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Mussolini ultimo atto – Fascismo e Resistenza nel cinema d’autore

Nell’occasione del 25 aprile, festa italiana dalla liberazione dal nazi-fascismo, La7 manda in onda questo film del 1974 e colgo l’occasione per andare a rivedere alcuni dei film d’autore che trattarono l’argomento.

Erano passati trent’anni dalla fine della guerra e se dal punto di vista politico e sociale quello sembra un periodo lontanissimo perché da allora regna al governo la Democrazia Cristiana e nell’immediato il territorio italiano ha il problema contingente del terrorismo di destra e sinistra, in realtà per tanti è ancora molto vicino: i 20enni di allora sono la classe dirigente e quelli che allora erano nell’età di mezzo, fra i 40 e i 50, sono negli anni ’70 ancora viva memoria – dunque un film che rivive l’episodio della fine del duce tocca nervi ancora vivi, sia nei nostalgici che in tutti quanti gli altri che cercavano la via del futuro.

Il romano Carlo Lizzani, classe 1922, all’epoca dei fatti era un 20enne che si era unito alla Resistenza Romana formatasi in città dopo l’8 settembre 1943 in seguito a quella che storicamente viene definita “mancata difesa di Roma” (ma anche “occupazione tedesca di Roma”) da parte del Regio Esercito, e che operò fino al 4 giugno 1944, data della liberazione della città da parte degli Alleati; nella Resistenza confluirono sia militari che civili, sia con forme di boicottaggio passivo, ovvero senza l’uso di armi, che organizzandosi in vere e proprie formazioni paramilitari. Lizzani, sceneggiatore nel periodo neorealista, debuttò come regista poco meno che 30enne prima col documentario “Nel mezzogiorno qualcosa è cambiato” che è possibile vedere alla fine dell’articolo, e poi col film “Achtung, banditi!” che rievoca un episodio della resistenza partigiana a Genova, dunque già nell’ambito del film storico di militanza su cui ritornerà, concedendosi qualche divagazione farà anche un western, rimanendo negli anni fedele al suo genere d’esordio, distinguendosi anche nel noir-poliziesco con ricostruzioni di delitti di cronaca. Dunque questo suo film sugli ultimi giorni di Benito Mussolini a trent’anni dal fatto sembra quasi un atto dovuto, anche se forse non pienamente riuscito.

Lizzani scrisse il film con lo scrittore Fabio Pittorru che si era dato alla sceneggiatura, (tentando l’anno dopo anche lui la disagevole via della regia) che ha dato il meglio di sé nella scrittura di poliziotteschi con qualche incursione nella commedia sexy: questa sceneggiatura rimane la sua prova più impegnativa. Il film che ne viene fuori è un’opera rigorosa, forse troppo perché manca di pathos, e benché ricca di dettagli nella ricostruzione, resta poco spettacolare: rimane un film “a tema” scandito con la freddezza dei dettagli che lo colloca a metà strada fra il documentario storico e il cinema narrativo, e se del documentario ha il necessario rigore del film narrativo non ha la spettacolarità, come se l’attenzione alla documentazione avesse tolto slancio allo spettacolo o come se, forse e soprattutto, Lizzani col suo passato di partigiano avesse voluto – e c’è riuscito – mantenersi al di sopra delle parti senza metterci il suo personale umano punto di vista. Il film risulta didascalico e poco coinvolgente anche se tecnicamente perfetto.

Produce il palermitano Enzo Peri, che laureato in filosofia e giurisprudenza era andato a frequentare anche la California University, e con questo suo background di cultura alta e internazionale torna in Italia e si dà al cinema, prima tentando la strada della regia (un documentario e un western) e poi dedicandosi esclusivamente alla produzione di alcuni film (a tutt’oggi solo cinque) cosiddetti impegnati; non sorprende dunque che il film, schierando divi americani sia, com’è evidente dal labiale, girato in inglese certamente per facilitare una distribuzione internazionale dove fu rilasciato col titolo “Last Days of Mussolini”.

L’interpretazione di Rod Steiger non aiuta, per quanto la sua performance sia misurata e aderente: ma aderente a cosa? L’americano, già premio Oscar per “La calda notte dell’Ispettore Tibbs” (1968) e già in Italia nel 1971 con Sergio Leone per “Giù la testa”, sembra fuori posto nel ruolo del duce, di questo duce in declino e in fuga, e per quanto bene possa interpretare gli scatti d’orgoglio e gli sguardi ora furenti della bestia in gabbia e ora vacui dell’uomo perduto, la figura di Benito Mussolini non diventa mai sua, non gli appartiene, non appartiene alla sua cultura: è quella che in gergo si definisce interpretazione scollata. Non convince neanche l’altrove sempre ottima Lisa Gastoni come Claretta Petacci. Già come personaggio, benché somigliante, è poco credibile perché troppo anziana per il ruolo: Clara o Claretta, Clarice sui documenti, era di 29 più giovane del duce mentre l’attrice è di soli 10 anni più giovane dell’attore e risulta poco credibile quando nel film dice che già adolescente si era innamorata dell’uomo politico: narrativamente nuoce la mancata differenza di età perché sarebbe apparsa dolorosamente assai più patetica una giovane donna ciecamente innamorata di un uomo che ha il doppio della sua età; e benché portatrice di un minimo di pathos sentimentale anche il suo personaggio risulta didascalico fin dalla scrittura.

Nella prima parte del film c’è la partecipazione di gran lusso di Henry Fonda che impersona autorevolmente quel Cardinale Schuster, proclamato beato da Giovanni Paolo II, che nella sua epoca e nel clero fu fra i tanti che si impegnarono nell’intento di cristianizzare il fascismo perché, va ricordato, Il fascismo era nato come un movimento politico anticlericale con venature anticattoliche e anticristiane, venature che poi il lungimirante Mussolini, allorché fu a capo del governo, da buon politico smussò riavvicinandosi alla chiesa con cortesi concessioni auspicando di giungere “in un tempo più o meno lontano” – beninteso – a comporre il dissidio fra Chiesa e Stato che egli giudicava “funesto per entrambi e storicamente fatale”: ipocrisia ad alti livelli. Nel film si racconta il momento in cui promosse nell’arcivescovado di Milano un incontro fra Mussolini in fuga verso la Svizzera, dove aveva già trasferito diversi milioni di lire, e alcuni rappresentanti dei partigiani con l’intento di concordare una resa incruenta del duce; duce già tampinato dai Tedeschi che in quanto alleato lo volevano per sé e con sé, e dagli Americani che in quanto vincitori lo volevano trasferire in una prigione dorata degli Stati Uniti per tenerlo da conto allorquando e semmai il comunismo della vittoriosa Russia avesse preso piede in Europa. Di Fonda resta da dire che anche lui come l’altro americano era di casa a Cinecittà avendo girato con Leone “C’era una volta il West” e con Tonino Valerii “Il mio nome è Nessuno”.

Nella parte centrale del film troviamo Lino Capolicchio che è il partigiano Pier Luigi Bellini delle Stelle, Pedro come nome di battaglia, il cui nome resta famoso per avere intercettato Mussolini in fuga travestito da soldato tedesco fra gli altri nazisti in ritirata. Nell’ultima parte entra in scena Franco Nero – all’epoca divo italiano di prima grandezza che l’anno prima era stato protagonista di “Il delitto Matteotti” di Florestano Vancini, altro film che entra nella mia piccola lista – è qui nel ruolo del partigiano Walter Audisio, Valerio in battaglia, che prese in consegna Mussolini per eseguirne la fucilazione, e con lui la Petacci che si ostinava a non volersi separare dall’uomo della sua vita che divenne l’uomo della sua morte: al momento della fucilazione del duce la donna si frappose restando colpita. Nel resto del cast Massimo Sarchielli come Alessandro Pavolini, figura di spicco dell’apparato fascista che finì appeso a Piazzale Loreto insieme al suo capo e Giacomo Rossi Stuart perfettamente bilingue interpreta il capitano italo-americano Jack Donati. Nando Gazzolo ha doppiato Rod Steiger e Giorgio Piazza Henry Fonda. Musica di Ennio Morricone eseguita da Bruno Nicolai.

Il film, che si apre con un cinegiornale e si chiude con documenti d’epoca rimane esso stesso come rigorosissima documentazione.

Il documentario opera prima di Carlo Lizzani