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Palazzina Laf – opera prima di Michele Riondino

Con l’opera prima di Michele Riondino ritorna il cinema di impegno civile, quello che negli anni Sessanta e Settanta vide dietro la macchina da presa autori come Francesco Rosi, Florestano Vancini, Giuliano Montaldo, per dire i primi che mi vengono in mente: cinematografia che aveva una sua ragione d’essere scoprendo come racconto la denuncia sociale e le malefatte del potere, cinema che in quegli anni si proponeva come alternativa alla commedia all’italiana; cinematografia che non ha mai smesso di esistere e che si è ravvivata in questi ultimi due decenni dei Duemila.

Il tarantino Riondino, trasferitosi a Roma per frequentare l’Accademia Nazionale di Arte Drammatica, è uno di quei fortunati che ce l’hanno fatta in un ambiente in cui la fortuna conta più del talento: e lui il talento ce l’ha, insieme a un suo discreto fascino che certo non guasta. Accumula candidature ai premi ma afferra solo il Premio Guglielmo Biraghi assegnato dai giornalisti per “Dieci inverni” del 2009 del debuttante Valerio Mieli. Fino a questi David di Donatello 2024 in cui è ovviamente candidato come regista debuttante accanto a Beppe Fiorello per “Stranizza d’amuri”, Micaela Ramazzotti per “Felicità” e Paola Cortellesi che con “C’è ancora domani” porta via il premio, come da previsioni; al suo film vengono però assegnati due premi di peso: quello per il miglior protagonista a lui personalmente e quello per il non protagonista a Elio Germano, oltre alla miglior canzone originale a Diodato (Antonio) anche lui tarantino benché nato ad Aosta, ma si sa che la gente del sud si sposta molto.

Non sorprende il debutto socialmente impegnato di Riondino: a Taranto è nel “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” nato nel 2012 per puntare l’attenzione pubblica sui problemi tarantini legati all’occupazione e all’Ilva nello specifico, comitato che organizza in città il concertone del 1° maggio chiamato “Uno maggio Taranto libero e pensante” di cui il nostro è da qualche anno anche direttore artistico insieme a Diodato, guarda un po’, e il trombettista siracusano (di Augusta) Roy Paci. La sceneggiatura che Riondino ha scritto insieme al napoletano Maurizio Braucci che non è l’ultimo arrivato: “Gomorra” e “Reality” di Matteo Garrone, “Pasolini” e “Padre Pio” di Abel Ferrara, “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, “Martin Eden” di Pietro Marcello, per ricordare i film più noti alla cui scrittura ha partecipato; “Palazzina Laf” dove il LAF e l’acronimo di “laminatoio a freddo” che è lo stabilimento accanto alla palazzina in questione, si ispira al romanzo di un altro tarantino, Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore decisamente impegnato sul fronte sociale, che in “Fumo sulla città” ha raccontato le malefatte nell’Ilva del Gruppo Riva che l’aveva acquisita nel 1995 quando l’impresa parastatale fu privatizzata; disgraziatamente lo scrittore è morto all’improvviso poco prima di poter prendere parte alla scrittura del film, che nei titoli di coda gli è dedicato: aveva 40 anni.

Alessandro Leogrande

L’anno dopo la capitale albanese Tirana gli ha intitolato una via del centro riconoscendogli l’impegno che lo scrittore profuse a quella nazione col suo libro-inchiesta “Il naufragio” nel quale ha raccontato l’affondamento della Kater I Rades in cui perirono 81 persone dei 120 migranti, per lo più famiglie con bambini, che nel 1997 si erano imbarcati per raggiungere le coste pugliesi ma la nave fu speronata accidentalmente da una corvetta della nostra Marina Militare impegnata in una manovra di respingimento.

Il film, che non possiamo dire biografico perché è a tutti gli effetti un racconto di finzione, pone il punto di vista di un operaio (Riondino) cooptato da un dirigente (Germano) che in cambio di fittizie fugaci e ingannevoli regalie introduce come sua spia nella palazzina in cui venivano confinati gli impiegati di concetto che si erano opposti alla “novazione” del contratto, ovvero l’illegale declassamento a operai, pratica oltremodo pericolosa per persone che non avevano la preparazione specifica per stare ai macchinari: fatti reali, personaggi fittizi.

Film solido e decisamente diretto con mano ferma e felice, ma a tratti poco accattivante: senza voler diventare rigoroso documentario si fa veicolo per due belle interpretazioni ma la scrittura, scegliendo questa via, avrebbe dovuto essere più generosa con gli attori inserendo un paio di quelle necessarie (a mio avviso) scene madri, monologhi o scene forti, che gratificano gli interpreti e strizzano l’occhio al pubblico – che essendo il fruitore finale e principale va in qualche modo assecondato: a tal proposito basta fare il confronto con le altre opere prime in gara a cominciare dal furbissimo film della Cortellesi che giustamente trionfa. E difatti quest’opera prima di Riondino, rispettabilissima e molto apprezzata dalla critica, è stata praticamente ignorata dal pubblico: ha incassato 750 mila euro in tutto. E se da un lato mi viene da dire “peccato” dall’altro penso “che serva da lezione”. È sbagliato anche o soprattutto il titolo: “Palazzina Laf” dice il contenuto del film ma non è accattivante quanto “C’è ancora domani” che dice il film ma incuriosisce, o “Stranizza d’amuri” o, paradossalmente, “Felicità” che invita a comprare il biglietto ma non racconta assolutamente il film, tradendo poi le aspettative del pubblico: altra trappola in cui non cadere perché il passaparola è determinante. Gli editori, quelli che fanno i libri, sanno quanto siano importanti il titolo e la copertina, e si impongono sempre sulla visione ristretta degli autori. Tornando al film, il titolo del romanzo “Fumo sulla città” sarebbe stato senz’altro più vincente dato che richiama “Mani sulla città” glorioso film di Francesco Rosi del 1963 sulla speculazione edilizia dell’allora boom economico.

Il camaleontico Elio Germano, sempre un passo avanti, era stato chiamato da Riondino per il ruolo dell’operaio protagonista, ma l’attore romano che qui recita in perfetto tarantino, ha scelto il ruolo dell’antagonista perché ha anche il talento di chi sa scegliere i ruoli e ha fatto centro, lasciando all’autore la patata bollente del protagonista che altrettanto fa un ottimo lavoro aggiudicandosi anche lui il premio, ma schivando di un filino il centro: il personaggio è un operaio abbastanza ignorante e anche un po’ ottuso, tanto da lasciarsi infinocchiare dal padrone, ma a Michele Riondino che lo interpreta alla perfezione rimane però, nel suo personale sguardo umano, una luce di intelligenza che il personaggio non ha: sto cercando il pelo nell’uovo, lo so. E qui di seguito mi lancerò in una sterile provocazione, tanto per fare pettegolezzo.

C’è un altro attore pugliese cui il neo autore avrebbe potuto rivolgersi: Riccardo Scamarcio, che rispetto a Riondino (gli è una decina d’anni più anziano) vive su un altro pianeta e di certo i due non sono amici. Si erano ritrovati insieme sul set dell’inutile remake Mediaset del 2006 del glorioso sceneggiato Rai “La freccia nera” da Robert Luis Stevenson allora diretto da Anton Giulio Majano che nel 1968 aveva lanciato Loretta Goggi e Aldo Reggiani, e nel remake lanciando Scamarcio che ne era protagonista accanto a Martina Stella che fece parlare di sé solo per il seno nudo; mentre Riondino aveva un ruolo secondario. Sono poi stati di nuovo insieme nell’infelice fiction Rai “Il segreto dell’acqua” sempre protagonista Scamarcio, Riondino in un ruolo di supporto.

Riondino e Scamarcio si fronteggiano sul set

Diciamola tutta: i due non si sopportano. Avevano già fatto a botte, per finta sul set, beninteso, quando entrambi recitavano gli studenti nella serie Rai “Compagni di scuola” e su richiesta di Riondino la cosa si è ripetuta, sempre per finta, per carità, sul set di questo “Il segreto dell’acqua”, come lo stesso attore ha raccontato a Vanity Fair, e anche lì c’è da capire quanto ci sia di giornalisticamente vero e quanto di ulteriormente fiction: “Quando ho letto la sceneggiatura per la prima volta, Riccardo mi è stato subito sul c…! Ma come, io ho una storia idilliaca con la Lodovini (Valentina, n.d.r.) e basta che arrivi uno Scamarcio qualsiasi per rompere tutto? Per di più, il mio personaggio non doveva mai reagire, ma io ho protestato” e ha ottenuto quello che voleva: fare a botte con lo Scamarcio qualsiasi.

Diversità, fra i due, fondamentali. Scamarcio è intemperante, da ragazzo ha cambiato diverse scuole fino a ritirarsi definitivamente dagli studi probabilmente senza neanche conseguire legalmente il diploma; va a Roma a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia e anche lì abbandona perché insofferente alle regole e all’autorità – al contrario del più ordinato Riondino che conclude il corso all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica e comincia a lavorare in teatro. Debuttano entrambi in tivù e il più anziano Scamarcio diventa fortunosamente un sex-symbol col giovanilistico “Tre metri sopra il cielo” diventando richiestissimo da registi e produttori: scegliendo accortamente, anche con l’illuminante guida della sua più anziana compagna (fino al 2018) Valeria Golino conosciuta nel 2004 sul set di “Texas” dell’esordiente Fausto Paravidino, si piazza nelle produzioni più interessanti lavorando anche all’estero e recitando in inglese e francese, e facendosi anche produttore oltre che occasionalmente sceneggiatore: insomma si dà da fare. Non ha (ancora) debuttato in regia.

Riondino, che ahilui non è mai assurto al ruolo di sex-symbol, tornando appena possibile al teatro (cosa che Scamarcio ha frequentato da guest star) come già detto resta culturalmente e politicamente legato alla sua terra, segno di una coscienza sociale che in un mestiere che si fa col coltello fra i denti può essere a volte un freno piuttosto che uno slancio – a meno di non farsi autori con una propria visione di cinema, che è quello che adesso ha fatto. Però non ha mai preso parte a produzioni internazionali né men che meno ha recitato in lingue straniere. È stato protagonista di “Il giovane Montalbano”, una produzione con la quale la Rai ha tentato il ringiovanimento del glorioso personaggio per liberarsi dall’ormai ingombrante Luca Zingaretti, che stanco di ripetere il personaggio non ne voleva più sapere, salvo poi accettare compensi stratosferici per continuare stancamente il suo “Montalbano sono”. Riondino è poi stato Pietro Mennea nella bio-fiction sempre Rai e al momento è protagonista della serie “I Leoni di Sicilia” su Disney+.

Dice il neo autore: “Il film racconta una storia vera che in pochi sapevano. La Palazzina Laf si chiama così per il nome di un reparto dell’acciaieria ex Ilva dove venivano reclusi, o condannati a stare in attesa, 79 operatori che non hanno accettato di firmare una clausola contrattuale che li avrebbe demansionati a operai. Ma quegli operatori erano altamente qualificati: ingegneri, geometri, informatici. Quando sono arrivati i Riva nel 1995 avevano subito detto di non aver bisogno di impiegati ma solo di operaiE, per una sorta di rimodulazione dell’assetto produttivo dell’azienda, avrebbero dovuto licenziare un certo numero di persone. In quei contratti però c’era l’art. 18, che impediva al proprietario di licenziare senza giusta causa. Il reparto lager è un reparto italiano e non solo di Taranto, ecco perché questo film non parla solo dell’ex Ilva. Veniva usato alla Fiat, nelle realtà industriali molto importanti per costringere i lavoratori, che si trovavano in quelle determinate condizioni, a licenziarsi o a commettere quell’errore che avrebbe prodotto la giusta causa.”

Gli altri interpreti del film sono tutti tarantini o pugliesi: Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo, Domenico Fortunato, Marta Limosani, Michele Sinisi, con Eva Cela nel ruolo della fidanzata, che essendo per nascita albanese (è arrivata in Italia a due anni) il suo ruolo rende implicito omaggio all’autore del romanzo scomparso prematuramente e onorato in Albania.

FILM EROTICI DI EXPLOITATION E COMMEDIE SEXY – 2

QUI LA PRIMA PARTE
L’ARTICOLO CONTIENE FOTO E ARGOMENTI
CHE POTREBBERO URTARE CERTE SENSIBILITÀ

Dicevamo che il sesso al cinema esiste fin dai primordi ma il vero e proprio exploit commerciale avviene negli anni ’60-’70 riflettendo nei film la liberazione-ribellione che già avveniva nella società: erano anni in cui (semplificando molto) si è ridisegnato il modo di stare insieme in società e il modo di esprimere l’individualità anche attraverso la sessualità. Personalmente in quegli anni ’70 ero un adolescente che se da un lato non si rendeva pienamente conto di quello che gli accadeva intorno nella realtà sociale e politica, nell’intimo era però scosso da tempeste ormonali che non potevano restare indifferenti davanti a locandine cinematografiche che nei titoli avevano ammiccanti poliziotte soldatesse e liceali, infermiere e dottoresse, insegnanti e supplenti, zie nonne e matrigne, oltre a tutto l’ambaradan che si rifaceva anche solo a sfioro alla letteratura licenziosa del Tre-Quattrocento del Boccaccio e dell’Aretino.

Avevo la curiosità ma non avevo l’età, anche se in certi cinema di periferia chiudevano entrambi gli occhi; però ero un adolescente già appassionato di cinema che frequentava diversi cineclub arrivando a vedere anche tre film in un solo pomeriggio, cineclub dove si dava il caso che fra corazzate Potëmkin e retrospettive di Ingmar Bergman capitassero certi film d’autore, come il visionario Alejandro Jodorowsky o il cupo Walerian Borowczyk, che filmavano in forma autorale l’altrimenti vietato erotismo, con il secondo che sfiorava anche la pornografia – ma erano leciti film da cineclub, senza censure di stato, e lì compresi che i film erotici erano sperimentazioni d’autore, che occasionalmente potevano usare la chiave del grottesco o del surreale ma sempre concentrati sull’aspetto drammatico e torbido delle vicende: insomma i film erotici erano sempre serissimi, finivano male e il sesso era spesso mortale.

Sotto l’ampio paracadute del cinema erotico d’autore si affollarono tanti altri cineasti che produssero film erotici più seriosi che seri, più commerciali e autocelebrativi che sperimentali com’è il caso della coppia più teatrale che cinematografica Gabriele Lavia con Monica Guerritore; lei era stata avviata al genere da Salvatore Samperi, autore che aveva debuttato con il ribelle “Grazie zia” che suo malgrado divenne capostipite del cinema erotico nel sottogenere famiglia; la Guerritore ebbe dapprima da Samperi un ruolo secondario in “Peccato veniale” del 1974 per poi essere protagonista dieci anni dopo nel decisamente commerciale “Fotografando Patrizia” cui il marito regista Lavia fece subito seguire i propri “Scandalosa Gilda” e “Sensi”, sensi che poi si acquietarono un po’ per tutti perché il genere aveva ormai fatto il suo tempo e l’erotismo si spostava verso la più scanzonata e anche becera commedia sexy all’italiana. Ovviamente quel cinema erotico più o meno d’autore, benché per certi aspetti dirompente sul piano sociale e politico, era comunque specchio del suo tempo, gli anni Settanta, e la figura femminile nonostante le rivendicazioni femministe rimaneva donna-oggetto: oggetto del desiderio e oggetto-soggetto di quella filmografia.

Fra le attrici star di prima grandezza ci fu Laura Antonelli che lavorò con veri autori del genere come Samperi appunto, e poi Pasquale Festa Campanile, Dino Risi, Giuseppe Patroni Griffi e Luchino Visconti, per poi passare alla commedia sexy. E ci fu Lilli Carati che poi si perse nel porno per pagarsi la dipendenza da droga.

Sylvester Stallone sul set di un soft-porn

Ma anche Paola Senatore, Ilona Staller, Moana Pozzi Karin Schubert cominciarono le loro carriere in quei film erotici prima di passare definitivamente al porno, e a tal proposito va ricordata la produttiva pratica dell’epoca di montare due film differenti con lo stesso girato: l’hard e il soft, ovvero il pornografico vero e proprio con i dettagli anatomici che nulla lasciano all’immaginazione, e l’erotico che accende la fantasia senza mostrare la macelleria, che perdendo le istanze creative era ormai solo soft-porn dove i dettagli scabrosi erano tagliati per montare un film che potesse anche passare, con molta faccia tosta, per erotico d’autore. Entrambe queste produzione nostrane hanno sempre avuto grande seguito nei Paesi dell’America Latina. Mentre negli Stati Uniti una star indiscussa come Sylvester Stallone cominciò la carriera fra le lenzuola di queste doppie produzioni.

Negli anni Ottanta esplose la Serena Grandi veicolata dall’indiscusso maestro dell’erotico Tinto Brass che spogliò anche la non più giovanissima Stefania Sandrelli che con “La chiave” rilanciò la sua carriera prima di finire definitivamente nei ruoli di mamma.

Senza però dimenticare che anche Ornella Muti e Florinda Bolkan ebbero i loro ruoli nel cinema erotico.

E si registrarono i debutti erotici della valletta Sabina Ciuffini in “Oh, mia bella matrigna” e della modella africana Zeudy Araya in “La ragazza dalla pelle di luna” oltre alle performance da Lolita di Romina Power prima di darsi alle canzonette.

Ci furono fra le altre Femi Benussi, Agostina Belli, Nadia Cassini e Gloria Guida che altrettanto passarono dai film erotici drammatici non più d’autore alle commedia sexy.

Le star di sesso maschile furono decisamente Lando Buzzanca e il prematuramente scomparso Alessandro Momo; per il resto gli attori erano di passaggio e intercambiabili, spesso stranieri, altrettanto spesso bellocci senza passato né futuro, qualche volta interpreti di rango che venivano dal palcoscenico.

Fra gli autori non va dimenticato Pier Paolo Pasolini che dedicò l’ultima parte della sua produzione cinematografica all’erotismo d’autore cominciando proprio con quel “Decameron” che diede la stura a tutte le altre produzioni più o meno boccaccesche. Altrettanto va ricordato Bernardo Bertolucci che al genere specifico si dedicò con “Ultimo tango a Parigi” “The Dreamers”.

Gianfranco D’Angelo fra le ballerine del televisivo “Drive In” andato in onda su Italia 1 dal 1983 al 1988.

Sul finire degli anni ’70 si affievolì la moda del film erotico, d’autore o meno, e nelle sale cinematografiche arrivò la commedia sexy all’italiana che era nata già dalla fine degli anni ’60 e anch’essa destinata all’asfissia più o meno a metà degli anni ’80. Oltre al riciclo di interpreti del più necroforo cinema erotico ci fu spazio per volti e culi nuovi, stavolta tutto all’insegna della spensieratezza e della comicità, dalla più sottile a quella più grossolana: spensieratezza e grossolanità che furono anche la cifra politica del nuovo che avanzava nella figura di Silvio Berlusconi i cui varietà delle sue televisioni erano intercambiabili con le atmosfere e i cast delle commedie sexy. E trattandosi di comico stavolta i divi furono maschi, quelli che venivano dall’avanspettacolo e dal teatro e dal cabaret, oltre a quelli che pur non avendo nessuna specifica preparazione attoriale recitavano solo con la loro naturale maschera: Alvaro Vitali e Bombolo.

Lando Buzzanca e Aldo Maccione primeggiarono anche per la prestanza fisica, non perfetta ma accettabile perché il principale oggetto da esporre era la donna; e fra gli attori di rango Renzo Montagnani accettò qualsiasi ruolo per poter pagare le cure mediche al figlio gravemente infermo. Un vero e proprio divo del genere fu il cantante Johnny Dorelli che tenne banco per un ventennio e sposò la più giovane collega Gloria Guida che dopo il matrimonio abbandonò lentamente il cinema per darsi alla famiglia, seguita anche da lui che essendo di 18 anni più anziano aveva fatto il suo tempo come attore a tempo pieno da commedia sexy.

Dalla vecchia guardia si riciclarono Carlo Giuffrè e il caratterista di lusso Mario Carotenuto mentre fecero fortuna Gianfranco D’Angelo, Pippo Franco, Lino Banfi e Enzo Cannavale.

Mentre fra gli attori che furono punte di diamante della più castigata commedia all’italiana che occasionalmente si affacciarono nella commedia sexy vanno elencati: Enrico Montesano, Renato Pozzetto, Massimo Boldi, Diego Abatantuono e Teo Teocoli.

Accanto a cotanti comici fra le attrici solo poche mantennero lo status di protagoniste assolute: le riciclate dall’erotico Laura Antonelli, Zeudi Araya, Agostina Belli e Gloria Guida che però se la dovettero vedere con la tedesca già con carriera internazionale Barbara Bouchet; e poi c’è il caso a parte di Carmen Villani che nata cantante è diventata attrice di commedie scollacciate sotto la direzione del marito Mauro Ivaldi che a lei e al genere sexy dedicò la sua intera cinematografia prima della sua prematura scomparsa a 42 anni.

Fra le tette e i culi più esposti nella commedia sexy vanno ricordate: Orchidea De Santis, Lory Del Santo, Silvia Dionisio, Rosa Fumetto, Eva Grimaldi, Daniela Poggi, Pamela Prati, Anna Maria Rizzoli, Carmen Russo, Jenny Tamburi e Marilù Tolo.

Mentre fra le straniere che si accasarono nel sexy italiano ci furono le giovani Ewa Aulin, Annie Belle, Sylvia Kristel e Laura Gemser che se la dovettero vedere con le più mature e agguerrite Maria Baxa, Senta Berger, Sylva Koscina, Dagmar Lassander, Marisa Mell e molte altre.

Ci furono anche delle star internazionali che vennero a esibirsi nella commedia sexy all’italiana: Ursula Andress che restò in Italia, Carroll Baker e Joan Collins.

La commedia all’italiana aveva generato i suoi diversi sottogeneri fra i quali quello che definirei lo storico addomesticato, ovvero film di ambientazione storica con molte libertà narrative che veicolavano la creativa di autori che avevano molto da dire; fra questi film si annoverano: “L’armata Brancaleone” del 1966 di Mario Monicelli, il “Satyricon” del 1969 di Federico Fellini e il “Decameron” del 1971 di Pier Paolo Pasolini. E furono film, ognuno sperimentale e inventivo a suo modo, il cui successo generò scopiazzature e parodie che vanno a comporre il sottogenere decamerotico o boccaccesco della commedia sexy. Ma c’è da dire che lo sfruttamento commerciale del fenomeno coincise all’epoca con le rivoluzioni in atto sul piano sociale, culturale e politico: con quei film avvenne una riappropriazione popolare di quei testi del Trecento e Quattrocento italiano che il retaggio scolastico borghese aveva fin lì tenuto sugli scaffali in alto perché ritenuti troppo licenziosi e dunque temuti come eversivi dai poteri alti, Stato e Chiesa; testi che veicolando un messaggio di libertà sessuale furono gettonatissimi in quegli anni di contestazione: nuovi vangeli senza chiesa e senza stato. Dell’immediato 1972 sono i primi sensazionali film di sottogenere: “Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda” di Mariano Laurenti “Quando le donne si chiamavano madonne” di Aldo Grimaldi e a cascata venne tutto il resto. Gli altri sottogeneri furono le poliziotte, le caserme, le dottoresse e le infermiere, la scuola, la famiglia e tutta la serie di Pierino con Alvaro Vitali che insieme ai matti e ai carabinieri affollano il filone dei film barzelletta. Senza dimenticare che molti di questi film sexy erano a episodi, più o meno scollacciati e più o meno d’autore.

La produzione dei film erotici d’autore pur rallentando è sempre viva in sottotraccia in tutta la cinematografia internazionale, di cui l’ultima sperimentazione è quella del danese Lars Von Trier che essendo recidivo aveva già mostrato il sesso senza censure in “Idioti” del 1998, in “Antichrist” del 2009 e nel soporifero dittico “Nimphomaniac” del 2013, che quell’anno in fatto di scandalo e creatività d’autore restò indietro a “La vita di Adèle” del franco-tunisino Abdellatif Kechiche che con le sue scene di sesso lesbico si aggiudicò ben tre Palma d’Oro al Festival di Cannes: all’autore e alle due protagoniste Adèle Exarchopoulos Léa Seydoux; e vale la pena commentare che benché acclamato da tutta la stampa con l’eccezione del conservatore Le Figaro, è stata criticata la scena di sesso eterosessuale perché si intravede l’erezione di Jérémie Laheurte, paventando addirittura la pornografia: perché permane l’ipocrita voyeurismo dei maschi etero che ben sopportano la visione di due donne che fanno sesso ma che si scandalizzano se davanti agli occhi gli balena un cazzo ancorché per un secondo. Anche il francese Patrice Chéreau con “Intimacy” ha filmato il suo sesso esplicito d’autore nel 2001 vincendo l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, e pure l’inglese Michael Winterbottom con “9 songs” nel 2009 ha fatto il suo film erotico senza censure.

Restando sull’argomento cazzi al vento ci sono poi film che pur non inserendosi nel filone erotico improvvisamente sbandierano erezioni d’autore, anzi d’attore, guadagnandosi la collocazione d’ufficio nel genere erotico: Vincent Gallo nel suo “The Brown Bunny” del 2003 si fa fare un estemporaneo pompino da Chloë SevignyElio Germano esibisce la sua serissima erezione nel serissimo “Nessuna qualità agli eroi” del 2007 di Paolo Franchi; mentre nella già anche troppo scanzonata commedia “Libera uscita” del 2011 di Peter Farrelly al protagonista Owen Wilson viene sventolata in faccia l’erezione nera di un figurante.

Il nudo femminile è rassicurante, direi quasi ecumenico, perché se l’attrice è su di giri lo sa solo lei ma per gli attori è un altro discorso: l’erezione al cinema la concepiamo solo nei porno e veder sbandierata l’intimità erotica di attori famosi o meno è il superamento di uno steccato che molti sperimentatori auspicano: far cadere la separazione fra il genere porno e il mainstream che a volte, come dimostrano certi anatemi e certe polemiche, è più ipocrisia che reale difesa del senso del pudore collettivo: siamo adulti e sappiamo distinguere fra pornografia ed erotico d’autore. Così se ogni tanto capita di vedere improvvise erezioni a sorpresa, come uno di quei pupazzi a molla, Jack in the Box, che può divertire o fare paura, be’ non è niente di che: è solo pura evasione. O pura eversione.

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Dicevamo che il sesso al cinema esiste fin dai primordi ma il vero e proprio exploit commerciale avviene negli anni ’60-’70 riflettendo nei film la liberazione-ribellione che già avveniva nella società: erano anni in cui (semplificando molto) si è ridisegnato il modo di stare insieme in società e il modo di esprimere l’individualità anche attraverso la sessualità. Personalmente in quegli anni ’70 ero un adolescente che se da un lato non si rendeva pienamente conto di quello che gli accadeva intorno nella realtà sociale e politica, nell’intimo era però scosso da tempeste ormonali che non potevano restare indifferenti davanti a locandine cinematografiche che nei titoli avevano ammiccanti poliziotte soldatesse e liceali, infermiere e dottoresse, insegnanti e supplenti, zie nonne e matrigne, oltre a tutto l’ambaradan che si rifaceva anche solo a sfioro alla letteratura licenziosa del Tre-Quattrocento del Boccaccio e dell’Aretino.

Avevo la curiosità ma non avevo l’età, anche se in certi cinema di periferia chiudevano entrambi gli occhi; però ero un adolescente già appassionato di cinema che frequentava diversi cineclub arrivando a vedere anche tre film in un solo pomeriggio, cineclub dove si dava il caso che fra corazzate Potëmkin e retrospettive di Ingmar Bergman capitassero certi film d’autore, come il visionario Alejandro Jodorowsky o il cupo Walerian Borowczyk, che filmavano in forma autorale l’altrimenti vietato erotismo, con il secondo che sfiorava anche la pornografia – ma erano leciti film da cineclub, senza censure di stato, e lì compresi che i film erotici erano sperimentazioni d’autore, che occasionalmente potevano usare la chiave del grottesco o del surreale ma sempre concentrati sull’aspetto drammatico e torbido delle vicende: insomma i film erotici erano sempre serissimi, finivano male e il sesso era spesso mortale.

Sotto l’ampio paracadute del cinema erotico d’autore si affollarono tanti altri cineasti che produssero film erotici più seriosi che seri, più commerciali e autocelebrativi che sperimentali com’è il caso della coppia più teatrale che cinematografica Gabriele Lavia con Monica Guerritore; lei era stata avviata al genere da Salvatore Samperi, autore che aveva debuttato con il ribelle “Grazie zia” che suo malgrado divenne capostipite del cinema erotico nel sottogenere famiglia; la Guerritore ebbe dapprima da Samperi un ruolo secondario in “Peccato veniale” del 1974 per poi essere protagonista dieci anni dopo nel decisamente commerciale “Fotografando Patrizia” cui il marito regista Lavia fece subito seguire i propri “Scandalosa Gilda” e “Sensi”, sensi che poi si acquietarono un po’ per tutti perché il genere aveva ormai fatto il suo tempo e l’erotismo si spostava verso la più scanzonata e anche becera commedia sexy all’italiana. Ovviamente quel cinema erotico più o meno d’autore, benché per certi aspetti dirompente sul piano sociale e politico, era comunque specchio del suo tempo, gli anni Settanta, e la figura femminile nonostante le rivendicazioni femministe rimaneva donna-oggetto: oggetto del desiderio e oggetto-soggetto di quella filmografia.

Fra le attrici star di prima grandezza ci fu Laura Antonelli che lavorò con veri autori del genere come Samperi appunto, e poi Pasquale Festa Campanile, Dino Risi, Giuseppe Patroni Griffi e Luchino Visconti, per poi passare alla commedia sexy. E ci fu Lilli Carati che poi si perse nel porno per pagarsi la dipendenza da droga.

Sylvester Stallone sul set di un soft-porn

Ma anche Paola Senatore, Ilona Staller, Moana Pozzi e Karin Schubert cominciarono le loro carriere in quei film erotici prima di passare definitivamente al porno, e a tal proposito va ricordata la produttiva pratica dell’epoca di montare due film differenti con lo stesso girato: l’hard e il soft, ovvero il pornografico vero e proprio con i dettagli anatomici che nulla lasciano all’immaginazione, e l’erotico che accende la fantasia senza mostrare la macelleria, che perdendo le istanze creative era ormai solo soft-porn dove i dettagli scabrosi erano tagliati per montare un film che potesse anche passare, con molta faccia tosta, per erotico d’autore. Entrambe queste produzione nostrane hanno sempre avuto grande seguito nei Paesi dell’America Latina. Mentre negli Stati Uniti una star indiscussa come Sylvester Stallone cominciò la carriera fra le lenzuola di queste doppie produzioni.

Negli anni Ottanta esplose la Serena Grandi veicolata dall’indiscusso maestro dell’erotico Tinto Brass che spogliò anche la non più giovanissima Stefania Sandrelli che con “La chiave” rilanciò la sua carriera prima di finire definitivamente nei ruoli di mamma.

Senza però dimenticare che anche Ornella Muti e Florinda Bolkan ebbero i loro ruoli nel cinema erotico.

E si registrarono i debutti erotici della valletta Sabina Ciuffini in “Oh, mia bella matrigna” e della modella africana Zeudy Araya in “La ragazza dalla pelle di luna” oltre alle performance da Lolita di Romina Power prima di darsi alle canzonette.

Ci furono fra le altre Femi Benussi, Agostina Belli, Nadia Cassini e Gloria Guida che altrettanto passarono dai film erotici drammatici non più d’autore alle commedia sexy.

Le star di sesso maschile furono decisamente Lando Buzzanca e il prematuramente scomparso Alessandro Momo; per il resto gli attori erano di passaggio e intercambiabili, spesso stranieri, altrettanto spesso bellocci senza passato né futuro, qualche volta interpreti di rango che venivano dal palcoscenico.

Fra gli autori non va dimenticato Pier Paolo Pasolini che dedicò l’ultima parte della sua produzione cinematografica all’erotismo d’autore cominciando proprio con quel “Decameron” che diede la stura a tutte le altre produzioni più o meno boccaccesche. Altrettanto va ricordato Bernardo Bertolucci che al genere specifico si dedicò con “Ultimo tango a Parigi” e “The Dreamers”.

Gianfranco D’Angelo fra le ballerine del televisivo “Drive In” andato in onda su Italia 1 dal 1983 al 1988.

Sul finire degli anni ’70 si affievolì la moda del film erotico, d’autore o meno, e nelle sale cinematografiche arrivò la commedia sexy all’italiana che era nata già dalla fine degli anni ’60 e anch’essa destinata all’asfissia più o meno a metà degli anni ’80. Oltre al riciclo di interpreti del più necroforo cinema erotico ci fu spazio per volti e culi nuovi, stavolta tutto all’insegna della spensieratezza e della comicità, dalla più sottile a quella più grossolana: spensieratezza e grossolanità che furono anche la cifra politica del nuovo che avanzava nella figura di Silvio Berlusconi i cui varietà delle sue televisioni erano intercambiabili con le atmosfere e i cast delle commedie sexy. E trattandosi di comico stavolta i divi furono maschi, quelli che venivano dall’avanspettacolo e dal teatro e dal cabaret, oltre a quelli che pur non avendo nessuna specifica preparazione attoriale recitavano solo con la loro naturale maschera: Alvaro Vitali e Bombolo.

Lando Buzzanca e Aldo Maccione primeggiarono anche per la prestanza fisica, non perfetta ma accettabile perché il principale oggetto da esporre era la donna; e fra gli attori di rango Renzo Montagnani accettò qualsiasi ruolo per poter pagare le cure mediche al figlio gravemente infermo. Un vero e proprio divo del genere fu il cantante Johnny Dorelli che tenne banco per un ventennio e sposò la più giovane Gloria Guida che dopo il matrimonio abbandonò lentamente il cinema, seguita da lui che essendo di 18 anni più anziano aveva anche fatto il suo tempo come attore brillante e disimpegnato.

Dalla vecchia guardia si riciclarono Carlo Giuffrè e il caratterista di lusso Mario Carotenuto mentre fecero fortuna Gianfranco D’Angelo, Pippo Franco, Lino Banfi e Enzo Cannavale.

Mentre fra gli attori che furono punte di diamante della più castigata commedia all’italiana che occasionalmente si affacciarono nella commedia sexy vanno elencati: Enrico Montesano, Renato Pozzetto, Massimo Boldi, Diego Abatantuono e Teo Teocoli.

Accanto a cotanti comici fra le attrici solo poche mantennero lo status di protagoniste assolute: le riciclate dall’erotico Laura Antonelli, Zeudi Araya, Agostina Belli e Gloria Guida che però se la dovettero vedere con la tedesca già con carriera internazionale Barbara Bouchet; e poi c’è il caso a parte di Carmen Villani che nata cantante è diventata attrice di commedie scollacciate sotto la direzione del marito Mauro Ivaldi che a lei e al genere sexy dedicò la sua intera cinematografia prima della sua prematura scomparsa a 42 anni.

Fra le tette e i culi più esposti nella commedia sexy vanno ricordate: Orchidea De Santis, Lory Del Santo, Silvia Dionisio, Rosa Fumetto, Eva Grimaldi, Daniela Poggi, Pamela Prati, Anna Maria Rizzoli, Carmen Russo, Jenny Tamburi e Marilù Tolo.

Mentre fra le straniere che si accasarono nel sexy italiano ci furono le giovani Ewa Aulin, Annie Belle, Sylvia Kristel e Laura Gemser che se la dovettero vedere con le più mature e agguerrite Maria Baxa, Senta Berger, Sylva Koscina, Dagmar Lassander, Marisa Mell e molte altre.

Ci furono anche delle star internazionali che vennero a esibirsi nella commedia sexy all’italiana: Ursula Andress che restò in Italia, Carroll Baker e Joan Collins.

La commedia all’italiana aveva generato i suoi diversi sottogeneri fra i quali quello che definirei lo storico addomesticato, ovvero film di ambientazione storica con molte libertà narrative che veicolavano la creativa di autori che avevano molto da dire; fra questi film si annoverano: “L’armata Brancaleone” del 1966 di Mario Monicelli, il “Satyricon” del 1969 di Federico Fellini e il “Decameron” del 1971 di Pier Paolo Pasolini. E furono film, ognuno sperimentale e inventivo a suo modo, il cui successo generò scopiazzature e parodie che vanno a comporre il sottogenere decamerotico o boccaccesco della commedia sexy. Ma c’è da dire che lo sfruttamento commerciale del fenomeno coincise all’epoca con le rivoluzioni in atto sul piano sociale, culturale e politico: con quei film avvenne una riappropriazione popolare di quei testi del Trecento e Quattrocento italiano che il retaggio scolastico borghese aveva fin lì tenuto sugli scaffali in alto perché ritenuti troppo licenziosi e dunque temuti come eversivi dai poteri alti, Stato e Chiesa; testi che veicolando un messaggio di libertà sessuale furono gettonatissimi in quegli anni di contestazione: nuovi vangeli senza chiesa e senza stato. Dell’immediato 1972 sono i primi sensazionali film di sottogenere: “Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda” di Mariano Laurenti “Quando le donne si chiamavano madonne” di Aldo Grimaldi e a cascata venne tutto il resto. Gli altri sottogeneri furono le poliziotte, le caserme, le dottoresse e le infermiere, la scuola, la famiglia e tutta la serie di Pierino con Alvaro Vitali che insieme ai matti e ai carabinieri affollano il filone dei film barzelletta. Senza dimenticare che molti di questi film sexy erano a episodi, più o meno scollacciati e più o meno d’autore.

La produzione dei film erotici d’autore pur rallentando è sempre viva in sottotraccia in tutta la cinematografia internazionale, di cui l’ultima sperimentazione è quella del danese Lars Von Trier che essendo recidivo aveva già mostrato il sesso senza censure in “Idioti” del 1998, in “Antichrist” del 2009 e nel soporifero dittico “Nimphomaniac” del 2013, che quell’anno in fatto di scandalo e creatività d’autore restò indietro a “La vita di Adèle” del franco-tunisino Abdellatif Kechiche che con le sue scene di sesso lesbico si aggiudicò ben tre Palma d’Oro al Festival di Cannes: all’autore e alle due protagoniste Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux; e vale la pena commentare che benché acclamato da tutta la stampa con l’eccezione del conservatore Le Figaro, è stata criticata la scena di sesso eterosessuale perché si intravede l’erezione di Jérémie Laheurte, paventando addirittura la pornografia: perché permane l’ipocrita voyeurismo dei maschi etero che ben sopportano la visione di due donne che fanno sesso ma che si scandalizzano se davanti agli occhi gli balena un cazzo ancorché per un secondo. Anche il francese Patrice Chéreau con “Intimacy” ha filmato il suo sesso esplicito d’autore nel 2001 vincendo l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, e pure l’inglese Michael Winterbottom con “9 songs” nel 2009 ha fatto il suo film erotico senza censure.

Restando sull’argomento cazzi al vento ci sono poi film che pur non inserendosi nel filone erotico improvvisamente sbandierano erezioni d’autore, anzi d’attore, guadagnandosi la collocazione d’ufficio nel genere erotico: Vincent Gallo nel suo “The Brown Bunny” del 2003 si fa fare un estemporaneo pompino da Chloë Sevigny; Elio Germano esibisce la sua serissima erezione nel serissimo “Nessuna qualità agli eroi” del 2007 di Paolo Franchi; mentre nella già anche troppo scanzonata commedia “Libera uscita” del 2011 di Peter Farrelly al protagonista Owen Wilson viene sventolata in faccia l’erezione nera di un figurante.

Il nudo femminile è rassicurante, direi quasi ecumenico, perché se l’attrice è su di giri lo sa solo lei ma per gli attori è un altro discorso: l’erezione al cinema la concepiamo solo nei porno e veder sbandierata l’intimità erotica di attori famosi o meno è il superamento di uno steccato che molti sperimentatori auspicano: far cadere la separazione fra il genere porno e il mainstream. Del resto una semplice erezione, non in attività diciamo così, perché dovrebbe essere considerata esclusivamente pornografica? Così se ogni tanto capita di vedere improvvise erezioni a sorpresa, come uno di quei pupazzi a molla, Jack in the Box, che può divertire o fare paura, be’ non è niente di che: è solo pura evasione. O pura eversione.

Stranizza d’amuri – opera prima di Giuseppe Fiorello

Lo dico subito e senza indugi: non ho mai amato Beppe Fiorello, ma per onestà devo dire che il suo debutto come regista mi ha più che convinto. Considero altri, gli attori, e senza andare all’estero o scomodare la vecchia guardia o addirittura i morti, mi basta citare Elio Germano, Pierfrancesco Favino, Alessandro Gassmann, Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria… di certo ne dimentico qualcuno e certamente ne tralascio qualcun altro, i gusti sono gusti. Beppe Fiorello appartiene a quella categoria di attori che non hanno fatto scuole o seri apprendistati e ha solo avuto ottime frequentazioni ed eccellenti opportunità, dunque fortuna. In questo senso uno che si è inventato dal nulla ma che è cresciuto bene come attore è Valerio Mastandrea. Beppe da ragazzo faceva da tecnico nei villaggi turistici al fratello maggiore Rosario che era lo sfacciato simpatico intrattenitore e che tale è intelligentemente e prudentemente rimasto, sviluppando un personaggio arguto e incisivo; di certo a Rosario Fiorello non saranno mancate le occasione e le succulente offerte per farsi attore ma evidentemente è ben conscio dell’ambito in cui riesce meglio.

Fiorellino, è questo l’ambiguo nomignolo che si è scelto per debuttare ai microfoni di Radio Deejay, e subito a seguire debutta anche in tv sostituendo il fratello alla conduzione del programma “Karaoke” che importò da noi l’orrida esperienza d’intrattenimento sociale che da lì è dilagata anche nei bar e nei ristoranti, e che come “La corrida” ha riempito il piccolo schermo di dilettanti allo sbaraglio, aprendo un terribile Vaso di Pandora. Da buon dilettante allo sbaraglio co’ bullu (col bollo statale, patentato) – e qui sto facendo un richiamo al film dove il ragazzo gay è apostrofato puppu co’ bullo – Fiorellino portò allo sbaraglio il programma che chiuse i battenti. Ma ormai il ragazzo aveva assaggiato le lusinghe della facile fama costruita sul nulla e tentò la carriera musicale come frontman del gruppo pop Patti Chiari che nel 1997 si esibirono al Festibalbar per poi essere subito dimenticati, anche dal web che conserva tutto. Ma il seme del Fiorello attore era già stato seminato l’anno prima: Niccolò Ammaniti ce l’ha sulla coscienza. Si erano conosciuti a Riccione e lo scrittore gli propose di sottoporsi a un provino con Marco Risi che stava preparando il film “L’ultimo capodanno” dal suo libro “L’ultimo capodanno dell’umanità”, film che fu un fiasco, ma l’eroico Beppe aveva trovato la cornice adatta alla sua arte informale.

Fra gli attori teatrali di vecchia scuola si racconta questa parabola: C’era un ragazzo che non sapeva fare nulla ma era ricco di sogni di gloria; in tv vede i trionfi del pugile Nino Benvenuti e decide di farsi pugile ma dopo aver preso i primi pugni decide che non fa per lui. Poi vede i successi del motociclista Giacomo Agostini e decide di darsi al motociclismo ma cade malamente e si frattura varie ossa, e di nuovo decide che non fa per lui. Poi qualcuno lo porta a teatro e lì resta estasiato dagli scroscianti applausi con cui il pubblico omaggia gli attori e allora decide di diventare attore. Anche quel mestiere non fa per lui ma nel bene e nel male il pubblico applaude sempre e oggi quel ragazzo fa ancora l’attore.

Giuseppe Fiorello passa dal grande al piccolo schermo con “Ultimo – il capitano che arrestò Totò Riina” che aveva nel ruolo di protagonista un altro infiltrato nella recitazione, Raul Bova, che però di suo aveva un’indiscutibile avvenenza. L’anno dopo si e ci concede un cameo, nell’hollywoodiano girato in Italia “Il Talento di Mr. Ripley” di Anthony Minghella dove compare fra gli altri italiani anche il fratello Rosario. A quel punto non lo ferma più nessuno e si darà anche al teatro ma sulla sua pagina Wikipedia alla voce “Premi e Riconoscimenti”… no pardon, non c’è questa sezione sulla sua pagina.

Però il regista di oggi gli cresceva dentro. Nel 2007 dirige il video musicale della siciliana Silvia Salemi “Il mutevole abitante del mio solito involucro” e nel 2010 fonda la sua casa di produzione “Ibla Film” mentre Rosario fonda “R.O.S.A.” e insieme producono per i 150 anni dell’unità d’Italia il cortometraggio “Domani” dove fa recitare i suoi figli Anita e Nicola. Si fa dunque produttore e anche sceneggiatore dei progetti in cui recita e a quel punto arriva lo speciale tv autocelebrativo “Il racconto di Beppe Fiorello” firmato dal Vincenzo Mollica per Rai1: l’ego, si sa, va nutrito, e lui a 44 anni ha molto da raccontare di sé e della vita.

Nel 2016, Beppe con la sua casa di produzione opziona i diritti del romanzo del romano Valerio La Martire “Stranizza” che dopo essere uscito nel 2013 edito da “Bakemono Lab.” riceve il patrocinio di Amnesty International per essere rieditato da “David and Matthaus”, dunque sono passati sette anni perché il film prendesse forma, sette anni assai ben spesi. Il romanzo si ispira a una vicenda realmente accaduta nel 1980 nota alle cronache come delitto di Giarre, in provincia di Catania, un duplice delitto di matrice omofoba: le vittime erano Giorgio 25enne dichiaratamente gay e già vittima di bullismo omofobo e Antonio il suo ragazzo 15enne, entrambi uccisi con un colpo di pistola alla testa e ritrovati ancora mano nella mano, che è l’immagine idilliaca sulla quale si chiude il film.

Oggi la vicenda più che per l’amore omosessuale sarebbe stigmatizzata per l’età dei due e si parlerebbe di pedofilia ma quarant’anni fa il crimine era l’omosessualità, in una terra e in un’epoca in cui peraltro erano ancora normali le fuitine con le spose-bambine, quelle che oggi condanniamo in altre culture. L’esecutore del duplice omicidio non fu mai legalmente individuato anche se le indagini condussero al nipote 12enne quasi coetaneo di Antonio, che sarebbe stato incaricato dalle famiglie di compiere il delitto d’onore; interrogato dai carabinieri il bambino, cicciottello e sempliciotto, le cronache diranno che era un po’ ritardato, sostenne che invece erano stati i due innamorati a chiedergli di essere uccisi per l’impossibilità di vivere apertamente la loro relazione, salvo poi ritrattare adducendo che era stato costretto a suon di ceffoni dai carabinieri a dare quella confessione; di fatto non fu mai perseguito per la sua giovane età. Giornalisti e televisioni si affollarono a Giarre da tutta Italia scontrandosi però con l’omertà della comunità locale che non voleva essere associata a una storia di puppi, mentre l’intera opinione pubblica italiana cominciò a fare i conti col problema della discriminazione omofoba, termine che all’epoca neanche esisteva. Il Corriere della Sera titolò: “Derisi da tutto il paese due omosessuali siciliani si fanno uccidere da un ragazzo di 12 anni abbracciati” che è un po’ quello che fecero tutti i quotidiani italiani. Immediatamente il “F.U.O.R.I!”, Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario italiano attivo da Roma in su sin dagli anni ’70 che con quel punto esclamativo fa dell’acronimo una parola di senso compiuto che si associa all’inglese coming out, apre una sede in loco per far sentire la loro voce sul territorio, ma serve a poco: passata l’emergenza i giornalisti se ne vanno e la pace ritorna in provincia.

Marco Bisceglia

Ma se la stampa si distrae così non è per gli omosessuali militanti: dall’altro lato dell’Isola, a Palermo, c’era un prete dichiaratamente omosessuale e sostenitore dei diritti per le persone omo-affettive, Marco Bisceglia; egli era incorso nella sospensione a divinis per essere caduto nella trappola tesagli da due giornalisti del settimanale di destra “Il Borghese”, che fingendosi due cattolici omosessuali gli si rivolsero chiedendogli un “matrimonio di coscienza”; il prete, già sotto i riflettori della Chiesa per le sue posizioni non ortodosse, era divenuto assai cauto nelle manifestazioni pubbliche e acconsentì a una benedizione privata; venne fuori la cronaca dei due solerti giornalisti che nel loro brillante articolo misero insieme le parole “omosessuale” e “ripugnante” e lo scandalo fu servito; Bisceglia li querelò ma i due furono assolti in virtù del diritto di cronaca. Sospeso dal servizio attivo ma ancora religioso e combattente, cominciò a collaborare con l’ARCI, Associazione Ricreativa e Culturale Italiana, fondata nel 1957 a Firenze con l’intento di creare sul territorio, in quel dopoguerra della ricostruzione, dei circoli o case del popolo, di fede comunista e socialista, dunque antigovernativa. Il prete, con la collaborazione del 22enne Nichi Vendola, fondò l’ARCIGAY, la prima sezione dell’ARCI dedicata esclusivamente alla cultura omosessuale, che da Palermo si diffonderà prestissimo in tutta Italia. Anche le femministe lesbiche diedero vita al primo collettivo lesbico siciliano, “Le Papesse”. Per concludere la vicenda di Marco Bisceglia: negli ultimi anni si ammalò di AIDS e, allontanatosi dalle barricate della cultura progressista e omosessuale, fu reintegrato nelle funzioni presbiteriali dall’allora cardinale Joseph Ratzinger e nominato Vicario Coadiutore della Parrocchia di San Cleto a Roma, dove morì nel 2001. Di lui resta, come messaggio laico, la sua rivoluzione per la rivalutazione del corpo, per la liberazione della vita sessuale di ciascuno dalle catene di una morale sessuofobica, colpevolizzante, repressiva, causa di tanta infelicità, che non contraddice la portata positiva del Cristianesimo: il senso del “sacro”, il senso dell’amore. Sacro tra virgolette, a significare dignità, nobiltà, rispetto.

Giuseppe Fiorello con Samuele Segreto.

Digressione dal film molto ampia e particolareggiata, come sempre del resto in questo blog, perché parlando di cinema mi piace contestualizzare i fatti e le persone per una lettura più sociale e umana che strettamente critica. Giuseppe Fiorello realizzando il suo primo film vola alto, come già da attore e produttore dei suoi progetti cine-televisivi aveva mostrato di prediligere un certo impegno, politico e morale. La storia che racconta il film non è la storia vera, ma solo una riuscitissima ispirazione. Così come il romanzo si prendeva delle libertà narrative rispetto alla vicenda reale, altrettanto Giuseppe Fiorello, con i suoi co-sceneggiatori Andrea Cedrola e Carlo Salsa, sviluppa una storia più personale così densa di dettagli e portatrice di emozioni così sincere da sembrare autobiografica, e sappiamo che non lo è; Beppe all’epoca del delitto di Giarre era un undicenne presumibilmente senza dubbi sulla sua identità sessuale, solo di un anno più piccolo del bambino accusato del duplice omicidio, e lui è venuto a conoscenza della vicenda solo in anni recenti, leggendo un articolo di cronaca che parlava del trentennale del delitto e che lo colpì moltissimo, e in quanto siciliano si è sentito co-responsabile del fattaccio e non lo ha più dimenticato, fino ad acquisire i diritti del romanzo che poi romanza e, come dice lui stesso: “Non si è mai scoperta la verità e allora mi sono affidato alla mia immaginazione. Ho immaginato un’estate di due ragazzi che si incontrano e fanno un percorso di vita insieme.”

Gabriele Pizzurro e Samuele Segreto

Colloca la vicenda nel 1982 dei mondiali di calcio, anno calcisticamente vittorioso per l’Italia che utilmente fa da sfondo a molti film che raccontano quegli anni, dando spessore a vicende umane e tensioni narrative; conoscendo bene i luoghi della sua giovinezza compone nel suo film una geografia fantastica che mettendo insieme diversi luoghi reali diventa narrativamente irreale, magica: si tiene lontano da Giarre per non turbare animi ancora dolenti, come ha spiegato, e mette insieme differenti periferie semi-rurali e paesini dove il folclore gioioso fa da contraltare a lavori duri e pericolosi: la cava di pietre e i fuochi d’artificio, con l’impressione sempre sospesa che qualcosa di brutto accadrà in quei luoghi e con quei lavori, ma nulla accade e la vita scorre tranquilla pur nei disagi interiori che non hanno voce. Se qualcosa di brutto deve accadere verrà fuori da quegli animi inquieti.

Gabriele Pizzurro, Simone Raffaele Cordiano e Antonio De Matteo, padre e figli.

E c’è Totò, il fratello piccolo di Nino, intorno al quale il neo-regista tesse una sapientissima tela di sguardi cinematografici che non raccontano nulla di specifico ma che ci insinua sensazioni e dubbi: ammira il fratello maggiore, gli vuole bene? o ne invidioso, e lo odia perché gli ruba attenzioni? e non dimentichiamo che il film si apre con lui che aiutato dallo zio spara a una lepre: il regista segna quel bambino con un battesimo alla polvere da sparo. Così, altrettanto, tutto il film, raccontando la specifica storia di un’amicizia che è anche la scoperta dell’amore adolescenziale, ha sguardi acuti su tutti i personaggi che racconta, scavando nelle loro espressioni, raccontando gesti minimi che hanno il sapore di un antico vissuto e danno spessore e controluce a un film dagli scenari luminosi in cui le ombre si stagliano più nette. Riguardo all’amore adolescenziale omo-affettivo il regista ha dichiarato: “L’adolescenza è quel tratto di vita che trovo divino, in cui ci si ama tra amici pur non essendo omosessuali. Io ho amato il mio amico Carmine, il mio amico Gianni, il mio amico Salvo, il mio amico Emanuele. Ci amavamo, veramente. L’amore adolescenziale va al di là di tutti i discorsi politici. Noi siamo veramente arretratissimi rispetto agli adolescenti. I miei figli si chiedono perché, quando si parla di omosessualità in tv, si usa un tono ‘diverso’. Per loro non è così… Anche del mio film hanno detto è una storia di coraggio. Ma è un peccato pensare che per amarsi ci voglia coraggio.”

La scena dello sberleffo omofobo.

Il neoregista non sbaglia neanche il cast, per comporre il quale guarda senza timore anche fuori dalla Sicilia; un cast da cui tiene fuori nomi e volti più o meno noti e ai debuttanti affianca eccellenti professionisti non ancora “bruciati” da troppe presenze cinematografiche: sono tutti bravissimi, quanto effettivamente lui non è mai stato nella sua carriera di attore. Come regista è bravissimo nel farli esprimere tutti in un credibile siciliano, tenendosi lontano dal finto “sicilianese” di tanti film e interpreti che non sanno cosa sia la lingua siciliana; qua e là affiorano accenti palermitani ma nell’insieme il dialetto di questo film è una sorta di lingua franca in assoluta armonia con le ambientazioni altrettanto di confine.

Luca Pizzurro

Gianni è interpretato dal 19enne palermitano Samuele Segreto che a otto anni ha cominciato a studiare danza e 12enne debutta come attore nel film di Pif “In guerra per amore” e da lì in poi alterna la danza e la recitazione fra programmi e serie tv con una partecipazione ad “Amici” di Maria De Filippi; qui è al suo primo ruolo da protagonista. Nino, l’altro coprotagonista, è il coetaneo romano Gabriele Pizzurro, figlio di Luca Pizzurro attore autore e regista che a Roma dirige il Teatro del Torrino dove a tre anni ha avviato il piccolo Gabriele in laboratori di recitazione per bambini: comprendo il desiderio genitoriale di trasmettere ai figli le proprie passioni ma sono più per il libero arbitrio e lasciare che un bambino sviluppi i suoi propri interessi… magari abbiamo perso un fisico nucleare o un eccellente artigiano ma non lo sapremo mai perché è stato plasmato un altro attore; di fatto il bambino a otto anni va in tournée con Alessia Fabiani nel musical “La bella e la bestia” dove interpreta il candelabro Lumière, quindi sempre bambino va avanti a musical e tournée e viene da chiedersi quando abbia trovato il tempo di andare anche a scuola; passa pure da una masterclass di recitazione all’altra fino a questo suo debutto assoluto nel cinema.

Bellissimi i ruoli delle due madri, magistralmente scritti e magistralmente interpretati: la consapevole e dolente Lina, interpretata dall’ericina (da Erice, Trapani) Simona Malato, che abbiamo già visto in “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante, e la napoletana Fabrizia Sacchi, già con una lunga carriera di attrice teatrale televisiva e cinematografica, che interpreta Carmela, donna gioiosa che ama riamata, ma che sprofonda in una cupezza furente e feroce.

I ruoli maschili adulti vanno al casertano Antonio De Matteo, intensissimo padre di Nino, recentemente noto per un ruolo nel televisivo “Mare Fuori”; suo fratello, l’affettuoso zio Pietro, è interpretato con dosatissima ambiguità dal palermitano Roberto Salemi, anch’egli con una lunga carriera sui vari media; Franco, il patrigno di Gianni, è interpretato con la giusta ottusa durezza, e insieme ansia, dal palermitano Enrico Roccaforte, attore e regista che ha partecipato a diversi stage internazionali e ha all’attivo diverse serie tv: qui è cinematograficamente nel suo ruolo più di rilievo.

Il piccolo Totò è l’undicenne messinese Simone Raffaele Cordiano che già lo scorso anno aveva debuttato con “I racconti della domenica” di Giovanni Virgilio e ha all’attivo anche una partecipazione nel televisivo “Buongiorno mamma!”. La palermitana Giuditta Vasile interpreta la sorella maggiore e il ragusano Giuseppe Spata interpreta il suo giovane marito che al dolore del giovane cognato ferito dallo scandalo omofobo confida e consiglia un illuminante: “Quello che fai di nascosto lo puoi fare per cent’anni”. Fra gli altri ruoli di rilievo vanno annoverati gli omofobi tormentatori di Gianni: il palermitano Giuseppe Lo Piccolo, che è il più feroce, e il torinese Alessio Simonetti che è il bello capobranco con una segreta passione omoerotica per la vittima. La ragusana Anita Pomario, anche lei vista in “Le sorelle Macaluso”, interpreta la dolente ragazza in vendita davanti al bar. Divertente il personaggio muto dell’americano con tanto di cappello da cowboy e super-stereo in spalla, figura che appartiene alla memoria collettiva di tanti siciliani di provincia, forse vero americano immigrato per amore oppure paesano di ritorno che fa l’americano; è l’ultima interpretazione di Orazio Alba, amico e attore catanese prematuramente e improvvisamente scomparso in concomitanza all’uscita del film.

Nell’insieme un cast di attori per i quali vedrei bene un premio collettivo in qualche festival, e nello specifico il mio cuore batte per Simona Malato e Antonio De Matteo. Prevedo in ogni caso premi e riconoscimenti anche al regista esordiente, ma per Nastri d’Argento e David di Donatello se ne parla il prossimo anno, dato che i primi sono stati già assegnati e dei secondi sono già stati dati i candidati.

Di stranezza in stranezza il titolo del romanzo conduce Beppe al titolo di una canzone, “Stranizza d’amuri” di Franco Battiato, sul quale non è necessario spendere parole; la canzone parla della capacità dell’amore di sopravvivere in qualsiasi contesto, anche il più difficile, e racconta di una coppia di innamorati in mezzo a una guerra ma che, “nonostante l’orrore che li circonda, sentono che il loro sentimento non cede, non muore, rimane puro e stabile”. Beppe racconta che Battiato è stato la colonna sonora della sua giovinezze e va da sé che la canzone diventi la colonna sonora del film che prende il medesimo titolo, e di Battiato c’è anche “Cucuruccucù” a sottolineare il momento gioioso della relazione fra i due ragazzi. Mentre le musiche originali sono del modicano Giovanni Caccamo già collaboratore di Battiato, e del romano Leonardo Milani. E di stranezza in stranezza mi viene da considerare che quest’anno ben due film ne parlano: prima di questa “Stranizza d’amuri” c’è stato “La stranezza” di Roberto Andò a sottolineare il fatto che la stranezza, come sentimento e come modo di essere, appartiene ai siciliani.

Giuseppe Fiorello fra Giovanni Caccamo e Leonardo Milani.

Tornando al duplice delitto del 1980: Il 9 maggio 2022 il Comune di Giarre ha apposto una targa commemorativa dedicata alle due vittime all’ingresso della biblioteca comunale “Domenico Cucinotta”, e mi sono voluto chiedere che fine avesse fatto Francesco Messina, quel bambino cicciottello forse un po’ ritardato che le famiglie hanno mandato a compiere il delitto d’onore: oggi è in carcere per estorsione e ha all’attivo una lunga lista di precedenti penali: quel duplice omicidio ha fatto tre vittime, perché forse il bambino spinto all’omicidio dall’orgoglio omofobo di due famiglie avrebbe potuto avere altre occasioni di vita.

Il signore delle formiche

Forse casualmente, nel centenario della nascita di Aldo Braibanti, Gianni Amelio esce con questo film, di certo cominciato a pensare quando Braibanti morì nel 2014. Un film in cui salta subito agli occhi, vivaddio, una recitazione di altissimo livello con un cast che mischia grandi professioni a molti debuttanti, in pratica tutti gli emiliani i cui nomi sono accompagnati dalla scritta per la prima volta sullo schermo: Leonardo Maltese, che regge alla grande un lunghissimo primo piano durante il processo, è il giovane compagno del processato e vittima sacrificale; Davide Vecchi è il tormentato fratello tormentatore; l’anziana Rita Bosello è la palpitante madre di Braibanti; Roberto Infurna regge un altro lungo primo piano come ragazzo accusatore; la cantante lirica Anna Caterina Antonacci debutta come attrice nel ruolo dell’addolorata ottusa madre. Fra i professionisti, tutti centratissimi, Luigi Lo Cascio è Braibanti, Elio Germano è il giornalista, Sara Serraiocco è l’attivista Graziella, Giovanni Visentin è l’ambiguo direttore del giornale, Valerio Binasco e Alberto Cracco impersonano il pubblico ministero e il giudice. L’autore tira fuori da ognuno il meglio e si riconferma gran scopritore di talenti.

Ma chi era quest’uomo, una figura sconosciuta ai più, me compreso? Assurse alle cronache quando la stampa riportò in cronaca il caso Braibanti. Aldo Braibanti, impropriamente detto il professore poiché di fatto non ha mai insegnato, è stato un intellettuale a tutto tondo, in un’epoca in cui, fra le cose buone, le doti dell’intelletto erano ancora tenute da conto e definire qualcuno un intellettuale non era divenuto spregiativo; fu poeta, drammaturgo, e si occupò di arte in genere, cinema e letteratura, si cimentò nei collage e negli assemblage e viene ricordato, il titolo del film lo richiama, come mirmecofilo ovvero studioso delle formiche, passione che sviluppa sin dalla prima infanzia, quando accompagnava il padre medico condotto nelle visite spesso in zone rurali del loro nativo piacentino: dimostrò una precoce attenzione alla natura da ecologista in calzoncini corti, e in particolare fu incuriosito dalla vita degli insetti sociali come api e formiche e, protetto da una famiglia illuminata che in pieno periodo fascista rifiutò qualsiasi tipo di pensiero autoritario, e anche clericale, il piccolo Aldo cominciò a scrivere versi già a otto anni: il suo destino di intellettuale è segnato. Qui di seguito quattro opere di assemblaggio di Braibanti dall’esposizione allestita dal suo comune natio, Fiorenzuola d’Arda, presso l’ex macello a lui intitolato nel 2016.

L’adolescente Braibanti

Aldo, crescendo come studente modello ottiene l’esonero del pagamento delle tasse scolastiche, e ancora adolescente scrive e distribuisce clandestinamente a scuola un manifesto rivolto a “tutti gli uomini vivi” in cui invita i compagni di liceo a mobilitarsi contro la dittatura fascista, così anche la sua rottura con l’autorità è segnata: 18enne prende parte alla resistenza partigiana e partecipa alla nascita dei primi movimenti intellettuali antifascisti; nel 1943 aderisce al Partito Comunista che è clandestino, e viene arrestato due volte, rischiando la prima volta di essere fucilato, e la scampò grazie all’ordine di Pietro Badoglio che, alla caduta del fascismo, fece prima scarcerare docenti e studenti, la classe pensante, mentre il resto dei comunisti comuni ancora in attesa di giudizio furono prontamente giustiziati dai tedeschi: oggi si può interpretare la scelta di Badoglio come una scelta di classe, ma nella sostanza salvò delle vite piuttosto che condannarle tutte; la seconda volta Aldo fu arrestato per un ultimo colpo di coda della polizia investigativa fascista che sequestrò tutti i suoi scritti antecedenti al 1940 che vennero distrutti per sempre. Nell’immediato dopoguerra, dopo aver fatto l’importante e formativa esperienza fra gli organizzatori del Festival Mondiale della Gioventù, sarà anche collaboratore dell’ormai sdoganato Partito Comunista Italiano come responsabile delle attività giovanili in Toscana: prende forma il suo mondo. Ma presto lascia la politica attiva per dedicarsi alla sua visione culturale artistica e filosofica: seguendo l’esempio di vita comunitaria delle sue formiche aderisce alla comunità che si era installata nel Torrione Farnese di Castell’Arquato, nella provincia della sua terra natia, creata fra gli altri dall’eclettico Sylvano Bussotti, principalmente compositore ma artista a tutto tondo; una comunità dove si svolgeva un laboratorio artistico e artigiano le cui opere sono state esposte anche all’estero.

Collage di Sylvano Bussotti

Il Torrione fu una fucina di talenti e sperimentazioni in cui si esercitarono artisti concettuali e musicisti post-dodecafonici, teatranti e cineasti sovversivi, i più dotati dei quali invaderanno la scena romana e nazionale; anche un giovane Carmelo Bene si è affacciato in quella realtà ed è poi divenuto amico di Braibanti; il quale aveva lì ricreato i suoi formicai in teche, scrivendo e teorizzando opere teatrali e cinematografiche di sperimentazione, e raccogliendo intorno a sé un cenacolo di giovani attirati da una vita comunitaria in cui poter sperimentare se stessi e le proprie tendenze, umane sociali e artistiche.

Giovanni Sanfratello fotografato al processo, mostra chiaramente i segni delle torture subite

il professore conosce un 17enne che qualche anno dopo, con la raggiunta maggiore età, porta con sé nella capitale, a formare una coppia gay come oggi ce ne sono tante ma che all’epoca non poteva avere dignità pubblica (a dire il vero neanche oggi date le tante aggressioni che si registrano) perché motivo di scandalo e riprovazione; e quando si dava il caso che nella coppia ci fosse una sostanziale differenza di età ci si presentava come zio e nipote: tutti capivano, ma la facciata imposta dall’ipocrisia sociale restava intatta. “Mi sono spostato a Roma, – scrisse in seguito Braibanti – e Giovanni Sanfratello mi accompagnò, perché venendo a Roma poteva difendersi meglio dalle pressioni assurde del padre, dovute a ragioni religiose, ideologiche e politiche. I Sanfratello, anche loro piacentini, erano ultraconservatori, cattolici e tra i più fascisti, e non riuscivano ad accettare che il loro figlio potesse scegliere una vita tanto diversa dalla loro.” Il padre voleva per Giovanni una carriera in medicina ma il ragazzo voleva dipingere e nella comunità trovò la sua via di fuga, via già percorsa dal fratello Agostino di poco maggiore: figura assai ambigua, mosso dalla gelosia di non essere più il preferito o di non aver saputo accentrare su di sé l’interesse del professore, reazionario a tal punto e vendicativo sul piano morale ed esistenziale, che negli anni a seguire fonderà un gruppo lefebvriano, aderendo al movimento cattolico ultra tradizionalista fondato dall’arcivescovo francese Marcel Lefebvre in seguito sospeso a divinis e poi scomunicato da Giovanni Paolo II che sciolse il movimento; Lefebvre era contrario alle aperture operate dalla Chiesa durante il Concilio Vaticano II, e nelle sue istanze si riconosceranno i fascisti, sempre in cerca di sponde morali, tanto che sarà un sacerdote ex lefebvriano che pietosamente nel 2014 celebrerà una messa in suffragio dell’anima di Erich Priebke (il criminale di guerra che partecipò all’eccidio delle Fosse Ardeatine di cui si è parlato nel film “Rappresaglia”), una messa svolta nella cappella privata di una villetta nella provincia di Treviso, alla quale partecipò il sindaco leghista Loris Mazzorato.

Agostino Sanfratello fra il pubblico del processo, nella foto che apparve su L’Unità che erroneamente nomina come Giovanni Sanfratello

Gianni Amelio racconta la vicenda prendendosi delle libertà narrative, come si fa sempre: nessun film è fedele al romanzo da cui è tratto così come ogni storia vera o biografia è sempre adattata al linguaggio cinematografico che ha altre esigenze narrative; dunque il film di Amelio non è cronaca né documentario, ma il punto di vista, e come tale discutibile, di un grande autore. Di cui personalmente ho visto e apprezzato quasi tutti i film, con l’eccezione dell’ultimo, l’altro biografico “Hammamet” che racconta gli ultimi mesi di Bettino Craxi, figura che non ho amato sia umanamente che politicamente, e ammetto la debolezza di aver smesso di vedere il film dopo circa un quarto d’ora perché mi annoiava e dava ai nervi; film che a tutt’oggi rimane il maggiore incasso dell’autore.

Restando dunque sul filone proficuo delle biografie, Amelio ritorna a riempire le sale: non vedevo tanta gente seduta tutta insieme dal marzo del 2020: unica differenza le mascherine a propria discrezione su un quarto della platea. Il regista rispolvera per l’occasione un filone che da noi sembrava estinto, quello del cinema di impegno civile, o politico, i cui esponenti di punta sono stati Elio Petri, Carlo Lizzani e Francesco Rosi, un genere che nel cinema internazionale è sempre attivo con Ken Loach o Michael Moore. La seconda parte del suo film, il processo, è praticamente fedele a quanto accaduto, con le testimonianze e i dibattimenti, dove l’unico personaggio che compare col suo vero nome è il protagonista e tutti gli altri sono reinventati per ragioni legali o di opportunità, o di libertà narrativa appunto. La prima libertà che si prende l’autore è quella di sostituire l’ingombrante figura paterna con una rigorosissima mater dolorosa che colpisce, e mette a segno in noi pubblico un forte disagio: perché non è cattiva ma solo fermamente convinta delle sue ragioni e del suo amore nel voler salvare il figlio dalla perdizione. Qui sta il genio di Amelio nel disporre i suoi personaggi: non ci sono vittime e carnefici, buoni e cattivi, ma solo controparti, ognuna delle quali con le sue proprie ragioni, convinzioni, punti di vista: una tragedia greca sull’ineluttabilità. Sulla stessa linea sono tratteggiati il pubblico ministero e il giudice, cattivissimi certo per la nostra moderna sensibilità, ma portatori di istanze che hanno la loro ragione di essere nella loro epoca: l’omosessualità era un reato e prima ancora un peccato. Con cascami su certe mentalità odierne.

In una delle scene in cui Braibanti corteggia il ragazzo volando alto fra poesia e filosofia, ho sentito mormorare dal pubblico “Che viscido!” e non mi ha sorpreso che il commento venisse da un ragazzo di un piccolo gruppo orgogliosamente e rumorosamente gay: non era un insulto ma una constatazione. Perché è cambiato il corteggiamento. Quando le cose non si potevano dire, e non erano ovvie e men che meno legali, omo o etero che fosse il corteggiamento, ci si sottoponeva a dei rituali che oggi non esistono più, minuetti e giri di parole ai quali si finiva col cedere per sfinimento e in cui lo sfinimento reciproco era anche parte del piacere: oggi il corteggiamento, se ancora lo si può definire così, è fagocitato dalla velocità e da un linguaggio, anche corporeo, sempre più espliciti. Il processo definì quel corteggiamento – plagio.

“Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da 5 a 15 anni”. Era il reato di plagio secondo l’articolo 603 del codice penale. Plagio viene dal latino plagium, sotterfugio, che nel diritto romano indicava la vendita di un uomo libero come schiavo, dunque la sottrazione dei diritti di quell’individuo tramite persuasione o corruzione; allorquando alla fine del ‘700 si andò via via accettando il principio di uguaglianza fra persone e la progressiva abolizione della schiavitù, il reato di plagio fu traslato come delitto contro la libertà dell’individuo. La norma applicata nel processo a Braibanti era stata inserita nel nostro codice penale (pacchetto tutto ancora in vigore, tranne qualche spunta) nel 1930 per volontà dell’allora governo fascista e, come si dice nel film, per punire con altro nome gli eventuali reati di manifesta omosessualità, perché nella visione fallocratica di Benito Mussolini in Italia non esistevano, e non dovevano esistere neanche sul piano giuridico, quel genere di deviati. Una norma attivata nonostante i pareri contrari della Commissione Parlamentare e delle Commissioni Reali degli avvocati e procuratori di Roma e Napoli; norma assai spinosa per argomenti assai scivolosi, tanto che non venne mai applicata, fino a quel 1964.

Dopo il caso Braibanti il reato di plagio fu invocato di nuovo nel 1978 contro Emilio Grasso, sacerdote appartenente al Movimento Carismatico, accusato da alcuni genitori di aver fatto il lavaggio del cervello ai loro figli minorenni; la sentenza scagionò il religioso e con l’occasione si avviò la messa in discussione della norma che venne abrogata nel 1981. A seguire, e siamo nel 1988, i ministri Rosa Russo Iervolino (Democrazia Cristiana) e Giuliano Vassalli (Partito Socialista Italiano) cercarono di far reintrodurre nel nostro codice penale il reato di plagio psicologico, ma il parlamento ha saggiamente accantonato l’iniziativa perché argomento sempre spinoso e scivoloso: il reato non è accertabile secondo criteri e metodi scientifici ed espone l’eventuale accusato ad eventuali abusi dell’autorità giudiziaria.

L’altra libertà che si prende Amelio, che ha scritto il film con Edoardo Petti e Federico Fava, è quella di creare due coprotagonisti fittizi assai funzionali al suo racconto: l’attivista Graziella che in pratica sostituisce un giovane Marco Pannella che già nel 1955 era stato fra i fondatori del Partito Radicale, il quale seguendo giorno per giorno il processo avviò una martellante campagna con le sue “Notizie Radicali” chiamando pesantemente in causa i magistrati tanto da farsi citare in giudizio lui stesso, avviando così un ulteriore processo che, nella tradizione radicale, diventò a sua volta processo agli inquisitori. Ma questo nel film non c’è. In una delle sequenze in cui Graziella arringa la piazza, Amelio riempie improvvisamente lo schermo, in un corto circuito temporale, col primissimo piano di Emma Bonino che osserva il suo passato: “I Radicali hanno fatto forti battaglie per Braibanti e la società italiana. – ha dichiarato Amelio – Hanno fatto cancellare il reato di plagio nel 1981. Mi è sembrato giusto far vedere la Bonino di oggi piuttosto che un sosia di Pannella ragazzo.”

Ulteriormente, si inventa come cugino di Graziella (i legami fra personaggi servono a dare alla storia una solida struttura) il giornalista incaricato di seguire il processo e che ne fa una battaglia personale, perché forse anche lui è un omosessuale non dichiarato in cerca di segnali di chiarezza e di libertà espressiva; e come sua controparte viene inventato un direttore dell’Unità temporeggiatore e ostile, ambiguo sulla posizione che il giornale deve prendere, addirittura arrivando a licenziare il giornalista troppo schierato in difesa di Braibanti – cosa che pare non fu nella realtà: dopo un primo momento di sbandamento, l’Unità scese in campo sostenendo l’intellettuale sotto processo, anche sulla spinta – emotiva no, opportunistica forse sì – dei tanti intellettuali che sin da subito si schierarono con Braibanti: quel Pier Paolo Pasolini che a inizio carriera era stato cacciato dal PCI “per indegnità morale e politica”, Elsa Morante, Umberto Eco, Alberto Moravia, i giovani Carmelo Bene e Marco Bellocchio che oggi del film è coproduttore; è un dato di fatto che il partito comunista fosse, in linea con gli umori dell’epoca, tendenzialmente conservatore e bacchettone tanto quanto i cattolici e la destra, e forse Amelio si è voluto togliere qualche sassolino dalla scarpa, o più semplicemente ha operato una sua sintesi, inventandosi quella redazione dell’Unità divisa su come schierarsi, e la polemica che ne è seguita non è da poco. Io ritengo che, così come si è inventato le figure del giornalista e del direttore senza riferirsi ai personaggi reali, altrettanto avrebbe potuto evitare di chiamare in causa l’Unità col suo nome, e avrebbe potuto restare sul vago così come ha fatto per il nome e i simboli del Partito Radicale di cui nel film non c’è traccia. Avrebbe evitato la polemica – che però torna utile al botteghino – e mantenuto la linea del suo intero film ispirata e a tratti lirica, simbolica.

Pasolini scrisse: “Se c’è un uomo ‘mite’ nel senso più puro del termine, questo è Braibanti: egli non si è appoggiato infatti mai a niente e a nessuno; non ha chiesto o preteso mai nulla. Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l’accusa, pretestuale, di plagio?” Carmelo Bene lo ricordò così in un suo libro di memorie: “Un genio straordinario. M’insegnò con quella sua vocetta a leggere in versi, come marcare tutto, battere ogni cosa. Gli devo questo, tra l’altro. Non è poco.” Braibanti in vecchiaia dichiarò: “Quel processo, a cui mi sono sentito moralmente estraneo, mi è costato due nuovi anni di prigione, (oltre a quelli passati come prigioniero dei nazi-fascisti) che però non sono serviti a ottenere quello che gli accusatori volevano, cioè distruggere completamente la presenza di un uomo della Resistenza, e libero pensatore, ma tanto disinserito dal mondo sociale da essere l’utile idiota adatto a una repressione emblematica.” E ancora: “Qualunque siano gli strumenti accusatori che si utilizzano per mettere in moto un’accusa di plagio, l’accusa è sempre fondamentalmente politica, perché riguarda essenzialmente i rapporti tra il privato e il sociale.”

A 83 anni gli venne notificato lo sfratto dall’appartamento romano in cui abitava da quarant’anni, vivendo con la pensione minima. L’anno dopo, a seguito dell’iniziativa della senatrice Tiziana Valpiana (Rifondazione Comunista) col sostegno attivo di Franca Rame e di alcuni parlamentari della fugace “Unione” (idealmente “delle sinistre”) di Romano Prodi, con in testa Franco Grillini e Giovanna Melandri, gli viene assegnato il vitalizio della Legge Bacchelli. Lo sfratto diventa esecutivo tre anni dopo e l’86enne Braibanti, con le migliaia di volumi che aveva accumulato, si trasferisce nella natia Emilia Romagna, a Castell’Arquato, dove morirà 91enne. Di Giovanni Sanfratello non si è saputo più nulla, si sa solo che è morto: una vita sprecata, forse un talento, chissà, sacrificato sull’altare della rispettabilità e della cristianità. Suo fratello Agostino è tutt’oggi vivente, da qui i nomi cambiati nel film.

Dal Lido di Venezia dove il film è stato presentato, Gianni Amelio, che ha fatto coming out nel 2014, dice del suo lavoro: “È limitativo dire che è un film sul caso Braibanti, è una grande storia d’amore tra un uomo e un ragazzo, molto autobiografica: durante le riprese ho vissuto una storia d’amore molto tormentata. Ho scoperto le stesse fragilità di Aldo: Braibanti si è innamorato, io anche. Non sono andato in galera come lui ma sono chiuso in un carcere mio. Sono felicissimo del film, probabilmente è la cosa più bella che abbia mai fatto, ma intimamente non sono felice. Vi auguro di essere più felici di me.” Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza. Spirano venti di Destra e l’aspirazione a cancellare questi ultimi sessant’anni è forte.

Volevo nascondermi

7 David di Donatello su 15 candidature, l’Orso d’Argento al Festival di Berlino a Elio Germano, Nastro d’Argento dell’Anno e altro ancora. Il film aveva fatto in tempo ad essere presentato in anteprima a Berlino il 21 febbraio 2020 con uscita prevista nelle sale italiane il successivo 27, uscita annullata per le ragioni che sappiamo; ai primi di marzo si è tentata un’uscita con poche copie in poche sale incassando in un solo fine settimana 90mila euro, e poi tutti i cinema sono stati chiusi; è uscito di nuovo ad agosto ma fra zone giallo arancio rosse e cautela degli spettatori il film è stato di nuovo ritirato e venduto in streaming fino all’approdo in chiaro sulla piattaforma Sky; adesso si parla di una nuova uscita per cercare di monetizzare il successo di festival e critica.

Nel 1977 c’è stata una miniserie Rai, che allora si chiamava sceneggiato televisivo, in tre puntate, scritto da Cesare Zavattini, diretto da Salvatore Nocita, che fece conoscere a tutti gli italiani il pittore, e il suo interprete Flavio Bucci. Di Antonio Ligabue va ricordato che nacque a Zurigo figlio di padre ignoto e prese dalla madre il cognome Costa; successivamente la madre si sposò con tale Bonfiglio Laccabue che riconobbe il bambino e Antonio Costa divenne Antonio Laccabue, il quale però da adulto cambiò il cognome in Ligabue in odio al padre adottivo che riteneva colpevole della morte della madre e dei tre fratelli, periti a causa di un’intossicazione alimentare.

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Ma la sua storia familiare è ancora più complessa perché a un anno la madre lo affidò a una famiglia di svizzeri tedeschi, i Göbel, coi quali crebbe pur restando in contatto con la famiglia originaria e allargata. Ma se la madre aveva dato il figlio alla coppia perché spinta dalla miseria, anche i genitori adottivi o affidatari che fossero – all’epoca quella regolamentazione legislativa non esisteva – non se la passavano così bene e per motivi di precarietà si spostavano continuamente in cerca di lavoro. Antonio, probabilmente anche a causa di carenze alimentari sofferte nei primissimi mesi di vita, soffriva di rachitismo e gozzo, che unitamente a tutti gli altri disagi compromisero il suo sviluppo fisico mentale e psichico. E l’ignoranza diffusa dell’epoca non poté che esacerbare tutti i suoi disagi.

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A 18 anni fu ricoverato per la prima volta in un ospedale psichiatrico e successivamente cominciò ad alternare i soggiorni con i Göbel a fughe senza meta nella natura, impiegandosi come bracciante in quelle fattorie dove avevano imparato a conoscerlo come uno strano ma non pericoloso. Ma in seguito a una violenta lite con la madre adottiva nella quale la aggredì fisicamente, su denuncia della donna venne espulso dalla Svizzera e inviato a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, comune d’origine del Laccabue. Ai vari disagi di Antonio si aggiunse la non conoscenza della lingua e questo gli diede un accresciuto stato di alterità, di diversità. Continuò la sua vita di bracciante nomade e incominciò a dipingere, quello che vedeva e quello che sentiva, quello che vedeva come lo sentiva, trovando nel disegno e nei colori sollievo ai suoi disagi, ansie, ossessioni.

Musei Civici Reggio Emilia » Il tè delle Muse
Antonio Ligabue con Renato Marino Mazzacurati
“Giovannetta” 1952 bronzo a cera persa di Mazzacurati

Prossimo ai trent’anni ha l’incontro della sua vita con il pittore scultore emiliano Renato Marino Mazzacurati, rappresentante della Scuola Romana, gruppo eterogeneo di artisti attivi nella capitale fra gli anni ’20 e ’40. L’artista in qualche modo lo adotta, gli fornisce tele e colori e fa conoscere le sue opere a Roma dove Ligabue comincia a vendere avviandosi a trascorrere un periodo sereno, se non addirittura opulento, che però non lo liberò da attacchi di parossismo psichico connotati anche da autolesionismo.

Il film racconta questa vita, che è una vita di disagio, la vita di quello che oggi diremmo una persona speciale ma che nella sua epoca rimase incompresa dal punto di vista medico-psichiatrico e solo fortunosamente venne riconosciuto per quello che era, un grande artista dal talento unico, inserito nello stile naïf e non solo: quando ebbe l’opportunità di accedere a pubblicazioni d’arte si lasciò influenzare dai fauves, i selvaggi francesi dei primi del ‘900, come da Van Gogh e Klimt e gli espressionisti tedeschi in genere. Per il resto la sua ispirazione rimane la sua immaginazione che rielabora i mondi conosciuti mischiandoli a quelli immaginari e fantastici dei film e delle riviste, così agli animali da fattoria alterna bestie feroci che non ha mai incontrato davvero, e il suo linguaggio pittorico non è altro che l’espressione del suo personale linguaggio, quello che non sapeva esprimere a parole, e le espressioni anche feroci dei suoi animali sono le sue stesse espressioni intime e segrete, del suo disagio.

Elio Germano è un indiscutibile talento molto attivo, anche con quattro film l’anno. La sua precedente interpretazione biografica, anch’essa premiata col David di Donatello nel 2014, era quella intimista e tormentata di Giacomo Leopardi in “Il giovane favoloso” di Mario Martone. Qui, aiutato da un trucco prostetico, diventa un Ligabue animalesco, e seguito dai coach linguistici che gli hanno fatto parlare il tedesco-svizzero e il dialetto emiliano, e seguendo le testimonianze dirette di chi ha conosciuto Ligabue, Elio Germano cesella un’interpretazione davvero superlativa che segna un’altra pietra miliare nella sua ricca filmografia. Il regista Giorgio Diritti è un cineasta di lungo corso qui al suo quarto lungometraggio: emiliano di Bologna ha collaborato con Pupi Avati ed Ermanno Olmi, e al suo primo film “Il vento fa il suo giro” del 2005 vinse 36 premi su 60 festival nazionali e internazionali in cui si presentò. Se prossimamente il film tornerà davvero in sala merita tutta la nostra attenzione.

Palazzo dei Diamanti - Antonio Ligabue. Una vita d'artista
Antonio Ligabue | Wall Street International Magazine
Antonio Ligabue: Una vita d'artista | Zero

David di Donatello 2021 a modo mio

David di Donatello 2021 vincitori: chi ha vinto la 66esima edizione. I premi

L’anno scorso, in piena pandemia, Carlo Conti ha presentato l’evento tutto solo in studio con gli interventi in collegamento; un anno dopo, quando tutti abbiamo (si spera…) imparato a convivere col virus e le limitazioni che comporta, e avviata la campagna di tamponi e vaccinazioni, la serata si svolge nuovamente in presenza e, come la notte degli Oscar, anche in collegamento da luoghi diversi: un limite che è stato interpretato come momento creativo per re-impaginare l’evento, così come chiunque di noi deve imparare a re-immaginare la propria vita. Show must go on, ora come non mai. Le produzioni cine-televisive, dopo un primo momento di sbandamento, si sono adattate all’andamento, e mettendo in campo tutte quelle misure di prevenzione che noi nella vita civile non sempre siamo in grado di assecondare e/o rispettare, hanno ripreso a produrre.

Un fotogramma dalla serie tv “Grey’s Anatomy”

Le serie tv, le medical drama in testa, e tutte le altre che agiscono nel presente narrativo, hanno inserito la pandemia nel loro racconto, svolgendo un compito non facile, raccontare il presente all’interno di un mondo immaginario, e insieme abituare noi spettatori, molti dei quali sempre refrattari, a una narrazione in cui mascherine e distanza sociale fanno ormai parte della quotidianità.

Laura Pausini canta sul palcoscenico vuoto del Teatro dell’Opera di Roma

Per questo 66° David di Donatello sono stati allestiti due set in collegamento fra loro. Quello principale con la conduzione della serata dallo studio 5 Rai oggi intitolato a Fabrizio Frizzi scomparso nel 2018; il set secondario è il Teatro dell’Opera di Roma dai cui palchi si affacciano i candidati ai premi secondari, i cosiddetti premi tecnici, e via via delle belle hostess porgono la statuetta al vincitore di turno. Ma il teatro diventa set principale quando nel corso della serata quando un’orchestra sinfonica debitamente distanziata sul palcoscenico, condotta da Andrea Morricone, esegue brani del padre Ennio. E da qui comincia la trasmissione, con un monologo autobiografico e insieme auto celebrativo di Laura Pausini che si concluderà con l’esecuzione della canzone “Io sì” dal film di Edoardo Ponti con sua madre Sofia Loren “la vita davanti a sé”, canzone già candidata all’Oscar e ovviamente super favorita in questa serata.

Ma sorpresona il premio è andato a Checco Zalone, al secolo Luca Medici, per la canzone “Immigrato” dal suo film “Tolo Tolo” che ha anche vinto il premio David dello Spettatore. Non è ufficiale ma insistenti voci di corridoio rinforzate da anni e anni di conferme dicono che un film campione di incassi non si può lasciare a bocca asciutta, a prescindere dalla reale qualità del prodotto; e che in ogni caso l’assegnazione di premi come questo David di Donatello o i Nastri d’Argento tengono sempre in conto il successo al botteghino nonché di dinamiche e di equilibri tutti interni all’industria cinematografica che a noi spettatori non è dato sapere. Checco Zalone era anche candidato come Regista Esordiente dato che i suoi quattro precedenti film, altrettanto campioni al botteghino, erano stati diretti da Gennaro Nunziante. C’è però da dire che Luca Medici è un professionista con seri studi alle spalle, e come musicista ha suonato con diversi jazzisti pugliesi oltre a essere compositore del nuovo inno della squadra di calcio del Bari. Qualcosa mi dice che ha solo cominciato: era in collegamento da casa e esordisce con “Se lo sapevo venivo. – per poi continuare, fingendo di chiamare moglie e figli – I miei dormono, non gliene frega niente se vinco. – E ancora: – Mi sono preparato poche parole: “La solita cricca di sinistra che premia i soliti…” no questo era il foglietto se perdevo. Grazie all’accademia per il riconoscimento meritocratico… – Ma chissà come il suo tentativo di fare dell’ironia politicamente scorretta va a finire in un audio pesantemente disturbato che rende il resto del suo intervento incomprensibile: censura Rai?

L’altro favorito perché già candidato all’Oscar era il documentario “Notturno” del già premiato Gianfranco Rosi che con i suoi due precedenti lavori ha vinto nel 2013 con “Sacro GRA” il Leone d’Oro a Venezia, come miglior film nonostante si trattasse di un documentario, e poi nel 2016 ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino con “Fuocoammare”. Ma anche questo pronostico non è stato rispettato e il premio è andato a “Mi chiamo Francesco Totti” di Alex Infascelli, e anche qui le riserve sono d’obbligo a causa della popolarità del personaggio che è stato anche omaggiato dalla miniserie Sky “Speravo de morì prima” dove il capitano d’a Roma è interpretato da Pietro Castellitto.

Pietro Castellitto, doppiamente figlio d’arte di Sergio Castellitto e della scrittrice Margaret Mazzantini, vince nella categoria Regista Esordiente con il film “I predatori” che ha anche scritto e interpretato, la cui sceneggiatura aveva già vinto a Venezia il Premio Orizzonti e che era candidata anche a questo David insieme al musicista e al produttore. Il giovanotto, oggi trentenne, ha ovviamente respirato cinema e letteratura sin dalla culla. Il padre, quand’era lui era adolescente, lo aveva diretto in tre film ma il ragazzo ha faticato a farsi apprezzare come attore e questo, a suo dire, gli ha dato la giusta spinta verso la scrittura cinematografica, facendolo crescere artisticamente, autonomamente; oggi è considerato un astro nascente. Ha concluso il suo intervento di ringraziamento con un veloce e auto ironico: “N’abbraccio a mamma, ‘n bacio a papà”. Gli altri candidati nella categoria erano, oltre al già citato Checco Zalone, Alice Filippi con “Sul più bello”, Ginevra Elkann con “Magari” e Mauro Mancini con l’intenso “Non odiare” molto applaudito a Venezia e che ha fruttato il Premio Pasinetti al protagonista Alessandro Gassmann.

In memoriam: Ennio Fantastichini e Mattia Torre

E visto che abbiamo parlato di sceneggiature i premi Sceneggiatura Originale e Non Originale, ovvero tratta da preesistente opera letteraria, sono andati al prematuramente scomparso Mattia Torre, 47 anni, per “Figli” diretto da Giuseppe Bonito e interpretato da Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea candidati nelle categorie Migliori Protagonisti e rimasti a bocca asciutta; ha ritirato il premio la figlia Emma con un bellissimo discorso, lucido e intelligente, assai commovente per la platea che ha risposto con una standing ovation. Il premio Miglior Sceneggiatura Non Originale è andato al film “Lontano lontano” regia e interpretazione di Gianni Di Gregorio da un suo scritto nel cassetto; Di Gregorio era già stato premiato col David di Donatello come Miglior Regista Esordiente nel 2009 alla non più tenera età di 59 anni con “Pranzo di ferragosto”. “Lontano lontano” è anche l’ultima interpretazione di Ennio Fantastichini, scomparso nel 2018 a 63 anni.

Lino Musella

Guardando trasversalmente le candidature salta subito all’occhio la doppietta di Alba Rohrwacher, ormai una garanzia dei casting, protagonista in “Lacci” di Daniele Luchetti e non protagonista in “Magari” di Ginevra Elkann, e stavolta non vincerà niente. Con ben tre presenze come non protagonista è Lino Musella, candidato per “Favolacce” dei Fratelli D’Innocenzo ma presente anche in “Lasciami andare” di Stefano Mordini, e con una partecipazione più pregnante e significativa in “Lei mi parla ancora” di Pupi Avati dove interpreta, con grande adesione e sensibilità, Renato Pozzetto da giovane.

Elio Germano - Wikipedia

Con tre presenze ma tutte da protagonista si piazza al primo posto Elio Germano con “Favolacce” e “L’incredibile storia dell’Isola delle Rose” di Sydney Sibilia e soprattutto “Volevo nascondermi” di Giorgio Diritti dove interpretando il pittore Antonio Ligabue – sotto abbondante trucco prostetico – vince il premio come Migliore Attore Protagonista in una cinquina composta anche dal già citato Valerio Mastandrea per “Figli”, Kim Rossi Stuart per “Cosa sarà” di Francesco Bruni, l’ottantenne Renato Pozzetto recuperato in chiave drammatica da Pupi Avati in “Lei mi parla ancora”, Pierfrancesco Favino che interpreta – anche lui con abbondante trucco prostetico – Bettino Craxi in “Hammamet” di Gianni Amelio, film che vince il premio tecnico per il Miglior Trucco.

“Volevo nascondermi” è il film della serata. Oltre al premio per il protagonista riceve anche i riconoscimenti come Miglior Film fra gli altri che erano: Hammamet”, “Favolacce” che vince solo il Miglior Montaggio, “Miss Marx” di Susanna Nicchiarelli che vince i premi Miglior Produttore, Migliori Costumi e Miglior Compositore, piazzandosi con 3 premi. Chiude la lista dei Migliori Film in competizione “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante che è l’unico film della cinquina a non ricevere nessun premio; è film che ho amato molto, per certi versi sperimentale, geniale visionario ed emozionante, ma che secondo il mio personalissimo parere sconta nell’ambiente cinematografico del volemose bene la ruvidezza dell’autrice che non brilla di immediata simpatia. Oltre a Migliore Attore e Miglior Film “Volevo nascondermi” vince anche per la Regia, la Fotografia, la Scenografia, le Acconciature e il Suono, portando a casa 7 statuette. I premi agli attori non protagonisti sono andati all’astro in ascesa Matilda De Angelis e l’assente ingiustificato anche in video conferenza Fabrizio Bentivoglio, entrambi per “L’incredibile storia dell’Isola delle Rose”, film che vincendo anche i Migliori Effetti Visivi si piazza a quota 3 premi con “Miss Marx”.

Fra le tante chiacchiere della serata vale la pena riportare l’ironico intervento di Valerio Mastandrea che, dovendo presentare la cinquina delle scenografie, ha scherzato sul fatto che tanta gente fa confusione fra i termini sceneggiatura e scenografia: “Molto spesso mi è capitato di sentirmi dire: “Ho visto un film bellissimo, dei dialoghi straordinari, chi l’ha scritta la scenografia?” Purtroppo è un errore molto comune e io stesso posso aggiungere per esperienza diretta che scenografia viene anche confusa con coreografia. Ppi Pierfrancesco Favino, introducendo il premio al Miglior Documentario ricorda che tutti i più grandi autori del cinema italiano sono stati registi di documentari: Rossellini, Antonioni, Petri, Comencini, Zurlini, Olmi, Pontecorvo, Visconti, Risi… perché l’occhio di un autore di allena sulla realtà. E poi cità Fritz Lang: “Se volete fare un film non acquistate un auto, prendete la metro, l’autobus o camminate, osservate da vicino alle persone che vi circondano”.

Collegata da Sofia dove si trova per lavoro, Monica Bellucci riceve il David Speciale, riconoscimento per il quale molti sui social stanno storcendo il naso dato che onestamente non si può dire che di lei che sia una brava attrice ma solo una bellissima donna che ha saputo costruirsi un’invidiabile carriera. Questa la motivazione: “Una carriera stellare e tuttavia saggia che parte da Città di Castello e dalla nostra commedia e si lascia valorizzare da grandi autori come Francis Ford Coppola e Giuseppe Tornatore diventando subito internazionale, con in più la devozione del cinema francese dalla sua parte ma senza perdere di vista il lavoro creativo e la comunità artistica. Carismatica, cosmopolita e insieme profondamente italiana”. Nulla da eccepire. Altro David Speciale a Diego Abatantuono che solo nella seconda parte della vita si è dato al cinema di qualità grazie alle opportunità che ha avuto prima da Pupi Avati col dittico “Regalo di Natale” e “La rivincita di Natale”, e poi da Gabriele Salvatores. Questa la motivazione: “Un grandissimo protagonista del nostro panorama artistico con una carriera sorprendente, protagonista poliedrico e amatissimo, passato attraverso film cult come “I fichissimi” o “Eccezziunale veramente” per poi incontrare autori come Luigi Comencini, Giuseppe Bertolucci, Carlo Mazzacurati, Ettore Scola e, specialmente, Pupi Avati e Gabriele Salvatores, con il quale ha intrapreso un vero e proprio sodalizio che lo ha portato fino all’Oscar con “Mediterraneo”. Infine Enrico Brignano entra sul palco a conferire un altro David Speciale e simbolico alla memoria di Luigi Proietti e a seguire Carlo Conti ricorda gli scomparsi dell’anno: Franca Valeri, Ennio Morricone, Michel Piccoli, Gianrico Tedeschi, Marco Vicario, Daria Nicolodi, Peppino Rotunno, Claudio Sorrentino, Enrico Vaime, Ezio Bosso e tanti altri.

David di Donatello 2021: Sophia Loren miglior attrice protagonista, Zalone  batte Pausini – Tutti i vincitori | DavideMaggio.it

Grande momento la premiazione di Sofia Loren che a 87 anni ha vinto, e trepidato come una debuttante, come Migliore Attrice Protagonista diretta dal figlio Edoardo Ponti in “La vita davanti a sé”, e omaggiata con una standing ovation. Giacché ancora la vedo e la rivedo in tv nel fulgore dei suoi anni migliori, mi si è stretto il cuore vederla muoversi a fatica, sorretta dal figlio, commossa e piegata dagli anni, che ha cominciato la lettura del suo discorso scritto su un foglietto mormorando nel suo napoletano un “Madonna mia… aiutateme!” sfuggito dal cuore: “E’ difficile credere che la prima volta che ho ricevuto un David sia stato più di 60 anni fa… (in realtà sono esattamente 60: nel 1961 ricevette il David di Donatello per “La Ciociara” di Vittorio De Sica, che le valse anche l’Oscar; probabilmente ha messo nel conto anche la Targa d’Oro vinta nel 1959 per “Orchidea Nera” film americano con Anthony Quinn diretto da Martin Ritt che le fruttò anche la Coppa Volpi a Venezia) …Ma stasera sembra di nuovo la prima voltama l’emozione è la stessa e anche di più, e la gioia è la stessa… – Ansima, respira a fatica, fa delle lunghe pause: ringrazia la produzione, Netflix, la squadra, cita il bambino protagonista Ibrahima Gueye: Un attore di grandissimo talento che in questo film è davvero magico. E infine ringrazio il mio regista Edoardo – che se possibile è ancora più commosso della madre – Il suo cuore e la sua sensibilità hanno dato vita a questo film e al mio personaggio… per questo io anche a mio figlio sono molto grata perché è un uomo meraviglioso e ha fatto un film veramente molto bello. – Poi, smettendo di leggere: – Forse sarà il mio ultimo film, questo non lo so, ma dopo tanti film ho ancora voglia di farne uno sempre bello, con una storia meravigliosa, perché io senza il cinema non posso vivere. – E dopo l’abbraccio del figlio che le consegna il premio scherza: Non posso prendere il premio sennò cado, io e il premio!”

Le altre candidate nelle stessa categoria, oltre alle già citate Paola Cortellesi per “Figli” e Alba Rohrwacher per “Lacci”, erano Micaela Ramazzotti per “Gli anni più belli” di Gabriele Muccino e Vittoria Puccini per “18 regali” regia di Francesco Amato, film premiato con il David Giovani assegnato da una giuria nazionale di studenti degli ultimi due anni di corso delle scuole secondarie di 2° grado.

David di Donatello 2021, il look di Sofia Loren | DiLei

Subito a seguire la premiazione dell’87enne Sofia arriva l’88enne Sandra Milo per ricevere il David alla Carriera e si mostra subito più in forma dell’antica rivale (senza dimenticare l’altra regina in campo, Gina Lollobrigida che ricevette il David alla Carriera nel 2016): eh sì, perché stessa età, stesso periodo di attività e medesime taglie da maggiorata nel cinema italiano degli anni ’50, ma mentre Sofia andava per Oscar, Nastri d’Argento e David di Donatello a gogo, Sandra, detta Sandrocchia da Federico Fellini ha in bacheca solo due Nastri d’Argento come Non Protagonista per “8 1/2” e “Giulietta degli spiriti” del Fellini di cui dichiarò durante una punta di “Porta a porta” del 2009 di esserne stata amante per ben 17 anni. Sempre bamboleggiando con la sua vocina in falsetto conclude il suo breve ilare discorso con un “Non è mai troppo tardi per ricevere un premio! Grazieee!”

Miglior Film Straniero “1917”, altro film che ho molto amato e fresco di tre Oscar tecnici: Fotografia, Effetti Speciali e Sonoro. Riconoscimenti speciali le Targhe David 2021 appositamente pensate come espressione di riconoscenza ai professionisti sanitari Silvia AngelettiIvanna Legkar e Stefano Marongiu per l’importante contributo alla ripresa in sicurezza delle attività delle produzioni cinematografiche e audiovisive a Roma e in Italia durante la crisi Covid-19. Delle targhe che, come ha ribadito la presidente e direttore artistico dei David di Donatello Piera Detassis nell’intervento istituzionale e conclusivo, ci si augura di non dover consegnare mai più; più avanti fa un riferimento del tipo parlo a chi mi capisce ma che noi spettatori comuni non comprendiamo: “Il David è la casa del cinema, è la casa di tutti quelli che fanno cinema, e anche se c’è qualcuno che a volte scappa di casa poi noi siamo pronti ad accoglierlo a braccia aperte…” Con chi ce l’aveva? chi, è scappato, e perché?

Dicono le cronache che il colpevole è Gabriele Muccino che è ha abbandonato il suo posto in giuria quando ha appreso che il suo film “Gli anni più belli” non sarebbe stato inserito nelle cinquine dei migliori film e migliori registi. Sono rimaste le candidature al David Giovani, a Micaela Ramazzotti come migliore protagonista e a Claudio Baglioni per la canzone originale e come visto nessun premio è andato assegnato. Muccino ha scritto: “Sono uscito dalla giuria dei David di Donatello. Non mi riconosco nei criteri di selezione che da anni contraddistinguono quello che era un tempo il premio più ambito dopo dopo l’Oscar. Non mi presenterò più nelle categorie di Miglior Regia e Miglior Sceneggiatura, in futuro.” Buon pro gli faccia, personalmente non sono mai riuscito a vedere un suo film e anche armato di buona volontà al massimo dopo un quarto d’ora mi annoio, anzi peggio, mi innervosisco: li trovo insopportabilmente zuccherosi e troppo volutamente strappalacrime, insinceri e costruiti a tavolino. Un po’ come quei bambini che piangono guardandosi allo specchio, dove si vedono così belli fra le lacrime da voler piangere ancora per un po’.

I film presi in considerazione sono tutti quelli usciti dal 1° gennaio 2020 al 28 febbraio 2021, che in piena pandemia non hanno potuto godere di una distribuzione appropriata e molti sono già in chiaro in tv, dove possiamo trovarli sia a pagamento che in chiaro. Per consultare in modo ordinato tutte le candidature e i vincitori:


https://www.daviddidonatello.it/

Il giovane favoloso

Mi porta fuori strada e rimane per me un mistero il titolo: Il Giovane Favoloso, che comunque funziona e resta impresso nella memoria. Ma sento che è fuori contesto, essendo “favoloso” un termine moderno rispetto al linguaggio di Leopardi e all’italiano desueto e rigoroso con cui è scritto il film: viene da quel “fabulous” che i gay americani hanno adottato come aggettivo di meraviglia e che è arrivato, con le stesse caratteristiche, anche in Italia. Peraltro nel suo significato da dizionario italiano “favoloso” viene da “favola” e sta per mitico, leggendario, immaginario con tutte le accezioni possibili e immaginabili, aggettivi che apparentemente nulla hanno a che vedere col giovane Leopardi. Benché favolose, nel senso di immaginifiche, siano le sue liriche…

Il film, diretto da Mario Martone che lo ha scritto con Ippolita Di Maio, è quasi un miracolo: lo si intuisce difficile e lo si scopre scorrevole, ci si aspetta un film letterario e pur senza deludere è anche un film emozionante. Oltre alla eccellente scrittura il merito è di Elio Germano che infila un’altra perla nel filo delle sue magistrali interpretazioni. Mi dispiace che a Venezia non abbia avuto la Coppa Volpi come migliore attore e aspetto di vedere il vincitore Adam Driver che con Alba Rohrwacher ha fatto la doppietta per il film di Saverio Costanzo “Hungry hearts”. Sicuramente Elio Germano potrà rifarsi ai David di Donatello anche perché il film sta andando molto bene al botteghino e si sa che quel premio è sensibile ai risultati economici dato che spesso si è inventato premi per film mediocri ma di cassetta.

Elio Germano dà voce alle più importanti liriche di Leopardi con quella naturalezza senza enfasi che si dovrebbe insegnare sin dai banchi di scuola, così come tutto l’eccellente cast recita un italiano aulico con grande naturalezza laddove ci stiamo abituando al biascicare e al birignao di sedicenti attori e attrici che non hanno naturalezza neanche con le frasi fatte delle sceneggiature televisive. Non a caso i principali interpreti vengono dal teatro: Massimo Popolizio è il padre conte Monaldo Leopardi, grande studioso e illuminato pur nel suo assai rigoroso conservatorismo; Paolo Graziosi il vecchio zio marchese, vera anima conservatrice retaggio di un’epoca, l’Ottocento, ormai alla fine; Raffaella Giordano come rigida madre anaffettiva; ma anche Michele Riondino nei panni dell’amico Antonio Ranieri, di cui Leopardi osserva e invidia la bellezza virile e il successo con le donne, quelle donne che lui non conoscerà mai carnalmente a causa della sua salute cagionevole che negli anni gli piega le ossa e lo indebolisce, e del suo spirito eletto e geniale che diventa il suo unico punto di vista sul mondo, non scevro da una forte dose di ironia e da una necessaria voglia di ribellione che lo porterà alla fuga da Recanati per il mondo allora possibile: Firenze, Roma, Napoli. Altri interpreti: la francese Anna Mouglalis come musa ispiratrice di vita e amante del suo amico Ranieri, Isabella Ragonese ed Edoardo Natoli come suo fratelli, Valerio Binasco come il poeta Giordani che lo ispira alla fuga fisica e intellettuale, Iaia Forte come padrona di casa napoletana un po’ vaiassa.

L’intero film, ricco di bellissime inquadrature che fanno da preciso contrappunto alle bellissime parole di Leopardi, sempre troppo poco lette perché troppo male studiate, risulta oltre che scorrevole anche commovente nel raccontarci la vita priva di avventure e ricca di – necessaria? inevitabile? – interiorità di uno spirito eletto che ha lottato per l’intera esistenza con le scatole cinesi in cui era racchiuso: la famiglia anaffettiva, la casa paterna, Recanati, il suo corpo inadatto alla vita – in contrapposizione al suo spirito sempre troppo oltre rispetto al mondo che lo racchiudeva.

E forse in conclusione trovo il mio senso al titolo “favoloso”: in quel finale d’Ottocento il giovane Leopardi è stato così moderno che oggi lo si potrebbe soltanto definire così, con un pizzico di arroganza e di allegria che non gli sarebbero dispiaciuti: un giovane davvero favoloso!

“Nynphomaniac vol. I” – è solo questione di cazzi

Ma insomma. Partono i titoli di testa e ci annunciano che la versione che stiamo per vedere è una versione censurata, approvata dal regista che però non ne ha curato la stesura. Ci prendono palesemente in giro e infatti un vecchietto, che evidentemente s’era comprato il biglietto per vedere un po’ di pelo, sbuffa a voce alta: Ma come censurata?! E ci fa sorridere tutti. Però ha ragione lui: il battage pubblicitario non ci diceva quello che ho appreso in seguito su internet, e cioè che la versione integrale sarà disponibile in autunno e magari solo in dvd. Come a dire: per adesso vi sfiliamo di tasca questi soldi, più avanti vi sfiliamo gli altri. E inoltre: questo è solo mezzo film, il volume primo, a seguire il volume secondo. Col cazzo, dico io, e la parolaccia ci sta tutta: se devo tornare al cinema per vedere un altro mezzo film censurato, tenetevelo.

Ma per chi non sa di che stiamo parlando ricominciamo dall’inizio. Lars Von Trier è un regista danese molto cool e cult, benché poco dotato di sense of humor, molto compreso nel ruolo di genio troppo compreso, che negli anni ci ha confezionato film molto interessanti, qualche capolavoro e pure qualche boiata. Succede. Possiamo affermare che la sua narrativa sfarfalla sempre dalle parti della depressione, come filone principale, e poi verso la sperimentazione del sesso vero, genere narrativo tipico del porno inserito nel cinema d’autore: ci aveva già provato con una sequenza in “Idioti” e ci ha riprovato nel più recente “Antichrist” col quale comincia la sua collaborazione con Charlotte Gainsbourg, la quale lo segue anche in “Melancholia” e in quest’ultimo “Nynphomaniac” dove in una tetra atmosfera fuori dal tempo e dalla spazio racconta come in un Boccaccio le tappe della sua ninfomania a un disponibile e compiacente Stellan Skarsgård: noiose divagazioni filosofiche sul senso della vita e sulla depressione, simbologia spalmata a piene mani perché siamo in un film d’Autore… ma in pratica ci mostra la protagonista da giovane, interpretata da Stacy Martin, che ne fa di ogni… O così sembra, perché come si affrettano a precisare sui media gli interpreti, per le scene di sesso sono stati doppiati da controfigure con un complicato e noioso e faticoso lavoro di precisione che nulla aveva di erotico… Sarà, ma l’effetto è davvero realistico, perché, nonostante la censura dichiarata all’inizio, un po’ di sesso c’è: cazzetti dritti vedi e non vedi, pompini, scopate… Scene veloci e di passaggio, senza il dettaglio sull’anatomico tipico del porno, e tutte cose inerenti al racconto di una ninfomane, per carità… Ma a me il dubbio artistico rimane: quanto c’è di falsamente vero e di veramente falso? Perché per me l’arte è finzione.

Il senso del film e del suo autore è di lasciarci con questo dubbio. Anche perché, ormai, scene di vero sesso nel cinema mainstream se ne vedono sempre più spesso: gay nell’inquietante e riuscitissimo “Lo sconosciuto del lago”, allegro e di ogni caratura nell’affresco erotico “Shortbus” e qui mi perdo nell’ormai numeroso elenco: basta ricordare il pompino che Vincent Gallo attore e regista si è fatto fare da Chloe Sevigny in “The Brown Bunny”, o le scene di sesso fra Kerry Fox e Mark Rylance  in “Intimacy” di Patrice Chéreau o, restando fra gli attori italiani, i piselli dritti di Libero De Rienzo in “À ma soeur!” di Catherine Breillat, ed Elio Germano in “Nessuna qualità agli eroi” di Paolo Franchi. Ma non dimentichiamo “Guardami” il bel film del secolo scorso (1999) sul mondo della pornografia di Davide Ferrario con una coraggiosa Elisabetta Cavallotti.

Ma andando al nocciolo del discorso credo che sia tutta una questione di cazzi dritti. Perché il nudo è ormai sdoganato in ogni sua anche più intima e ardita inquadratura, e il nudo femminile, di per sé, non ci racconterà mai l’eccitazione vera, perché il sesso femminile rimane scrigno depositario di quel mistero, e per visualizzare sullo schermo questo benedetto sesso dal vero bisogna inseguire l’erezione maschile. Che sia poi di attori porno passati all’artistico, o di emeriti e volenterosi sconosciuti, o di attori famosi che orgogliosamente si espongono, poco importa. Il ruolo della donna sarà sempre quello di prenderlo: in mano, in bocca, nella vagina o dovunque le sia richiesto… e che questo diventi arte resta sempre da vedere, e “da vedere” non è un gioco di parole. Più che altro è vero che oggi ci scandalizziamo molto meno, e che i tanti teorizzati confini fra cinema porno e cinema artistico siano destinati a cadere, o meglio, a trovare una linea di contatto giusto in queste scene che andiamo sempre più vedendo. Ma se da un lato rimangono puro porno è un bene per i cultori di quel mercato, mentre dall’altro restano solo sperimentazione e superamento di un limite oltre il quale ci si chiede: cos’altro ci resta da superare e da mostrare dal vero in un film? lo stupro e la morte e l’assassinio, come accade negli snuff movie?

Facciamo un salto all’indietro di qualche millennio, a quel mondo antico dove si sperimentavano le prime forme artistiche di rappresentazione, alla tragedia greca. In essa avvenivano efferati delitti ma il genio degli autori, e il senso comune della cultura dell’epoca, imponevano che essi si compissero sempre dietro le quinte e mai sotto gli occhi dello spettatore: questo nulla toglieva alla spietatezza dell’atto e anzi lo impotentiva e lo arricchiva di pathos… come il maestro Alfred Hitchcock seppe raccontarci in tempi più recenti: il delitto migliore è quello che non si vede. E il sesso più eccitante, aggiungo io, è quello che resta nell’ambito dell’immaginazione. Certo, la carne esposta sullo schermo chiama all’appello altra carne, ma è solo meccanica fisica che niente ha a che vedere con l’arte della seduzione e del sesso. Quindi resto dell’idea che, vengano pure tutte le sperimentazioni registiche e gli esibizionismi attoriali (chi non è curioso di vedere come lo fanno e come ce l’hanno quelle e quelli famosi?) ma l’arte deve restare velata e saperci raccontare solo quello che accade dietro le quinte.

E torno a quest’ultima fatica di Lars Von Trier: film compiaciuto e depressivo di un grande regista che sembra non avere più niente da dire e vuole condurci sul terreno scivoloso dello scandalo: il pisellino di Shia LaBeouf è il suo o non è il suo? Macchissenefrega. L’unica cosa notevole che ho trovato è stato l’irrompere sullo schermo della grandiosa Uma Thurman nella stupenda interpretazione di una moglie tradita: una decina di minuti che valgono da soli il prezzo del biglietto. Tutto il resto è noia, ma noia vera.