.

Fanno da contorno a Volonté un insolito Renato Salvatori per chi lo ricorda brillante giovanottone che era arrivato al successo negli anni ’50 con la trilogia di Dino Risi dei “Poveri ma belli” e, nonostante fosse quasi sempre doppiato ebbe anche bei ruoli in film drammatici; ma per Salvatori quegli anni ’70 erano già gli anni del declino: aveva ceduto all’alcolismo e consequenzialmente veniva chiamato per ruoli meno impegnativi benché sempre tenuto in considerazione da amici e colleghi; morirà 55enne di cirrosi epatica. Nel ruolo della dirigente italiana in esilio a Parigi c’è la parigina Annie Girardot, amica di famiglia essendo l’ex moglie di Salvatori con il quale era rimasta in affettuosi rapporti: si erano conosciuti nel 1960 sul set di “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, film che peraltro segnò l’apice della carriera di lui come interprete drammatico. Nel ruolo di un altro dirigente di partito c’è il torinese doc Felice Andreasi che era appena divenuto noto come ospite fisso del televisivo “Il poeta e il contadino” condotto da Cochi e Renato. Chiude il cast dei ruoli principali il sempre eccellente Pietro Biondi, l’unico ancora in vita fra gli elencati, nel ruolo del monologante agente dell’OVRA, la polizia politica fascista. Accreditato nel cast benché con un ruolo da figurante in campo lunghissimo c’è l’emergente Gabriele Lavia che già al cinema aveva avuto ruoli da protagonista: si suppone che il suo personaggio si sia perso in sala di montaggio.

protagonista e regista

L’occasione della scomparsa di Citto Maselli mi accende la curiosità sulla sua filmografia che non ho mai frequentato, con un focus sui lavori collettivi, i cosiddetti film a episodi, e quelli più onestamente politici e documentaristici. Nel 1981 Maselli ha confessato a Paese Sera: “Ho un’ambizione che non ho mai rivelato a nessuno, nemmeno a me stesso. È quella di essere dimenticato come regista e riscoperto, invece, come fotografo… La cosa più orribilmente sincera che abbia mai detto.” E inquadrati in quest’ottica i suoi film sono più fotografici che narrativi, nel senso che staticamente si focalizzano su personaggi e situazioni senza raccontarne lo sviluppo, la dinamicità, il divenire, e in questo modo congelando ogni afflato emotivo. Interessante la sua svolta negli anni ’80 con quattro film incentrati sulla donna: “Storia d’amore” del 1986 gran successo al Festival di Venezia dove l’autore vince il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria mentre alla protagonista Valeria Golino va la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. Nel 1988 segue lo sperimentale “Codice privato” con Ornella Muti unica interprete del film, nominata ai David di Donatello, ai Nastri d’Argento agli European Film Awards e vincitrice del Ciak d’Oro. Del 1990 sono gli altri due film con protagonista Nastassja Kinski, “L’alba” e “Il segreto”, film però entrambi clamorosamente bocciati dalla critica senza dire che il pubblico li ha praticamente ignorati.

Francesco Maselli, oltre a essere cineasta non ha mai abbandonato l’attività politica dedicandosi in particolare alla scrittura saggistica e mantenendo il suo ruolo, fondamentale, come militante della sinistra italiana. Nel 2001 dette vita alla Fondazione Cinema nel Presente riunendo una trentina di autori rappresentativi di tutte le generazioni del cinema italiano, fra i quali: Francesca Comencini, Wilma Labate, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo, Ettore Scola e Pasquale Scimeca; fondazione che produrrà molti di quei documentari collettivi in cui ha dato il meglio di sé. Andiamo a riscoprirlo.

The Whale – nel riscatto del personaggio il riscatto dell’attore

Confessiamocelo, Brendan Fraser per noi è sempre stato solo il simpatico ragazzone protagonista della trilogia “La Mummia” anche se per altre interpretazioni drammatiche è stato lodato, come ad esempio in “Demoni e Dei” del 1998 regia di Bill Condon o “The Quiet American” del 2002 di Phillip Noyce. Ma fondamentalmente la sua carriera è tutta spesa in commedie, film d’azione e giocattoloni vari: si fa quel che si può e si prende quel che passa il convento e, come ha specificato l’attore nel suo discorso di accettazione dell’Oscar, la sua carriera è stata fatta di alti e bassi. Va anche detto che la percezione che abbiamo noi europei, e italiani nello specifico, degli attori stranieri, manca di molti dettagli e sfumature che possono avere senso solo in patria; ad esempio per Brendan Fraser a Hollywood è stato coniato il termine “Brenaissance” che lega insieme Brendan a Renaissance, dopo la sua profonda crisi dei primi anni Duemila in cui pensò addirittura di ritirarsi. Ma cos’era successo?

Brendan Fraser al meglio della prestanza fisica nel film “George Re della Giungla…? sul finire degli anni Novanta. Dirà di quel periodo da “bisteccone” che effettivamente si sentiva come una “bistecca ambulante”, per dire della vacuità che gli veniva intorno a causa del suo aspetto.
Philip Berk

Si parla esattamente di venti anni fa, il 2003, quando l’attore era al culmine della sua carriera. Accadde che a un pranzo in un hotel di Beverly Hills, Philip Berk, che all’epoca era uno dei più influenti elettori dell’HFPA, Hollywood Foreign Press Association di cui in seguito divenne anche presidente, palpasse pesantemente l’attore. Va ricordato che l’associazione ha fondato nel 1944 i Golden Globe Awards con l’intento di assegnare premi e riconoscimenti a produzioni cinematografiche e televisive di tutto il globo terraqueo (sic! ma anche sigh!), in pratica il secondo premio statunitense per importanza dopo l’Oscar; l’attore, ancora astro nascente senza statuette importanti in bacheca, aveva tre opzioni: gradire, fingere che fosse uno scherzo e farsi una finta risata, o restarci male. Brendan ci restò malissimo tanto da mettere in discussione la sua permanenza nello show business. Solo nel 2018, incoraggiato dai movimenti anti abuso Mee Too ebbe il coraggio di raccontare pubblicamente la sua esperienza. Nel 2003 Fraser, attraverso i suoi avvocati chiese e ottenne da Berk e dall’HFPA scuse private, ricevendo una lettera il cui tono era il classico: se ho fatto qualcosa che ha turbato il signor Fraser non era intenzionale e me ne scuso – di fatto non ammettendo alcun illecito. E nei fatti facendogli terra bruciata intorno: la carriera dell’attore subì una grave flessione che lo portò a una crisi personale che coinvolse anche la tenuta del suo matrimonio.

Nel 2018 Brendan si è confidato alla rivista GQ che già altre volte aveva avuto attenzioni per lui: “Ho parlato perché ho visto così tanti dei miei amici e colleghi che in quel momento stavano coraggiosamente venendo allo scoperto per dare forza alla loro verità. Avevo anch’io qualcosa da dire. Si possono mettere gli attori su piedistalli e poi buttarli giù rapidamente e facilmente: è quasi come se fosse il gioco. Così io mi sono appena liberato del piedistallo. Voglio solo essere me stesso”. E raccontando in dettaglio quanto è accaduto: “La sua mano sinistra si è allungata ad afferrare la mia chiappa e poi con un dito mi ha toccato nella zona anale (qui l’attore usa un termine gergale intraducibile: taint) cominciando a muoverlo girandolo. Mi sono sentito male, mi sono sentito come se qualcuno mi avesse gettato addosso della vernice invisibile. Ero come un ragazzino che stava per scoppiare a piangere…”. A questa tardiva denuncia pubblica la HFPA ha avviato un’indagine interna che ha concluso che Berk stava solo scherzando e, rifiutando di condividere con l’attore i dettagli emersi nell’indagine, gli è stato chiesto di firmare una dichiarazione congiunta in cui “con lungimiranza” tutte le parti, l’attore l’assalitore e l’associazione, consideravano conclusa la vicenda e che auspicavano una rinnovata collaborazione, mentre Philip Berk sarebbe rimasto membro attivo dell’HFPA. Brendan Fraser ha rifiutato di firmare, rilanciando: “Io sono l’unico che sa dove e come è stato toccato”: le intenzioni di Berk – che stesse scherzando o ci stesse pesantemente provando – rimangono per lui irrilevanti: lui era stato abusato. “Sono come lupi travestiti da agnelli” ha concluso.

Per completare la triste vicenda del tristo figuro: Nel 2014 pubblicò un libro di memorie – in cui fra l’altro finalmente ammetteva di aver “scherzato” con l’attore mentre per anni aveva sempre negato – che fece arrabbiare non poco i membri della HFPA perché svelava retroscena sul funzionamento interno dell’organizzazione, e altri ameni pettegolezzi su alcuni dei suoi colleghi, col risultato che fu costretto a prendersi un congedo di sei mesi dall’associazione; ma finì con l’essere definitivamente espulso nel 2021, dopo che Berk – di nazionalità sudafricana e di origini olandesi, ed evidentemente sostenitore dell’apartheid – inviò una mail ad altri membri dell’associazione in cui citava un articolo che descriveva Black Lives Matter come un “movimento di odio razzista”: il classico bue che dà del cornuto all’asino. A quel punto l’emittente televisiva NBC che trasmette il gala dei Golden Globe, chiese l’espulsione immediata di Berk per andare avanti con la collaborazione: detto, fatto; e a seguire il consiglio dell’associazione ha dichiarato che “condanna tutte le forme di razzismo, discriminazione e incitamento all’odio e trova inaccettabili tali linguaggio e contenuti.”

Brendan Fraser con “The Whale” è stato candidato nella sezione miglior attore in un film drammatico ai Golden Globe 2022, ma per coerenza l’attore si è rifiutato di presenziare alla serata dicendo solo: “Non sono un ipocrita”; vinse Austin Butler per “Elvis” che altrettanto concorreva per quest’Oscar 2023 e sperava di fare la doppietta: sorry, è l’anno della Brenaissance!

Veniamo al film. Darren Aronofsky è un regista raffinato che dal suo debutto nel 1998 ha realizzato otto film, sparsi però in una lunga sequenza di progetti irrealizzati che di numero superano quelli realizzati; fra i film che hanno visto la luce vale la pena ricordare “The Wrestler” (2008) che ha rilanciato la carriera dell’appesantito Mickey Rourke che però per la sua imprevedibilità e il discutibile gusto nella scelta dei copioni, pare destinato a un secondo declino; segue “Il Cigno Nero” (2010) che è valso Oscar e Golden Globe a Natalie Portman; poi viene il biblico e non del tutto riuscito “Noah” (2014) con Russell Crowe; quindi passa all’horror d’autore con “Madre!” (2017) starring Jennifer Lawrence e Javier Bardem, che tanto per cominciare è stato fischiato al Festival di Venezia. Per riuscire a realizzare quest’ultimo film, Il regista ha impiegato più di dieci anni perché non trovava il giusto interprete, ma ebbe una folgorazione quando vide Fraser in alcuni spezzoni di “Journey to the End of the Night” del 2006 mai distribuito in Italia.

All’origine del film c’è il dramma teatrale omonimo del 2011 di Samuel D. Hunter che qui debutta come sceneggiatore adattando la sua pièce per lo schermo. L’autore, quotato e premiato in patria, esplora nei suoi lavori la religiosità con particolare attenzione a mormoni ed evangelici: presumo – del tutto liberamente e senza pezze d’appoggio – che data la sua dichiarata omosessualità e la sua provenienza dall’Idaho che è uno degli stati dove sono insediati i mormoni, che sia lui stesso un mormone fuoriuscito che ancora cerca il senso di un sano rapporto con Dio.

Il 55enne Brendan Fraser naturalmente appesantito dagli anni fra regista e autore.

La storia, apparentemente piana, è molto complessa e si presta a diversi livelli di lettura: oltre all’omosessualità del protagonista e alle dispute religiose col giovane missionario della New Life Church, ci sono il passato in cui conserva la memoria di un compagno morto e da cui irrompe nel presente una figlia adolescente che non vede da otto anni, frutto di un errato matrimonio, cui segue anche la visita dell’ex moglie; ma soprattutto c’è il rapporto con l’insegnamento: Charlie, il protagonista, è un professore di lettere che tiene lezioni online e, come ha dichiarato Hunter, proprio da lì parte l’ispirazione del dramma; l’obesità del personaggio è venuta dopo, per dare al personaggio una caratteristica che gli facesse tenere la distanza dal mondo; e ancora spiega che il personaggio del giovane missionario è un modo per “proteggersi e allontanarsi” dalla religione e di “scrivere sulla religione ma in modo che non si sentisse troppo vicino a casa”. Più chiaro di così.

Nell’adattare per lo schermo la sua storia che si svolge tutta all’interno di un appartamento, l’ha voluta ambientare in un’epoca recente ma pre-pandemia affinché non si facesse confusione fra l’auto-reclusione del protagonista con un forzato lockdown. La derivazione teatrale è evidente e, come suppongo sia a teatro, la tensione drammatica non viene mai meno perché risvolti narrativi e ingresso degli altri personaggi sono equilibratissimi: la vietnamita-statunitense Hong Chau, candidata all’Oscar, è l’amica infermiera; la ventenne Sadie Sink che si è meritata la candidatura Critics’ Choice Awards come miglior giovane interprete, è la figlia adolescente; l’ex attore bambino Ty Simpkins, che a tre anni ha debuttato in tv e a quattro al cinema, è il giovane missionario; la britannica Samantha Morton, eccellentissima attrice mai abbastanza valutata nei casting, è l’ex moglie. Si intravede il fattorino delle pizze e, grave lacuna in un’attenta drammaturgia che si fa poetica attraverso l’iperrealismo, non c’è traccia di qualcuno che venga a fare le pulizie.

Laddove il dramma presta il fianco alla retorica, l’autore non indulge nel melodrammatico e taglia sempre corto dove il rischio è dietro l’angolo. Ciò non toglie che il film sia veramente coinvolgente sul piano emotivo grazie all’interpretazione del gigantesco (gioco col termine intendendolo in senso figurato) Brendan Fraser, che sotto il make up premiato con l’Oscar a Adrien Morot, Judy Chin e Anne Marie Bradley (ci sono anche i cuscinetti ad acqua che fanno pulsare le tempie!) è veramente commovente nel personaggio; e anche se noi sentiamo il doppiaggio con l’interpretazione di Fabrizio Pucci, gli occhi di Brendan non lasciano dubbi.

Il finale non è a sorpresa, sappiamo sin dall’inizio come andrà a finire. Ma è consolatorio che il buon grasso Charlie trovi il suo riscatto in un guizzo di lucido arrabbiato sacrosanto orgoglio. Ed è consolatorio e davvero commovente che Brendan Fraser, altrettanto, trovi nel film e nel successo un riscatto che attendeva da vent’anni.

Fuori contesto lancio una scommessa: che presto vedremo in scena uno dei nostri quotati attori teatrali portare in scena questo dramma.

Marcel! – opera prima di Jasmine Trinca

Aprivo l’articolo precedente dicendo che un mondo guidato dalle donne potrebbe essere un posto migliore… ma qui continuo affermando che un mondo governato solo da donne sarebbe ben triste. E il senso del mio ragionamento si chiarirà più avanti.

Jasmine Trinca debutta 19enne, scelta tra circa 2500 ragazze da Nanni Moretti per il film “La stanza del figlio” che subito le frutta il Ciak d’Oro alla migliore attrice non protagonista, il Globo d’Oro alla migliore esordiente e il Premio Guglielmo Biraghi ai Nastri d’Argento, oltre alla candidatura al David di Donatello: un inizio di carriera coi fiocchi che prosegue alla grande: è protagonista in “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana, film che viene premiato per l’intero cast dei protagonisti ai Nastri d’Argento: i quattro attori e le quattro attrici, dove Jasmine condivide il premio con Adriana Asti, Sonia Bergamasco e Maya Sansa. E da lì in poi non sbaglia un colpo accumulando riconoscimenti e premi, fino a varcare la soglia delle Alpi francesi per allargare le sue prospettive professionali a Parigi. Nel 2017 fa parte della giuria del Festival del Cinema di Venezia e nel 2022 è nella giuria del Festival di Cannes dove presenta in anteprima nella sezione Proiezioni Speciali questo suo primo lungometraggio di fiction. E che fiction: finzione allo stato puro, favola surreale.

Nei titoli di coda dedica con amore il film ai suoi genitori, anche se in verità il film è tutto dalla parte della genitrice, come il cortometraggio che l’ha preceduto. Di questo suo esordio la neo-autrice ha detto: “A noi donne prende una strana sindrome. Per accettare di assumere una cosa ci mettiamo vent’anni. Un esordio che arriva dopo tanti incontri come interprete, elaborazioni, esempi, con registe importanti per me. Ho deciso di ribaltare lo sguardo sulle cose. Mi sono detta: mi piacerebbe farlo anche a me. Questa trasformazione creativa del vissuto mi ha dato grande entusiasmo, rendendo tutto più leggero e intenso. Il lungometraggio è il proseguimento di un viaggio già iniziato con il corto in cui eravamo tutte coinvolte, a parte Giovanna Ralli che si è aggiunta. Lo stesso gruppo, costituito da persone molto legate. L’abbiamo scritto con Alba in testa come protagonista. Non ho mai immaginato di interpretarlo in qualche ruolo. È talmente impegnativa la regia. Abbiamo violato la regola che dice che i film non vanno fatti con barche, bambini e bestie. Di queste solo la bestia ci ha dato problemi. È stato un cane in tutti i sensi, ma abbiamo deciso di metterlo poi nel film. Era la madre che proietta su questo cane oltre all’amore molto altro”.

Di queste considerazioni due cose saltano subito all’attenzione: è il proseguimento di un viaggio iniziato con un cortometraggio, e il “tutte coinvolte” che dichiara la quasi totale femminilità del cast artistico e tecnico: una scelta precisa anche nella narrativa del film dove le figure maschili, che restano marginali, sono non essenziali, se non addirittura ridicole e vissute con fastidio: il compagno di giochi che la bambina mal sopporta, il nonno buono (Umberto Orsini) che però non dice una parola e fa sempre i solitari con le carte, un grottesco spasimante della madre (Dario Cantarelli), il borghese supponente (Giuseppe Cederna) della cugina stronza – perché le donne non sono tutte buone e ci sono anche le bambine bullette di quartiere. A questo punto tocca recuperare il cortometraggio di cui si parla.

Jasmine Trinca scrive il film con la stessa sceneggiatrice con cui ha scritto il corto, Francesca Manieri; la produttrice del corto Olivia Musini torna a produrre insieme alle francesi Bérénice Vincent e Laure Parleani; tornano Daria D’Antonio alla fotografia e Marta Passarini ai costumi; e Chiara Russo al montaggio con Ilaria Sadun alla scenografia completano il cast tecnico principale al femminile. Solo lo svedese Matti Bye compositore delle musiche è l’unico uomo coinvolto nel cast tecnico principale. Ovviamente c’è del metodo e benché appaia comprensibile che un’autrice voglia circondarsi di altre donne, il film tuttavia dichiara una profonda disistima per le figure maschili, e a questo punto viene da chiedersi perché.

Partendo dunque dal cortometraggio intitolato “BMM – Beeing My Mom” in cui vediamo una madre, Alba Rohwacher, la figlia, Maayane Conti, che con una pesante valigia come palese metafora di un bagaglio interiore, percorrono una Roma assolata e deserta (è girato nel 2020 in piena pandemia) Jasmine dichiara di aver sviluppato quello spunto in questo lungometraggio, e se il film corto non era parlato questo lungo rimane poco parlato, se non fosse per i monologhi della nonna (Giovanna Ralli) che favoleggia di un uomo meraviglioso e che ovviamente è morto. Paradossalmente il lungometraggio sarebbe stato più interessante, a mio avviso, se anch’esso avesse fatto a meno dei dialoghi, mantenendo il rigore stilistico del corto, perché quei pochi che ci sono non sono davvero essenziali.

Va dato merito a Jasmine della sua scelta stilistica in assoluta controtendenza: quella di non dover piacere a tutti i costi al grande pubblico… o forse è così sicura di sé da non volersene curare affatto. Sia come sia, il film è assai ambizioso e manca clamorosamente il bersaglio. Se da un lato l’autrice dimostra di avere assoluta padronanza tecnica del mezzo e un raffinato gusto visivo coi quali compone bellissime inquadrature – dall’altro dimostra di non avere padronanza della scrittura filmica, e sorprende che non abbia aiutato la collaborazione di una qualificata professionista come Francesca Manieri, la quale annovera il premio intitolato a Nora Ephron al Tribeca Film Festival per la sceneggiatura di “Vergine giurata” di Laura Bispuri più altre candidature ai David di Donatello e ai Nastri d’Argento. Jasmine ha dichiarato di essersi ispirata a Charlie Chaplin (e qualcuno fra i critici nostrani ci ha voluto ritrovare anche Federico Fellini) e ai “Peanuts” di Charles M. Schulz per le scene dei bambini. Di fatto il film va da tutte le parti – intermezzi teatrali, fiere di paese, balli di gruppo – e allunga a dismisura i tempi, anche di sequenze secondarie e poco significative, col risultato che lo sbadiglio è sempre dietro l’angolo. Jasmine Trinca è talmente innamorata del suo racconto che non ne vede difetti e ridondanze: se si fosse trattato di un manoscritto avrebbe avuto bisogno di un rigoroso editing, e l’amica co-sceneggiatrice non è stata e severa dunque di nessun aiuto. Asservita è anche buona parte della critica ufficiale che è stata fin troppo generosa con questo bislacco debutto perché l’autrice è una cineasta giustamente amata e ben considerata: ma complimenti di circostanza e carezze affettuose non aiutano.

Alba Rohrwacher torna a indossare i panni della madre con la valigia e stavolta è una strampalata artista di strada che ama il suo cane Marcel più della figlia, e quando non è in giro si lascia andare a ragionamenti poetico-filosofici, quasi frasi da cioccolatino, e all’iperbole della divinazione. Mayaane Conti, che all’epoca del corto aveva otto anni e un bellissimo volto col quale amava muta la sua mamma altrettanto bambina, oggi ha undici anni e il suo volto rimasto bellissimo si è arricchito di una più matura espressività con la quale manifesta appieno le ombre di questo nuovo rapporto madre-figlia. Nella dilatazione sconclusionata della narrativa filmica, oltre ai già citati Giovanna Ralli e Umberto Orsini come nonni, lei logorroica lui taciturno, entrano nel cast altre amiche come Valentina Cervi, la cugina altoborghese e classista, Valeria Golino come analista e Paola Cortellesi che torna alle maschere dei suoi primordi e rifà una venditrice di gioielli paccottiglia in tivù: tutta roba che singolarmente ha un suo perché e una sua godibilità ma che tutta insieme è solo un minestrone mal riuscito. Per maneggiare il surreale ci vuole un gran mestiere perché anche nel surreale c’è bisogno di coerenza e unità narrativa, non bastano le belle inquadrature e le trovate bizzarre sparse qua e là come bricioline gettate a caso agli uccellini: Pollicino ci insegna che le bricioline vanno sparse con cura e attenzione se si vuole ritrovare la strada maestra.