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I mostri

Veicolo per due dei divi del momento anche amici nella vita: Ugo Tognazzi che veniva dalla rivista e Vittorio Gassman dal teatro classico, diversissimi quanto intercambiabili, in questo film esplorano la loro intima natura di interpreti: tendente all’esagerazione istrionica Gassman, più misurato e ambiguamente sottile Tognazzi, che per questo fu anche lodato dalla critica: “segna il punto più alto raggiunto da Tognazzi nel film a episodi”, “…in confronto al suo rapinoso, irresistibile, talvolta magari debordante collega [si presenta] come un ‘dritto’ di indole più conciliante e flemmatica. E lo è, magari, però i personaggi più mostriciattoli finiscono per essere poi proprio suoi”. “Nel corso di questo festival dei due emuli di Fregoli, bisogna dare la preferenza a Tognazzi, molto più sciolto, più sottile, più sfumato e più convincente di Gassman. Con lui, la satira è meno diretta. Essa s’insinua e raggiunge meglio lo scopo”.

I due attori nel film “La marcia su Roma” sempre diretti da Dino Risi

Il film del 1962 è stato selezionato fra i 100 da salvare della nostra cinematografia ed è un caposaldo della primissima commedia all’italiana che molto bene si espresse nei film a episodi, spesso firmati da registi diversi, in questo caso addirittura 20 di durata varia, e qui li dirige tutti Dino Risi, già regista affermato che ha scritto il film con Elio Petri che aveva da poco debuttato in regia col drammatico “L’assassino” ma che era sceneggiatore da più di un decennio; con Ettore Scola, anch’egli sceneggiatore da un decennio che debutterà come regista l’anno dopo con “Se permettete parliamo di donne”; e poi con gli sceneggiatori a tempo pieno Agenore Incrocci, Ruggero Maccari e Furio Scarpelli. Al montaggio quello che diverrà un altro regista di genere, Maurizio Lucidi, che come montatore continuava un mestiere di famiglia. Scene e costumi di Ugo Pericoli, musiche di Armando Trovajoli e produzione di Mario Cecchi Gori. Il successo è servito: la feroce critica sociale è piaciuta molto a pubblico e critica.

L’educazione sentimentale

È quella che un italiano medio impartisce al figlio scolaro elementare, fatta di luoghi comuni, proverbi e modi di dire, tutti all’insegna del fare truffaldino come stile di vita e della disonestà intesa come furbizia in un mondo di disonesti, perché i disonesti sono sempre gli altri: un atteggiamento – non solo tutto italiano – sempre corrente. La morale è che quel che si semina poi si raccoglie. Ugo Tognazzi apre il film con questo ritrattino folgorante educando il figlio Ricky Tognazzi (doppiato da un altro bambino, Roberto Chevalier) anche all’arte cinematografica: quello stesso anno il bambino recita di nuovo accanto al padre nell’episodio “Il pollo ruspante” diretto da Ugo Gregoretti nel film “Ro.Go.Pa.G.”. Come collega d’ufficio completa il cast Mario Frera non accreditato nei titoli, come pure la moglie del protagonista e madre del bambino che altri non era che Pat O’Hara, vera madre di Ricky e compagna di Ugo.

La raccomandazione

Vittorio Gassman, reduce dal suo “Il mattatore” prima in tv e poi al cinema diretto sempre da Dino Risi che su di lui aveva disegnato “Il sorpasso” l’anno prima, si prende in giro rifacendo sé stesso in una rilettura un po’ sopra le righe: è un prim’attore teatrale impegnato nell’Otello di William Shakespeare, come realmente lo era stato qualche anno prima in una storica messa in scena curata da lui stesso e in cui ogni sera si alternava con Salvo Randone nei ruoli di Otello e di Jago, spettacolo che è possibile recuperare nella sua versione televisiva su RaiPlay. Nell’episodio un collega meno noto e meno fortunato gli chiede una raccomandazione per un’altra produzione e il primattore, fra bizze in camerino infarcite di classiche sboronate, effettivamente telefona per fare la sua raccomandazione – che però si rivela falsa e ipocrita, e fingendo di negare ciò che invece afferma fa del collega un ritratto ingeneroso e disastroso. Nell’ingrato ruolo del collega si presta il caratterista cine-televisivo Franco Castellani.

Il mostro

Velocissimo, meno di un minuto questo flash che mette in burla la critica sociale. Il titolo di un quotidiano annuncia che un “mostro” ha ucciso i suoi cinque figli e si barrica in casa sulla Pontina, dove a seguire vediamo che la polizia lo va a prelevare. Musica di marranzano perché sia chiaro che il mostro è un immigrato del sud, e poi un fotoreporter fa uno scatto del povero mostro stretto fra i due poliziotti, uno a cui manca un incisivo e l’altro con un occhio storto: altrettanto mostri ma da barzelletta. Il tutto all’insegna di un politicamente scorretto ancora di là da venire nella coscienza civile e all’insegna del quale non avremo più di queste perle.

Come un padre

Come un padre, è come il giovane marito geloso considera l’amico un po’ più anziano nel cui appartamento piomba in piena notte per lamentare il presunto tradimento della moglie, chiedendo all’amico di intercedere, proprio come un padre, per accertarsi che i suoi siano solo timori e malate fantasie. Rassicurato il giovane amico, l’uomo torna a letto dove ad attenderlo c’è la giovane moglie di cui si è appena parlato. Tognazzi recita di sottrazione, con molta misura, dando spazio all’emergente Lando Buzzanca che nei decenni a venire sarà protagonista della commedia sexy all’italiana sempre con questo genere di personaggio, qui però doppiato dal padovano Carlo Reali che garbatamente rifà il suo accento siciliano.

Presa dalla vita

Gassman, come se non ne avesse abbastanza, in questo episodio si sdoppia e interpreta due di quei mostri che si muovono sui set cinematografici: un tuttofare che rapisce una vecchietta e poi il regista dalla chioma argentata che la utilizza nel film malgrado lei. Parabola, e anche un po’ denuncia, di tanti piccoli interpreti dell’appena concluso neorealismo dove gli attori venivano presi dalla strada, appunto, e qui si racconta anche contro la loro volontà. I sei sceneggiatori, o uno dei sei non si sa chi, si sono qui divertiti a ritrarre il regista come una copia di Federico Fellini.

Il povero soldato

Il povero soldato in licenza è venuto dalla provincia nella capitale dove si era trasferita la sorella, per riconoscerne il cadavere: la ragazza è stata trovata assassinata e i giornali cavalcano la notizia con tono scandalistico. Un amico lo accompagna nell’appartamento della ragazza, ex cameriera, come l’amico spiega cautamente, che si è evoluta: si era comprata una casa arredata con ogni confort ai Parioli… Il povero soldato, avvilito, ha trovato il diario della sorella con nomi e cognomi della Roma bene, calendario degli appuntamenti e tariffe in decine di migliaia di lire che lui finge di scambiare per incomprensibili numeri di telefono, e sempre avvilito triste e mortificato, va alla redazione di Paese Sera, quotidiano chiuso nel 1994, chiedendo tre milioni e mezzo per cedere le scottanti memorie che lui, nella sua ignoranza, considera un doloroso lascito sentimentale. Solo alla fine gli sfugge uno sguardo di calcolata furbizia. Con Quinto Parmeggiani come capo redattore.

Che vitaccia!

Qui il mostro è un povero baraccato della periferia romana che non ha neanche i soldi per comprare le medicine a uno dei tanti figli malati, salvo poi spendere gli ultimi spiccioli per andare allo stadio a vedere la squadra del cuore, ‘a Roma. Angela Portaluri è la moglie incinta, probabilmente sempre incinta data la numerosa prole. Le immagini della partita giocata allo Stadio Olimpico di Roma sono quelle reali della partita Roma-Catania giocata il 10 febbraio 1963 e terminata 5-1: Adelmo Prenna segnò l’unico gol del Catania mentre il suo compagno Remo Bicchierai segnò un improvvido autogol.

La giornata dell’onorevole

Sintetico spaccato dell’attività di un uomo politico in cui qualcuno ha voluto vedere Giorgio La Malfa e qualcun altro Giorgio La Pira, comunque di area cattolica poiché il personaggio vive in un convitto di frati domenicani; ma nell’aula parlamentare assistiamo al discorso di un altro mostro, fascista nello specifico, perché centro destra o sinistra sono tutti uguali. Nessuna azione mostruosa o delittuosa viene mostrata nell’episodio, in quanto già l’essere “onorevoli” è di per sé indice di mostruosità: ipocrisia, cinismo, opportunismo e sotterfugi sono il tessuto del mostro politico. Intorno a Tognazzi il vero generale in pensione Ugo Attanasio, suocero di Alberto Lattuada che lo aveva fatto debuttare come figurante, che qui interpreta un generale che fa anticamera; c’è poi il caratterista friulano Carlo Kechler (erroneamente Kecler nei titoli), il caratterista gay Franco Caracciolo come solerte fratino, che sarà nel corpo di ballo delle Ragazze Coccodè nel programma Rai 2 “Indietro tutta!” di Renzo Arbore nonché una delle Sorelle Bandiera in sostituzione di Tito LeDuc. Come figurante non accreditata Gabriella Ferri che a un pranzo sorride alle amenità dell’onorevole.

Latin Lovers (Amanti Latini)

La traduzione fra parentesi che oggi sarebbe superflua all’epoca aveva senso perché non erano in molti a conoscere l’inglese, giacché molti non conoscevano ancora neanche l’italiano. Altro brevissimo episodio, non parlato e accompagnato dalla canzone “Abbronzatissima” di Edoardo Vianello. In un’affollata spiaggia una donna, in quello scandaloso bikini che in quegli anni si andava diffondendo, scivola via dalle mani sinuose dei due amanti latini che le sono ai lati. E le mani dei due uomini continuano a cercare nel vuoto – trovandosi, e stringendosi in un’intesa omoerotica che nulla ha dei maschi latini. Politicamente scorretto ma divertente in quanto tale. La bella è Luciana Vincenzi che nel 1966 parteciperà a Miss Italia dove verrà incoronata solo con la fascia di Miss Cinema, senza però fare una grande carriera cinematografica.

Testimone volontario

Col sempre istrionico Gassman che come avvocato senza scrupoli sfarfalla intorno a Tognazzi che gioca per sottrazione il ruolo di testimone di un omicidio – il primo intimorendo e screditando il secondo. L’episodio appare incompleto perché ci si aspetta dall’abusato povero testimone una finale e risolutiva reazione. Qui il mostro è sicuramente l’avvocato ma gli sceneggiatori hanno perso la ghiotta occasione di fare anche del testimone un mostro esemplare. Nel ruolo della moglie di Tognazzi un’accorata Marisa Merlini, il giudice è Carlo Ragno.

I due orfanelli

Altra maschera esageratamente grottesca per Gassman come mendicante che si accompagna a un giovane cieco sfruttandolo; all’offerta di un oftalmico di poter curare gratuitamente il povero infelice, cambia zona per non perdere la sua personale fonte di sostentamento. Daniele Vargas è il dottore. Il titolo è un dichiarato omaggio, senza alcuna attinenza specifica nella trama, al film omonimo del 1947 con Totò, che a sua volta fu la parodia del muto del 1921 “Le due orfanelle” di David Wark Griffith dove si raccontava che una delle due era cieca: il magistrale cerchio di omaggi e citazioni si chiude. Nell’importante ruolo del cieco dagli occhi assai vivaci, anzichenò, un giovane inspiegabilmente non accreditato e in cui qualcuno ha voluto riconoscere Teo Teocoli.

L’agguato

Altro veloce episodio senza parlato: il pizzardone Tognazzi, in elegante divisa bianca estiva, si apposta dietro l’edicola di un giornalaio per multare gli incauti che si fermano in divieto di sosta per fare un acquisto al volo. Episodio sicuramente ispirato alle reali abitudini di certi tutori dell’ordine. Come vittime si prestano il produttore Mario Cecchi Gori e l’addetto stampa Enrico Lucherini. L’episodio si può inserire nel sottogenere denuncia sociale.

Il sacrificato

Sin dal cartello col titolo la musichetta del maestro Armando Trovajoli suggerisce un sirtaki greco in omaggio alla protagonista femminile Rica Dialina, già Miss Grecia 1954, che recitando con la sua voce in un convincentissimo italiano riesce a tenere testa al quasi monologante Gassman: sfruttatore seriale delle donne e dei loro sentimenti, ma che dice di sacrificarsi per il loro bene spingendole a farsi lasciare. Archetipo del maschio italico ancora in giro come mostro predatore. La francese Françoise Leroy, di cui non si conoscono altri film, è l’amante successiva.

“Vernissage”

Il termine francese del titolo, virgolettato, al contrario del precedente inglese “Latin lovers” non ha bisogno di traduzione perché evidentemente già all’epoca nel nostro uso comune. Siamo nell’Italia del boom economico in cui l’italiano medio firma pacchi di cambiali per regalarsi il nuovo necessario, in questo caso una fiammante Fiat 600. Dopo il felice acquisto Tognazzi telefona alla moglie e poi sistema sul suo nuovo cruscotto i magneti con San Cristoforo, patrono dei viaggiatori in genere, e un “pensa a noi” con foto di moglie e figlio. Uscito dal salone la prima cosa che fa con l’auto nuova è andare a caricare una prostituta: santa ipocrisia della classe media. Il cortometraggio è un chiaro rifacimento in chiave borghese dell’episodio “Che vitaccia!” ambientato nel sottoproletariato ma con medesima dinamica ego-consumistica: lì lo stadio qui la prostituita. Il titolo è nell’immediato incomprensibile e necessita di una rilettura assai più sottile: se per vernissage si intende una mostra d’arte qui l’arte messa in mostra è il consumismo: le auto nel salone e le prostitute sul viale. Nel ruolo della prostituta una giovane Isabella Biagini non accreditata.

La Musa

Si fa ma non si dice. Gassman torna a gigioneggiare nei panni femminili di una musa letteraria che come componente di giuria di un concorso letterario, assai caldamente spinge ad assegnare il premio ad un improbabilissimo debuttante, assai ruspante, nella cui camera d’albergo va a impartirgli gli ultimi preziosi consigli prima di spegnere la luce spingendo l’aitante giovanotto, fresco di doccia e in accappatoio, sul letto; sul nero del buio udiamo gli ultimi suoni: un bicchiere che cade e lei che chiede “Dove sei?” in un finale aperto in cui il giovanotto è forse riuscito a sfuggire alle grinfie dell’interessata musa. Si fa ma non si dice: molti concorsi erano o sono truccati? molti critici letterari erano o sono venduti? o solo interessati alle camere da letto? Si fa ma non si dice: l’innominato premio si ispira chiaramente al più importante premio letterario del momento, il Premio Strega, e il look del Gassman-Musa con quei fili di perle sull’abito nero dalla vertiginosa scollatura sulla schiena, rimanda molto alle vera musa dello Strega, la scrittrice Maria Bellonci, che però tacque sul film e non seguì nessuna polemica: è una dichiarata e “innocente” presa in giro e l’attore riporterà il personaggio nel televisivo “Studio Uno”, diretto da Antonello Falqui e condotto da Mina, alla quale il Gassman-Musa dichiarerà di essere la creatrice del “Premio Cerasella”: una divertente gag che forse arrivò come smentita: tutto è bene quel che finisce bene. Nel ruolo del giovane scrittore ruspante lo stuntman Salvatore Borgese qui nel suo primo ruolo parlato in barese e doppiato da Stefano Satta Flores.

Scenda l’oblio

Qui i mostri sono una coppia dell’alta borghesia che al cinema stanno vedendo la scena di un film neorealista in cui un plotone di soldati tedeschi ha appena fucilato degli inermi civili contro un muro, e quel “semplice muro con le tegoline sopra” è il modello che ispira lui per la loro nuova villa: un genere di mostri sempre fra noi. La di lui degna consorte è Luisa Rispoli, attiva in pochi film con piccoli ruoli in quegli anni Sessanta anche come Maria Luisa Rispoli.

La strada è di tutti

Velocissimo ritratto per Gassman come altro mostro sempre attuale sulle nostre strade: il flemmatico ma anche polemico pedone che faticosamente attraversa sulle strisce pedonali fra auto che “incollano”, poi sale sulla sua Fiat 600 dal look sportivo e diventa un altro di quei pirati della strada.

L’oppio dei popoli

L’oppio dei popoli, che secondo Karl Marx era la religione, qui è la televisione seguendo l’opinione di tanti intellettuali e, in questo caso specifico, di molti cineasti: perché la televisione toglieva spettatori al cinema e solo nei decenni più recenti i due mezzi sono diventati intercambiabili. Tognazzi si fa molto espressivo pur nella maschera inespressiva dello spettatore imbambolato davanti alla tv da cui proviene la lunga credibile traccia sonora di un film americano alla cui conclusione l’annunciatrice ricorda il titolo “Salto nello spazio” di Peter Baldwin, annunciando fra i programmi dell’indomani altre pesanti dosi di oppio al popolo: la ventesima puntata del romanzo sceneggiato “La cieca di Sorrento”, che però uscì come film diretto da Nick Nostro in quello stesso 1963; il primo titolo è d’invenzione e sembra un omaggio poiché Baldwin è realmente esistito come attore americano, interprete di film di fantascienza, adottato dal nostro cinema con un importante ruolo in “Era notte a Roma” di Roberto Rossellini, 1960; Baldwin poi sposò Emi De Sica, figlia di Vittorio De Sica col quale collaborò come aiuto regista prima di tornare negli USA dove si riciclò come regista televisivo negli anni ’70, dunque una sua regia nel 1963 è improbabile. Qui Tognazzi si ritrova nel medesimo triangolo amoroso di “Come un padre” ma stavolta nel ruolo del cornuto; la bella moglie in baby-doll sul cui primo piano si apre l’episodio accompagnato dalla voce di Nico Fidenco che la dice bella cantando “Tornerai… Suzie” è interpretata dalla francese (il film è in coproduzione) Michèle Mercier che diventerà famosa con il ciclo di film su “Angelica”. Il giovane amante è l’aitante Marino Masè che quell’anno fu protagonista per Jean-Luc Godard in “Les Carabiniers”. Sempre a proposito della televisione come oppio dei popoli alla fine ci viene detto che l’unico programma che il cornuto protagonista non guarda è “Tribuna politica” certo perché troppo attinente alla realtà.

Il testamento di Francesco

Ancora la televisione come scenario. L’episodio si apre col telegiornalista Riccardo Paladini, non nuovo a queste brevi partecipazioni cinematografiche, che nella sala trucco della Rai ripassa le notizie da leggere in video. Accanto a lui Gassman impersona un forbito personaggio che tormenta il truccatore con continue richieste, perché attentissimo all’immagine di sé che sta per dare in tv; e lì in diretta televisiva lo scopriamo essere un sacerdote che commenta le parole di San Francesco sulla vanità umana.

La nobile arte

Ironia sin dal titolo giacché nel pugilato di cui l’episodio tratta non c’è nulla di nobile: tolti gli ideali dei combattenti è solo questione di ingaggi e scommesse. I due attori concludono insieme il film con un episodio drammaturgicamente più complesso esibendosi in due caratterizzazioni che, pur spinte e grottesche, mantengono l’afflato umano delle grandi interpretazioni: personaggi che bene avrebbero potuto essere sviluppati in un lungometraggio a sé stante. Sono entrambi due ex pugili suonati, Tognazzi che si è fatto impresario e Gassman, ex campione d’Italia, che ora gestisce una trattoria sul litorale romano. Per necessità economica il primo e cedendo alle lusinghe della gloria il secondo, tornano in campo con l’amara conclusione che tutti già sappiamo. Gli altri interpreti: Lucia Modugno è la moglie di Gassman, il caratterista Mario Brega realmente appassionato di boxe è uno degli allibratori mentre il vero campione Ottavio Panunzi si presta a salire sul ring nel match finale.

Facendo i conti sono 20 episodi di cui 8 per ogni attore da protagonista e 4 con entrambi. Il film ebbe due sequel: “I nuovi mostri” nel 1977 sempre con Risi alla regia che stavolta si divise il compito con Mario Monicelli e l’Ettore Scola che qui è ancora sceneggiatore, mentre al cast principale si aggiungono Alberto Sordi, già maestro di mostruosità per suo conto e con una cinematografia tutta sua, e Ornella Muti. Segue il terzo capitolo “I mostri oggi” nel 2009, anno in cui i protagonisti originali non sono più fra noi e che si rivelerà non più che una inutile sequenza di barzellette.

IL SOSPETTO – omaggio a Francesco “Citto” Maselli

Sarò sincero, non sono mai stato un fan dell’appena scomparso 92enne Francesco Maselli e trovando su YouTube questo suo importante film che ho visto per la prima volta, confermo la mia posizione: il suo impegno politico e sociale prevarica l’attenzione per il pubblico, tant’è che i suoi film non hanno mai avuto grande riscontro al botteghino. Ci sono film di maestri coevi, Francesco Rosi Florestano Vancini ed Elio Petri tanto per citare i primi che mi vengono in mente, che pur indagando la politica e il sociale non derogano da quella che dovrebbe una delle regole portanti del cinema: la spettacolarità, che non sono solo botti e botte da orbi, ma soprattutto scrittura accattivante e ritmo coinvolgente: chi continuerebbe a leggere un libro che risulta ostico se non noioso sin dalle prime pagine?

Francesco Maselli è “nato bene” come si diceva una volta, in una famiglia di intellettuali romani: suo padre era un critico d’arte che ospitava nel suo salotto i bei nomi intellettuali e progressisti dell’epoca, ed era intimo amico di Luigi Pirandello che gli dava da leggere in anteprima i suoi manoscritti, e fu proprio Pirandello a tenere a battesimo Francesco affibbiandogli il nomignolo Citto. Il ragazzo si dimostrò anch’egli un intellettuale precocissimo: a sette anni aveva già imparato l’Amleto a memoria; e a tredici, durante l’occupazione tedesca della capitale, portava armi e cibo ai partigiani del Gap, Gruppo d’Azione Partigiana; e a seguire, a soli quattordici anni riuscì entrare nell’allora clandestino Pci, Partito Comunista Italiano. In quegli anni gira anche i suoi due primi cortometraggi in 8mm fra i 15 e i 17 e ancora 17enne viene accettato al Centro Sperimentale di Cinematografia da cui si diploma 19enne; sarà subito assistente di Luigi Chiarini, critico e teorico del cinema fra i fondatori del Centro, suo padrino professionale, oltre ad affiancarsi come aiuto di Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti: insomma, il giovane Citto “nato bene” non ha dovuto sgomitare per lavorare coi migliori. Si comincia già a delineare il suo talento come documentarista che è in linea coi suoi impegni politici e civili e probabilmente proprio in questo tipo di cinematografia riesce a dare il meglio: perché essendo film dichiaratamente documento non hanno l’obbligo – ammesso che sia un obbligo – della spettacolarità, ovvero di dover piacere al grande pubblico. Perché questo sarà il nodo irrisolto di tutta la cinematografia di Citto Maselli: non riesce a piacere al pubblico di massa, tanto che per indagare questo aspetto andrà anche in analisi. Di fatto l’autore mette sempre in primo piano la politica che, di fatto, è la sua formazione emotiva, quella che ha formato l’adolescente; racconta i suoi personaggi e struttura i suoi film secondo una visione intimamente marxista, facendone dei casi-limite, esempi di un’umanità e di contesti sociali che finiscono con l’essere poco accattivanti e indigesti al botteghino.

Prendiamo ad esempio questo “Il sospetto” del 1975, che per non essere confuso col film omonimo del 1941 di Alfred Hitchcock “Suspicion” in originale, verrà distribuito come “Il sospetto di Francesco Maselli” (poi ci sarà un altro film omonimo nel 2012 del danese Thomas Vinterberg). Ambientato nella Torino del 1934, centro nevralgico di interessi politici della sinistra operaia per la gran massa di operai della Fiat, racconta di un dirigente del Partito Comunista Italiano in clandestinità perché si è nel bel mezzo del cosiddetto ventennio fascista.

Scorcio parigino del film

L’ambientazione è inappuntabile e accattivante, si fa grande sfoggio di auto d’epoca e di comparse bene acconciate, e la cinematografia di Giulio Albonico insieme al montaggio di Vincenzo Verdecchi scarnificano l’opera rendendola fascinosamente essenziale, senza sbavature e inutili compiacimenti – ma già alla base del progetto c’è una scrittura – sceneggiatura di Franco Solinas (già critico cinematografico per il quotidiano comunista l’Unità) da un soggetto dello stesso Maselli – che sembra non tenere conto degli spettatori: è scritto come se parlasse solo ai tesserati del partito, dando per scontati dettagli informazioni e utili raccordi che vengono a mancare a chi non è addentro a quelle specifiche dinamiche, col risultato che io spettatore “non iniziato” e non iscritto al Partito Comunista faccio fatica ad entrare nello spirito del film, della sua narrazione; è esemplare il finale del film con il lungo monologo-spiegazione del funzionario del partito fascista, che dà un senso all’intero impianto del film ma che nelle mani di altri cineasti sarebbe potuto diventare un confronto più serrato e drammaticamente vivo; e l’intera storia che contiene tutti gli elementi di un thriller – il sospetto che ci sia un traditore fra le fila dei comunisti e l’indagine per smascherarlo – viene invece condotta come un film a tesi che spiega solo le dinamiche interne al partito: le tesi appunto e i contrasti, i dirigenti in clandestinità e quelli in esilio all’estero, l’allontanamento ideologico dal Partito Socialista Italiano, le direttive imposte dall’alto e il sacrificio individuale.

Ne è protagonista il sempre centratissimo Gian Maria Volonté, anch’egli comunista attivissimo: proprio in quel 1975 fu eletto consigliere regionale del Lazio, carica da cui si dimise appena sei mesi dopo, motivando: “Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia: io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso” a dimostrazione che la purezza e l’integrità ideologica non possono andare di pari passo con l’attività politica sul campo che deve fare i conti con le varie realtà trasformando l’iniziale ideologia in fatti concreti. A latere bisogna sempre ricordare che quelli erano i cosiddetti anni di piombo (modo di dire derivato dal film omonimo del 1981 della tedesca Margarethe Von Trotta) del terrorismo di destra e sinistra che aveva fatto del territorio italiano un campo di battaglia, si suppone col supporto dei servizi segreti americani che temevano l’espandersi della comunista Russia nell’Europa Occidentale: già nel film si parla dell’Unione Sovietica come ideologico faro dell’umanità. E anche in tale contesto va collocata l’ispirazione politica di autore e protagonista.

Fanno da contorno a Volonté un insolito Renato Salvatori per chi lo ricorda brillante giovanottone che era arrivato al successo negli anni ’50 con la trilogia di Dino Risi dei “Poveri ma belli” e, nonostante fosse quasi sempre doppiato ebbe anche bei ruoli in film drammatici; ma per Salvatori quegli anni ’70 erano già gli anni del declino: aveva ceduto all’alcolismo e consequenzialmente veniva chiamato per ruoli meno impegnativi benché sempre tenuto in considerazione da amici e colleghi; morirà 55enne di cirrosi epatica. Nel ruolo della dirigente italiana in esilio a Parigi c’è la parigina Annie Girardot, amica di famiglia essendo l’ex moglie di Salvatori con il quale era rimasta in affettuosi rapporti: si erano conosciuti nel 1960 sul set di “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti, film che peraltro segnò l’apice della carriera di lui come interprete drammatico. Nel ruolo di un altro dirigente di partito c’è il torinese doc Felice Andreasi che era appena divenuto noto come ospite fisso del televisivo “Il poeta e il contadino” condotto da Cochi e Renato. Chiude il cast dei ruoli principali il sempre eccellente Pietro Biondi, l’unico ancora in vita fra gli elencati, nel ruolo del monologante agente dell’OVRA, la polizia politica fascista. Accreditato nel cast benché con un ruolo da figurante in campo lunghissimo c’è l’emergente Gabriele Lavia che già al cinema aveva avuto ruoli da protagonista: si suppone che il suo personaggio si sia perso in sala di montaggio.

protagonista e regista

L’occasione della scomparsa di Citto Maselli mi accende la curiosità sulla sua filmografia che non ho mai frequentato, con un focus sui lavori collettivi, i cosiddetti film a episodi, e quelli più onestamente politici e documentaristici. Nel 1981 Maselli ha confessato a Paese Sera: “Ho un’ambizione che non ho mai rivelato a nessuno, nemmeno a me stesso. È quella di essere dimenticato come regista e riscoperto, invece, come fotografo… La cosa più orribilmente sincera che abbia mai detto.” E inquadrati in quest’ottica i suoi film sono più fotografici che narrativi, nel senso che staticamente si focalizzano su personaggi e situazioni senza raccontarne lo sviluppo, la dinamicità, il divenire, e in questo modo congelando ogni afflato emotivo. Interessante la sua svolta negli anni ’80 con quattro film incentrati sulla donna: “Storia d’amore” del 1986 gran successo al Festival di Venezia dove l’autore vince il Leone d’Argento Gran Premio della Giuria mentre alla protagonista Valeria Golino va la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile. Nel 1988 segue lo sperimentale “Codice privato” con Ornella Muti unica interprete del film, nominata ai David di Donatello, ai Nastri d’Argento agli European Film Awards e vincitrice del Ciak d’Oro. Del 1990 sono gli altri due film con protagonista Nastassja Kinski, “L’alba” e “Il segreto”, film però entrambi clamorosamente bocciati dalla critica senza dire che il pubblico li ha praticamente ignorati.

Francesco Maselli, oltre a essere cineasta non ha mai abbandonato l’attività politica dedicandosi in particolare alla scrittura saggistica e mantenendo il suo ruolo, fondamentale, come militante della sinistra italiana. Nel 2001 dette vita alla Fondazione Cinema nel Presente riunendo una trentina di autori rappresentativi di tutte le generazioni del cinema italiano, fra i quali: Francesca Comencini, Wilma Labate, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo, Ettore Scola e Pasquale Scimeca; fondazione che produrrà molti di quei documentari collettivi in cui ha dato il meglio di sé. Andiamo a riscoprirlo.

I pugni in tasca – opera prima di Marco Bellocchio

Il film completo

1965, il ’68 è dietro l’angolo, e Marco Bellocchio realizza questo suo primo lungometraggio dando voce a disagi assai personali, senza sapere che stava realizzando un manifesto sociale: il suo malessere è lo stesso di tanti suoi coetanei che scenderanno per le strade a manifestare un diffuso disagio per una società fatta di schemi prestabiliti ancora radicati su vecchi modelli antecedenti il secondo conflitto mondiale se non addirittura ottocenteschi, che spingeranno la massa della nuova forza lavoro, studenti e operai, cui si affiancheranno gli intellettuali, verso la rottura con le rigide tradizioni, Dio Patria Famiglia, attraverso il comunismo l’anarchismo e il nichilismo.

“Volevo raccontare una storia molto personale, nella quale potessi riconoscermi. Pensai a un tema che aveva attraversato la mia adolescenza, quell’aspetto infelice della vita di famiglia in cui alcuni, soprattutto mio fratello Paolo, distruggevano ogni possibilità di gioia, obbligandomi a nascondermi. In partenza c’era il protagonista, che vuole restare in famiglia e dominarla eliminando i fratelli ‘imperfetti’ o improduttivi. Poi ho costruito gli altri personaggi, in particolare la madre. Alcune cose venivano dalla mia famiglia, altre erano frutto di fantasia. Ho attinto anche alla mia cultura, un po’ al surrealismo, un po’ alla letteratura, un po’ a quel che era diventata la mia vita. La storia è nata così. Sapevo anche di dover realizzare un film piuttosto intimo, perché i soldi erano pochi. Quindi il grosso del film andava girato all’interno di una casa. Si partì in modo tradizionale, proponendo il progetto a piccoli produttori e distributori, ma nessuno ne voleva sapere. Per le riprese avevamo preventivato venti milioni di lire. Andai da mio fratello: la sceneggiatura non gli piaceva, ma mi lasciò una parte del nostro patrimonio e ottenne un prestito bancario. Così mi ritrovai a essere di fatto produttore del film, con Doria come produttore esecutivo. Non era un grosso budget, anche se oggi si realizzano opere prime con ancor meno. Il soggetto dei ‘Pugni in tasca’ l’ho scritto a Londra, dove ero andato forse perché non sapevo bene che fare (frequentai dei corsi di cinema di Thorold Dickinson, era questa la scusa, con una piccola borsa di studio). L’idea del soggetto era la condensazione di fantasticherie di anni, di tutta una storia di solitudine dentro la famiglia. Eravamo testimoni, io e i miei fratelli, di una follia cui nessuno poteva mettere rimedio, e che veniva subita con reazioni nostre sempre uguali. Dalle fantasticherie di allora nacque un intreccio, crebbero dei personaggi. Poi naturalmente la storia si sviluppò diversamente, quando doveva diventare un film e ancora mentre il film veniva girato.” Bellocchio ha poi raccontato la sua famiglia nel documentario autobiografico “Marx può aspettare”.

In questo suo primo film la figura paterna è assente (come suo padre già morto da anni) e la figura materna, che come quella reale è una fervente cattolica che negli anni ha accumulato una collezione della rivista Pro Familia che vedremo nel film, è una donna cieca, simbolicamente cieca verso i bisogni e la natura dei figli, e narrativamente funzionale al racconto che l’autore sviluppa. I quattro figli sono altrettanto simbolicamente e sinteticamente sviluppati dalla sua realtà familiare: Leone, il piccolo, è un disagiato mentale che soffre anche di epilessia, il male di famiglia di cui soffre anche Alessandro su cui s’incentra il racconto, e il maggiore Augusto è quello che ha assunto, com’era d’uso, il ruolo di capofamiglia in assenza del pater familias: è l’unico che lavora e ha una sana vita sociale, va anche a puttane come tutti i maschi esempio cardine della società, mentre gli altri tre oziano in casa fra claustrofobie reali e mentali in cui si acuiscono i disagi e le tare latenti. “In quella villa sono tutti malati” è una battuta del film.

E la villa che fa da set è la casa dell’eredità materna fuori città dove i Bellocchio andavano in estate. Una casa in cui sono del tutto assenti la radio e soprattutto la televisione con la Rai che aveva avviato le trasmissioni ufficiali dieci anni prima, e l’apparecchio era ancora un bene di lusso da tutti ambito; così nella famiglia che Bellocchio mette insieme, la sera si legge ancora un libro o si gioca a carte, come non è inusuale ascoltare dischi di musica classica. In questa famiglia-tipo, provinciale benestante e oziosa, a mio avviso la figura meno definita è quella di Giulia, l’unica sorella, come se Bellocchio non sapesse come raccontare il mondo femminile, e ne fa un’entità indistinta, sottomessa, donna e bambina, che legge l’Almanacco Topolino e ha sulla testiera del letto la fotografia di Marlon Brando in “Fronte del porto”, una donna-bambina alternativamente tentata dal machismo di Augusto e dall’inafferrabile inconsistenza di Alessandro, Ale o Sandro, che però prende una posizione ed esprime il suo punto di vista solo nel finale.

In quei primi anni ’60 era arrivata dalla Francia la Nouvelle Vague, la nuova ondata, anch’essa nata da movimenti giovanili con l’intento di rifondare la narrativa cinematografica francese che sul finire degli anni ’50, in risposta a una crisi sociale interna, era diventata estremamente moraleggiante con situazioni e personaggi e dialoghi molto idealizzati e poco realistici; così una nuova generazione di registi, tutti intorno ai vent’anni, cominciano a girare film a basso costo e con mezzi di fortuna, nelle case private o per strada, come una sorta di diario intimo collettivo che esprime, insieme alla sincerità, la loro giovanile inquietudine. I nome di quei ventenni sono Claude Chabrol, Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Éric Rohmer, François Truffaut… Così anche da noi si avviarono delle produzioni che promuovessero dei nuovi debutti, e se da un lato ci fu l’opera prima, nonostante quasi quarantenne e già poeta e intellettuale affermato, di Pier Paolo Pasolini con “Accattone”, avevano debuttato anche Elio Petri con “L’assassino”, i Fratelli Taviani in co-regia con Valentino Orsini firmarono “Un uomo da bruciare” e l’opera seconda estremamente politica “Prima della rivoluzione” di Bernardo Bertolucci che ancora più giovane di Bellocchio aveva debutta con “La commare secca” sotto l’egida di Pasolini. Tutte produzioni ed esperimenti meritevoli di attenzioni ma che al botteghino non ebbero l’esito sperato, così quando Bellocchio fu pronto per presentare il suo progetto, nei produttori non c’era più l’entusiasmo dei primissimi anni ’60.

Enzo Doria

“Per mesi ho cercato insieme a Doria persone che potessero partecipare con dei quattrini al progetto. Non le abbiamo trovate. Allora i miei fratelli, Tonino e Piergiorgio, hanno chiesto un piccolo prestito alla banca e l’hanno garantito. Il prestito era di circa 20 milioni e con questi venti milioni è stato fatto il film. Loro erano convinti di perdere questi soldi, ma che comunque valesse la pena di perderli anche perché erano un mio diritto patrimoniale, dal momento che mancando mio padre io ero padrone di alcuni beni immobili, nessuno mi regalava niente. I produttori non accettavano il progetto perché ritenevano la storia incredibilmente scadente, non vendibile.” Enzo Doria racconterà: “Io venivo da Genova, ero a Roma già da qualche anno, dove avevo fatto il Centro Sperimentale con Bellocchio. Ho cominciato come attore, poi ho fatto l’aiuto regista, un po’ di edizione e casualmente il produttore, perché non avevo nessun altro sbocco. ‘I pugni in tasca’ è stato scritto a Londra, dove eravamo andati tutti a studiare l’inglese. Mi è piaciuto il tipo di storia, in quanto anche la mia famiglia viene dalla zona collinosa fra l’Emilia e la Liguria. Anch’io ho avuto strane storie in famiglia, tabù di malattie e cose del genere. Mi ha affascinato questa storia anche perché andando su da lui, da Bellocchio, dove poi abbiamo girato il film, ho visto questa villa isolata con degli alti cipressi intorno che rendono il posto protetto e solitario. È stato faticosissimo trovare una distribuzione. Nessuno capiva perché volevamo fare questo film.” Per lui questa sarà la prima impresa produttiva che gli varrà il Nastro d’Argento e produrrà i debutti di Silvano Agosti e di Salvatore Samperi. Mentre Tullio Kezich, critico e sceneggiatore, a quei tempi anche produttore, racconterà: “Al culmine della mia carriera di direttore artistico della società cinematografica 22 Dicembre, non partecipai a un’impresa che mi avrebbe dato gloria imperitura. All’epoca il fatto di aver realizzato fra l’altro un paio di film di Olmi, ‘I basilischi’ (1963) di Lina Wertmüller e ‘II terrorista’ (1963) di De Bosio attirava nei nostri uffici tutti gli esordienti del cinema italiano, incluso il giovanotto ad honorem Roberto Rossellini con il quale allestimmo ‘L’età del ferro’ (1964). E così in mezzo a tanti altri si presentarono un giorno, con l’aria di darsi coraggio reciprocamente, due timidi. Mi sottrassi alla loro vista barricandomi nella mia stanza (erano troppi, in quei giorni, gli illusi e i frustrati che facevano perdere tempo) e dopo un po’ mi raggiunse il nostro brutale organizzatore dicendo: ‘Te li ho risparmiati, ringraziami, erano proprio due imbranati. Quello che vuole fare il regista, figurati, mi ha raccontato un soggetto pazzesco, la storia di uno che ammazza tutta la famiglia’. Passò molto tempo prima che mi rendessi conto di aver mandato via insalutati Marco Bellocchio e il suo produttore Enzo Doria.” La sedicente gloriosa 22 Dicembre chiuse i battenti proprio l’anno di uscita di “I pugni in tasca”.

Se le cose fossero andate diversamente il film avrebbe avuto come protagonisti la coppia nazional-popolare Gianni Morandi e Raffaella Carrà, e avrebbe certamente funzionato. Il duo Bellocchio-Doria, rendendosi conto di doversi presentarsi al botteghino con un film difficile, opera prima di uno sconosciuto, ebbe la brillante idea di coinvolgere nel cast quei beniamini del pubblico televisivo per garantirsi una più facile visibilità. Morandi aveva vent’anni, era un ex bambino prodigio che aveva cantato nelle feste e nelle sagre di paese e ormai sfornava un successo dietro l’altro, da “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” a “Non son degno di te” sulla scia dei quali aveva girato un paio di musicarelli. Raffa, già attrice bambina, ancora 17enne si era diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia ma fra cinema teatro e radio, benché lavorando molto e anche molto apprezzata, stentava ancora a raggiungere il grande successo, che le arrivò solo negli anni ’70 con la tv. Ma mentre su di lei Bellocchio ci aveva solo fatto un pensiero, con Gianni ci furono delle vere e proprie trattative: il giovane cantante voleva assolutamente fare il film ma la casa discografica con cui era sotto contratto, la RCA, glielo impedì perché quel film rischiava di rovinare la sua immagine di bravo ragazzo di successo. Fine dei giochi nazional-popolari.

“Marco Bellocchio, che stava preparandosi a girare ‘I pugni in tasca’, mi propose per la parte del protagonista. Su due piedi rimasi incerto, poi l’idea mi interessò moltissimo. Tutti mi sconsigliavano, Lionetti, il mio scopritore, in testa, la casa discografica eccetera. In effetti, era una parte del tutto opposta al mio personaggio così come si era affermato in quegli anni. Ma io la volevo fare a tutti i costi. Bellocchio mi cercava e tutti gli altri facevano il possibile per fargli perdere le mie tracce. Io però ero deciso. A quel punto, visto che non c’era altra strada, Lionetti mi affrontò e mi disse: ‘Se lo fai, ti spezzo una gamba’. La parte fu affidata a Lou Castel.”

Bellocchio aveva sognato anche interpreti internazionali come Susan Strasberg fresca di Golden Globe per “Le avventure di un giovane” di Martin Ritt; mentre per il ruolo del fratello maggiore aveva pensato al francese Maurice Ronet, anch’egli all’epoca nome di punta specializzato in ruoli di giovani borghesi ambigui e tormentati. Intanto non aveva ancora trovato il suo protagonista, per il quale aveva anche provinato senza successo il 24enne Franco Nero da un paio d’anni sul mercato cinematografico già con ruoli in cui metteva in risalto la sua prestanza fisica più che il tormento interiore che il personaggio di Bellocchio richiedeva. Fu per caso che il giovane autore si imbatté in Lou Castel, che frequentava come auditore straniero il corso di regia al Centro Sperimentale: lo vide in mensa e incuriosito dalla sua espressione assorta gli propose un provino, benché poi non fosse davvero convinto: gli sembrava troppo timido e tranquillo, e anche lento. Ma durante la prova accadde un piccolo contrattempo tecnico: l’operatore aveva dimenticato di attaccare alla presa di corrente la spina della batteria della macchina da presa, e al momento di girare, in un silenzio carico di tensione, all’ordine del regista “motore! azione!” non successe nulla; e ciò fece scoppiare la tensione accumulata da Castel in un irrefrenabile risata liberatoria, un po’ isterica, che convinse Bellocchio a dargli la parte: “È lui, è lui, è spaccato!” si era messo a gridare entusiasta. Una risata che sarà ripetuta nel film insieme a tutte le altre personalizzazioni che l’interprete apporterà arricchendo il personaggio che nella scrittura non aveva la disarmante dolcezza che gli profonderà l’interprete, rendendo ancora più agghiacciante e incomprensibile la psicopatia di Alessandro. Fu così permeante l’adesione dell’attore al personaggio che durante la lavorazione Bellocchio si adattò all’improvvisazione dell’interprete, cambiando anche le scene, e accadde pure che per le reazioni isteriche e addirittura violente di Castel più volte si dovettero interrompere le riprese, tanto che Marino Masè, nel ruolo del fratello maggiore, assai irritato arrivò a schiaffeggiare il collega, e un esempio di questo scoppio d’ira è rimasto montato in una scena del film. “Volevo diventare regista – dirà l’attore – ma poi con Bellocchio sono diventato alleato di un regista: l’attore deve fare sempre la regia interna di una scena”.

Nato Ulv Quarzéll a Bogotà da un padre diplomatico svedese e da madre irlandese ha, come Marco Bellocchio, un fratello gemello: “Ulv è ‘lupo’ in norvegese. E ho un fratello gemello di nome Björn, ‘orso’. È stata nostra madre che in seguito ha francesizzato i nostri nomi, per evitare problemi amministrativi”. Il padre, che aveva scelto quei nomi dalla natura e dalle fiabe norrene, nel privato era un sognatore e idealista, e come tale aveva deciso di trascorrere il resto della sua vita in Colombia mentre la madre, divorziando, riportò con sé i figli in Europa. Dai 6 anni Ulv frequentò dapprima i college londinesi, ma poi seguendo la madre giramondo crebbe anche in Giamaica e a New York, finché approdò in patria alla rigida Royal Sweden dove subì atti di bullismo. Intanto la madre, inquieta artista comunista, era approdata a Roma entrando nel mondo del cinema come collaboratrice a sceneggiature di autori come Federico Fellini e Mario Monicelli. Lou, 17enne lascia gli studi e va a fare il contadino in Germania, breve parentesi conclusasi per una lite col padrone – è già un giovane ribelle in linea con quello che sarà – e infine si riunisce con la madre nella Roma cinematografica. Frequenta i corsi di recitazione di Alessandro Fersen e poi entra al Centro Sperimentale di Cinematografia.

Lou Castel in “Il Gattopardo”

Aveva debuttato con un piccolissimo ruolo non accreditato in “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, il quale avendolo notato gli chiese di restare oltre le riprese, per conoscersi meglio, ma il ragazzo rispose che aveva fatto le sue otto ore per avere la sua busta paga e se ne andò, sempre insofferente irriverente e sovversivo, voltando forse le spalle a un altro tipo di carriera. “I pugni in tasca” sarà il suo vero debutto cinematografico nel quale, pur recitando in italiano, per il suo forte accento straniero verrà doppiato da Paolo Carlini. Continuerà con una bella carriera nel cinema italiano, lavorando con Damiano Damiani, Carlo Lizzani, Liliana Cavani, e infilando un altro successo con “Grazie zia” del debuttante Salvatore Samperi; fino alla sua espulsione dall’Italia nel 1972 come indesiderato per la sua militanza nell’estrema sinistra in un’Italia fortemente democristiana: fu portato quasi a braccetto dai militari su un aereo che lo riportò a Stoccolma dove non conosceva più nessuno, e da lì comincia un’altra carriera, più internazionale, anche tornando clandestinamente in Italia: fondamentalmente è un individuo poliglotta e senza patria.

Anche Paola Pitagora, di due anni più grande di Lou, ha frequentato i corsi di Fersen e il Centro ed è un’attrice emergente, pure in teatro, molto eclettica: comincia come presentatrice alla Rai e scrive anche canzoncine di successo per lo Zecchino d’Oro ed è proprio con la sua partecipazione a questo film che s’impone definitivamente all’attenzione di critica e pubblico; all’inizio aveva pensato di rifiutare per le situazione crude e sul piano morale anche scabrose, ma fu l’allora fidanzato, il pittore e attore Renato Mambor, a convincerla ad accettare. Un paio d’anni più tardi diventerà beniamina del pubblico televisivo come Lucia in “I Promessi Sposi” di Sandro Bolchi. Il belloccio Marino Masè è il fratello maggiore, l’unico la cui vita ha un senso nel sentire dell’alienato Alessandro; l’attore, scomparso 83enne nel maggio di quest’anno, anch’egli figurante nel Gattopardo viscontiano, era appena stato protagonista per Jean-Luc Godard nel controverso “Les Carabiniers” e si avvierà anche a una brillante carriera internazionale. La madre cieca è interpretata dalla caratterista napoletana Liliana Gerace, mentre il figlio piccolo è interpretato dall’attore per caso Pier Luigi Troglio, eclettico personaggio che sarà poi storico scrittore e filantropo nella sua nativa Bobbio, patria anche di Bellocchio, dove è poi stato segretario della Democrazia Cristiana locale; e l’intero cast partecipò al film solo con un rimborso spese. Per il cast tecnico, il compagno di corso dell’autore Silvano Agosti si occupa del montaggio, ma si fece mettere nei titoli col nome di un suo amico, Aurelio Mangiarotti, probabilmente perché non intendeva accreditarsi come montatore dato che lui stesso aveva studiato regia e avrebbe presto debuttato sotto l’egida del medesimo produttore e assicurandosi pure il divo francese che era sfuggito all’amico Bellocchio. E come per il suo cortometraggio di debutto anche per questo primo lungometraggio il nuovo giovane autore si assicura il commento sonoro di un grande professionista, Ennio Morricone. All’inizio il titolo del film avrebbe dovuto essere il più semplice ed esplicativo “Epilessia”, poi si pensò a “L’età verde” e infine venne cambiato col più evocativo “I pugni in tasca” per dire della rabbia repressa, nascosta, compressa; senza sapere – è la magia dell’ispirazione – che quel titolo era l’inconsapevole citazione di un altro ribelle, Arthur Rimbaud, nella sua poesia “La mia bohème (fantasia):

Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate;
E anche il mio cappotto diventava ideale;
Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo fedele;
Oh! quanti amori splendidi ho sognato!
 
I miei unici pantaloni avevano un largo squarcio.
Pollicino sognante, nella mia corsa sgranavo
Rime. La mia locanda era sull'Orsa Maggiore.
- Nel cielo le mie stelle facevano un dolce fru-fru
 
Le ascoltavo, seduto sul ciglio delle strade
In quelle belle sere di settembre in cui sentivo gocce
Di rugiada sulla fronte, come un vino di vigore;
 
Oppure, rimando in mezzo a fantastiche ombre,
Come lire tiravo gli elastici
Delle mie scarpe ferite, un piede vicino al cuore!

Una copia del film appena montato ma senza la post produzione, dunque incompleto di musiche e col sonoro imperfetto della presa diretta, venne presentata alla commissione di ammissione al Festival di Venezia, che la rifiutò; ma in seguito vinse il Premio Città di Imola attribuito a opere che rappresentassero la provincia italiana e vinto in precedenza da Pier Paolo Pasolini, Ermanno Olmi ed Eriprando Visconti; per gratitudine Marco Bellocchio girò a Imola il suo secondo lungometraggio “La Cina è vicina”. Vinse poi il Nastro d’Argento per il miglior soggetto e la Vela d’Argento a Locarno per la miglior regia. Dopodiché fu distribuito anche in Francia (Les poings dans les poches), nella Germania Occidentale (Mit der Faust in der Tasche), Regno Unito e Stati Uniti (Fist in His Pocket).

Dal punto di vista formale il film risente ancora del morente neorealismo ma si fa nuovo psicodramma e sicuramente attinge alla Nouvelle Vague, senza una precisa trama però, con scene e moduli che si ripetono come cercando di risolvere un puzzle in cui mancano dei pezzi, in cui la narrativa è l’assurdo assunto del protagonista: liberare il fratello maggiore, l’unico individuo sano e produttivo, dal fardello di una famiglia malata. Un orrore venato di sarcasmo quanto d’inquietante disarmante dolcezza che ancora oggi rende il film uno spettacolo esemplare, nonostante tutti gli orrori più espliciti cui ci ha assuefatti la cinematografia moderna: se lo si guarda in cerca di forti emozioni il film è datato, ma ai suoi tempi dev’essere stato davvero angosciante perché era ancora (per poco) l’epoca di un cinema rassicurante dove l’istituto della famiglia era un caposaldo indiscusso. Oggi i nostri ragazzi sterminano la famiglia per ripicca, per la paghetta, per accedere subito a una risibile eredità, mentre l’antieroe di Bellocchio si fa esecutore materiale di un malessere collettivo, narrativamente simbolizzato nel suo individuale, che sta per spazzare via le rassicuranti ma già marcescenti idee di Dio Patria e Famiglia.

Il signore delle formiche

Forse casualmente, nel centenario della nascita di Aldo Braibanti, Gianni Amelio esce con questo film, di certo cominciato a pensare quando Braibanti morì nel 2014. Un film in cui salta subito agli occhi, vivaddio, una recitazione di altissimo livello con un cast che mischia grandi professioni a molti debuttanti, in pratica tutti gli emiliani i cui nomi sono accompagnati dalla scritta per la prima volta sullo schermo: Leonardo Maltese, che regge alla grande un lunghissimo primo piano durante il processo, è il giovane compagno del processato e vittima sacrificale; Davide Vecchi è il tormentato fratello tormentatore; l’anziana Rita Bosello è la palpitante madre di Braibanti; Roberto Infurna regge un altro lungo primo piano come ragazzo accusatore; la cantante lirica Anna Caterina Antonacci debutta come attrice nel ruolo dell’addolorata ottusa madre. Fra i professionisti, tutti centratissimi, Luigi Lo Cascio è Braibanti, Elio Germano è il giornalista, Sara Serraiocco è l’attivista Graziella, Giovanni Visentin è l’ambiguo direttore del giornale, Valerio Binasco e Alberto Cracco impersonano il pubblico ministero e il giudice. L’autore tira fuori da ognuno il meglio e si riconferma gran scopritore di talenti.

Ma chi era quest’uomo, una figura sconosciuta ai più, me compreso? Assurse alle cronache quando la stampa riportò in cronaca il caso Braibanti. Aldo Braibanti, impropriamente detto il professore poiché di fatto non ha mai insegnato, è stato un intellettuale a tutto tondo, in un’epoca in cui, fra le cose buone, le doti dell’intelletto erano ancora tenute da conto e definire qualcuno un intellettuale non era divenuto spregiativo; fu poeta, drammaturgo, e si occupò di arte in genere, cinema e letteratura, si cimentò nei collage e negli assemblage e viene ricordato, il titolo del film lo richiama, come mirmecofilo ovvero studioso delle formiche, passione che sviluppa sin dalla prima infanzia, quando accompagnava il padre medico condotto nelle visite spesso in zone rurali del loro nativo piacentino: dimostrò una precoce attenzione alla natura da ecologista in calzoncini corti, e in particolare fu incuriosito dalla vita degli insetti sociali come api e formiche e, protetto da una famiglia illuminata che in pieno periodo fascista rifiutò qualsiasi tipo di pensiero autoritario, e anche clericale, il piccolo Aldo cominciò a scrivere versi già a otto anni: il suo destino di intellettuale è segnato. Qui di seguito quattro opere di assemblaggio di Braibanti dall’esposizione allestita dal suo comune natio, Fiorenzuola d’Arda, presso l’ex macello a lui intitolato nel 2016.

L’adolescente Braibanti

Aldo, crescendo come studente modello ottiene l’esonero del pagamento delle tasse scolastiche, e ancora adolescente scrive e distribuisce clandestinamente a scuola un manifesto rivolto a “tutti gli uomini vivi” in cui invita i compagni di liceo a mobilitarsi contro la dittatura fascista, così anche la sua rottura con l’autorità è segnata: 18enne prende parte alla resistenza partigiana e partecipa alla nascita dei primi movimenti intellettuali antifascisti; nel 1943 aderisce al Partito Comunista che è clandestino, e viene arrestato due volte, rischiando la prima volta di essere fucilato, e la scampò grazie all’ordine di Pietro Badoglio che, alla caduta del fascismo, fece prima scarcerare docenti e studenti, la classe pensante, mentre il resto dei comunisti comuni ancora in attesa di giudizio furono prontamente giustiziati dai tedeschi: oggi si può interpretare la scelta di Badoglio come una scelta di classe, ma nella sostanza salvò delle vite piuttosto che condannarle tutte; la seconda volta Aldo fu arrestato per un ultimo colpo di coda della polizia investigativa fascista che sequestrò tutti i suoi scritti antecedenti al 1940 che vennero distrutti per sempre. Nell’immediato dopoguerra, dopo aver fatto l’importante e formativa esperienza fra gli organizzatori del Festival Mondiale della Gioventù, sarà anche collaboratore dell’ormai sdoganato Partito Comunista Italiano come responsabile delle attività giovanili in Toscana: prende forma il suo mondo. Ma presto lascia la politica attiva per dedicarsi alla sua visione culturale artistica e filosofica: seguendo l’esempio di vita comunitaria delle sue formiche aderisce alla comunità che si era installata nel Torrione Farnese di Castell’Arquato, nella provincia della sua terra natia, creata fra gli altri dall’eclettico Sylvano Bussotti, principalmente compositore ma artista a tutto tondo; una comunità dove si svolgeva un laboratorio artistico e artigiano le cui opere sono state esposte anche all’estero.

Collage di Sylvano Bussotti

Il Torrione fu una fucina di talenti e sperimentazioni in cui si esercitarono artisti concettuali e musicisti post-dodecafonici, teatranti e cineasti sovversivi, i più dotati dei quali invaderanno la scena romana e nazionale; anche un giovane Carmelo Bene si è affacciato in quella realtà ed è poi divenuto amico di Braibanti; il quale aveva lì ricreato i suoi formicai in teche, scrivendo e teorizzando opere teatrali e cinematografiche di sperimentazione, e raccogliendo intorno a sé un cenacolo di giovani attirati da una vita comunitaria in cui poter sperimentare se stessi e le proprie tendenze, umane sociali e artistiche.

Giovanni Sanfratello fotografato al processo, mostra chiaramente i segni delle torture subite

il professore conosce un 17enne che qualche anno dopo, con la raggiunta maggiore età, porta con sé nella capitale, a formare una coppia gay come oggi ce ne sono tante ma che all’epoca non poteva avere dignità pubblica (a dire il vero neanche oggi date le tante aggressioni che si registrano) perché motivo di scandalo e riprovazione; e quando si dava il caso che nella coppia ci fosse una sostanziale differenza di età ci si presentava come zio e nipote: tutti capivano, ma la facciata imposta dall’ipocrisia sociale restava intatta. “Mi sono spostato a Roma, – scrisse in seguito Braibanti – e Giovanni Sanfratello mi accompagnò, perché venendo a Roma poteva difendersi meglio dalle pressioni assurde del padre, dovute a ragioni religiose, ideologiche e politiche. I Sanfratello, anche loro piacentini, erano ultraconservatori, cattolici e tra i più fascisti, e non riuscivano ad accettare che il loro figlio potesse scegliere una vita tanto diversa dalla loro.” Il padre voleva per Giovanni una carriera in medicina ma il ragazzo voleva dipingere e nella comunità trovò la sua via di fuga, via già percorsa dal fratello Agostino di poco maggiore: figura assai ambigua, mosso dalla gelosia di non essere più il preferito o di non aver saputo accentrare su di sé l’interesse del professore, reazionario a tal punto e vendicativo sul piano morale ed esistenziale, che negli anni a seguire fonderà un gruppo lefebvriano, aderendo al movimento cattolico ultra tradizionalista fondato dall’arcivescovo francese Marcel Lefebvre in seguito sospeso a divinis e poi scomunicato da Giovanni Paolo II che sciolse il movimento; Lefebvre era contrario alle aperture operate dalla Chiesa durante il Concilio Vaticano II, e nelle sue istanze si riconosceranno i fascisti, sempre in cerca di sponde morali, tanto che sarà un sacerdote ex lefebvriano che pietosamente nel 2014 celebrerà una messa in suffragio dell’anima di Erich Priebke (il criminale di guerra che partecipò all’eccidio delle Fosse Ardeatine di cui si è parlato nel film “Rappresaglia”), una messa svolta nella cappella privata di una villetta nella provincia di Treviso, alla quale partecipò il sindaco leghista Loris Mazzorato.

Agostino Sanfratello fra il pubblico del processo, nella foto che apparve su L’Unità che erroneamente nomina come Giovanni Sanfratello

Gianni Amelio racconta la vicenda prendendosi delle libertà narrative, come si fa sempre: nessun film è fedele al romanzo da cui è tratto così come ogni storia vera o biografia è sempre adattata al linguaggio cinematografico che ha altre esigenze narrative; dunque il film di Amelio non è cronaca né documentario, ma il punto di vista, e come tale discutibile, di un grande autore. Di cui personalmente ho visto e apprezzato quasi tutti i film, con l’eccezione dell’ultimo, l’altro biografico “Hammamet” che racconta gli ultimi mesi di Bettino Craxi, figura che non ho amato sia umanamente che politicamente, e ammetto la debolezza di aver smesso di vedere il film dopo circa un quarto d’ora perché mi annoiava e dava ai nervi; film che a tutt’oggi rimane il maggiore incasso dell’autore.

Restando dunque sul filone proficuo delle biografie, Amelio ritorna a riempire le sale: non vedevo tanta gente seduta tutta insieme dal marzo del 2020: unica differenza le mascherine a propria discrezione su un quarto della platea. Il regista rispolvera per l’occasione un filone che da noi sembrava estinto, quello del cinema di impegno civile, o politico, i cui esponenti di punta sono stati Elio Petri, Carlo Lizzani e Francesco Rosi, un genere che nel cinema internazionale è sempre attivo con Ken Loach o Michael Moore. La seconda parte del suo film, il processo, è praticamente fedele a quanto accaduto, con le testimonianze e i dibattimenti, dove l’unico personaggio che compare col suo vero nome è il protagonista e tutti gli altri sono reinventati per ragioni legali o di opportunità, o di libertà narrativa appunto. La prima libertà che si prende l’autore è quella di sostituire l’ingombrante figura paterna con una rigorosissima mater dolorosa che colpisce, e mette a segno in noi pubblico un forte disagio: perché non è cattiva ma solo fermamente convinta delle sue ragioni e del suo amore nel voler salvare il figlio dalla perdizione. Qui sta il genio di Amelio nel disporre i suoi personaggi: non ci sono vittime e carnefici, buoni e cattivi, ma solo controparti, ognuna delle quali con le sue proprie ragioni, convinzioni, punti di vista: una tragedia greca sull’ineluttabilità. Sulla stessa linea sono tratteggiati il pubblico ministero e il giudice, cattivissimi certo per la nostra moderna sensibilità, ma portatori di istanze che hanno la loro ragione di essere nella loro epoca: l’omosessualità era un reato e prima ancora un peccato. Con cascami su certe mentalità odierne.

In una delle scene in cui Braibanti corteggia il ragazzo volando alto fra poesia e filosofia, ho sentito mormorare dal pubblico “Che viscido!” e non mi ha sorpreso che il commento venisse da un ragazzo di un piccolo gruppo orgogliosamente e rumorosamente gay: non era un insulto ma una constatazione. Perché è cambiato il corteggiamento. Quando le cose non si potevano dire, e non erano ovvie e men che meno legali, omo o etero che fosse il corteggiamento, ci si sottoponeva a dei rituali che oggi non esistono più, minuetti e giri di parole ai quali si finiva col cedere per sfinimento e in cui lo sfinimento reciproco era anche parte del piacere: oggi il corteggiamento, se ancora lo si può definire così, è fagocitato dalla velocità e da un linguaggio, anche corporeo, sempre più espliciti. Il processo definì quel corteggiamento – plagio.

“Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da 5 a 15 anni”. Era il reato di plagio secondo l’articolo 603 del codice penale. Plagio viene dal latino plagium, sotterfugio, che nel diritto romano indicava la vendita di un uomo libero come schiavo, dunque la sottrazione dei diritti di quell’individuo tramite persuasione o corruzione; allorquando alla fine del ‘700 si andò via via accettando il principio di uguaglianza fra persone e la progressiva abolizione della schiavitù, il reato di plagio fu traslato come delitto contro la libertà dell’individuo. La norma applicata nel processo a Braibanti era stata inserita nel nostro codice penale (pacchetto tutto ancora in vigore, tranne qualche spunta) nel 1930 per volontà dell’allora governo fascista e, come si dice nel film, per punire con altro nome gli eventuali reati di manifesta omosessualità, perché nella visione fallocratica di Benito Mussolini in Italia non esistevano, e non dovevano esistere neanche sul piano giuridico, quel genere di deviati. Una norma attivata nonostante i pareri contrari della Commissione Parlamentare e delle Commissioni Reali degli avvocati e procuratori di Roma e Napoli; norma assai spinosa per argomenti assai scivolosi, tanto che non venne mai applicata, fino a quel 1964.

Dopo il caso Braibanti il reato di plagio fu invocato di nuovo nel 1978 contro Emilio Grasso, sacerdote appartenente al Movimento Carismatico, accusato da alcuni genitori di aver fatto il lavaggio del cervello ai loro figli minorenni; la sentenza scagionò il religioso e con l’occasione si avviò la messa in discussione della norma che venne abrogata nel 1981. A seguire, e siamo nel 1988, i ministri Rosa Russo Iervolino (Democrazia Cristiana) e Giuliano Vassalli (Partito Socialista Italiano) cercarono di far reintrodurre nel nostro codice penale il reato di plagio psicologico, ma il parlamento ha saggiamente accantonato l’iniziativa perché argomento sempre spinoso e scivoloso: il reato non è accertabile secondo criteri e metodi scientifici ed espone l’eventuale accusato ad eventuali abusi dell’autorità giudiziaria.

L’altra libertà che si prende Amelio, che ha scritto il film con Edoardo Petti e Federico Fava, è quella di creare due coprotagonisti fittizi assai funzionali al suo racconto: l’attivista Graziella che in pratica sostituisce un giovane Marco Pannella che già nel 1955 era stato fra i fondatori del Partito Radicale, il quale seguendo giorno per giorno il processo avviò una martellante campagna con le sue “Notizie Radicali” chiamando pesantemente in causa i magistrati tanto da farsi citare in giudizio lui stesso, avviando così un ulteriore processo che, nella tradizione radicale, diventò a sua volta processo agli inquisitori. Ma questo nel film non c’è. In una delle sequenze in cui Graziella arringa la piazza, Amelio riempie improvvisamente lo schermo, in un corto circuito temporale, col primissimo piano di Emma Bonino che osserva il suo passato: “I Radicali hanno fatto forti battaglie per Braibanti e la società italiana. – ha dichiarato Amelio – Hanno fatto cancellare il reato di plagio nel 1981. Mi è sembrato giusto far vedere la Bonino di oggi piuttosto che un sosia di Pannella ragazzo.”

Ulteriormente, si inventa come cugino di Graziella (i legami fra personaggi servono a dare alla storia una solida struttura) il giornalista incaricato di seguire il processo e che ne fa una battaglia personale, perché forse anche lui è un omosessuale non dichiarato in cerca di segnali di chiarezza e di libertà espressiva; e come sua controparte viene inventato un direttore dell’Unità temporeggiatore e ostile, ambiguo sulla posizione che il giornale deve prendere, addirittura arrivando a licenziare il giornalista troppo schierato in difesa di Braibanti – cosa che pare non fu nella realtà: dopo un primo momento di sbandamento, l’Unità scese in campo sostenendo l’intellettuale sotto processo, anche sulla spinta – emotiva no, opportunistica forse sì – dei tanti intellettuali che sin da subito si schierarono con Braibanti: quel Pier Paolo Pasolini che a inizio carriera era stato cacciato dal PCI “per indegnità morale e politica”, Elsa Morante, Umberto Eco, Alberto Moravia, i giovani Carmelo Bene e Marco Bellocchio che oggi del film è coproduttore; è un dato di fatto che il partito comunista fosse, in linea con gli umori dell’epoca, tendenzialmente conservatore e bacchettone tanto quanto i cattolici e la destra, e forse Amelio si è voluto togliere qualche sassolino dalla scarpa, o più semplicemente ha operato una sua sintesi, inventandosi quella redazione dell’Unità divisa su come schierarsi, e la polemica che ne è seguita non è da poco. Io ritengo che, così come si è inventato le figure del giornalista e del direttore senza riferirsi ai personaggi reali, altrettanto avrebbe potuto evitare di chiamare in causa l’Unità col suo nome, e avrebbe potuto restare sul vago così come ha fatto per il nome e i simboli del Partito Radicale di cui nel film non c’è traccia. Avrebbe evitato la polemica – che però torna utile al botteghino – e mantenuto la linea del suo intero film ispirata e a tratti lirica, simbolica.

Pasolini scrisse: “Se c’è un uomo ‘mite’ nel senso più puro del termine, questo è Braibanti: egli non si è appoggiato infatti mai a niente e a nessuno; non ha chiesto o preteso mai nulla. Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l’accusa, pretestuale, di plagio?” Carmelo Bene lo ricordò così in un suo libro di memorie: “Un genio straordinario. M’insegnò con quella sua vocetta a leggere in versi, come marcare tutto, battere ogni cosa. Gli devo questo, tra l’altro. Non è poco.” Braibanti in vecchiaia dichiarò: “Quel processo, a cui mi sono sentito moralmente estraneo, mi è costato due nuovi anni di prigione, (oltre a quelli passati come prigioniero dei nazi-fascisti) che però non sono serviti a ottenere quello che gli accusatori volevano, cioè distruggere completamente la presenza di un uomo della Resistenza, e libero pensatore, ma tanto disinserito dal mondo sociale da essere l’utile idiota adatto a una repressione emblematica.” E ancora: “Qualunque siano gli strumenti accusatori che si utilizzano per mettere in moto un’accusa di plagio, l’accusa è sempre fondamentalmente politica, perché riguarda essenzialmente i rapporti tra il privato e il sociale.”

A 83 anni gli venne notificato lo sfratto dall’appartamento romano in cui abitava da quarant’anni, vivendo con la pensione minima. L’anno dopo, a seguito dell’iniziativa della senatrice Tiziana Valpiana (Rifondazione Comunista) col sostegno attivo di Franca Rame e di alcuni parlamentari della fugace “Unione” (idealmente “delle sinistre”) di Romano Prodi, con in testa Franco Grillini e Giovanna Melandri, gli viene assegnato il vitalizio della Legge Bacchelli. Lo sfratto diventa esecutivo tre anni dopo e l’86enne Braibanti, con le migliaia di volumi che aveva accumulato, si trasferisce nella natia Emilia Romagna, a Castell’Arquato, dove morirà 91enne. Di Giovanni Sanfratello non si è saputo più nulla, si sa solo che è morto: una vita sprecata, forse un talento, chissà, sacrificato sull’altare della rispettabilità e della cristianità. Suo fratello Agostino è tutt’oggi vivente, da qui i nomi cambiati nel film.

Dal Lido di Venezia dove il film è stato presentato, Gianni Amelio, che ha fatto coming out nel 2014, dice del suo lavoro: “È limitativo dire che è un film sul caso Braibanti, è una grande storia d’amore tra un uomo e un ragazzo, molto autobiografica: durante le riprese ho vissuto una storia d’amore molto tormentata. Ho scoperto le stesse fragilità di Aldo: Braibanti si è innamorato, io anche. Non sono andato in galera come lui ma sono chiuso in un carcere mio. Sono felicissimo del film, probabilmente è la cosa più bella che abbia mai fatto, ma intimamente non sono felice. Vi auguro di essere più felici di me.” Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Spirano venti di Destra e l’aspirazione a cancellare questi ultimi sessant’anni è forte.

Number One – instant movie del 1973 su uno scandalo di cocaina, jet-set, servizi segreti e terrorismo

“Un’inchiesta cominciata nel cesso non può che finire nella merda.” La notevolissima battuta è attribuita a uno dei tanti avvocati difensori del bel mondo che fu coinvolto nello scandalo del night-club romano Number One, sito in via Lucullo a pochi passi da quella Via Veneto dove si era consumata la Dolce Vita raccontata da Federico Fellini, scandalo cui seguì un’inchiesta assai paparazzata che nel 1971 vide sfilare davanti agli inquirenti ben 25 esponenti di quel jet-set, quelli che oggi chiamiamo sia vip che svippati, che nell’intimo – si fa per dire – cesso del locale citato dall’avvocato sciavano su piste di cocaina, e che poi nell’aula del tribunale scivolarono su accuse e querele reciproche perché erano tutti innocenti e la colpa era sempre di un altro.

Il playboy Gigi Rizzi con la sua conquista Brigitte Bardot e l’amico Johnny Hallyday al Number One

Alla fine degli anni Sessanta avevano aperto in Italia i primi night-club sull’esperienza di come ci si divertiva all’estero: quelli che viaggiavano, e che dunque avevano soldi e tempo da spendere, volevano trovare sotto casa lo stesso tipo di divertimento e le metropoli italiane si adeguarono: a Roma la dolce vita cedette il passo alla mala vita della nascente Banda della Magliana cui facevano da sfondo i servizi segreti deviati e corrotti; il Number One fu fra i night più in voga, gestito nell’illegalità delle connivenze e con l’inventiva tutta italiana nell’aggirare restrizioni e divieti, e tanto per dirne una: nei suoi documenti contabili il locale era dichiarato come un semplice ristorante vegetariano per smussare la mannaia fiscale; ne era proprietario l’imprenditore e, va da sé anche playboy, Paolo Vassallo, che però stava sempre sul chi vive, pover’uomo, perché sapeva di che pasta erano fatti i suoi occulti compagni d’impresa, e perciò sapeva pure che il suo locale poteva avere vita breve restando vittima di vendette incrociate: in molti bar e ristoranti e night andarono in scena risse di facinorosi come pezzi di teatro il cui scopo era far chiudere i battenti, oppure furono definitivamente incendiati da ignoti alla legge ma ben noti alle vittime. Nel Number One si materializzò tutto questo.

È difficile districarsi in quelle vicende perché i lati oscuri sono tanti e tanti rimasero anche all’epoca. Di sfuggita bisogna ricordare che l’anno prima, era il 1970, erano stati arrestati per possesso e spaccio di droga l’attore Walter Chiari e il musicista entertainer Lelio Luttazzi, e a seguire il francese Pierre Clémenti. Era il decennio in cui si sarebbero costituite le cellule terroristiche e in una decina d’anni avremmo avuto: nel 1969 la strage di Piazza Fontana presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano, nel 1970 la strage di Gioia Tauro, nel 1972 la strage di Peteano a Gorizia, nel 1973 la strage in una questura sempre a Milano, nel 1974 la strage di Piazza della Loggia a Brescia, sempre nel ’74 la strage del treno Italicus diretto da Roma a Monaco di Baviera, nel 1976 la strage di Alcamo Marina in provincia di Trapani, e nel 1980 ci fu la strage alla stazione di Bologna. Solo per ricordare le stragi, ché innumerevoli furono gli attentati senza vittime o con soli feriti, o i singoli assassinii o le sole gambizzazioni.

La Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano dopo l’attentato

Fu un periodo che dall’inglese Observer venne definito “strategy of tension” secondo le carte che l’agenzia segreta inglese, l’ineffabile MI6 – l’em-ai-six di tanti film – avevano sottratto all’ambasciatore greco in Italia: si era in piena Guerra Fredda e gli Stati Uniti, in quanto guardiani del mondo, stavano mettendo in pratica nell’area mediterranea una strategia per metterci in sicurezza dall’influenza sovietica: a livello popolare si fece passare la colorita immagine dei cosacchi che venivano ad abbeverare i loro cavalli in Vaticano; di fatto destabilizzando i nostri equilibri sociali anche attraverso eventuali colpi di stato volti a instaurare governi di matrice conservatrice, destrorsa e fascista: i giovani terroristi italiani che si coinvolsero non furono altro che bassa manovalanza senza reale consapevolezza del disegno generale; i tanti innocenti che furono sacrificati negli attentati erano il danno collaterale di una politica volta alla marginalizzazione dei partiti di estrema sinistra e contemporaneamente alla criminalizzazione dell’estrema destra, i classici due piccioni con una fava che avrebbero condotto al rafforzamento dell’unica area centrista: la Democrazia Cristiana che in quella strategia della tensione sacrificò il suo esponente più possibilista, Aldo Moro.

Appena al di sopra di quel fangoso pantano, la bella vita di chi se la poteva permettere procedeva senza intoppi e anzi veniva incoraggiata, e nei nostri night-club fiumi di american whiskey scorrevano ecumenicamente insieme a fiumi di russkaya vodka e di apolide cocaina; ovviamente, non tutto essendo legale, bisognava dotarsi di opportuni soci in affari e di illecite frequentazioni: anche oggi, chi si concede una striscetta di cocaina il sabato sera, non si chiede certo chi o cosa sta finanziando. Il buon Walter Chiari, abituale consumatore, pare che finì in prigione e sulle pagine di tutti i giornali per scandalizzare il popolo bue, modo di dire che sembra provenire da un generale romano che così si era rivolto a Giulio Cesare: “Il popolo non deve pensare ma solo eseguire come fa il bove” e come mandria di bovi gli italiani del 1970 andavano pascolati con gustosissime notizie scandalistiche per distrarli da altri titoli che all’epoca comparivano su quegli stessi giornali e che riguardavano il primo processo sulla strage di Piazza Fontana. In seguito fu accertato che Lelio Luttazzi era completamente pulito: era stato coinvolto nell’inchiesta solo perché aveva ricevuto una telefonata dall’amico Walter (il cui telefono era sotto intercettazione) che gli chiedeva di chiamare un tizio per suo conto, uno che poi si rivelò essere uno spacciatore, perché lui non riusciva a prendere la linea – mentre per chiamare Luttazzi c’era riuscito: probabilmente Chiari già temeva di essere intercettato ma non pensò che avrebbe inguaiato l’ignaro Luttazzi.

L’attore si fece tre mesi a Regina Coeli e poi fu scarcerato pagando una cauzione di tre milioni di lire, nove mila euro odierni, e al successivo processo venne scagionato dall’accusa di spaccio e condannato con la condizionale per il solo uso privato della sostanza stupefacente. Mentre Lelio Luttazzi si fa 27 giorni di carcere prima di venire totalmente prosciolto ma quell’errore giudiziario gli rovinò la carriera perché perse le conduzioni della radiofonica Hit Parade e della televisiva Ieri e Oggi; espone la sua breve esperienza carceraria nel libro “Operazione Montecristo” che ispirerà Alberto Sordi per il suo “Detenuto in attesa di giudizio”. Anche il francese Pierre Clémenti finì a Regina Coeli per detenzione e uso ma dopo 18 mesi fu scarcerato per insufficienza di prove e costretto a lasciare l’Italia dopo aver dato belle prove attoriali diretto da Bernardo Bertolucci, Liliana Cavani e Pier Paolo Pasolini. Ma intanto il popolo bue era già stato allegramente condotto sui sempre verdi pascoli della disinformazione.

Gianni Buffardi con la moglie Liliana De Curtis, i due figli e il suocero Totò

In questo clima matura la vicenda del Number One. Gianni Buffardi, produttore di diversi film con Totò di cui sposò la figlia Liliana De Curtis, e che produsse anche l’opera prima di Luigi Magni “Faustina”, volle farsi autore scrivendo e dirigendo questo suo primo film che rimane anche l’unico perché morì prematuramente a causa di una leptospirosi contratta tuffandosi nel biondo Tevere. L’onesto intento è quello di fare un film inchiesta, o di denuncia che dir si voglia, sulla scia dei modelli Francesco Rosi o Elio Petri senza però neanche arrivare a sfiorarne la pregnanza. Sceneggiato su un suo soggetto da Sandro Continenza, suo collaboratore di fiducia dai tempi dei film con Totò, ma poi anche rimaneggiato su consiglio di Renzo Montagnani che gli consigliò di dare un respiro più ampio alla vicenda – forse di questo troppo ampio respiro il film soffre. L’intenzione dell’autore era inizialmente quella di attenersi rigorosamente ai fatti che riguardarono il night-club e già a quella dichiarazione di intenti si misero in moto, secondo Buffardi, delle oscure manovre per impedire la realizzazione del film: “È un film che non si dovrebbe fare perché può dare fastidio a molti, ma nonostante ciò lo realizzo ugualmente. Ritengo di essere la persona più indicata per fare questo film per vari motivi: primo fra tutti perché sono l’unico amico di Pier Luigi Torri; poi perché conosco molto bene coloro che frequentavano il Number One; quindi, perché sono stato interrogato in qualità di testimone dalla magistratura.”

Pier Luigi Torri con Marisa Mell

Pier Luigi Torri, produttore cinematografico e altro tombeur de femmes che all’epoca si accompagnava a Marisa Mell, viene indicato come la gola profonda che diede inizio all’indagine sull’allegro girotondo di bustine di cocaina, e non parve vero a paparazzi e giornalisti di buttarsi sulla vicenda, perché nella narrativa di un certo giornalismo c’è sempre l’ansia di scoprire l’illecito e l’intrallazzo nel bel mondo degli eroi patinati, i belli i ricchi i potenti, dove l’invidia di classe si fa vendetta sociale; per non dire della distrazione che veniva operata su un piano diverso: l’aula del tribunale dove sfilarono i moderni Dei dell’Olimpo era accanto a quella dove Franco Valpreda era imputato per la strage di Piazza Fontana, ma mentre lì si discuteva noiosamente di bombe e di 17 vittime innocenti, qui era un via vai di bei nomi tutti potenzialmente colpevoli di essersi divertiti troppo. All’uscita della notizia della realizzazione di quel film venne fuori che Torri, in carcere anche lui, aveva confidato ad altri due detenuti che proprio Buffardi aveva materialmente consegnato la cocaina: Torri era stato assai probabilmente manovrato con la promessa di uno sconto di pena ma l’inganno fu svelato e si prese un’ulteriore condanna per calunnia, e il produttore poteva continuare a fare il suo film, anzi no, perché subito a seguire venne accusato di estorsione dal figlio del pittore Massimo Campigli: secondo la sua denuncia, il produttore gli avrebbe chiesto 5 litografie del padre per sé e 18 milioni da versare ad alcuni “amici” per fargli riavere le 6 grandi tele, sempre paterne, e una preziosa collezione di vasi precolombiani che erano stati trafugati da ignoti dalla loro villa a Saint-Tropez. La Stampa titola: “È il tramonto della Roma ‘dolce vita’ – l’arresto del produttore Gianni Buffardi”, che secondo l’articolo firmato da Silvana Mazzocchi “entra a Regina Coeli con la camicia di seta munita di cifre ricamate in blu, come ci si recasse in visita. Nonostante tutto, il protagonista di questa storia non ha ancora capito come sono cambiate le regole della vita romana di cui lui resta uno degli ultimi misconosciuti esponenti pittoreschi.” E ancora lo apostrofa: “Gianni Buffardi, produttore cinematografico, cinquantenne, ideatore di film di cassetta, squattrinato «vitellone» della Via Veneto Anni Sessanta, poi scommettitore e trafficante di oggetti d’arte. (…) Nel mondo del cinema è sempre stato una figura di terzo piano, un produttore con scarse possibilità; ma vivendo al margine del «mondo che conta» ne aveva orecchiato i segreti.” Nei fatti Buffardi fu poi scagionato dall’accusa mossa dall’amico Torri.

Sia come sia, il produttore si fece autore cinematografico e girò il suo imperfetto e scomodissimo film, tanto scomodo che fu presto consegnato all’oblio e a tutt’oggi non è mai stato reso disponibile né in VHS né in DVD, e solo dopo decenni ne è stata rinvenuta una copia – si riteneva perduto – nei magazzini di una casa di distribuzione e così restaurato dal Centro sperimentale di cinematografia e dalla Cineteca Nazionale in collaborazione con la rete tv Cine34 dove, dopo la prima del dicembre 2021, il film ciclicamente torna in programmazione. L’opera prima e unica di Gianni Buffardi si apre subito, con accattivante e beffarda marcetta di Giancarlo Chiaramello, sul montaggio veloce di una serie di articoli giornalistici che parlavano del night-club, e subito segue un’ancora veloce sequenza di fotografie con gli esponenti di quel jet-set allora coinvolti, e fra gli altri si riconoscono in ordine sparso: Carla Gravina, Gina Lollobrigida, Monica Vitti, Florinda Bolkan, Omar Sharif, Liz Taylor e Richard Burton, le già dette Brigitte Bardot e Marisa Mell e Jacqueline Bouvier già vedova Kennedy e ancora per poco signora Onassis; e senza apparire nelle foto dei titoli del film si possono per certo aggiungere come abituali frequentatori la modella Verushka, Helmut Berger, Marina Ripa di Meana, Johnny Hallyday, Gianni Agnelli… Subito dopo la parata di foto un cartello avverte: “Fin qui la cronaca e la realtà. Ora l’immaginazione e la fantasia di un racconto, il cui eventuale riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti, è puramente casuale” solo per mettersi al riparo dalle querele ma il casuale e ben più causale.

La marcia di Giancarlo Chiaramello
Talitha Pol e Paul Getty sui Fori Romani della capitale dove erano venuti a sposarsi

Negli spettatori dell’epoca dev’esserci stato il gioco dell’indoviniamo chi è chi anche se la maggior parte dei personaggi, coi nomi cambiati, non erano noti al grande pubblico trattandosi di attricette, playboy, malviventi, affaristi, nobili e innominati; l’unico personaggio vagamente riconoscibile, anche a cinquant’anni di distanza, è il magnate americano Paul Getty III la cui bellissima moglie Talitha Pol morì per un’overdose di eroina e barbiturici, subito spacciato per un suicidio, tragico evento che dette il via a indagini degli inquirenti e sotterranei movimenti tellurici negli ambienti dell’illegalità che fecero altre vittime. Il film, assai ben documentato per la vicinanza dell’autore a quel mondo, affastella decine di personaggi fra i quali ci si perde, oggi come all’epoca, e procede seguendo le indagini di un commissario di polizia interpretato da Renzo Montagnani e di un comandante dei carabinieri che è Luigi Pistilli; alla loro lineare indagine si contrappongono i troppo disarticolati depistaggi che conducono anche a un furto di opere d’arte e altri morti ammazzati. Leo Pestelli sulla Stampa commentò: “La pellicola è documentatissima, rivela la preparazione di un naturalista. Ma noi che non fummo mai in quel luogo di perdizione, restiamo all’oscuro di troppe circostanze che qui si danno per intese, non sappiamo sostituire ai nomi falsi i nomi veri, agli episodi truccati gli episodi autentici, e insomma annaspiamo nel generico. Ma che cosa importa se intanto abbiamo assistito, sia pure di sbieco e per enimmi, alle messe nere della cafe-society romana, con polverine, morti ammazzati, lenoni, bari e dovizia di donne nude? In fatto di grosse e un po’ provincialesche emozioni, si ripigliano i soldi del biglietto.”

Nel resto del cast Paolo Malco è il magnate americano; l’ex divo dei melodrammi Massimo Serato è un editore e sarebbe bello capire chi fosse la controparte reale, Venantino Venantini è il proprietario del locale Paolo Vassallo, il romeno italianizzato Chris Avram rifà il playboy Pier Luigi Torri, Il belloccio Guido Mannari (che di sfuggita passò fra le lenzuola di Liz Taylor) fa l’altro playboy Gigi Rizzi, la teatrale Rina Franchetti impersona una principessa della cosiddetta nobiltà nera, Josiane Tanzilli che quello stesso 1973 fu la volpina in “Amarcord” di Federico Fellini qui esala l’ultimo respiro come Talitha Pol, e sfilano nei vari ruoli Howard Ross, Renato Turi, Bruno Di Luia, Emilio Bonucci, il direttore della fotografia Roberto D’Ettorre Piazzoli come gallerista, una giovanissima Eleonora Giorgi figura come attraente e compiacente arredamento del night, e per finire c’è l’ex pilota automobilistico datosi alla recitazione Guido Lollobrigida, che nella scheda info del film rilasciata da Cine34 figura solo come G. Lollobrigida facendoci illudere che nel cast ci sia sua cugina Gina: inutili scorrettezze di redazione. Luca Pallanch della Cineteca Nazionale ebbe a dire alla presentazione del film restaurato: “I protagonisti di quella oscura vicenda sono tutti scomparsi e, con loro, si è inabissato quell’effimero mondo riunito sotto le luci di una Roma by night, che non aveva nulla da invidiare alle altre metropoli del divertimento e del vizio.” Con riferimento alle indagini nel film passa l’espressione muro di gomma che decenni dopo è stata rispolverata per la vicenda dell’aereo caduto-abbattuto a Ustica nel 1980 da cui il film “Il muro di gomma” di Marco Risi del 1991.

La classe operaia va in paradiso

Cantava Giorgio Gaber alla fine degli anni settanta, con la sua ironia amara, “Anni affollati… per fortuna siete già passati” anni densi di eventi tragici e vissuti da tutta la società italiana con la speranza del rinnovamento; parlando di quegli anni si parla sempre di anni di piombo, il piombo delle armi usate dai terroristi di sinistra ma che oggi deve includere anche il terrorismo di destra più attivo nel piazzare bombe, ma furono anche anni di cambiamenti assai positivi, di crescita sociale culturale e politica: venne abrogato l’articolo di legge che vietava produzione commercio e pubblicità degli anticoncezionali, si ebbero le leggi sul divorzio e sull’aborto, l’università si aprì alle masse, venne creato uno statuto dei lavoratori; ma viene sventato anche il tentativo di colpo stato del fascista Junio Valerio Borghese, vicenda che ispira il film satirico “Vogliamo i colonnelli” di Mario Monicelli. E poi ci fu la questione giovanile, i movimenti e le contestazioni studentesche che dagli anni ’60 a cominciare dallo specifico ’68 studentesco, sono giunti fino alla metà dei ’70 saldandosi con il movimento operaio; e in questo film c’è un lampante esempio di studente-operaio, oltre alla massa lavoro principalmente di estrazione contadina e meridionale, e quelle che sembravano rivendicazioni che venivano dal basso in breve coinvolsero anche altri settori della società, le professioni, quelli che oggi definiremmo partite iva, a cominciare dall’editoria, che si fa megafono delle richieste di cambiamento, e passando poi anche all’imparruccata magistratura e al mondo auto elettivo della medicina. E’ soprattutto il tempo del femminismo, che porta in strada le rivendicazioni del focolare domestico attraverso quello che verrà definito politicizzazione del quotidiano, e dall’emancipazione familiare si passa a quella sociale e politica.

In questo calderone che sobbolle il cinema fa la sua parte e il regista-sceneggiatore-critico Elio Petri, già precoce adolescente comunista interessato al cinema, si pone subito come punto di riferimento nel cinema di impegno civile e denuncia sociale di una stagione cinematografica densa di capolavori, o capisaldi, e irripetibile per il fermento sociale reale che portava nella finzione dei film. Petri morì 53enne di cancro e il suo ultimo film lo firma nel 1979, come a chiusura di quel decennio di contestazioni e rinnovamenti. Scrive questo film con Ugo Pirro, che ha già all’attivo due recenti candidature all’Oscar per le sceneggiature di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” diretto da Petri e con Volonté protagonista, film che vince l’Oscar come Miglior Film Straniero nel 1971; e di “Il giardino dei Finzi Contini” dal romanzo di Giorgio Bassani e regia di Vittorio De Sica, Oscar Miglior Film Straniero nel 1972.

Gian Maria Volonté, attore feticcio di Elio Petri e genericamente impegnato in quel cinema di denuncia sociale, “rubava l’anima ai personaggi” come ebbe a dire il regista Francesco Rosi, mentre Felice Laudadio lo ha definito “Il più grande attore italiano del suo tempo”. Dopo l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica comincia a lavorare in palcoscenico e subito passa alla televisione dove fra le altre cose interpreta Nicola Sacco in “Sacco e Vanzetti” nel 1963, mentre dieci anni dopo sarà Bartolomeo Vanzetti nel film di Giuliano Montaldo, e per la Rai sarà anche Michelangelo Buonarroti nello sceneggiato “Vita di Michelangelo” del 1964 e Caravaggio nello sceneggiato omonimo del 1967. In cinema aveva avuto piccoli ruoli nel genere peplum-fantasy e si era imposto all’attenzione come cattivo negli spaghetti-western di Sergio Leone. E’ stato attivo in politica e nel 1975 fu eletto consigliere regionale del Lazio, ma appena sei mesi dopo decise di dimettersi: “Mi accorsi che esisteva un baratro tra il mio bisogno di comunismo e la carriera politica che loro mi proponevano. Volevano fare di me un funzionario, un animale politico invischiato nella partitocrazia: io avevo bisogno di ricerca, di critica, di democrazia. Ho capito che stavo perdendo la mia identità e ho scelto il rapporto con me stesso”. In questo film è un magnetico protagonista assoluto, un operaio stakanovista che aspira al benessere economico sottoponendosi a ritmi massacranti in un lavoro pagato a cottimo, e per questo suo impegno viene preso a modello dal padrone come esempio per gli altri operai, che lo accusano di servilismo; un inevitabile incidente gli fa rivalutare le sue priorità e prendendo coscienza della sua alienazione si fa paladino delle rivendicazioni sociali.

La sceneggiatura, e la regia di Elio Petri, non fanno sconti. L’attenzione per il dettaglio, dei macchinari e delle espressioni degli attori quasi sempre ripresi in primissimo piano, non consentono pressapochismi. Le scene di massa, le manifestazioni e i dibattiti, sembrano sequenze di un documentario che si apre ai momenti intimi e alle riflessioni: a cominciare da quelle dell’ex operaio finito in manicomio superbamente interpretato da Salvo Randone, sorta di coscienza intima e storica del protagonista. Mariangela Melato è la compagna di questo operaio-simbolo, come lui alla ricerca del benessere borghese, orgogliosa dei due televisori in casa uno dei quali nel salotto che non va assolutamente frequentato: è uno status symbol i cui divani e poltrone venivano mantenuti sotto cellophane, e la porta della stanza spesso chiusa a chiave, in quelle case operaie e piccolo-borghesi che in quegli anni se li potevano permettere: ma sono benefici che qui l’operaio non riesce a godersi per la grande stanchezza con cui ogni sera rientra, mettendo in crisi il rapporto. Nel cast anche Luigi Pernice come sindacalista; Luigi Diberti come collega di catena di montaggio nonché nuovo compagno della sua ex moglie; Donato Castellaneta e Flavio Bucci sono altri due operai mentre Mietta Albertini e Renata Zamengo sono due debuttanti sul grande schermo nei ruoli della collega-amante e della ex moglie.

Sceneggiatura e regia che non fanno sconti e che sollevano forti polemiche, accolto gelidamente dalla sinistra, sia politica che intellettuale, perché descrive i sindacalisti come degli opportunisti e corruttibili, mentre degli studenti di estrema sinistra fa dei fumosi parolai inconcludenti più attenti agli slogan che alla concretezza delle azioni. Alla prima del film, il cineasta francese Jean-Marie Straub che operava in coppia con Danièle Huillet in un percorso di sperimentazione, dichiarò che tutte le copie del film dovevano essere bruciate. Il film invece fruttò la Palma d’Oro al Festival di Cannes a Elio Petri, con una menzione speciale per il protagonista anche per “Il caso Mattei” di Francesco Rosi; fu premiato come Miglior Film ai David di Donatello (in ex-aequo con “Questa specie d’amore” di Alberto Bevilacqua), David speciale a Mariangela Melato anche per “Mimì metallurgico ferito nell’onore” di Lina Wertmuller; e Salvo Randone ricevette il David come non protagonista.

Fece ottimi incassi portando al cinema quella classe operaia che si vide rappresentata nel titolo e oggi va visto o rivisto come una delle pietre miliari del cinema di impegno civile del tempo: un film che ancora disturba per l’adesione emotiva degli interpreti e per quel suo senso di claustrofobia – la fabbrica e l’appartamentino, ma soprattutto le mente del protagonista – dove anche le scene negli ampi spazi all’aperto risultano claustrofobiche per la densità di umanità che vi si agita, come in un fitto pollaio. Ennio Morricone compone per l’occasione una colonna sonora diversissima dalle sue solite, bella e incisiva, martellante e ossessiva come il lavoro in catena di montaggio che commenta; una catena di montaggio che è figlia cinematografica dei “Tempi moderni” di Charlie Chaplin, qui in un tempo e in una cinematografia, però, dove non c’è più spazio per le favole, anche se il lieto fine, la vittoria operaia, conclude il film con un fotogramma in cui Ennio Morricone si presta come operaio.

Latin Lover – che è l’amore per il cinema italiano

In un casale della Puglia (regione encomiasticamente molto attiva politicamente ed economicamente sulla promozione del territorio) si riuniscono un gruppo eterogeneo di donne, italiane e straniere, e mi torna in mente il casale in Toscana di “Speriamo che sia femmina” di Mario Monicelli del 1986 con Liv Ullman, Catherine Deneuve, Giuliana De Sio, Stefania Sandrelli, Athina Cenci… ma le similitudini finiscono qua e rimarcare le differenze è anche un modo per parlare dell’uno e ricordare l’altro, che all’epoca fece il pieno di premi: era un film drammatico che metabolizzava l’ondata del recente passato femminismo e ne raccontava il riflusso nel mondo borghese di un gruppo di donne antropologicamente e idealmente contrapposto al mondo maschile che al loro confronto veniva ora dipinto come malato, perdente e inaffidabile; nel cast c’erano poi attrici straniere perché all’epoca si usava così e per assecondare le coproduzioni internazionali molti stranieri recitavano in ruoli italiani diligentemente doppiati dai nostri professionisti.

Oggi, nel film di Cristina Comencini, che è una bella commedia tragicomica e riprende le fila di quel genere di film denominato “commedia all’italiana” che suo padre Luigi inaugurò firmando “Pane, Amore e Fantasia” negli anni ’50, le attrici sono straniere perché finalmente lo richiede il copione che racconta, nel decennale della morte del divo del cinema Saverio Crispo cui presta il suo volto antico e mobile Francesco Scianna, la riunione di famiglia molto allargata che vede la prima moglie italiana, Virna Lisi al suo ultimo film, con la primogenita Angela Finocchiaro, la seconda moglie spagnola, Marisa Paredes, con la terzogenita Candela Peña, dato che la secondogenita è Valeria Bruni Tedeschi figlia di un’amante francese invisa a entrambe le mogli ufficiali, e l’ultima è la svedese Pihla Vitala figlia del periodo “bergmaniano” del grande attore italiano che, idealmente ed affettuosamente ricalcato sulle figure di Gian Maria Volontè, Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman, nella sua carriera ha percorso tutti i generi cinematografici, da quello politico agli spagnetti western, dalla commedia all’italiana, appunto, al cinema esistenzialista, che come spettatori ripercorriamo in un collage memoire molto divertente e divertito alla serata commemorativa del divo scomparso in cui Saverio Crispo/Francesco Scianna veste i panni del Brancaleone di Monicelli e dei protagonisti de “Il sorpasso” di Dino Risi e di “Matrimonio all’Italiana” di Vittorio De Sica, così che la serata immaginaria diventa un immaginifico omaggio al cinema italiano e ai suoi autori: Pietro Germi, Michelangelo Antonioni, Sergio Leone, Federico Fellini, Elio Petri…

Il merito di “Latin Lover” è di essere un film ben scritto da chi conosce quel mondo dal di dentro, Cristina figlia di Luigi Comencini e Giulia Calenda madre della prima e moglie del secondo, e di essere appunto un omaggio al cinema italiano del periodo d’oro degli anni Sessanta e Settanta. Poi, come film “di riunione di famiglia” non sfugge ai canoni classici delle rivelazioni di antichi segreti e delle frecciate incrociate che scaturiscono da vecchi rancori e incomprensioni: nulla di nuovo sul grande schermo ma il pregio è quello non di voler essere originali quanto invece affettuosi, e in questo senso il film è un vero atto d’amore oltre che per il nostro cinema anche per le attrici che vi prendono parte, tutte servite molto bene e tutte a loro agio e assai divertite e divertenti. E se gli uomini sono di contorno non è più perché il femminismo c’è stato l’altro ieri ma perché le donne, che continuano naturalmente ad inter-dipendere dagli uomini, adesso possono essere vere protagoniste perché i film se li scrivono e se li dirigono.

Ma le figlie non sono finite: nel finale canterino in omaggio alla commedia musicale c’è anche l’americana Nadeah Miranda riconosciuta con l’esame del DNA e quella di cui non si dice nulla ma che porta lo stesso nome del divo: Saveria, la figlia della serva, interpretata da Cecilia Zingaro. Gli attori sono: Jordi Mollà, il marito fedifrago della figlia spagnola, Luis Homar, controfigura e discusso amico del latin lover, Claudio Gioè come giornalista in cerca di segreti da svelare, Neri Marcorè come trentennale amore pseudo-segreto della primogenita e Toni Bertorelli amico critico cinematografico e narratore ufficiale del divo che, rimasto senza parole, è costretto a cedere il microfono a un narratore non autorizzato che fino all’ultimo tiene sulle spine le donne del divo…

Per chi ha amato il cinema italiano della seconda metà del Novecento, per chi ama i film sulle riunioni di famiglia dove se ne dicono e se ne fanno di ogni, e per chi ama il cinema al femminile dove non ci sono più le dive alla Bette Davis o alla Sofia Loren ma amabili e nevrotiche vicine di casa, ancorché irraggiungibili perché altrettanto divine. Per me, senz’altro.