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Le pistole dei magnifici sette

Dopo il clamoroso successo de “I magnifici sette” del 1960 starring Yul Brynner promotore del progetto e anche produttore, e il travagliato e incerto sequel del 1966 “Il ritorno dei magnifici sette” dove Brynner si piega a imitare il silenzioso Clint Eastwood rilanciato in patria dal nostro Sergio Leone con la “Trilogia del Dollaro”, il produttore esecutivo Walter Mirisch – cui si devono anche film come “L’appartamento” di Billy Wilder e “West Side Story” di Robert Wise – non vuole rinunciare a quella macchina per far soldi e mette in cantiere questo terzo capitolo al quale però la star Brynner – che restando cinematograficamente in Messico stava nel frattempo interpretando il rivoluzionario Pancho Villa in “Viva! Viva Villa!” (titolo che richiama sfacciatamente “Viva Zapata” dei primi anni ’50) – dice definitivamente di no. Dopo un momento di sconforto il produttore decide di andare avanti e si guarda intorno per sostituire il primo pelato dello star system hollywoodiano (seguirà a breve Telly Savalas) e chi meglio dell’astro nascente George Kennedy fresco di Oscar come non protagonista in “Nick mano fredda” accanto a Paul Newman diretto da Stuart Rosenberg. Non si preoccupò neanche che il nuovo Chris Adams fosse almeno lontanamente somigliante all’originale e Kennedy sfoggerà la sua fitta chioma bionda spesso anche ben pettinata nonostante le lunghe cavalcate.

George Kennedy
Michael Ansara

Era evidente che con un volto nuovo a capo dei nuovi magnifici sette bisognasse avere un cast forte e anche la sceneggiatura di Herman Hoffman andava in quel senso: abbandonando la ripetitività del mercenario di buon cuore che si mette al servizio delle buone cause – nei primi due film difende dai cattivi dei villaggi di contadini messicani – il plot fa un salto di qualità e dall’impegno sociale passa dritto dritto all’impegno politico irrompendo nella Storia, quella con la S maiuscola: stavolta il cattivo è nientepopodimenoché il tirannico presidente messicano Porfirio Diaz, il cui braccio armato nel film è l’immaginario Colonel Diego – interpretato dal caratterista di lungo corso Michael Ansara, nato in Siria ma emigrato bambino negli States con i genitori; un colonnello che dal suo fortilizio militare opprime il popolo, dove si muove il rivoluzionario Quintero interpretato da Fernando Rey che paradossalmente è l’unico dopo Brynner a tornare nel cast per la seconda volta, benché qui con un ruolo diverso.

Fernando Rey

Imprigionato Quintero, il giovane attivista Maximiliano – interpretato dal mediterraneo (metà corso e metà spagnolo per origini) ma americanissimo Reni Santoni, qui in uno dei suoi ruoli primi ruoli importanti in una carriera in cui sarà sempre ottimo supporto – andrà alla ricerca del mitico Chris Adams da ingaggiare con la considerevolissima, all’epoca, somma di 600 dollari: 100 a testa, predisporrà il capobanda, offrendo la somma ad amici e conoscenti che mette insieme i nuovi magnifici sette insieme a Maximiliano ribattezzato Max perché gli ispanici hanno i nomi troppo lunghi.

Reni Santoni

E anche il reclutamento dei diversi tipi è in questo terzo film più interessante perché proprio diversi sono gli uomini, ancora ognuno con un proprio passato che però stavolta non ci viene più raccontato: sappiamo che c’è e questo basta a dare spessore ai personaggi. Per la prima volta c’è un nero, il debuttante Bernie Casey ex star del football che avrà una buona carriera anche come attore cine-televisivo.

Bernie Casey

E argutamente nella banda dei sette stavolta entra anche un uomo di mezza età interpretato dal caratterista di lusso James Whitmore già insignito del Golden Globe e della candidatura agli Oscar come non protagonista per il bellico “Bastogne” di William Wellman nell’ormai lontano 1949.

James Whitmore

In questo casting attentissimo alla qualità degli interpreti e alla loro immediata riconoscibilità, come braccio destro del protagonista – il ruolo che inizialmente fu dell’irritante Steve McQueen che non fece che litigare con Yul Brynner – viene scritturato un altro emergente di qualità, Monte Markham, che indossando proprio il costume di McQueen in qualche modo ne imiterà l’interpretazione dando un suo spessore interno al personaggio e un divertimento in più a chi ne sa riconoscere le sfumature.

Monte Markham

Altro nome di spicco è e sarà quello di Joe Don Baker che interpreta il pistolero dall’oscuro e tormentato passato, qui al suo vero debutto cinematografico dopo una piccolissima apparizione in “Nick mano fredda” che aveva lanciato George Kennedy: pur se mai in ruoli da protagonista l’attore sarà un punto di forza di molte produzioni – comparirà tre volte nella saga di 007 – e oggi 88enne è uno degli ultimi membri onorari a vita dell’Actors Studio.

Joe Don Baker

L’ultimo dei sette è l’ignoto 19enne Scott Thomas che aveva debuttato l’anno prima con un piccolo ruolo in un film di serie B e che non farà molto altro: non tutte le ciambelle riescono col buco. P.J. è il suo personaggio senza un vero nome ma che accenna una storia d’amore, non necessaria a dire il vero e inserita lì per restare nella tradizione, con la chica Tina atteggiata da Wende Wagner, un’ex modella americana provetta nuotatrice e sportiva che si è riciclata come attrice e l’anno prima era stata nel cast di “Rosemary’s Baby” di Roman Polanski, mentre questa sarà la sua ultima apparizione sullo schermo.

Scott Thomas

In questa storia che incontra la Storia c’è fra le fila dei rivoltosi un ragazzino che risponde al nome di Emiliano Zapata e sappiamo già, per lo meno chi lo sa, che da grande sarà un importante rivoluzionario messicano che nel 1952 era stato raccontato nel film “Viva Zapata!” di Elia Kazan con Marlon Brando; l’interprete ragazzo è Tony Davis, un attore bambino già attivo in tv che diventato adulto perdiamo di vista.

Alla regia il professionista di lungo corso Paul Wendkos che il produttore aveva già sotto contratto per le sue produzioni televisive e il film che confeziona è solido e assai gradevole. Questo secondo sequel è senz’altro migliore del primo e nella ricerca di una diversa complessità non fa rimpiangere la mancanza di Yul Brynner come star trainante e, quello che più conta, si comportò talmente bene al botteghino, soprattutto sul mercato internazionale, che venne messo in cantiere il terzo e ultimo sequel “I magnifici sette cavalcano ancora” che ancora una volta cambierà protagonista. Alla critica però il film non piacque: “È lo stesso vecchio film di cowboy con la mascella di ferro, con nuovi attori e tutta la magnificenza di un asino morto” scrisse il New York Times. Più generoso Variety: “Si eleva al di sopra di una trama di routine grazie a una scrittura solida e in un crescendo dell’azione con un finale di sparatorie scoppiettanti.” Di certo andare a rivederlo, o vederlo per la prima volta magari in sequenza con gli altri film, non è una perdita di tempo.

Gioventù bruciata – e per la prima volta sullo schermo Dennis Hopper

Appena due anni prima, nel 1953, Michelangelo Antonioni aveva composto il suo film a episodi “I vinti” ispirandosi a fatti di cronaca, un film rigorosamente specchio della realtà nell’intenzione dell’autore, ma poco apprezzato da pubblico e critica che solitamente amano essere solleticati con prodotti più accattivanti; là Antonioni parlava di “generazione bruciata” ed era un concetto che girava nell’aria se due anni dopo, appunto, i distributori italiani intitolarono “Gioventù bruciata” il film che nell’originale è “Rebel Without a Cause” il cui titolo rimanda al libro che lo psichiatra Robert Lidner aveva pubblicato nel ’44, “Ribelle senza causa: analisi di uno psicopatico criminale” in cui studiava lo psicopatico come qualcuno “incapace di compiere sforzi per il bene altrui”, non empatico diremmo oggi, riferendosi al caso reale di un ragazzo di nome Harold allora detenuto in Pennsylvania. La Warner Bros. aveva subito acquisito i diritti per svilupparne un film che nel corso degli anni e delle riscritture aveva alla fine una narrazione che più nulla conservava del libro se non il titolo, e il progetto finì momentaneamente in un cassetto. Ma l’argomento “giovani ribelli” era nell’aria e furono messi in cantiere vari progetti fra cui spiccarono in quella prima metà degli anni ’50 “Il selvaggio” con Marlon Brando diretto dall’ungherese László Benedek e “Il seme della violenza” con Glenn Ford diretto da Richard Brooks. Così Nicholas Ray, attento agli umori del botteghino, rispolverò il suo soggetto la cui sceneggiatura conclusiva la firmò Stewart Stern qui alla sua prima prova importante: era amico di James Dean e in qualche modo veicolò la sua scrittura attorno alla figura del giovane attore emergente, chiamando James-Jimmy il suo personaggio. Stern due anni dopo l’improvvisa morte di Dean scrisse il documentario “La storia di James Dean” diretto da un giovane Robert Altman già sceneggiatore per la tv ma non ancora regista cinematografico.

Primo giorno di lettura della sceneggiatura. In senso orario da sinistra in basso: di spalle dietro al paralume Nicholas Ray e Stewart Stern, poi James Dean con gli occhiali (era fortemente miope), accanto lui un uomo non identificato, poi l’attore Jim Backus e Natalie Wood. Saltando un uomo e una donna, con la camicia a quadri Sal Mineo.

Il film di Ray si distingue dagli altri perché per la prima volta esamina il contesto dei giovani ribelli non più come espressione delle classi disagiate ma anche all’interno dell’alta borghesia, un contesto in cui gli adulti erano colpevoli quanto e forse più dei ragazzi. Con la scrittura di Stern si definirono le influenze chiavi del film: Ray auspicava un tono classico e senza tempo per la sua storia, guardando a “Romeo e Giulietta”“la migliore commedia scritta su giovani delinquenti” aveva detto, mentre lo sceneggiatore dal canto suo considerava il film una rilettura di Peter Pan; di fatto entrambi hanno attinto alle proprie vite, e Stern in particolare prese ispirazione dal rapporto conflittuale con i suoi genitori: “Ray aveva terribili rimorsi di coscienza su sé stesso come padre, e io ero terribilmente furioso con me stesso come figlio” ha ricordato lo sceneggiatore. Il resto del cast: Edward Platt è il poliziotto assai comprensivo, Jim Backus, Ann Doran e la veterana Virginia Bissac sono i genitori e la nonna del protagonista; William Hopper e Rochelle Hudson sono i genitori della ragazza; Marietta Candy è la mamie, e Corey Allen è il capo dei “bravacci” che sfida il protagonista nella corsa mortale; nel gruppo debutta Dennis Hopper.

Mentre il film era in scrittura, nel 1947 venne convocato negli studios il 23enne Marlon Brando, già giovane ribelle emergente nelle produzioni teatrali, a cui furono date alcune pagine di una sceneggiatura incompleta per sostenere un provino col regista, al quale bastarono solo cinque minuti per decidere che il ruolo sarebbe andato a lui, facendolo debuttare sul grande schermo; senonché, non essendoci ancora una vera sceneggiatura completa da valutare, il giovanotto che aveva già le idee molto chiare preferì continuare a fare teatro e quell’anno trionfò in “Un tram che si chiama Desiderio” di Tennessee Williams, dramma che avrebbe poi recitato al cinema nel suo secondo film del 1951: aveva debuttato l’anno prima con “Il mio corpo ti appartiene” di Fred Zinneman. Per gli appassionati di Brando quel provino è inserito in un’edizione speciale del DVD del 2006 di “A Streetcar Named Desire”. Quando nel 1950 fu conclusa la sceneggiatura definitiva Marlon Brando era ormai irraggiungibile, oltre a essere fuori parte per ragioni anagrafiche dato che aveva 31 anni e il personaggio ne aveva 16, e produzione e regista appuntarono la loro attenzione sul 24enne James Dean già star con “La valle dell’Eden” di Elia Kazan.

Natalie Wood già attrice bambina

La vera 17enne Natalie Wood (all’anagrafe Natal’ja Nikolaevna Zacharenko, figlia di immigrati ucraini) era all’epoca un’ex attrice bambina che con questo film rilanciò la sua carriera come adulta, benché avesse seriamente rischiato di non ottenere la parte perché secondo il regista aveva l’aria da brava ragazza per niente ribelle e, come ella stessa raccontò nella sua autobiografia, solo quando finì in ospedale per un incidente d’auto dopo una serata con gli amici e Nicholas Ray andò a trovarla – e c’è molto di romanzato a mio avviso in questo racconto: il dottore l’aveva apostrofata “dannata delinquente giovanile” e lei urlò subito al regista: “Hai sentito come mi ha chiamato, Nick?! Mi ha chiamato un dannata delinquente giovanile! Ora me la dai la parte?!”

Il 16enne Sal Mineo, figlio di immigrati siciliani (il padre Salvatore senior era un costruttore di bare) aveva debuttato lo stesso anno in “La rapina del secolo” interpretando Tony Curtis da ragazzo; anche sua sorella Sarina e i fratelli Michael e Victor erano stati avviati al palcoscenico dalla madre che evidentemente covava sogni artistici, e il ragazzino si era fatto notare nelle messa in scena del 1951 di “La rosa tatuata” di Tennessee Williams, dramma che l’autore aveva scritto per la nostra Anna Magnani che però declinò l’offerta perché non riteneva il suoi inglese abbastanza buono da potersi esibire in teatro, e avrebbe recitato il personaggio nel film di quattro anni dopo diretto da Daniel Mann; Sal continuò in teatro come principino nel musical “Il Re ed Io”, libretto di Oscar Hammerstein II e musiche di Richard Rodgers, con Yul Brinner nel ruolo del protagonista che avrebbe ripreso nel film diretto da Walter Lang nel 1956.

Nella prima inquadratura vediamo che Plato, il personaggio di Sal Mineo, portava i calzini scompagnati: nel sinistro senza scarpa ha un calzino rosso…
…nell’inquadratura successiva il piede sinistro col calzino rosso ha la scarpa ed è il destro col calzino blu ad essere scalzo.

Il film, venduto come un torbido dramma generazionale, riscosse grande successo in patria e all’estero, ma in realtà è un gran pasticcio pieno di superficialità e retorica che sfiorano il ridicolo, nonché di madornali errori. Comincia presentando i tre giovani ribelli che si incontrano a un posto di polizia: James Dean, fermato per ubriachezza molesta, rivela un tormentato rapporto con la famiglia ultra borghese, ma poi a casa si attacca un paio di volte alla bottiglia del latte, espediente narrativo per far capire al pubblico che in fondo è un bravo ragazzo; Natalie Wood, fermata perché coinvolta in una rissa dei suoi amici definiti dal doppiaggio italiano “bravacci” con memoria leopardiana, perché i bulli e il bullismo sono di là da venire; anche la ragazza è in piena crisi generazionale: essendo divenuta adolescente non è più la cocca di papà del quale cerca ancora imbarazzanti baci e abbracci, e il pover’uomo fatica a staccarsela di dosso per non sembrare un maniaco; Sal Mineo è stato abbandonato da entrambi i genitori alle cure della mamie negra e poverino fa il ribelle sparando agli animaletti. Psicologia da strapazzo e caratteri sbozzati con l’accetta, e la critica non fu tutta benevola: il film, altrove lodatissimo, fu tacciato di superficialità e rozzezza espressiva, i personaggi e le situazioni quasi da cartone animato, mentre di James Dean si arrivò a dire che aveva copiato lo stile recitativo di Marlon Brando con una malignità che pescava nei retroscena della vita segreta dei due…

Mineo ha un ruolo fortemente ambiguo: il suo personaggio si lega a quello del protagonista, spinto a parole da una forte ammirazione prossima all’idolatria, ma nei fatti sembra spinto da una forte attrazione omoerotica e Nicholas Ray preme il pedale in questo senso e in molte inquadrature, come del resto in tutta la sceneggiatura, il ragazzino è sempre lì a fare da terzo incomodo fra James Dean e Natalie Wood, quasi un ménage à trois.

In un’intervista del 1972, quattro anni prima della sua tragica morte, l’attore – che aveva già dichiarato la sua bisessualità (come compromesso per non dichiararsi pienamente omo) in un’epoca ancora fortemente omofoba – spiega che quel suo personaggio “è stato, in un certo senso, il primo adolescente gay nei film. Lo guardi ora, sai che aveva una cotta per James Dean. Lo guardi ora, e tutti sanno della bisessualità di Jimmy, quindi è come se lui avesse avuto una cotta per Natalie e me. Ergo, io dovevo essere fatto fuori”. Fu tristemente profeta: aveva 37 anni e stava interpretando in teatro il ruolo di un ladro omosessuale in “P.S. Your Cat Is Dead!” spettacolo che da San Francisco si stava spostando a Los Angeles: fu accoltellato al cuore mentre rientrava a casa dalla prova generale; l’immediata supposizione fu quella di un reato omofobo ma venne arrestato un fattorino di pizze a domicilio colpevole di diversi rapine nella zona il quale dichiarò di non sapere chi fosse la vittima; ma Mineo non era stato derubato quindi di suppose ancora che il delitto fosse maturato nell’ambiente della droga di cui l’attore era consumatore abituale; in ogni caso il movente restò insoluto.

Il film fu censurato nel Regno Unito e addirittura bandito in Nuova Zelanda, e Spagna dove poi uscì nel 1964. Ricevette tre nomination agli Oscar del 1956: miglior soggetto a Nicholas Ray e migliori non protagonisti Sal Mineo e Natalie Wood che però si aggiudicò il Golden Globe, mentre quell’anno James Dean ebbe una candidatura postuma – la prima nella storia degli Oscar – nella sezione protagonisti per il precedente dello stesso anno “La valle dell’Eden”. Nomination ai britannici BAFTA per il miglior film e il protagonista. Con tutte le sue imperfezioni il film è stato inserito fra i 100 migliori americani ed è diventato un cult grazie anche alla sua fama di film maledetto per la tragica fine dei suoi tre protagonisti: di Mineo ho detto; e come si sa Dean era morto in un incidente sulla sua Porsche 550 Spyder “Little Bastard” mentre finiva di girare il suo ultimo film “Il gigante” che uscì postumo, e anche quando uscì “Gioventù bruciata” nell’ottobre del ’55, Jimmy era già morto da un mese.

Natalie Wood morì 43enne in un incidente nautico che tutt’oggi rimane misterioso: all’epoca l’autopsia rivelò che l’attrice era morta annegata cadendo dal gommone del suo yacht, e nel suo sangue furono ritrovate importanti tracce di alcol e psicofarmaci; la sera prima aveva litigato col marito Robert Wagner perché lei flirtava col collega Christopher Walken, ospite sull’imbarcazione, col quale lei stava girando il fantascientifico “Brainstorm” diretto da Douglas Trumbull e uscito postumo; diverse circostanze e dettagli fecero pensare che si trattasse di uxoricidio passionale, e le indagini sono state riaperte un paio di volte in anni più recenti però senza mai giungere a ulteriori risultati specifici. Nel 2004 Peter Bogdanovich diresse la miniserie TV “Il mistero di Natalie Wood”.

Appena finite le riprese del film Dean, Mineo e il debuttante Dennis Hopper saranno di nuovo scritturati per “Il gigante”. Hopper, benché in ruoli secondari si fece notare come ribelle e come tale continuò per qualche anno, passando per la factory di Andy Warhol e partecipando a un suo filmetto sperimentale, prima di posare per una delle sue opere photo-pop. Hopper aveva davvero un animo da ribelle, da ribelle secondo la borghesissima morale dell’epoca, e per il breve periodo hippie che percorse gli anni ’60 ne fu esponente, prima di debuttare in regia con “Easy Rider” nel 1969 in cui esprime proprio quella cultura, controcorrente e assolutamente pacifista.

E ora le chiacchiere e i pettegolezzi. Nel 2016 è stato pubblicato il libro, scandalistico sin dallo stile della copertina, “James Dean: Tomorrow Never Come”, scritto da Darwin Porter e Danforth Prince, entrambi abitualmente scrittori di libri e guide per viaggiatori che qui pare abbiano tentato il salto “Hot, Unauthorized, and Unapologetic!” nel mondo delle biografie più o meno bollenti, non autorizzate e men che meno apologetiche. Nel libro parla a ruota libera un vecchio amico di Dean, Stanley Haggart, altro autore di libri di viaggi e vacanze, che ha riferito che Jimmy Dean aveva incontrato per la prima volta il suo idolo Marlon Brando allorché quello era andato a New York perché curioso di sentirlo durante un incontro col pubblico e la stampa. I due si incrociarono per pochi istanti, sufficienti perché Jimmy dichiarasse a Marlon la sua grande ammirazione e anche il suo amore, e gratificato da tanta attenzione Marlon rispose baciandolo sulla bocca: fu l’inizio di una relazione bollente dai risvolti sadomaso col più anziano e macho che si divertiva a manipolare e umiliare il più giovane e fragile, usandolo come oggetto sessuale, e pare anche che gli spegnesse addosso le cicche di sigarette, e più Jimmy gli mostrava di aver perso completamente la testa, più Marlon lo umiliava in un cortocircuito di omofobia all’interno di un rapporto omosessuale. “Avevo l’impressione che Jimmy avesse una relazione da gatto e topo con Brando, Brando era il gatto, ovviamente. Sembrava giocare con Jimmy per divertimento, lo usava sadicamente e Jimmy lo seguiva come un cane, con la lingua fuori” ha rivelato Haggart che ha aggiunto che Brando costringeva Dean a fare da spettatore passivo mentre lui se la spassava con altri, oppure lo lasciava “come un cucciolo di cane” ad aspettare fuori dalla porta che lui si decidesse a farlo entrare. Marlon amava solo sé stesso: “Mi comandava sempre mentre facevamo l’amore” confessava Jimmy agli amici. Nel libro parla anche il compositore Alec Wilder che fu amico di entrambi gli attori: “Erano sicuramente una coppia. Ma si potrebbe dire che la ‘fedeltà sessuale’ non facesse parte del loro vocabolario”. In età matura Brando ha dichiarato: “Come un gran numero di uomini, ho avuto esperienze gay e non me ne vergogno. Non ho mai prestato molta attenzione a ciò che la gente pensa di me”.

Brando mostra il dito medio ai fotografi che lo immortalano accanto a Dean.

La stella di James Dean brillò con tre soli film in un solo anno e la sua morte tragica e improvvisa contribuì a creare il suo mito fra i giovani, e anche fra i meno giovani, che all’epoca non volevano sentir parlare di omosessualità. Jonathan Gilmore, ex attore bambino diventato giornalista scandalistico, fu il primo a parlare pubblicamente dell’omosessualità di Jimmy nel suo libro “The Real James Dean” ma nessuno gli credette e anzi fu etichettato come uno sporco profanatore di tombe. La giovane sfortunata star ebbe un solo amore femminile: l’italiana Anna Maria Pierangeli, adottata a Hollywood come Pier Angeli, la quale aveva avuto un affaire sentimentale col collega Kirk Douglas incontrato sul set dell’episodio “Equilibrio” nel film a episodi “Storia di tre amori”.

I due, disadattati ognuno a suo modo, si incontrarono nell’estate del 1954 mentre lei stava girando “Il calice d’argento” nel set della Warner accanto a quello dove lui girava “La valle dell’Eden”. Elia Kazan, regista di lui, dichiarò in un’autobiografia di averli sentiti fare l’amore nel camerino di lui. Lei, emigrata a Hollywood, non si era ancora del tutto integrata; lui era di suo fragile e disadattato, in cerca di un amore assoluto che sapesse accoglierlo con tutte le sue imperfezioni: “Sono un essere malvagio, altrimenti mia madre non sarebbe morta (era morta di cancro all’utero quando lui aveva 9 anni e il padre lo aveva mandato a vivere presso parenti) e mio padre non m’avrebbe abbandonato” aveva confessato a un sacerdote che poi, tanto per cambiare, si era approfittato sessualmente di lui. Jimmy e Pier si intesero subito, e subito lui avrebbe voluto sposarla. Ma la madre di lei, cattolicissima, si oppose perché lui era di famiglia quacchera, oltre a tutte le altre chiacchiere di corridoio; la rigidissima signora, che metteva bocca su tutto nella vita della figlia, avrebbe voluto invece accasarla col macho Marlon Brando, ignorando le intime digressioni del divo. Come fu, come non fu, alcuni mesi dopo lei sposò il cantant’attore italo-americano Vic Damone, e la rottura improvvisa che seguì all’improvviso matrimonio, contribuirono ad acuire il senso di auto distruzione dell’attore, che finì come finì: fra i documenti personali trovati nel cruscotto dell’auto c’era un foglio con la formula matrimoniale e sopra, scritto a penna, il nome di Anna Maria Pierangeli. Alla morte di lui, lei cadde in una profonda depressione tanto che fu ricoverata in una clinica in Italia e per lei seguì una vita sentimentale fatta di fallimenti, così come la carriera andò via via in discesa. Morì suicida a 39 anni per overdose da psicofarmaci, quindici anni dopo la morte di lui. Subito dopo la sua morte venne ritrovata una sua lettera destinata a James Dean che si concludeva: “A te, mio unico, grande amore”.

Oggi diventa illuminante ciò che Jimmy aveva detto di sé: “Essere un attore è la cosa più solitaria del mondo. Sei completamente da solo con la tua concentrazione e con la tua immaginazione, e quello è tutto ciò che hai… Credo ci sia una sola forma di grandezza per l’uomo. Se un uomo può colmare il vuoto tra la vita e la morte. Voglio dire, se riesce a vivere anche dopo che è morto, allora forse quello era un grand’uomo. Per me l’unico successo, l’unica grandezza, è l’immortalità”. 

La Porsche 550 Spyder sulla quale Dean perse la vita fu prodotta fra il 1953 e il 1957, e fu proprio lui a soprannominarla affettuosamente “Little Bastard” per le sue performance. Inizialmente fu impiegata dalla Porsche nelle corse professionali come Le Mans e poi con alcune modifiche fu proposta agli acquirenti privati, quei ragazzacci come James Dean o Steve McQueen in cerca del brivido delle corse più o meno legali su strada. La Warner Bros. aveva espressamente vietato all’attore sotto contratto, che amava anche scorrazzare in moto, di fare corse: aveva appena finito di girare “Gioventù bruciata” era già impegnato sul set di “Il gigante” – ma Dean disattese il divieto. George Barris, il suo meccanico, si incaricò di recuperare la vettura gravemente danneggiata e mentre veniva caricata su un rimorchio un sostegno si spezzò e finì per fratturare l’anca e una gamba a un meccanico: comincia lì la sinistra ma affascinante fama di auto maledetta intorno alla quale sorsero chiacchiere e leggende, ma alcuni fatti sono reali, riportati dalla stampa con tanto di nomi e cognomi. Barris aveva tenuto in garage telaio e carrozzeria rivendendo alcuni pezzi. Il motore venne acquistato da un altro di quei piloti dilettanti in cerca di fama ed emozioni, e ne ebbe a sufficienza quando durante una gara perse il controllo dell’auto e finì per travolgere e uccidere un commissario tecnico e ferire un medico. Un altro pilota dilettante montò un semiasse della Little Bastard e finì coinvolto in un gravissimo incidente; un altro ancora, che acquistò gli pneumatici rischiò di perdere la vita. Pare che addirittura un ragazzino avesse tentato di rubare un pezzo dell’auto dal garage di Barris ma col telaio si tagliò un braccio in modo così da grave da dover essere amputato, storia non documentata dai giornali quest’ultima, ma le vere storie raccapriccianti continuarono: la “bastardina” fu utilizzata per una campagna itinerante di sensibilizzazione contro la velocità: pagando un biglietto si poteva salire sull’auto accartocciata, dove un cartello con la scritta “questo incidente poteva essere evitato” fungeva da ulteriore scoraggiamento; ma giunta a Sacramento, il telaio dell’auto cedette e fracassò l’anca di un visitatore. Poi, durante la trasferta verso la tappa successiva, il camion che la trasportava venne tamponato, i portelloni si aprirono e la Porsche scivolò fuori uccidendo un uomo a bordo di un’altra auto. Ma non finisce qui: giunta a New Orleans, in seguito alla rottura della pedana di sostegno l’auto si spaccò in undici pezzi: ce n’era abbastanza e terrorizzati gli addetti ai lavori decisero di rispedire i rottami a Los Angeles tramite un mezzo più sicuro: il treno. E la macabra storia si conclude con un mistero: l’auto scomparve nel nulla durante il viaggio e non fu mai più ritrovata. Vennero anche ingaggiati degli investigatori privati e addirittura fu messa una taglia di un milione di dollari che molti cercarono di incassare con delle imitazioni, ma ancora oggi dove sia finita la Little Bastard rimane un mistero. Un mito macabro all’interno di un mito romantico.

Hair – omaggio a Treat Williams, con la storia del musical e uno sguardo al Greenwich Village degli anni ’60

Il 12 giugno 2023 Treat Williams è stato investito da un’auto mentre cavalcava la sua moto e in condizioni disperate è stato trasportato in ospedale dove è morto poco dopo, all’età di 71 anni. Un testimone dell’incidente ha dichiarato, precisando che l’attore indossava il casco: “Era totalmente vigile, rispondeva alle domande dei paramedici. l’ho visto volare in aria.”

Richard Treat Williams ha usato per la sua carriera artistica il secondo inusuale nome che letteralmente significa trattare, con tutti i suoi sinonimi, maneggiare, aver cura, nome che gli viene dal lontano avo Robert Treat Paine che fu uno dei firmatari della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Cominciò da adolescente a calcare il palcoscenico nelle recite scolastiche ma anche la squadra di football se lo contendeva: “Amavo molto il football – ebbe modo di raccontare – ma non pensavo che si potesse essere un jock (termine intraducibile che definisce l’archetipo di studente più interessato allo sport che allo studio, sintesi di jockstrap, il sospensorio che usano gli sportivi) e al contempo far parte della compagnia teatrale… Ho iniziato a prendere sul serio l’idea di imparare il più possibile sul mestiere di recitare nel mio primo anno.” E si impegnò talmente che a un certo punto si ritrovò contemporaneamente in tre spettacoli universitari: una commedia, uno Shakespeare e un musical. E sarà il musical a dargli la fama.

Cominciò come sostituto in panchina dei tanti protagonisti di “Grease” in scena a Broadway, e fra i vari sostituti che attesero il loro momento ci fu anche Patrick Swayze; finché Treat ebbe il ruolo da protagonista nelle tournée in provincia. Nel 1974, 23enne, era stato protagonista insieme al 20enne John Travolta del musical “Over Here!” e ciò gli era valsa l’attenzione per tornare da protagonista ufficiale nel cast di “Grease” dove Travolta era uno degli amici prima di essere protagonista del film nel 1978. E tanto per restare nel gioco del chi c’era anche Richard Gere fu nelle varie versioni del cast. Treat ha debuttato al cinema nel 1975 prima di assurgere a fama mondiale con quest’altro musical nel 1979.

Jerome Ragni e James Rado

Il film fu sviluppato dal musical teatrale che aveva debuttato nel 1967 e il cui titolo completo era “Hair: The American Tribal Love-Rock Musical” storia e canzoni di Gerome Ragni e James Rado musicate da Galt MacDermot. Ragni e Rado avevano cominciato a scrivere il loro musical tre anni prima, dopo essersi conosciuti in palcoscenico in un altro musical off-Broadway, veicolando nei testi la loro visione politica del momento fatta di controcultura hippy, antimilitarismo e rivoluzione sessuale, e va da sé che i due personaggi principali, che avevano scritto per sé, erano autobiografici: il Claude di Rado era un pensoso romantico mentre il Berger di Ragni era un estroverso. I due scrivono un genere di musical che non si era mai visto sui palcoscenici dove fino a quel momento lo spettacolo più rivoluzionario era stato “West Side Story” con le sue romantiche gang e amori inter-etnici.

“Hair” che da noi sarebbe tradotto in capelloni, porta sul palcoscenico i personaggi e gli umori che vengono dalla strada, di quell’East Village dove vivevano quelli che oggi definiremmo alternativi, che era confinante col Greenwich Village dove avevano casa intellettuali e artisti di sinistra. Una curiosità per inquadrare gli umori di quell’epoca e in quegli ambienti: nel 1968 un certo Louis Abolafia, performer artist, presentò la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, contro Richard Nixon, con il suo Partito Nudista e lo slogan “Che cosa ho da nascondere?”, slogan profetico col senno di poi sapendo che fine ha fatto Nixon.

Un gruppo di hippies che suona e canta a Washington Square Park, il luogo e il tempo in cui Bob Dylan, Allen Ginsberg, Andy Warhol, The Velvet Underground e altri protestavano contro la guerra in Vietnam.
Ma al Greenwich Village c’erano anche Paul Newman e sua moglie Joanne Woodward che tranquillamente facevano colazione leggendo i quotidiani.
Bob Dylan al Bitter End, cantautore che sarà una delle punte di diamante delle prossime proteste sessantottine

Insomma da quelle parti, fra hippies e intellettuali e artisti e star-system, viveva varia umanità. C’erano quelli che bruciavano le cartoline precetto e c’erano quelle che non sapevano di chi fossero incinte, e proprio da quelle strade vennero anche alcuni elementi del primo cast originale del musical: le tematiche e il linguaggio esplorati sono, fino a quel momento, inauditi: parolacce e volgarità varie, canzoni che inneggiano all’uso di droghe e alla libertà sessuale, e poi l’irriverenza per sua maestà la bandiera americana, e infine la scena di nudo collettivo che chiude lo spettacolo. Anche musicalmente è una novità: i due autori erano stati messi in contatto col canadese Galt MacDermot che qualche anno prima aveva vinto un Grammy Award e che fino a quel momento non aveva mai sentito parlare di hippies ma sposò il progetto con molto entusiasmo e partendo dall’idea rock dei due autori sviluppò un suo proprio sound con influenze afro e funk. A lavoro completato presentarono il progetto a molti produttori di Broadway ricevendo solo rifiuti, finché alla fine non trovarono l’attenzione di Joe Papp, un produttore che sembrava il meno adatto essendo il gestore del New York Shakespeare Festival e che fino a quel momento non aveva mai prodotto spettacoli di autori viventi; ma Papp stava costruendo il nuovo Public Theatre nell’East Village, proprio il quartiere hippie in cui Ragni e Rado avevano trovato le loro ispirazioni, e dove Papp aveva l’intenzione di produrre e sostenere proprio artisti emergenti, decidendo che quel musical di capelloni fumati avrebbe inaugurato la nuova struttura. Il debutto fu caotico per l’assoluta novità di quel musical di rottura, per il cast inusuale e confuso e lo staff tecnico del teatro che non comprendeva l’operazione: la critica fu tiepida ma non negativa e al pubblico era piaciuto; così venne sviluppata la versione che nel 1968 vide l’aggiunta di 13 canzoni e i testi più ammorbiditi con un finale più edificante da portare a Broadway, finalmente. E successo fu.

Già nel 1973 era stato offerto al 30enne George Lucas non ancora famoso l’adattamento del musical, che lui rifiutò perché impegnato a girare il suo primo grande successo “American Graffiti” che altrettanto raccontava la gioventù dei recenti anni ’60 ma da un punto di vista borghese e nostalgico da commedia per tutte le famiglie. A quel punto si interessò il cecoslovacco naturalizzato statunitense Miloš Forman, forte del grande successo del 1975 “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, film che vinse cinque Oscar, sei Golden Globe, sette BAFTA e altro ancora; per Forman era un proseguo del suo lavoro nel cinema di denuncia iniziato col suo primo film americano “Taking Off”. Ma il progetto che prese in mano in quella seconda metà degli anni ’70 era già datato perché l’esplosione del fenomeno dei figli dei fiori si era già esaurito e si andava verso un altro tipo di proteste, meno floreali e psichedeliche ma più concrete, come le lotte contro il razzismo, che pur coetanee di quei primi anni ’60 esplosero con l’assassinio del reverendo Martin Luther King nel 1968.

Forman si affidò per la sceneggiatura al drammaturgo Michael Weller e insieme spostarono l’azione nel loro tempo presente e il film fu girato nell’autunno del 1977 stravolgendo completamente la trama del musical: alcuni personaggi furono eliminati e altri nuovi furono introdotti, di conseguenza furono eliminate anche alcune canzoni mentre altre furono assegnate ad altri personaggi; il protagonista Claude fu totalmente reinventato così come il finale in cui nell’originale era lui a morire. Va da sé che Ragni e Rado non ne furono affatto contenti e dichiararono drasticamente, forse non a torto, che la versione cinematografica del loro musical non era ancora stata realizzata; ma il film ebbe un enorme successo di pubblico e la critica elogiò le invenzioni di Weller che resero la trama molto più avvincente. Fu candidato ai Golden Globe come Miglior Film con Treat Williams candidato come Nuova Star dell’Anno che però quell’anno andò al più rassicurante bambino piagnucoloso Ricky Schroeder per “Il Campione” di Franco Zeffirelli.

Il cast comprendeva John Savage nel ruolo dell’altro protagonista: biondo come l’originale James Rado tanto quanto Treat Williams sembrò la copia perfetta, in bello, di Gerome Ragni, e ricordiamoci che Savage era reduce dall’aver partecipato a un altro grande successo: “Il Cacciatore” di Michael Cimino. Anche Beverly D’Angelo nel ruolo della giovane borghese è al suo primo ruolo importante. Negli altri ruoli di rilievo Annie Golden, Don Dacus, Dorsey Wright e Cheryl Barnes. Ai provini si presentò anche una certa Madonna Louise Veronica Ciccone, da poco sbarcata a New York per fare fortuna come ballerina ma venne scartata probabilmente perché ancora acerba. Si presentò anche Bruce Springsteen che venne scartato probabilmente perché troppo preparato: era già una star del rock con diversi dischi e concerti all’attivo. Come altra curiosità c’è da riportare che il film, praticamente tutto in esterni, fu girato nel freddo ottobre del 1977 e per evitare che agli interpreti uscisse il vapore di bocca quando mimavano il canto, fu messo loro del ghiaccio in bocca, altrettanto quando dovevano solo recitare si rinfrescavano prima la bocca.

Da quello che leggo oggi sui social con la sua folgorante interpretazione in “Hair” Treat Williams fece innamorare molte donne, e perché no anche molti uomini, con quella sua aria da ribelle dal gran cuore, e oggi moltissimi lo compiangono. Ma la sua folgorante carriera fu con quel film all’apice per poi assestarsi in una lunga fruttuosa sequenza di titoli dove fu comprimario senza più avere l’opportunità di brillare in un ruolo di prima grandezza, ma sempre apprezzato dalla critica. Fu tra i protagonisti di “C’era una volta in America” del nostro Sergio Leone ed ebbe pure l’opportunità di fare una marchetta in Italia partecipando a “La stangata napoletana” di Vittorio Caprioli. Nel 2007 lavorò anche con Pupi Avati in “Il nascondiglio”, uno di quegli horror americani che ogni tanto il nostro autore si concede. Ebbe una seconda ma altrettanto infruttuosa nomination al Golden Globe per la sua intensissima interpretazione da protagonista in “Il principe della città” di Sidney Lumet del 1981, e una terza nomination la ebbe per l’adattamento televisivo, mai visto in Italia, di “Un tram che si chiama desiderio” dal dramma di Tennessee Williams già film nel 1951 per la regia di Elia Kazan che aveva lanciato Marlon Brando.

Negli anni Novanta era nei suoi 40 e rinverdì la carriera che stava stagnando tornando al teatro con interpretazioni applauditissime, e critiche sempre eccellenti per le sue partecipazioni in film mai di prima grandezza benché diretti da grandi registi e al fianco di altre grandi star. Nei primi anni 2000 un grande successo di pubblico gli venne dalla serie tv “Everwood” e poi ebbe ruoli ricorrenti in altre importanti serie oltre a vari film televisivi. In un’intervista del 1995 confessò la sua dipendenza da cocaina negli anni ’80 quando era etichettato come “il prossimo” Al Pacino o Robert De Niro e non reggeva la pressione del confronto; la sua carriera cinematografica “è stata interrotta – disse – dalla mia mancanza di concentrazione e dall’uso di cocaina. Voglio dire, volevo festeggiare più di quanto volessi concentrarmi sul mio lavoro… Non ti rendi conto, purtroppo, finché non è troppo tardi, di quanto siano fugaci la fama e il potere a Hollywood…” Il suo ultimo lavoro ancora inedito è la partecipazione alla seconda stagione del televisivo “Feud” che racconta la rivalità di Bette Davis e Joan Crawford durante la lavorazione di “Che fine ha fatto Baby Jane?” interpretate da Susan Sarandon e Jessica Lange. Treat Williams interpreta uno dei capi del network televisivo CBS. La sua ultima partecipazione al cinema è nel crime “American Outlaws” del 2023 inedito da noi. Lascia la moglie Pam Van Sant ex attrice e i loro due figli Gill Treat Williams, avviato a seguire le orme paterne, e Ellinor (Ellie) Williams, influencer. E lascia anche tanti che l’hanno sempre ammirato e amato.

La passeggiata – opera prima di Renato Rascel

Opera prima e anche unica dato che fu un clamoroso insuccesso per l’artista che volle fare il passo più lungo della gamba, ma andiamo con ordine.

Su YouTube il film completo… anzi no, incompleto: manca il vero finale

Renato Rascel nato Renato Ranucci nel 1912, dunque quest’anno sono 110 anni dalla nascita, fu un figlio d’arte che casualmente nacque a Torino dove i genitori romani erano in tournée: il padre cantante d’operetta e la madre ballerina. Il bambino crebbe a Roma affidato a una zia dati i continui spostamenti dei genitori, e poiché il frutto non cade mai lontano dall’albero, Renatino già a dieci anni canta nel coro delle voci bianche della Cappella Sistina, poiché crescendo nel rione Borgo a ridosso del Vaticano frequentava la Scuola Pontificia Pio IX; e sempre in quegli anni preadolescenziali si esibisce addirittura alla batteria di un complessino jazz di dilettanti, e a seguire debutta come attore bambino sotto la direzione del padre che nel frattempo era divenuto direttore di una compagnia filodrammatica. Ma papà Ranucci, che sulle sue spalle aveva la consapevolezza di quanto potesse essere dura una carriera artistica, interruppe lì l’esperimento attoriale del ragazzino e tentò di avviarlo verso mestieri più tradizionali, ancorché umili: garzone di barbiere, muratore e anche apprendista calderaio; ma il danno era già fatto, il ragazzo aveva già assaggiato il velenoso brivido dell’esibirsi in pubblico, ed essendo anche talentuoso, ancora tredicenne venne scritturato come musicista presso un locale capitolino, e due anni dopo entra a far parte di un complesso musicale e lì un impresario teatrale, notando la sua simpatica esuberanza, lo spinge ad esibirsi in improvvisazione estemporanee durante le pause del complesso, numeri di arte varia e balletti inventati lì per lì che divertono molto la platea con la sua freschezza naïf. Nasce così l’arte varia di Renato Rascel: attore, comico, ballerino, musicista, cantante, cantautore e più avanti conduttore televisivo e anche giornalista. La sua comicità sarà di un segno nuovo rispetto al classico panorama dell’epoca, dove la risata era strappata grazie a doppi sensi sessuali più o meno espliciti, e comunque sempre di grana grossa; lui, che ancora bambino aveva imparato a improvvisare, crea un personaggio originale, una nuova maschera: un omino dall’aria candida che esprime una comicità più ingenua – ma anche finta ingenua all’occorrenza – attraverso monologhi surreali ricchi di ardite sperimentazioni linguistiche che lasciano molto indietro la comicità fin lì fatta di più grevi qui pro quo; le sue esibizioni verbali sono invenzioni estemporanee con repentini cambi di prospettiva che spiazzano il pubblico, che sulle prime non lo comprende, e anche fisicamente si impegna con pantomime grottesche al limite dell’acrobatico, possedendo nella piccola statura doti atletiche non comuni.

Scatola vintage madreperlata di cipria Diadermina della Rachel

Ventenne, all’inizio degli anni Trenta e già con un lungo tirocinio in compagnie di varietà di second’ordine, il giovanotto decide di scegliersi un nome d’arte, e come si usava all’epoca ispirandosi al favoloso e favoleggiato varietà d’oltralpe con quei nomi scivolosi ed eleganti: sceglie il nome di una cipria francese che usava in camerino, la Rachel con pronuncia rascèl, ma poiché quel nome, stampato sui manifesti veniva erroneamente letto così com’era scritto, all’italiana, Rachel con accento sulla A e dunque pronunciato ràkel, Renato pensò bene di italianizzare il segno CH in SC, quantunque il nome finì con l’essere pronunciato sempre Ràscel. Italianizzazione che però non bastò a quei dettami fascisti emanati da Achille Starace secondo i quali tutti i nomi tronchi dovevano finire con una vocale per essere italianizzati, e gli fu intimato di cambiare il nome in Rascèle, ma il giovanotto pare che non si fece passare la mosca sotto al naso e replicò: “Cambiate prima Manin in Manino e poi ne riparliamo!” e da lì in poi i suoi rapporti col regime non furono dei più cordiali.

È del 1939, dunque a ridosso della Seconda Guerra Mondiale, l’invenzione di “È arrivata la bufera” in cui, all’interno di quei versi surreali, il ritornello “È arrivata la bufera / è arrivato il temporale / chi sta bene e chi sta male / e chi sta come gli par” fa presagire l’arrivo di ben altra bufera, e in quattro versi tutta l’espressione dei vari comportamenti sociali e politici. E i burocrati fascisti, che come tutti gli estremisti d’ogni fede mancano di fantasia e ironia, lo braccano ripetutamente perché si ostinano a voler leggere nei testi bizzarri delle sue canzoncine chissà quali significati nascosti ed eversivi; stiamo parlando di titoli come “Torna a casa che mamma ha buttato la pasta” e “La canzone della zanzara tubercolotica“. Ma Renato Rascel si prenderà la sua rivincita nel film a episodi “Gran varietà” del 1953 diretto da Domenico Paolella, in cui fa la parodia di uno di quei burocrati nell’episodio “Il censore” in cui interpreta se stesso e in doppio ruolo il censore fascista, di certo partecipando alla sceneggiatura anche se non accreditato.

Aveva debuttato come attore cinematografico nel 1942 in “Pazzo d’amore”, un film che Vittorio Metz, anche regista, scrisse per lui dopo averlo visto al varietà, ma con scarsi risultati, dato che il film è piuttosto goffo e non mette a fuoco la comicità di Rascel, che inspiegabilmente è anche doppiato, forse perché al momento del doppiaggio l’attore era impegnato in tournée, cosa che all’epoca e in quegli ambienti accadeva sovente. Con la successiva caduta del fascismo e l’occupazione nazista di Roma, Rascel e la sua novella sposa, la showgirl Tina De Mola, sono costretti a darsi alla macchia perché invisi al regime e riparano, ovviamente dati i trascorsi del ragazzo Renato Ranucci, in Vaticano. Con gli anni ’50 continua la sua attività sia teatrale che cinematografica con una punta di diamante nel 1952: “Il cappotto” diretto da Alberto Lattuada e tratto dal racconto omonimo di Gogol è la sua prima interpretazione drammatica che gli frutterà il Nastro d’Argento ma anche la delusione per avere sfiorato il premio come migliore attore a Cannes, che quell’anno andò a Marlon Brando per “Viva Zapata!” di Elia Kazan, e scusate se è poco.

A quel punto, e siamo nel 1953, Rascel si mette in testa di voler continuare su quella strada per accreditarsi come un vero attore, uno di quelli seri e drammatici da premi prestigiosi, e per dare continuità al suo nuovo percorso appena iniziato si focalizza su un altro racconto di Gogol, “La prospettiva Nevskij”, con l’intento di assumerne anche la regia, ahilui, perché la strada si fa tutta in salita dato che per i produttori lui rimane un attore comico, da varietà, casualmente passato al drammatico e, soprattutto, ben diretto da un vero regista: che ora anche lui aspirasse alla regia non era credibile, anche perché Rascel non era scrittore né men che meno sceneggiatore e per scrivere il film aveva messo insieme una corposa squadra di tutto rispetto coinvolgendo i professionisti che avevano partecipato al progetto di “Il cappotto”: il neoregista Franco Rossi che aveva debuttato l’anno prima col poliziesco “I falsari” scritto da Ugo Guerra, e da cui Rascel si farà affiancare nella sua regia per la parte tecnica: era consapevole dell’inesperienza; lo stesso Ugo Guerra, anch’egli a inizio carriera e che si affermerà come sceneggiatore e produttore; e gli scrittori e drammaturghi Diego Fabbri, Turi Vasile e Giorgio Prosperi; ma fu col coinvolgimento del veterano Cesare Zavattini che riuscì a chiudere il pacchetto vincente e si assicurò la produzione della cattolica – guarda un po’ – Film Costellazione che con lungimiranza aveva già in produzione un altro regista debuttante, Antonio Pietrangeli con “Il sole negli occhi”, e la lavorazione del film prese il via, con la vicenda di nuovo trasferita da San Pietroburgo a Roma e con tante di quelle libertà narrative da far dire alla critica dell’epoca che il film non aveva più nulla a che vedere col racconto di Gogol che, per chi lo volesse leggere, lo trova a questo link.

Il racconto russo si apre con una lunga descrizione della più importante via di Pietroburgo, la Prospettiva Nevskij appunto, brulicante di varia umanità nella quale l’autore sceglie i suoi protagonisti. Rispettando l’ispirazione il film italiano viene intitolato “La passeggiata”, ma impropriamente perché nel film non c’è nessuna introduzione descrittiva di qualsivoglia centrale via romana altrettanto brulicante di varia umanità, e l’unica passeggiata che vi si racconta è quella che avviene alla fine del film, in calesse, sull’Appia Antica. E da lì in poi il racconto sviluppato da Rascel e dalla sua squadra di sceneggiatori vive di vita propria, con il clamoroso errore di aver voluto inserire in una vicenda drammatica dei momenti di comicità surreale, fatti di pantomime, il cui accostamento immediato e dichiarato è quello con Charlie Chaplin, senza però averne la grandezza narrativa e senza padroneggiare il linguaggio cinematografico: se con Charlot i momenti surreali si integravano nel dramma, qui rimangono siparietti a sé stanti. A questo si aggiunge il problema della censura, assai pressante all’epoca: passando dal fascismo al catto-centrismo della Democrazia Cristiana non era cambiato praticamente nulla nell’imposizione di direttive morali, e gli sceneggiatori si autocensurano già in sede di scrittura scegliendo di non raccontare la tossicodipendenza del protagonista, e di fare della prostituta e delle sue volgarità una elegantissima e forbita dama, un po’ principessa delle favole e un po’ fata madrina, alla quale vengono pure immillati afflati di maternità insoddisfatta e dolente; ma per la censura il punto più scabroso sul quale intervenne con uno specifico divieto fu il suicidio del protagonista alla fine della storia, quando il poverino non riesce a realizzare il suo sogno d’amore e si suicida: giammai un suicidio poteva essere raccontato al cinema, ché se durante il Ventennio di vent’anni prima era da pusillanimi senza nerbo, in quell’oggi era perverso e anti cristiano.

La prostituta del film, assai sui generis e molto gran dama, è interpretata da una bravissima Valentina Cortese, già diva del cinema e del teatro, che recita con grande naturalezza, assai moderna, un personaggio assai improbabile nella scrittura. Paolo Stoppa, altro divo cine-teatrale dell’epoca sempre caratterista al cinema, rifà uno dei suoi tanti riusciti cliché come preside del collegio dove il protagonista insegna. Altri volti riconoscibile da chi ha superato gli anta sono Francesco Mulè come altro insegnante e l’elegante Tino Bianchi, volto assai noto degli sceneggiati Rai, qui come politico affascinato dalla folgorante bellezza della prostituta in libera uscita come donna dei sogni d’ognuno.

All’inizio del film programmato dalla meritevole Cine34 – che facendo passare film d’ogni genere sia vintage che vecchi e stravecchi ha il merito di proporre vere rarità – c’è un cartello che spiega: “La copia del film che state per vedere è il risultato di un lavoro di ‘collazione’ basato sulle due copie d’archivio 35mm conservate dalla Cineteca Nazionale, di cui una a colori e con sottotitoli in inglese, e l’altra in bianco e nero. La prima copia di un ‘autarchico ed inconfondibile Ferraniacolor’ – corrisponde ad una versione breve del film – forse accorciata per la distribuzione estera oppure ‘mutilata’ per ragioni di censura a noi sconosciute. Il taglio dei 20 minuti del finale sono stati quindi ricollocati proprio nel punto dove il protagonista viene cacciato dal collegio, scena che concludeva il film… Nel proseguimento in bianco e nero – Paolo interpretato da Renato Rascel – prosegue la sua vicenda d’amore con la prostituta Lisa interpretata da Valentina Cortese… Il lavoro di ricostruzione è stato realizzato dalla Cineteca Nazionale.” La versione disponibile su YouTube è quella breve, mutila, mentre per la versione completa bisogna stare al passo con la programmazione tv di Cine34 che ripropone ciclicamente tutti i film che ha in repertorio, e anche se un film imperfetto e velleitario vale la pena vederlo come documento d’epoca, e opera unica di un personaggio altrettanto unico come Renato Rascel.

Che, va detto, acquisì anche fama internazionale con la sua canzone “Arrivederci Roma” che spopolerà in America, tanto da spingere un produttore di Hollywood a metterlo in coppia col tenore italo-americano Mario Lanza e nel 1957 viene confezionato il film “The Seven Hills of Rome”, con Marisa Allasio nel cast e Roy Rowland alla regia, che da noi verrà distribuito col titolo della canzone di Rascel che Lanza canta nel film, e a seguire sarà un successo che canteranno anche Dean Martin, Johnny Mathis, Perry Como, Nat King Cole… In quello stesso anno Rascel viene contattato dal cantant’attore francese Tino Rossi che gli chiede l’autorizzazione a incidere in francese quella canzone, e poiché da cosa nasce cosa con stima reciproca, Renato Rascel finì con lo scrivere tutta la partitura musicale dell’operetta “Naples au baiser de feu” da un racconto di Auguste Bailly che già era diventato un film americano come “La fiamma e la carne” di Richard Brooks con Lana Turner; e quando l’operetta andò in scena a Parigi, il piccolo grande Renato Rascel salì sul podio nell’inusuale ruolo di direttore d’orchestra.

E nel 1960 vince a Sanremo con “Romantica” cantata in doppio con Tony Dallara, la cui versione da cantante urlatore avrà più successo di quella sussurrata e romantica dell’autore Rascel, che se ci rimane male come cantante è però contento di incassare i diritti d’autore; per quella canzone viene però accusato di plagio da tale Nicola Festa, veterinario e musicista, autore di “Angiulella” dalla quale a suo dire Rascel avrebbe copiato: a dirimere la disputa musical-legale venne addirittura interpellato Igor Stravinski che emise sentenza a favore del nostro. Il suo ultimo impegno come attore sarà nel 1977 con un piccolo ma significativo ruolo nella miniserie tv “Gesù di Nazareth” di Franco Zeffirelli. Tutto il resto saranno partecipazioni nei varietà televisivi dove sempre più anziano riproporrà i suoi successi di sempre. Muore 79enne in conseguenza a un’arteriosclerosi.