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Gli occhiali d’oro – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Dopo “La lunga notte del ’43” e “Il giardino dei Finzi Contini” terzo e a tutt’oggi ultimo film dalla narrativa che Giorgio Bassani dedicò alla sua Ferrara e contestualmente al periodo fascista della città, essendo egli stesso uno di quegli ebrei che vissero sulla propria pelle le leggi razziali emanate nel 1938. Il giovane Bassani era all’epoca studente universitario a Bologna e gli fu concesso di proseguire gli studi, si sarebbe laureato l’anno dopo, mentre non erano più consentite le nuove iscrizioni agli ebrei, di pari passo all’epurazione del corpo docenti. L’io narrante, un universitario ebreo che è chiaramente l’alter ego dello scrittore, nel romanzo non ha un nome e nel film, scritto dallo stesso regista Giuliano Montaldo con Nicola Badalucco e Antonella Grassi, viene chiamato Davide Lattes, figlio di Bruno Lattes che a sua volta è il nome di uno dei personaggi che frequentano il giardino dei Finzi-Contini, romanzo dove a sua volta si cita la vicenda che viene raccontata in questo romanzo: se nel Bassani scrittore i rimandi e le autocitazioni sono frequenti, gli sceneggiatori ne prendono atto e proseguono sulla strada tracciata per restare fedeli allo spirito che anima quelle narrazioni: Ferrara come luogo eletto di una comunità che si autodefinisce “popolo eletto”. Nel romanzo e nel film procedono di pari passo le vicende dell’io narrante e del medico narrato: un omosessuale di mezza età che innamorandosi di un giovane arrivista crea scandalo e viene emarginato dalla benpensante società dell’epoca, emarginazione che procede specularmente a quella che lo studente subisce a causa della sua religione.

Nicola Farron e Philippe Noiret

Vidi il film al cinema alla sua uscita nel 1987 e già allora non mi convinse del tutto benché all’epoca non sapessi motivare chiaramente le mie impressioni: riferivo al mio gusto personale; rivisto oggi confermo e specifico: manca di pathos, è ben confezionato ma calligrafico. Manca l’atmosfera cupa dei tempi bui cui ci si avviava in quegli anni, che il debuttante Florestano Vancini aveva saputo infondere alla sua lunga notte del ’43, e soffre di quel patinato manierismo che si respirava nel giardino dei Finzi-Contini filmato da Vittorio De Sica. Detto ciò il film ebbe successo e si aggiudicò alcuni premi tecnici: a Venezia l’Osella d’Oro per i costumi di Nanà Cecchi e le scenografie di Luciano Ricceri, e poi David di Donatello alla musica di Ennio Morricone che comunque non è fra quelle che continuiamo ad ascoltare. Il cast, come nella migliore tradizione italiana dei decenni passati, è un’insalata di interpreti stranieri e italiani, qui giustificata dal fatto che si tratta di una coproduzione Italia Francia Jugoslavia; insalate per fortuna non più consentite alle produzioni italiane odierne in cui c’è l’obbligo della presa diretta dove gli eventuali interpreti stranieri devono recitare in italiano o fare ciò che sono, gli stranieri, e in cui all’eventuale necessario doppiaggio saranno gli stessi attori a usare la propria voce, a meno che non rinuncino personalmente; una battaglia, quella della voce-volto lanciata dall’impegnatissimo Gian Maria Volonté già alla fine degli anni ’70: un complesso argomento che meriterebbe un approfondimento a parte.

Rupert Everett e Valeria Golino

Davide Lattes, con la voce di Tonino Accolla, ha il volto di Rupert Everett fresco del successo del britannico “Another Country: la scelta” diretto dal polacco Marek Kanievska nel 1984; va da sé che viene scritturato dai nostri produttori e in quel 1987 è protagonista per Francesco Rosi in “Cronaca di una morte annunciata” e di questo film di Montaldo. L’anziano medico, doppiato da Sergio Rossi, è impersonato dal francese di casa in Italia Philippe Noiret, che in quella pratica di coproduzioni e finte produzioni italiane con attori stranieri, si accaparrò molti ruoli assai interessanti che sarebbero potuti andare ai nostri colonnelli: Gassman, Mastroianni, Manfredi, Sordi, Tognazzi. Protagonista femminile è l’emergente Valeria Golino che recita con la sua voce ingolata non del tutto gradevole all’epoca, viziati com’eravamo dalle voci perfette del doppiaggio, migliore attrice rivelazione l’anno prima premiata col Globo d’Oro per “Piccoli fuochi” di Peter Del Monte, e qui candidata inopinatamente (a mio avviso brava ma non da premio) come protagonista ai David di Donatello, insieme a Noiret: entrambi restarono a bocca asciutta perché i premi agli attori protagonisti andarono a Marcello Mastroianni e Elena Safonova per “Oci ciornie” di Nikita Sergeevič Michalkov. Il bel mascalzone di cui s’innamora il medico è impersonato da un altro emergente che poi non rispettò la promessa di una brillante carriera, Nicola Farron, che si esibisce in un nudo integrale sotto la doccia che ancora vale il limite di età alla visione del film su YouTube, anch’egli doppiato da Fabio Boccanera.

Il professor Amos Perugia di Roberto Herlitzka accompagnato all’uscita dall’ateneo dai suoi studenti mentre sullo sfondo si grida “Ebreo! ebreo!” e “Eia eia alalà”.

Altri nomi di spicco sono la centratissima Stefania Sandrelli come malefica pettegola e soprattutto Roberto Herlitzka perfettamente in ruolo essendo egli stesso un ebreo che bambino sfuggì al nazi-fascismo col padre che riparò in Argentina: qui nei primi dieci minuti del film interpreta il professore universitario epurato. I genitori del protagonista sono interpretati dal serbo Rade Markovic e dalla romana di nobili origini Esmeralda Ruspoli. Nel ruolo di uno studente universitario un giovane Luca Zingaretti. Il film, che di diritto si inserisce sotto l’etichetta Fascismo e Resistenza, è oggi considerato un caposaldo anche del filone film LGBT.

Di Giuliano Montaldo bisogna ricordare che come tanti dei suoi coetanei debuttò con un film legato al racconto del fascismo, “Tiro al piccione”, tema che continuerà ad esplorare in altri suoi riusciti lavori come “Gott Mit Uns” e “L’Agnese va a morire”. Nel 2007 è stato insignito del David di Donatello alla Carriera e nel 2018 vinse il David come attore non protagonista per “Tutto quello che vuoi” di Francesco Bruni. Mentre il suo ultimo film da regista è “L’industriale” del 2011 con Pierfrancesco Favino. Oggi ha 93 anni.

La lunga notte del ’43 – Fascismo e Resistenza in un’opera prima d’autore

Prima della problematica collaborazione con Vittorio De Sica per la sceneggiatura de “Il giardino dei Finzi-Contini”, film dal quale Giorgio Bassani ritirò la sua firma, lo scrittore bolognese di nascita e ferrarese d’adozione aveva felicemente affidato all’esordiente concittadino Florestano Vancini un altro suo racconto che il regista riscrisse per il cinema insieme a Ennio De Concini e Pier Paolo Pasolini – il primo già affermato professionista della scrittura filmica che un paio d’anni dopo riceverà l’Oscar per la sceneggiatura di “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi, il secondo già divisiva personalità della cultura qui alla sua terza sceneggiatura dopo aver co-scritto “Le notti di Cabiria” di Federico Fellini e “La notte brava” da un suo stesso racconto diretto da Mauro Bolognini: dunque l’esordio del 34enne Vancini, già documentarista di lungo corso, avviene sotto i migliori auspici. Di lui abbiamo appena visto “Il delitto Matteotti”.

Il racconto è “Una notte del ’43” che chiude la raccolta “Cinque storie ferraresi” pubblicata nel 1957 e con la quale lo scrittore vinse il Premio Strega; nel racconto Bassani inventa uno uomo alla finestra che sarà spettatore involontario di una tragedia, e attraverso il suo sguardo racconta un preciso fatto storico, quello che verrà ricordato come “l’eccidio del Castello Estense” in cui il 15 dicembre del 1943 furono fucilati undici oppositori al regime fascista come rappresaglia all’omicidio di un federale. Il protagonista del racconto è un ex fascista che adolescente partecipò alla Marcia su Roma del 1922, e nel presente narrativo proprietario di una farmacia e gravemente infermo a causa della sifilide contratta ai tempi di gloria, e per la quale avendo perso l’uso delle gambe se ne sta tutto il giorno alla finestra – una situazione che ricorda assai da vicino un altro infermo affacciato alla finestra nel celeberrimo film di Alfred Hitchcock “La finestra sul cortile” del 1954 da un racconto giallo di Cornell Woolrich che risale ai primi anni ’40 ma che fu pubblicato in Italia solo in seguito al successo del film, nel 1956, lo stesso anno in cui Bassani pubblicò i suoi racconti su cui già lavorava da anni, dunque è improbabile che l’italiano sia stato ispirato dall’americano il cui protagonista è un fotoreporter testimone involontario di un uxoricidio mentre il farmacista ferrarese è testimone di una ben più seria e reale tragedia.

Florestano Vancini con i suoi co-sceneggiatori di rango aggiunge al fattaccio storico un melodramma privato cinematograficamente molto efficace, inventando per il farmacista Pino Barilari la bella e devota moglie Anna, che intristita dal peso dell’infelice matrimonio casualmente rincontra la vecchia fiamma Franco Villani, e il fuoco della passione torna a divampare fra le stoppie della sua arida esistenza. L’aitante Franco viene da una famiglia di antifascisti e lui personalmente, dopo l’armistizio firmato dall’Italia con gli Alleati l’8 settembre del ’43, si era dato alla macchia allorché Benito Mussolini, che aveva riparato in Germania era tornato fondando in quel nord Italia la Repubblica di Salò, territorio sul quale nazisti e repubblichini fascisti continuavano a imperversare con le loro leggi repressive e persecutorie rastrellando tutti i pusillanimi, gli uomini abili e arruolabili (oggi si dice impiegabili in quanto altrettanto forza-lavoro) per mandarli al fronte o nei campi di concentramento.

Quella notte del ’43 che diventa lunga nel titolo del film, è quella in cui la bella Anna finalmente si concede all’antica fiamma; era uscita di casa di nascosto dal marito che però quella sera non aveva preso il suo solito sonnifero: l’uomo, insonne, si rimette alla finestra in tempo per assistere alla fucilazione degli antifascisti rastrellati nottetempo, fra loro anche il padre di Franco, accusati di un delitto che non avevano commesso, quello del Federale appena nominato da Alessandro Pavolini, in realtà fatto uccidere da tal Carlo Aretusi soprannominato Sciagura che voleva per sé la carica fascista; l’arresto dell’anziano avvocato Villani aveva tragicamente interrotto la clandestina notte d’amore tra il figlio e Anna, la quale rientra all’alba giusto in tempo per essere vista dal marito ancora alla finestra: il melodrammatico cerchio si chiude e finalmente la donna gli rinfaccerà la “malattia schifosa” che ha avvelenato il loro matrimonio.

Dell’autore, qui alla sua opera prima, è evidente il lungo apprendistato come documentarista perché dirige con mano ferma un film tecnicamente perfetto e drammaturgicamente assai pregnante con questa sua dichiarata attenzione ai drammi privati come specchio della storia collettiva che caratterizzeranno la sua cinematografia, come se avesse sentito la necessità di creare un ponte fra il rigore del documentario e la fantasia del cinema narrativo; un film che risente della lezione neorealista e che comincia a esplorare un nuovo filone in cui Florestano Vancini sarà maestro: il cinema d’impegno civile. Il film che compone è livido come i tempi che narra: il protrarsi di una guerra già prossima alla fine, gli ultimi inutili e feroci colpi di coda del regime, il protagonista consumato da una malattia all’epoca fortemente debilitante quanto infamante, la moglie dibattuta fra un affetto sincero ormai fraterno e la necessità di continuare ad amare, il pragmatismo dell’amante che sceglie la fuga in Svizzera alla realizzazione di un antico amore, l’ambiguità degli uomini in camicia nera.

Per approfondire l’argomento:
Breve storia delle riviste di cinema in Italia

Cast di primordine. Enrico Maria Salerno, che continuerà a lavorare con Vancini aggiungendo altre perle alla sua cinematografia – “Le stagioni del nostro amore” 1966, “La violenza: quinto potere” 1972 – è qui il patetico farmacista che l’autore racconta come appassionato di film, di certo trasferendogli una sua personale passione, che legge la rivista Cinema e che consiglia alla moglie quali film andare a vedere, chiedendole al ritorno se i protagonisti sullo schermo si sono baciati per farsi raccontare quei baci: acutissima nota poeticamente introspettiva che racconta il bisogno d’amore dell’uomo intrappolato nella sua infermità; e visto che ci siamo l’autore fa citare al personaggio alcuni film dell’epoca, di quel cinema di regime fra polpettoni storici e musicarelli e favole con i telefoni bianchi, come breve passaggio di storia del cinema che qui riferisco: “Il leone di Damasco” e “La cena delle beffe”, “Violette nei capelli” ma anche il nazista antiebraico “Suss l’Ebreo”.

Il protagonista del racconto diventa nel film il comprimario della vera protagonista, sua moglie Anna, intensamente interpretata dall’inglese Belinda Lee di ottimi studi teatrali in patria ma affermatasi, suo malgrado, solo nel cliché di bionda sexy svampita che tanto piaceva all’uomo medio; va da sé che i produttori nostrani si accorsero di lei e la bella inglese venne in Italia nel 1957 a girare il peplum “La Venere di Cheronea” soggetto e sceneggiatura del giovane Damiano Damiani non ancora regista. L’attrice, attraversando burrascose vicende sentimentali, si trasferì in Italia senza però scrollarsi di dosso il cliché che si era portata dietro insieme al resto dei bagagli. Il primo a utilizzarla come vera attrice in un ruolo serio fu Francesco Rosi ne “I magliari” e l’anno dopo è in questo film. Non avrà il tempo di consolidare la sua carriera come attrice di grandi doti perché morirà l’anno dopo in un incidente stradale in California, appena 25enne.

Nel ruolo dell’amante un altro attore di rango, Gabriele Ferzetti, che nonostante sia più anziano di Salerno di una decina d’anni regge bene il confronto, grazie anche al fatto che l’altro interprete non teme di mostrare la sua incipiente calvizie nel rendere il suo personaggio di perdente. Ferzetti, attivo anche in teatro fin dagli anni ’40, manterrà il suo personaggio di uomo dal fascino spesso ambiguo fino al riconoscimento internazionale come cattivo nell’unico 007 interpretato da George Lazemby. Tornerà a lavorare con Vancini nel 1963 con “La calda vita”.

L’ambiguo fascista detto Sciagura è interpretato da un monumento dello spettacolo italiano: Gino Cervi. Classe 1901, appassionato di teatro sin da bambino (il padre era critico teatrale) cominciò a calcare le scene come filodrammatico e già nel 1925 fu scritturato come primo attor giovane nella compagnia di Luigi Pirandello accanto a primi attori come Marta Abba e Ruggero Ruggeri, interpretando il ruolo del Figlio nel discusso (all’epoca) “Sei personaggi in cerca d’autore”, la cui genesi è stata recentemente narrata da Roberto Andò in “La stranezza”. Subito baciato dal successo lavorò con le migliori compagnie fino a diventare prim’attore e poi capocomico; ovviamente il cinema si accorse di lui che debuttò nei primi anni ’30 e, poiché si era nell’epoca del cinema di regime, divenne un divo dei film eroici-storici. Nel 1960, quando uscì con questo film in cui si divertì a fare la carogna, era già da anni il popolarissimo Don Peppone nei film col francese Fernandel nel ruolo di Don Camillo nella saga dalla narrativa di Giovannino Guareschi. Cervi, generalmente impegnato in commedie, due anni dopo questo film tornerà in un ruolo drammatico in un altro film su Fascismo e Resistenza: “Dieci italiani per un tedesco; via Rasella” di Filippo Walter Ratti. Co-produce il film suo figlio Antonio, Tonino Cervi, che sarà anche regista nonché padre dell’attrice Valentina Cervi.

Concludono il cast dei ruoli principali: Andrea Checchi nel ruolo dell’effettivo farmacista del negozio di Barilari, che fu un altro grande interprete come comprimario, dotato di una recitazione asciutta e assai moderna per quell’epoca ancora intrisa di un certo manierismo ereditato dal cinema di regime. I caratteristi Nerio Bernardi e Isa Querio interpretano i genitori di Ferzetti mentre come loro figlia adolescente c’è la bruna 17enne Raffaella Pelloni che quello stesso anno si era diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia dopo avere abbandonato l’accademia di danza per la quale non aveva grandi qualità; mancano pochi anni perché indossi un caschetto biondo e assuma il nome d’arte di Raffaella Carrà suggeritole dallo sceneggiatore-regista televisivo Dante Guardamagna, appassionato di pittura, che associando il nome di Raffaella a quello di Raffaello Sanzio lo accoppiò col cognome Carrà dal pittore Carlo Carrà: nacque così la Raffa che tutti conosciamo e che da lì in poi, non riuscendo a sfondare come attrice si diede al varietà televisivo. Tutti gli interpreti del film parlano con le loro voci tranne Andrea Checchi, doppiatore a sua volta probabilmente impegnato altrove che qui ha la voce di Giuseppe Rinaldi, e l’inglese Belinda Lee che fu doppiata dalla querula Lydia Simoneschi già doppiatrice delle dive d’oltreoceano, che purtroppo infonde al personaggio un che di artefatto che stona con l’impianto sonoro generale.

Il film, molto apprezzato da pubblico e critica, è stato inserito tra i 100 film italiani da salvare. Giorgio Bassani, dopo questa prima esperienza di scrittore rappresentato al cinema, e di autore impegnato nella narrazione delle malefatte fasciste, dieci anni dopo lo sarà ancora col già detto “Il giardino dei Finzi-Contini” e poi ancora nel 1987 con “Gli occhiali d’oro” diretto da Giuliano Montaldo.

Il giardino dei Finzi Contini – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Sarò controcorrente: secondo me questo film non è fra i migliori di Vittorio De Sica. Tratta un argomento importante, è vero, è tratto da un importante romanzo, è altrettanto vero, ed ebbe grande successo anche oltreoceano dove notoriamente sono assai sensibili riguardo al tema dell’ebraismo: il film negli Stati Uniti si aggiudicò l’Oscar come miglior film straniero ed ebbero la candidatura per la miglior sceneggiatura non originale Ugo Pirro e Vittorio Bonicelli; e poi candidatura al Grammy per la musica di Manuel De Sica, figlio maggiore del regista, qui alla sua terza colonna sonora; Vittorio De Sica vinse anche l’Orso d’Oro a Berlino e il britannico BAFTA dove ci fu la candidatura di Ennio Guarnieri per la miglior fotografia. Premi in Italia: David di Donatello come miglior film e David Speciale al protagonista Lino Capolicchio; Nastro d’Argento a Romolo Valli come miglior attore non protagonista e a Giancarlo Bartolini Salimbeni per la miglior scenografia; e per finire Globo d’Oro a Fabio Testi come miglior attore rivelazione. Elencati per dovere di cronaca premi e riconoscimenti specifico che nel mio essere controcorrente sono in buona compagnia perché all’epoca non tutta la critica fu d’accordo nell’elogiare il film e Morando Morandini sul quotidiano milanese “Il Giorno” scrisse che era eccessivamente melenso. Be’ lo è.

Secondo me questo stile, melenso per Morandini, eccessivamente patinato aggiungo io, non è in linea con la miglior produzione di De Sica che nasce nel neorealismo e anche quando si trasforma in commedia mantiene certe radici veristiche e veraci, popolari e popolane, mentre la vita agiata di questa oziosa famiglia altoborghese, tutti leccati in abiti fra il bianco e il color crema, non appartiene al regista e dunque la racconta per luoghi comuni dove la quotidianità si fa cicaleccio e birignao: una leggiadria certo necessaria a far risaltare la tragedia incombente delle persecuzioni nazi-fasciste, ma non fosse stato per il risvolto drammatico questo ritratto di famiglia in un esterno sarebbe potuto diventare parodia: i Finzi-Contini, con trattino come nel romanzo di Giorgio Bassani, che sono “altro” nella comunità ebraica della Ferrara dell’epoca, restano “altro” anche nella cinematografia di De Sica.

Già l’inizio è imbarazzante dal punto di vista sonoro: Livia Giampalmo, che effettivamente era agli inizi in sala di doppiaggio, doppia Dominique Sanda quasi facendo il verso alle querule doppiatrici d’antan delle sofisticated comedies hollywoodiane, come dandosi un tono perché sta dando voce a una signorina di buonissima famiglia: stonatissima e fasulla; più avanti ci si fa l’orecchio, giocoforza, ma arriva subito anche il doppiaggio altrettanto stonato di Roberto Del Giudice che dà voce a Helmut Berger: l’atmosfera generale è che stiano giocando a fare le persone fini.

Alessandro D’Alatri, recentissimamente morto 68enne dopo una lunga malattia, recita nel film il ruolo del protagonista da adolescente, ma aveva debuttato 14enne l’anno prima da protagonista nel piccolo film di avventura e formazione (di cui non rimane traccia) “Il ragazzo dagli occhi chiari” di Emilio Marsili (due soli film nel portfolio e anch’egli sparito senza lasciare traccia) e poi in Rai con un piccolo ruolo nella miniserie “I fratelli Karamazov” diretta da Sandro Bolchi, dopodiché smette di recitare e da giovane adulto negli anni ’80 è al top come regista di pubblicità, debuttando come regista cinematografico solo nel 1991, 36enne, con “Americano Rosso” che gli varrà il David di Donatello come miglior regista esordiente; era una commedia sentimentale guarda caso ambientata nel 1934 con lo stesso entroterra fascista di questo film di De Sica cui resta legato il suo nome come giovane attore. Nel ruolo di Micol da giovane c’è l’ex attrice bambina Cinzia Bruno che aveva debuttato a tre anni proseguendo la carriera di giovane attrice anche in radio e nel doppiaggio ma per un problema alle corde vocali ha dovuto abbandonare la carriera artistica ed ha aperto un’agenzia di viaggi.

Proprio per il ruolo di Micol, De Sica aveva seriamente considerato Patty Pravo ma non se ne fece niente perché Patty era troppo impegnata, era appena arrivata al successo con “La bambola” (canzone che odiava perché dava l’immagine di una donna totalmente dipendente dall’uomo), inoltre la sua casa discografica stava battendo il ferro ben caldo: in quel 1970 era al successo con “La spada nel cuore” e poiché stava costruendosi una brillante carriera come cantante non volle distrarsi col cinema, tanto che in seguito rifiutò anche “Professione: reporter” di Michelangelo Antonioni: oggi se ne dice pentita. Però l’anno prima aveva doppiato Jacqueline Kennedy nel documentario di Gianni Bisiach “I due Kennedy”.

Alla sceneggiatura del film, come detto firmata da Bonicelli e Pirro, inizialmente partecipa anche l’autore del romanzo, Giorgio Bassani, che però abbandona il progetto per insanabili divergenze col regista, tanto da chiedere, e ottenere, che il suo nome venisse tolto dai titoli. Pare che il punto di rottura fu l’esplicitazione nel film della relazione fra Micol e il comunista milanese Malnati, che nel romanzo è solo accennata da Giorgio che è l’io narrante. E non si può dire che per lo scrittore sia stato il capriccio autorale di uno che non comprende le esigenze cinematografiche, perché egli stesso era da tempo attivo sia come soggettista che sceneggiatore, per non dire che aveva anche doppiato Orson Welles diretto da Pier Paolo Pasolini nell’episodio “la ricotta” del film “Ro.Go.Pa.G.”.

Lino Capolicchio è il protagonista Giorgio, nome autobiografico dell’autore che in qualche modo si rispecchia nel personaggio, ebreo come lui, che narra le vicende reali di una famiglia ferrarese cui nel romanzo sono stati cambiati i nomi (tranne quello del cane Jor) e alcuni dettagli: da qui forse il suo attaccamento a certi passaggi della sua narrativa che nel film non sono stati rispettati. Micol è interpretata dall’ex modella francese Dominique Sanda che dopo un’intenso debutto il patria con Robert Bresson che la diresse in “Così bella, così dolce”, subito viene adottata dai cineasti italiani a quell’epoca sempre affascinati dalle bellezze straniere, tanto c’era il doppiaggio: lo stesso anno gira con Bernardo Bertolucci “Il conformista” e si avvia a una carriera in film d’autore con personaggi tormentati e ambigui. Oggi è una bella signora 71enne che si dedica principalmente al teatro. Mentre ricordiamo che Capolicchio è morto 79enne lo scorso anno: la sua scomparsa ha creato un’impennata di visioni di questo film che fino a quel momento era in chiaro su Sky Cinema e che dopo la sua morte è passato a pagamento su Sky Primafila per sfruttare commercialmente la grande richiesta, e infine scompare del tutto; oggi è visibile a pagamento su Prime Video. Restaurato nel 2015 è reperibile in chiaro su YouTube una vecchia versione per il mercato anglofono con titolo e sottotitoli in inglese.

Ferrara, con Roma e Venezia, era una delle città con maggiore popolazione ebraica, e anche dopo la chiusura del ghetto in epoca fascista rimase un importante centro per la comunità, tanto che alle prime restrizioni vi confluirono ebrei da altre province pensando di trovare un ambiente più favorevole grazie alla presenza del deputato fascista ferrarese Italo Balbo e del suo amico Renzo Ravenna che fu uno dei due soli ebrei (l’altro fu il triestino Enrico Paolo Salem) a ricoprire il ruolo di podestà, fino all’emanazione delle leggi razziali che non risparmiò neanche loro. Ferrara dunque fu un centro nevralgico che anche il regista ferrarese Florestano Vancini racconterà nei suoi film.

Il giardino del titolo è quello della villa che realmente a Ferrara, e poi nel romanzo e infine del film, divenne ritrovo e porto franco per tutti gli ebrei e chiunque altro fosse inviso al regime fascista che aveva cominciato le persecuzioni e le restrizioni sociali; metafora di un sogno bello e impossibile che la realtà andrà a dissacrare. Romanzo e film raccontano come la comunità ebraica non si rese conto di quanto stava accadendo; ci fu chi reagì cercando di mimetizzarsi e si iscrisse al Fascismo, come il suddetto podestà della città e come il padre del protagonista interpretato da Romolo Valli, chi davvero senza poter comprendere, perché si era tutti italiani e da secoli, a memoria umana, non c’erano più state divisioni per ragioni religiose e men che meno razziali. Come detto a Romolo Valli, gran signore del teatro sempre in ruoli di supporto al cinema, è andato il riconoscimento del Nastro d’Argento. A Fabio Testi nel ruolo di Malnate è andato il Globo d’Oro come unico premio in una lunga carriera iniziata appena quattro prima come controfigura sul set di “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone che in seguito gli affida un ruolo in “C’era una volta il west” che però taglia in post-produzione perché non ottimale; ma è un aitante belloccio e dopo una serie di piccoli ruoli è protagonista in un paio di film di serie B; è qui alla sua prima occasione in un film importante e l’industria cinematografica che sta puntando su di lui lo premia per sdoganarlo fra quelli che contano. Conclude il cast dei ruoli principali l’altro bello e possibile già ex modello austriaco Helmut Berger che Luchino Visconti aveva diretto proprio come ragazzaccio austriaco in un episodio del film “Le streghe” e che lancerà come protagonista in “Ludwig” un paio d’anni dopo.

Curiosità letteraria, nel romanzo c’è un prossimamente: Giorgio racconta a Malnate di un’episodio accaduto in città poco tempo prima, che riguarda un otorinolaringoiatra coinvolto in uno scandalo omosessuale per il quale si tolse la vita; nomina il personaggio come Athos Fadigati, personaggio protagonista di un altro romanzo al quale stava lavorando: “Gli occhiali d’oro” che con la regia di Giuliano Montaldo diverrà film nel 1987. Una lettura integrale del romanzo “Il Giardino dei Finzi-Contini” a più voci, è stata realizzata dalla Rai di Torino, e poi una riduzione radiofonica e andata in onda su Radio 3. La New York City Opera e il National Yiddish Theatre Folksbiene ne hanno realizzato lo scorso anno un adattamento operistico presso il Museo del Patrimonio Ebraico di Manhattan.

Il delitto Matteotti – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Gran bel film del 1973 che Florestano Vancini ha diretto da una sceneggiatura scritta con Lucio Battistrada, che pur rievocando minuziosamente fatti e personaggi di un momento preciso della nostra storia non è mai didascalico, anzi assai dinamico e coinvolgente e conserva una tale freschezza spettacolare per la quale potrebbe essere stato girato oggi.

Fatti e persone della vicenda. Nel 1924 il deputato Giacomo Matteotti, segretario del Partito Socialista Unitario, in un’infuocato intervento alla Camera dei Deputati mette in discussione il risultato delle elezioni politiche in cui il Partito Nazionale Fascista aveva ottenuto la maggioranza attraverso brogli e intimidazioni squadriste, di fatto denunciando l’operato di Benito Mussolini al momento Presidente del Consiglio dei Ministri ma non ancora Duce. Mussolini dà l’incarico di assassinare Matteotti ad uno dei suoi migliori e spietati sicari, Amerigo Dumini, un dandy facinoroso figlio e nipote di artisti fiorentini nato in America, da cui il nome di battesimo, che rientrato in Italia rinuncia alla cittadinanza statunitense per buttarsi anima e corpo nella Prima Guerra Mondiale come volontario fra gli Arditi del Battaglione della Morte del Regio Esercito Italiano: nomenclature che già dicono tutto di sé e delle proprie specifiche; a guerra conclusa continuò ciò per cui era nato e che meglio sapeva fare: menar le mani e uccidere, ed entrò nelle prime formazioni fasciste della sua città, Firenze, dove nel 1921 fonda il settimanale “Sassaiola fiorentina” per propugnare la sua idea di un fascismo particolarmente violento e oltranzista: un gentiluomo del manganello e dell’olio di ricino che al momento dei fatti narrati vanta, se ne vanta proprio, già otto omicidi. Il ritrovamento del cadavere di Matteotti, agevolato dal regime, avviene solo quattro mesi dopo quando non è più possibile stabilire le precise cause della morte; intanto le indagini in sede civile proseguono mettendo a repentaglio la tenuta del governo che vorrebbe avocare a sé il fascicolo. A quel punto Mussolini, con l’avallo del re Vittorio Emanuele III colpevole di non aver compreso la portata dei fatti, scioglie le camere e di fatto si fa Duce (nella Roma antica era un titolo onorifico concesso a capi militari vittoriosi o a funzionari civili benemeriti) del partito unico che per vent’anni guiderà l’Italia attraverso la soppressione della libertà di stampa e di pensiero e di tutto l’armamentario fascista ben noto.

Florestano Vancini recita un dirigente del PCI in “Cadaveri eccellenti” di Francesco Rosi nel 1976.

Il ferrarese Florestano Vancini, di quattro anni più giovane del Carlo Lizzani di cui ho detto nel precedente articolo, proprio per questi pochi anni probabilmente manca l’impegno attivo nella Resistenza contro il Fascismo e il suo impegno si trasferirà tutto nella sua cinematografia; dopo una proficua carriera come documentarista debutta nel 1960 con “La lunga notte del ’43” tratto da una delle “Cinque storie ferraresi” con cui Giorgio Bassani vinse il Premio Strega, film che parla di fascismo e antifascismo. Da lì in poi Vancini prosegue con una cinematografica di impegno civile e politico con uno sguardo alle storie intime e sentimentali dei personaggi che le compongono: in questo film racconta la vicenda collaterale, non strettamente necessaria alla narrazione principale ma che inquadra l’atmosfera dell’epoca, dell’aggressione al giornalista torinese Piero Gobetti che morì esule in Francia non ancora 25enne per le conseguenze dell’aggressione squadrista, e in una delicata scena lo racconta nell’intimità della sua casa con la moglie. E le due aggressioni, quella a Matteotti e quella a Gobetti, il regista le filma in modo identico raccontando col suo stile lo stile di quelle violenze, con primi piani e dettagli della dinamica confusione di membra – immettendo nell’aggressione a Matteotti dei fermo immagine che scandiscono drammatizzano e dilatano i tempi della violenza, con un magistrale montaggio di Nino Baragli che esalta lo stile dell’autore il quale mostra di non essere intimidito dalla narrazione precisa di fatti e ci mette del suo, andando oltre la cronaca romanzata e facendo poesia. Nel cast tecnico Dario Di Palma direttore della fotografia, musiche molto incisive di Egisto Macchi, scene di Umberto Turco e costumi di Silvana Pantani; al trucco, determinante, quel Rino Carboni col cui nome è ancora oggi possibile acquistare prodotti per il make-up.

A interpretare la giovane coppia ci sono il somigliantissimo palermitano Stefano Oppedisano, già attivo al cinema e nel doppiaggio che ha sempre mancato la grande occasione, e la nascente diva del teatro d’avanguardia romano Manuela Kustermann, e il meglio deve ancora venire.

Gastone Moschin, Vittorio De Sica, Franco Nero, Mario Adorf, Riccardo Cucciolla

Franco Nero, quasi irriconoscibile sotto un trucco che lo fa di oltre dieci anni più anziano, (ma che rimane assai più bello dell’uomo politico) è il protagonista del titolo che apre il film con l’acceso intervento in parlamento che condannò Matteotti alla morte: l’attore recita con foga e indiscutibile talento un monologo assai lungo e complesso, veramente da applauso, e lascia la sua impronta sul resto di un film corale dove si fronteggiano attori altrettanto eccellenti, alcuni davvero di rango. Il tedesco figlio naturale di un calabrese Mario Adorf, attivissimo nel cinema italiano, interpreta probabilmente il miglior Mussolini visto sullo schermo ma c’è da dire che questa performance in verità conta due interpreti: Adorf ci mette la maschera e la mimica ma l’interpretazione vocale è tutta del doppiatore Ivo Garrani, e le due interpretazioni non sono separabili l’una dall’altra. Ricordiamo che oltre a Rod Steiger, Mussolini è stato interpretato da George C. Scott nella serie tv “Mussolini: the untold story”, Antonio Banderas nell’altra serie tv “Il giovane Mussolini”, Bob Hoskins nel film tv “Io e il Duce” di Alberto Negrin, Claudio Spadaro in “Un tè con Mussolini” di Franco Zeffirelli, Massimo Popolizio nel satirico “Sono tornato” di Luca Miniero, Filippo Timi in “Vincere” di Marco Bellocchio e un’altra serie tv è in preparazione con Luca Marinelli.

Nel resto del cast nomi di rango che fanno a gara a chi lascia il segno più incisivo. Umberto Orsini, doppiato però da Gianni Musy, tratteggia l’assassino Amerigo Dumini come un’adorabile canaglia, e fra i politici oppositori in parlamento Gastone Moschin è il socialista Filippo Turati, Riccardo Cucciolla è il comunista Antonio Gramsci, il regista Damiano Damiani che è doppiato da Michele Gammino presta la maschera al democratico Giovanni Amendola; il caratterista teatrale Giulio Girola che aveva debuttato al cinema sei film prima in “La dolce vita” di Federico Fellini è qui alla sua ultima interpretazione nel ruolo di Vittorio Emanuele III. Vittorio De Sica impersona con la sua solita autorevolezza il giudice Mauro Del Giudice (nomen omen) un integerrimo magistrato già fermo sostenitore dell’indipendenza della magistratura in quel fascismo che tutto permeava, il quale indaga sul delitto assistito e controllato dal fascista Umberto Tancredi interpretato da Renzo Montagnani. Da citare e ricordare: l’ex povero ma bello Maurizio Arena ingrassato e con un carriera ormai in declino qui nel ruolo di un comunista, il cantautore Gino Santercole fa il camerata fascista, Pietro Biondi e Cesare Barbetti sono due giornalisti di regime. E ancora: Mico Cundari, José Quaglio, Ezio Marano nell’impossibilità di ricordare tutti i nomi di attori noti e meno noti che compongono questo riuscitissimo affresco.

Per il suo successivo film Florestano Vancini tornerà nella sua Ferrara con una storia d’amore degli anni ’30 “Amore amaro” sempre in epoca fascista e sempre attraverso la lente della sua personale Resistenza: quando l’impegno professionale e artistico coincidono totalmente con l’impegno civile.

BBB – Breve storia delle riviste di cinema in Italia

Le riviste di cinema esistono in Italia da quando il cinema esiste, prima strettamente legate al nuovo “fenomeno” poi via via sempre più slegate dalle notizie specifiche, titolo trama eccetera, per allargarsi a considerazioni più ampie, finendo in alcuni casi col fare da “palestra” a intellettuali e teorici insieme ai cineasti veri e propri: gli sceneggiatori e i registi; queste “palestre” a loro volta si sono sempre più differenziate dai semplici rotocalchi informativi che mischiavano pubblicità e divismo, e dalle riviste di critica che nei decenni si fecero sempre più militanti fino a spingersi all’indagine sociologica che il cinema, non a torto, consentiva, e ancora consente.

In questo link possiamo sfogliare on line la rivista grazie al sito Internet Archive.

1900-1910. Quelle che oggi vengono considerate i prototipi delle riviste cinematografiche derivano a loro volta dai primi materiali stampati che in un modo o nell’altro parlavano del cinema nell’epoca oggi detta “pre-cinema”: erano bollettini tecnico-scientifici che discettavano del nuovo fenomeno fra i quali va ricordato l’Optical Lantern and Cinematograph Journal pubblicato a Londra fra il 1904 e il 1907 e su cui già si parlava del valore educativo e incantatorio delle immagini in movimento. A partire da quegli anni, al diffondersi di una vera e propria industria cinematografica, sulla carta stampata si accompagnano sia le analisi estetiche e tecniche che le vere e proprie dichiarazioni di poetica e di stile dei primi cineasti autodidatti: è così che la stampa comincia ad accompagnare la fotografia in movimento.

Oltralpe esisteva già la pubblicazione Pathé-Journal della casa di produzione omonima, ma in Italia ricordiamo come data di nascita delle riviste di cinema il 1907 a seguito dello sviluppo delle nostre prime imprese cinematografiche: quelle prime pubblicazioni erano non più che cataloghi di titoli e trame rivolti agli esercenti delle sale, prodotti con finalità pubblicitarie dalle stesse case di produzione; ne abbiamo un esempio in Lux del 1908 rivista della SIGLASocietà Italiana Gustavo Lombardo Anonima, del napoletano Gustavo Lombardo, appunto, che fu prima distributore per le regioni centrali ma anche produttore in proprio fino a fondare nel 1928 la Titanus. Nel primo decennio del Novecento le riviste cinematografiche erano già molte ma poiché l’interesse storico per questo materiale è un fatto recente, si sono conservate poche solo copie poiché a lungo ritenute materiale di scarsa importanza.

Erano per lo più foglietti settimanali o quindicinali che annunciavano le uscite e le programmazioni nelle sale, con uno spazio dedicato ad attrici e attori, i quali utilizzavano quegli spazi per pubblicizzare la loro partecipazione a progetti in corso, come anche la propria disponibilità in veri e propri annunci di ricerca di impiego. Le notizie sui film erano accompagnate da fotografie e brevi sinossi delle trame, generalmente ad opera degli stessi produttori e registi, con indicazioni tecniche sull’uso di lenti e obiettivi e delle specifiche di stampa delle pellicole – altro modo con cui verranno chiamati i film, anzi le film: l’articolo femminile era traslato dal sostantivo femminile pellicola di cui film era la traduzione. Ma già cominciano ad affacciarsi su quelle riviste ciò che oggi consideriamo recensioni: ce ne sono su L’arte muta, che si dedica ai divi del momento analizzandone l’arte sia sul palcoscenico che sullo schermo; e una delle prime firme che diverranno importanti sarà quella di Anton Giulio Bragaglia, regista critico e saggista nonché poliedrico sperimentatore e personaggio dell’epoca, che scrive su Apollon – Rassegna di arte cinematografica. È possibile sfogliare on line la rivista Apollon n° 1 del 1916 questo link sul sito del Museo Nazionale del Cinema dove si trovano digitalizzate molte altre riviste d’epoca.

Ricordando che le più importanti e prolifiche case di produzione erano sorte a Torino, Milano, Roma e Napoli, da lì vengono anche le prime riviste cinematografiche:

Il Cinema-Chantant: giornale artistico internazionale Napoli 1907
Il Cinema-Teatro: notiziario internazionale dell’arte cinematografica Roma 1910 
L’illustrazione cinematografica: rivista quindicinale illustrata Milano 1912
L’Olimpo: quindicinale illustrato dei teatri di varietà, caffè-concerti, cinema, teatri di vita dell’ambiente Livorno 1913
Le Maschere: rivista illustrata d’arte, teatro e cinema Catania 1914
La Rassegna del Cinema: arte e letteratura cinematografica Roma 1917
Cinema music-hall: rivista mensile del varietà e della cinematografia Taranto 1920
Corriere del cinema e del teatro Torino 1920

e poco altro ancora, ricordando che ciascuna rivista non aveva distribuzione nazionale e che per lo più morivano dopo poche o addirittura una sola pubblicazione; fra quelle più fortunate e durevoli ci sono state la torinese La Vita Cinematografica (1910-1934) e la veneziana Cinemundus (1918-1946) che avrà una nuova serie fra gli anni 1952-1966.

1920. I ruggenti Anni Venti, The Roaring Twenties, come gli americani ce li hanno tramandati con la loro letteratura il loro cinema e la loro musica che esplose nel jazz, furono per loro un creativissimo decennio di espansione industriale che sarebbe imploso con la tremenda crisi del 1929 e del proibizionismo. In Europa, che era appena uscita dalla Prima Guerra Mondiale e dalla febbre spagnola, i ruggenti Anni Venti ebbero altre espressioni: Les Année Folles in Francia e nel francofono Canada, Goldene Zwanziger in Germania e Felices Años Veinte in Spagna, denominazioni che mettono l’accento sulla follia l’oro e la felicità; ma da noi fu un decennio che, pur risentendo di quelle caratteristiche, si presentò più complesso: come in Germania – dove alla fine del conflitto il marco, il papiermark, stampato in gran quantità per pagare le spese della perduta guerra finì col non valere più nulla e le banconote vennero addirittura usate per accendere il fuoco, che almeno scaldava – in Italia si sentiva altrettanto forte l’incertezza del dopoguerra e si crearono i presupposti di un esperimento sociale: il nascente Fascismo si proponeva con istanze di rivendicazione sociale e partecipazione di massa alla cosa pubblica, salvo poi pretendere di imporsi come pensiero unico e avere una svolta autoritaria e repressiva.

In quel clima il cinema continua ad espandersi perché affare redditizio, e le sue riviste diventano una realtà stabile facendosi libretti con più pagine e a pubblicazione regolare; ad esempio, nel 1923 a Bologna viene creato Eco del Cinema: periodico cinematografico mensile e a Firenze Cinema: pubblicazione settimanale mentre nel 1927 a Palermo si tenta la via della rivista di lusso con Serraglio: quindicinale del teatro e del cinema, e tutte si distinguono, secondo un criterio odierno, per approssimazione e incompetenza: praticamente latita la qualità critica e letteraria degli interventi e gli autori sono ancora autodidatti che con molta faccia tosta spacciano una professionalità ancora in divenire: vengono esaltati i titoli e si discute delle qualità tecniche. Escono anche le prime monografie divistiche, ad esempio su Francesca Bertini, Rina De Liguoro, Leda Gys, Pola Negri e il naturalizzato americano Rodolfo Valentino per restare sui nomi italiani – non per adesione politica a un certo pensiero contemporaneo ma solo perché qui si parla del cinema italiano; dunque le riviste di cinema diventano anche intrattenimento per il pubblico e via via si separano dalle riviste più tecniche che più specificamente si vanno rivolgendo agli addetti ai lavori.

Cominciano ad affermarsi sulla carta stampata anche, e parallelamente, i primi nomi che professionalmente si affermano nell’industria cinematografica: Alessandro Blasetti, che fu regista e sceneggiatore ma anche montatore oltre che critico cinematografico, che fonda nel 1926 Il mondo e lo schermo, poi semplificato in Lo schermo, che l’anno dopo trasforma ancora in cinematografo con l’iniziale eccezionalmente (per l’epoca) minuscola, cui fa seguire ancora Lo Spettacolo d’Italia che però avrà vita più breve. Sul finire dei Venti e scavallando il seguente decennio escono, fra l’altro, il rotocalco La Rivista Cinematografica e Mondana a Palermo nel 1927 e Cine romanzo a Milano nel 1929, entrambe a forte imitazione dei modelli americani ed entrambe avviano un nuovo modello editoriale: il rotocalco cinematografico, che si svilupperà nei decenni a seguire.

Il rotocalco, che prende il nome dalla tecnica rotocalcografica, nasce in seguito a quella nuova possibilità di stampa; fino a quel momento erano in uso le rotative a lastre di piombo che verranno sostituite da cilindri di rame che consentono di riprodurre le sfumature di colore, le mezzetinte, migliorando di molto la resa della fotografie; e poiché ricco di immagini il rotocalco avrà grande diffusione popolare anche fra quanti erano semi o totalmente analfabeti: farsi vedere mentre si sfoglia un rotocalco è un nuovo status sociale. Il primo rotocalco italiano proviene dal settimanale Il Secolo Illustrato che era stato fondato nel 1913 come supplemento al quotidiano Il Secolo, che Arnoldo Mondadori acquistò nel 1923 e che due anni dopo cominciò a stampare con la nuova tecnica. Ma il grande successo del genere rotocalco si deve proprio alle pubblicazioni cinematografiche. Del 1929 abbiamo detto è la rivista Cine-Romanzo, e seguirono: Films e Cinema Illustrazione presenta nel 1930; Stelle nel 1933.

1930. E da qui in poi i rotocalchi cinematografici si moltiplicheranno talmente che cercare di ricordarli tutti produrrebbe uno sterile elenco. Utile ricordare che i rotocalchi erano in genere settimanali di 16 pagine circa che inventarono il cineromanzo, ovvero la narrazione romanzata della trama del film, che se da un lato invogliava ad andare in sala dall’altro consentiva di immaginarsi al cinema a chi non poteva, con uno stile che riecheggiava i feuilleton ottocenteschi, mentre le vite dei divi venivano raccontate come vere e proprie favole di principi e principesse: vite favolose; cineromanzi che accompagnati da fotografie e didascalie saranno i capostipiti dei fotoromanzi che verranno.

1940. Nei primi anni Quaranta insieme al cinema neorealista arriva anche la prima pubblicazione di stampo neorealista: esce prima col nome di Taccuino che presto viene cambiato in Si gira che annovera fra i suoi collaboratori nomi ancora oggi noti: Vitaliano Brancati, Carlo Lizzani, Antonio Pietrangeli e Cesare Zavattini, fra gli altri. E nascono in quegli anni gli scritti d’autore, che spostano la semplice recensione verso una vera e propria critica, teorica ed estetica del mezzo, con spazio all’autore che esprime un suo stile e un suo linguaggio; qualcosa di così specialistico e intellettuale che non trovando più spazio sulle riviste popolari comincia a spostarsi su altri tipi di pubblicazioni: i primi libri sul cinema e più estesamente su altri tipi di riviste che mischiavano i discorsi sul cinema a considerazioni di tipo politico e sociale: L’Europeo, Oggi, Omnibus, Mondo.

La prima metà di quegli anni Quaranta sono anche gli anni della Seconda Guerra Mondiale alla fine della quale c’è da noi il crollo del fascismo, che se da un lato aveva dato un forte impulso all’industria cinematografica – intesa però come strumento di propaganda e di controllo delle masse – dall’altro aveva messo su una cinematografia, quella detta dei telefoni bianchi, che raccontava benesseri e felicità totalmente fasulli, favole senza nessun appiglio con la realtà; oppure si producevano drammi storici con l’intento di esaltare l’italianità. Da quel crollo di ideali e di cinema patinato o in costume nasce il neorealismo, che da un lato è un movimento di presa di coscienza e dunque di ideologia, e dall’altro è un necessario modello produttivo povero, che gira fuori dagli studi direttamente sulle strade e fra le macerie, prendendo dalla strada molti attori non professionisti ad affiancare quei professionisti che non hanno il birignao della recitazione sofisticata. E a parlare di cinema su quelle riviste ci sono anche Vittorio De Sica, Pietro Germi, Roberto Rossellini, Luchino Visconti, Camillo Mastrocinque, Giuseppe De Santis, Michelangelo Antonioni.

Alla fine della guerra venne anche istituita una commissione per l’epurazione di registi e sceneggiatori che avevano collaborato col fascismo, e in realtà si arrivò solo a una blanda punizione e nomi come Goffredo Alessandrini, Carmine Gallone e Augusto Genina furono solo sospesi dall’attività, salvo poi rimettersi al lavoro pochi anni dopo: niente a che vedere con le feroci persecuzioni della contemporanea Hollywood che però se la prendeva coi comunisti, perché erano gli anni in cui si inaugurò la cosiddetta guerra fredda. Nel 1946 i nostri critici cinematografici, ormai diventati una realtà professionale, si sono organizzati nel sindacato SNGCI, Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani, che pubblicherà il suo Cinemagazine che copia il nome dalla preesistente rivista francese. Mentre Ferrania, che produce pellicole e lampade, pubblica una propria rivista col nome dell’impresa.

Yvonne De Carlo che si infila fra Sophia Loren e Gina Lollobrigida per non perdere lo scatto al Berlin Film Festival del 1954

1950. Negli anni Cinquanta si assesta e si arricchisce il panorama delle riviste cinematografiche che cominciano anche a parlare di un nuovo fenomeno, la televisione, e ormai anche quasi tutti i quotidiani hanno le loro rubriche di cinema; arrivano inoltre le prime collane di libri sul cinema con monografie su registi e sceneggiatori, e dato l’ormai gran numero di pubblicazioni, e di penne specificamente addette, si registra uno strano corto circuito: le recensioni sulle riviste cominciano a parlare dei libri e della altre riviste, e viceversa, in un focus narrativo che si allontana dal principale oggetto del contendere: il cinema. La critica omaggia se stessa: quanto lontani si è dalle prime pubblicazioni con quegli scarni e ingenui bollettini, bollettini che però vengono ancora pubblicati dalla Lux Film e dalla Titanus, e si deve a quest’ultima testata e alla genialità del suo patron Gustavo Lombardo l’invenzione della rivalità fra Sophia Loren e Gina Lollobrigida cui tanti ancora oggi credono, e che ha fatto scuola fra i rotocalchi scandalistici che ancora oggi inventano rivalità e amori e tradimenti fino a scadere nel più becero pettegolezzo cui ormai si aggrappano solo quei disperati che vivacchiano ai margini dello show business, altro che Loren e Lollobrigida.

1960. Negli anni Sessanta, mentre aprono nuove testate, resistono in edicola Rivista del cinematografo, Bianco e Nero e Filmcritica, mentre Cinema Nuovo diretto da Guido Aristarco rallenta e da quindicinale diventa bimestrale. Altre riviste degne di nota sono Cineclub, vissuta fino al 1998, e Cineforum che è ancora in edicola e che nacque a Bergamo nel 1961 come bollettino della cattolica Federazione Italiana Cineforum che riuniva le associazioni culturali senza scopo di lucro sorte su tutto il territorio nazionale finalizzate alla diffusione e alla preservazione della cultura e dell’arte cinematografica, che fra le varie attività – dibattiti, conferenze, fondazioni di biblioteche e cineteche, produzione di film sperimentali – organizzavano le proiezioni di quei film che non trovavano spazio nella distribuzione regolare, oggi detta mainstream: tali luoghi di ritrovo si chiamarono Cine Club, poi cineclub o cineforum, copiati dai francesi Ciné-Club dagli inglesi Film Society e dai tedeschi Filmfreunden; cineclub che ebbero, appunto, la loro rivista omonima.

Ciak sul set di un film sperimentale fascista dei CineGuf.

Quei club erano guidati da un’ideologia politica sempre più spostata a sinistra e via via si perde la memoria dei primi sperimentali circoli cinematografici italiani degli anni Venti e Trenta e dei fascisti CineGuf. Coi cineclub viene anche lanciato il concetto giuridico di cinema d’essai o film d’essai che abbrevia la qualifica “Cinéma d’art et d’essai” (cinema d’arte e di prova) che si erano attestati in Francia sin dagli anni ’40 come sale in cui si faceva una programmazione di film sperimentali di derivazione avanguardista e indirizzati a un pubblico di nicchia, più colto; qui da noi questi cosiddetti cineclub arrivarono vent’anni dopo e la prima sala italiana ad avvalersi della qualifica legale di “Cinema d’essai” fu il Quirinetta a Roma nel 1960, cui seguirono il Cinema Centrale a Milano e il Nuovo Romano a Torino. Questa capillarizzazione dei club sfornarono subito una nuova generazione di spettatori più preparati che portarono al successo commerciale film d’autore come “La dolce vita” di Federico Fellini e “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, entrambi del 1960; cosicché i club, ora incalzati dalle sale mainstream che scoprivano il cinema d’autore, si riorganizzarono creando l’Associazione Italiana Amici Cinema d’Essai (AIACE) come stimolo verso un circuito di sale con una programmazione alternativa altrettanto mainstream.

1970-2023. Negli anni Settanta escono Edav Educazione Audiovisiva, ancora in edicola, e Cinema & Cinema che chiuderà i battenti nel 1994. Dagli anni Ottanta in poi possiamo dire di essere entrati nell’era odierna con testate che aprono e chiudono come nei decenni passati. Resistono le riviste specialistiche Immagine. Note di Storia del Cinema e Segnocinema, mentre fra le riviste più commerciali troviamo in edicola Nocturno, che si specializza nei film di genere horror e poliziesco arrivando ai film hard passando per l’exploitation; Best Movie che fondata nel 2002 è stata inizialmente distribuita gratuitamente nei cinema e che dal 2004 esiste in quattro versioni: continua la gratuita ma in versione ridotta, più completa la versione in edicola e solo in abbonamento con spedizione a casa la versione da collezione con copertina priva di didascalie, e infine la versione online dove è disponibile il download gratuito.

La parte del leone ce l’ha a tutt’oggi Ciak, fondata nel 1985 come mensile legato a TV Sorrisi e Canzoni e già l’anno dopo, nel 1986, ha dato vita al premio Ciak d’Oro, premio per il cinema italiano, che ha avuto anche le sue serate tv sulle reti Mediaset e che si inventa sempre nuovi premi – Ciak d’oro Stile d’Attore e Stile d’Autore o Premio speciale Aspettando il Festival, tanto per dirne un paio – che lasciano il tempo che trovano ma che comunque spargono a piene mani polvere di stelle.

Fra tutte queste avventure editoriali sul cinema, nel 1953 ci fu il curioso esperimento Lo Spettatore che visse di un solo numero e che come un cineromanzo monografico presentava il film a episodi “L’amore in città”. Andremo a darci un’occhiata, sia alla rivista che al film.

Il Generale Della Rovere – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Di cinema, fiction &....: Il Generale Della Rovere, 1959

«Caro Signor Rossellini
ho visto i suoi film ‘Roma città aperta’ e ‘Paisà’ e li ho apprezzati moltissimo. Se ha bisogno di un’attrice svedese che parla inglese molto bene, che non ha dimenticato il suo tedesco, non si fa quasi capire in francese, e in italiano sa dire solo ‘ti amo’, sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei.

Ingrid Bergman»

Inizia così, nel 1948, una storia d’amore cinematografica molto chiacchierata, dato che entrambi erano già sposati, e Roberto Rossellini lo era, poi, nientemeno che con Anna Magnani. Ma andando oltre il pettegolezzo, i due film che Ingrid Bergman cita compongono, insieme a “Germania Anno Zero“, la “trilogia della guerra antifascista” del maestro italiano che, ispirato dal nuovo amore, gira subito con lei un soggetto che era stato pensato per la Magnani, “Stromboli”, la quale gli risponde girando in contemporanea “Vulcano” diretta dall’ebreo tedesco-americano William Dieterle, esponente di quella diaspora di cineasti tedeschi fuggiti negli Stati Uniti a causa delle persecuzioni naziste. Entrambi i vulcanici film non furono però un successo al botteghino. Il sodalizio sentimentale e artistico di Roberto Rossellini e Ingrid Bergman si concluse dopo “Giovanna d’Arco al rogo”, ripresa cinematografica di uno spettacolo teatrale basato sull’omonima opera musicale di Paul Claudel: dopo sei film, nessuno dei quali memorabile, e tre figli, la coppia si separa: la riuscita artistica non era nel pacchetto, il neorealismo italiano che tanto fascino aveva avuto sulla Bergman spettatrice non si addice all’attrice internazionale, la quale torna a recitare in America dove vincerà il secondo di tre Oscar con “Anastasia” mentre Rossellini va in India dove appunto gira “India” del 1958 e conosce e sposa la sua terza moglie, una sceneggiatrice indiana.

I metodi del neorealismo – con l’apparente mancanza di preparazione e, spesso, anche di una sceneggiatura completa, o un’attenta costruzione della scena, che rendono il cinema di Rossellini (e non solo) così simile alla realtà proprio per questa assenza di impostazione tecnica – era sentita allora come indice di modernità, e fu anche di ispirazione per i cineasti della Nouvelle Vague francese, e non solo. Il cinema europeo del dopoguerra faceva necessariamente i conti col conflitto appena concluso, e ogni Paese lo ha raccontato a suo modo, e qui vale la pena ricordare che l’unica nazione a non avere nell’immediato dopoguerra una vera e propria cinematografia fu la Germania “colpevole” di aver dato vita al nazismo e subito divisa nei due blocchi che crolleranno nel 1989; ebbe una cinematografia politicamente spaccata in due, come la nazione, per la maggior parte ispirata proprio al neorealismo italiano: ma mentre a occidente si realizzavano film “rieducativi” antinazisti, a oriente si facevano film “educativi” al socialismo. Per non dire di tutti i professionisti che erano scappati in America dove non solo al cinema faranno grandi cose. Ricordiamo alcuni nomi austro-tedeschi a Hollywood: Fritz Lang, Peter Lorre, Georg Wilhelm Pabst, Otto Preminger, Erich Von Stroheim, Billy (Samuel) Wider, solo per citare i primi che vengono in mente.

1959, finalmente è l’anno di “Il Generale Della Rovere” che nelle intenzioni dell’autore è un film “di transizione”, quasi un ripiego alle necessita produttive e commerciali del momento: dopo l’India avrebbe voluto filmare il Brasile, ed è di quegli anni l’ispirazione a un ampio progetto alla cui realizzazione avrebbe dedicato il resto della sua carriera e della sua vita: un’enciclopedia di stampo scientifico e didattico sullo sviluppo tecnologico degli audiovisivi, e in particolare sulla capacità narrativa della nascente televisione nella quale avrebbe avuto molto da dire ad alti livelli.

È a Parigi dove sta cominciando a lavorare al documentario tv in 10 puntate di “L’India vista da Rossellini” e accetta di girare questo film di stampo tradizionale solo per compiacere i produttori italo-francesi. Il soggetto è di Indro Montanelli che ha firmato la sceneggiatura con Sergio Amidei e Diego Fabbri, che nasce da un’esperienza personale di Montanelli che imprigionato dai tedeschi a San Vittore, Milano, conosce un certo Giovanni Bertoni realmente fucilato dai tedeschi e i cui familiari, dopo l’uscita del film, intentano causa contro il regista per diffamazione nonostante il nome del protagonista sia stato blandamente mutato in Emanuele Bardone; dal successo della sceneggiatura successivamente Montanelli svilupperà il romanzo omonimo.

La diffamazione sta nel fatto che Bertoni/Bardone è un truffatore, giocatore incallito e frequentatore di prostitute, che come fasullo Colonello Grimaldi raggira i parenti di prigionieri millantando aderenze fra i tedeschi e spillando denaro, se non per farli rilasciare, per lo meno evitare di farli trasferire nei campi in Germania. In realtà è in combutta con un sottufficiale della Gestapo al quale passa la metà dei proventi in denaro, quando non li ha persi tutti al tavolo del baccarà. Il generale del titolo è un importante esponente della resistenza italiana che il colonnello Müller contava di catturare per poterlo poi scambiare con importanti prigionieri tedeschi, ma il partigiano viene ucciso in un’improvvida sparatoria e al dunque propone al miserabile truffatore dai modi eleganti di fingersi il Generale Della Rovere nel braccio dei prigionieri politici del carcere di San Vittore, per raccogliere informazioni sulla resistenza. Va da sé che una volta in prigione e a stretto contatto con i veri combattenti per la libertà italiana, il malfattore ha una conversione morale e muore da eroe. Grande successo al botteghino e Leone d’Oro a Venezia, ex aequo con un altro film bellico, sulla prima guerra mondiale, “La grande guerra” di Mario Monicelli che guarda al conflitto con dissacrante ironia.

Oggi il film, pur mantenendo intatta la sua forza narrativa, risente del tempo e mostra, quasi come uno spaccato sul cinema di quell’epoca, la rudimentalità dei mezzi tecnici: è il primo film italiano in cui si usa lo zoom e le ricostruzioni in studio a Cinecittà (il cui ingresso sulla via Tuscolana, corredato di due garitte militari, viene filmato come ingresso di un kommandantur) sono abbastanza riconoscibili soprattutto nell’ambientazione carceraria; le scene più dialogate, molto statiche e con pochi controcampi, sono filmate con gli attori che si posizionano in favore della cinepresa come a teatro si sarebbero posti in favore del pubblico.

Il protagonista, che ha come antagonista il tedesco Hannes Messemer che recita bene anche in italiano, è il 59enne Vittorio De Sica in stato di grazia che, consapevole dell’impegno, per l’occasione rende più fluida e veritiera la sua recitazione, altrove sempre abbastanza manierata e gigionesca. L’anno prima era stato candidato agli Oscar come non protagonista per “Addio alle armi” da Hemingway, regia di Charles Vidor con Rock Hudson e Jennifer Jones; c’era anche Alberto Sordi. Ma la maggior parte dei premi e delle candidature di De Sica sono dovute alla sua attività di regista, dove ha sicuramente dato il meglio di sé firmando film memorabili che qui sarebbe troppo lungo elencare, ma basta ricordare “Il giardino dei Finzi-Contini” del 1970 che rientra in questa casella di film sul Fascismo e la Resistenza.

Nel cast la “partecipazione speciale” di Sandra Milo e Giovanna Ralli, che Rossellini deve essersi divertito nello scambiargli il colore dei capelli, facendo bruna la prima e platinata la seconda. Il terzo nome femminile è quello della francese Anne Vernon, come compromesso della coproduzione. Ma il terzo ruolo più interessante è affidato al caratterista per tutte le stagioni Vittorio Caprioli, sempre a suo agio sia in ruoli drammatici che brillanti. Nella scena finale fra i prigionieri in anticamera per la fucilazione troviamo Ivo Garrani come capo dei partigiani, un giovane Franco Interlenghi e, omaggio al De Sica regista, Lamberto Maggiorani, che nel suo intervento fa riferimento a una bicicletta: da operaio, De Sica ne aveva fatto, un paio d’anni prima, il protagonista di quel “Ladri di biciclette” che riceverà Oscar, Golden Globe, BAFTA e Nastri d’Argento.

Nel 2011 ne è stato fatto un film in due puntate Rai con la regia di Carlo Carlei e l’interpretazione di Pierfrancesco Favino. Un remake cinematografico sarebbe oggi immaginabile con quel George Clooney molto in sintonia con l’Italia e l’antimilitarismo, nonché con quel pizzico di cialtroneria, voluta e controllata, che spesso ritroviamo nelle sue interpretazioni. Chi gli telefona per dirglielo?