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La figlia oscura – opera prima di Maggie Gyllenhaal

Sono di quelli che pensano che se il mondo fosse governato dalle donne sarebbe un posto migliore… beh sto entrando nell’argomento per la via più lunga: Maggie Gyllenhaal, sorella di poco maggiore di Jake Gyllenhaal, debutta alla regia con un lungometraggio di gran classe, in linea con tutta la sua carriera, al contrario del fratello che si è ritagliato un profilo di star per tutte le stagioni, bravo e prestante giovanotto socialmente e politicamente impegnato, come la sorella, ma che artisticamente non ha ancora dato il suo colpo di coda.

Maggie e Jake sono gli ultimi rampolli di un’antica importante famiglia di origini svedesi. Il padre Stephen Gyllenhaal è un regista cinematografico non di prima grandezza che ha diretto entrambi i figli all’inizio delle loro carriere. Poi mentre Jake assurge alla fama nel 2001 come protagonista del cult fantasy “Donnie Darko” in cui Maggie recita in un ruolo minore, lei sarà protagonista l’anno dopo di un altro cult “Secretary”, per il quale riceverà candidature ai premi maggiori vincendo nelle sezioni dei premi minori, e da lì in poi, pur diversificando come il fratello, si ritaglia il ruolo di attrice più in linea col cinema di qualità che coi blockbusters, nulla togliendo alla qualità di questi. Poi nel 2015 vince il Golden Globe per la miniserie britannica “The Honourable Woman” e ancora, pur essendo ormai una punta di diamante nella cinematografia internazionale, continua a mancarle l’attenzione di quella grande fetta di pubblico che incorona le star. Fra il 2017 e il 2019 cop-roduce e co-interpreta con James Franco l’acclamata serie tv “The Deuce” sul mondo del porno negli anni ’70, riconfermandosi una cineasta di classe volta alla ricerca di produzioni non banali, e anche rischiose. Nel 2018 Maggie produce e interpreta “Lontano da qui”, remake di un film franco-israeliano incentrato sulla figura di una donna banale che cerca una via di fuga e di compensazione nella poesia. Il 2021 è l’anno di questo suo debutto di cui, oltre a essere regista, è anche produttrice e sceneggiatrice, e proprio con la sceneggiatura ha vinta il Premio Osella alla Mostra del Cinema di Venezia.

Il film è un adattamento del romanzo omonimo del 2006 dell’italiana Elena Ferrante, nom de plume di una scrittrice, certamente partenopea, che nonostante le indagini e le speculazioni, rimane anonima. Detto ciò il nome è stato inserito dal settimanale statunitense Time fra le cento persone più influenti al mondo, a dimostrazione del fatto che i suoi libri hanno larga diffusione oltreoceano. Il suo primo romanzo “L’amore molesto” già presenta le tematiche dell’autrice: l’indagine psicologica della mente femminile, senza compiacimenti e scudi morali o sociali, e il collasso psicologico delle protagoniste. Quel romanzo è diventato subito uno spiazzante film di Mario Martone, e anche il secondo romanzo “I giorni dell’abbandono” diventa un meno riuscito film diretto da Roberto Faenza. Segue “La figlia oscura” che diventa questo film, e poi inizia la serie di quattro romanzi di “L’amica geniale” opportunamente messa in cantiere come serie tv dall’americana HBO e poi coprodotta con l’italiana Fandango e con Rai Cinema, con la regia di Saverio Costanzo.

Maggie Gyllenhaal, pur avendo l’età giusta per interpretare la protagonista, preferisce restare dietro la macchina da presa e farsi regista pura, senza il fraintendimento dell’attrice che vuole mettersi al centro della scena, e offre il ruolo alla premio Oscar britannica Olivia Colman, che a sua volta in questo progetto che sia avvia a basso costo, si coinvolge anche come produttore esecutivo, che è colui o colei che ha la parola finale su tutto il progetto – probabilmente riducendo il suo compenso, il cui mancato introito va considerato come contributo economico alla produzione.

Nell’adattare il romanzo, Maggie, mantenendo il nome italiano della protagonista, Leda Caruso, che nella multietnicità americana ben si colloca, sposta dapprima l’azione dall’Italia – nel romanzo la protagonista è una professoressa in vacanza su una spiaggia dello Jonio – alla costa atlantica del New Jersey. Ma è già il 2020 e la pandemia Covid chiude tutti a casa, con l’aggravante che gli Stati Uniti saranno il territorio più colpito al mondo per la leggerezza e il ritardo con i quali vengono adottati i provvedimenti, dunque la produzione si blocca e l’autrice rischia di perdere i finanziamenti. Col virus in piena diffusione decide di spostare il set sull’isola greca di Spetses, che essendo a 35 miglia nautiche dalla terraferma era ancora abbastanza al riparo dai contagi e, come ha dichiarato lei stessa, non poteva permettersi di interrompere le riprese in caso qualcuno fosse risultato positivo, e che quindi ha girato il più velocemente possibile e in assoluta economia di mezzi, usando gli isolani al posto di figuranti e comparse professionisti. Di conseguenza anche i flashback, ambientati nel New Jersey, sono stati girati sull’isola.

Dakota Johnson, Maggie Gyllenhaal e Olivia Colman a Venezia

Il film, che ha un andamento lento e avvolgente è diretto con sicurezza dall’autrice esordiente, e vanno annotate le scene di intimità di coppia e di sesso che non sono mai banali quando sono dirette da una donna. E se da un lato il film si regge tutto sull’intensità di Olivia Colman, che riceve la candidatura all’Oscar nel 2022 (ha vinto Jessica Chastain per “Gli occhi di Tammy Faye“) per il resto ha lo spessore che gli conferiscono tutti gli altri interpreti di rango, a cominciare dalla protagonista Leda Caruso di vent’anni prima interpretata dall’irlandese Jessie Buckley, attrice talentuosa e pluripremiata non ancora nota al grande pubblico, anche lei candidata come non protagonista (ha vinto Ariana DeBose per il “West Side Story” di Steven Spielberg). Nel cast anche il veterano di lusso Ed Harris e il marito di Maggie, Peter Sarsgaard, anche grande amico del cognato Jake. L’ex modella Dakota Johnson, assurta a discusso sex symbol cinematografica con la trilogia delle “Cinquanta Sfumature di…” grigio rosso e nero, impersona la giovane madre nonché donna inquieta in cui la protagonista si identifica e che ne scatena il crollo psicologico. Completano il cast i britannici Oliver Jackson-Cohen, Paul Mescal e Jack Farthing (chi se lo ricorda come cattivissimo George Warleggan nella serie tv “Poldark”?). Chiudono il cast principale la polacca naturalizzata statunitense Dagmara Domińczyk e l’italiana Alba Rohrwacher già legata al mondo di Elena Ferrante per essere stata la voce narrante delle prime stagioni di “L’amica geniale” come voce matura della protagonista Elena, detta Lenù, e che vedremo in video nella quarta e ultima stagione.

Atri riconoscimenti andati al film: candidatura a Maggie Gyllenhaal per la migliore sceneggiatura non originale agli Oscar; candidatura ai Golden Globe per regista e protagonista, e a seguire altre candidature ai Critics’ Choice Awards, ai BAFTA e Screen Actors Guild Award. Al botteghino non ha avuto il riscontro meritato confermandosi per quello che è: un film di nicchia e d’autore; e Maggie, debuttando come autrice senza volersi mettere dentro anche attrice, merita tutta l’attenzione.


Era mio figlio – l’ultimo film di Christopher Plummer

Il 5 febbraio 2121 ci lascia il 92enne Christopher Plummer, consegnando ai posteri una carriera, nell’ultimo decennio, piena di grandi soddisfazioni: nel 2010, a 81 anni, riceve la sua prima candidatura all’Oscar per “The last station” dove interpreta Lev Tolstoj durante il suo ultimo anno di vita, e nei successivi dieci anni interpreta ben diciassette film, fra cui il bellissimo “Remember”; nel 2012 riceve il suo primo Oscar – che è il primo riconoscimento di una serie di sei altri premi – per “Beginners” in cui interpreta un vecchio padre che a 75 anni dichiara al figlio la propria omosessualità; nel 2019 è al centro dell’intrigo di “Cena con delitto – Knives Out” in cui è la vittima che si prende gioco dei convenuti al suo compleanno mortale. Nel 2020 esce nelle sale statunitensi questo “Era mio figlio”, un film corale dove interpreta il padre di un soldato eroicamente morto in Vietnam.

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Scritto e diretto da Todd Robinson, narra di un avvocato del Pentagono, dapprima restio perché più interessato alla carriera politica, a cui viene assegnata l’inchiesta volta al conferimento postumo della Medal of Honor, che è la più alta onorificenza militare assegnata negli Stati Uniti. Ma indagando sulla vicenda, di cui il film ci mostra le drammatiche sequenze della più cruenta battaglia avvenuta nella giungla del Vietnam, e incontrando i vecchi genitori del militare e gli anziani reduci che gli devono la vita, l’uomo s’impegna via via nel classico percorso di formazione, e vincendo le resistenze umane da un lato e il muro di gomma politico dall’altro, riesce a portare a compimento l’incarico, realizzandosi come un uomo migliore.

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Va detto: se non fosse per le interpretazioni dei tanti veterani di Hollywood, il film varrebbe ben poco perché non riesce a sfuggire al didascalico, aggravato dal gusto assai banale dell’autore che relega il prodotto a un film adatto per la tv; Todd Robinson rovina tutte le sofferte prestazioni dei grandi interpreti che ha a disposizione spalmandole di musica retorica che toglie drammaticità e potenza e rende le scene solo strappalacrime.

D’altro canto è un film necessario per la società statunitense che deve ancora fare i conti con gli orrori della guerra in Vietnam, così come noi europei con quelli del nazi-fascismo. Una guerra in cui gli americani si sono impegnati dal 1965 al 1975 subendo oltre 58.000 morti e più di 153.000 feriti, molti dei quali mutilati e/o con sindrome da stress post traumatico, il cui disagio è continuamente raccontato al cinema. Ragazzi che all’epoca avevano vent’anni e più e che oggi sono ottantenni, una generazione in via di sparizione, così come da noi sono già quasi tutti spariti i testimoni degli orrori nostrani.

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Christopher Plummer, divenuto noto al grande pubblico come il Capitano Von Trapp del musical “Tutti insieme appassionatamente” e con una lunghissima carriera dalle alterne vicende, interpreta qui il padre dell’eroe, accanto a Diane Ladd che ne è la madre. Jeremy Irvine interpreta l’eroe che si è sacrificato per salvare tante altre vite, vite che rendono testimonianza con le interpretazioni di William Hurt, Ed Harris, Samuel L. Jackson, John Savage e Peter Fonda che, morto nell’agosto del 2019, è anche lui, qui, alla sua ultima interpretazione, ricordata nei titoli di coda: un attore, Peter Fonda, che non ha avuto la carriera che il suo talento meritava. Nel cast anche Amy Madison, Linus Roache, Alison Sudol, Dale Dye, LisaGay Hamilton, Bradley Whitford; e Sebastian Stan è il protagonista che conduce l’inchiesta.

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Peter Fonda co-protagonista e co-sceneggiatore candidato all’Oscar nel 1970 per “Easy Rider”

Resistance – La Voce del Silenzio

Il cinema 2020 in epoca pandemia. Film che escono direttamente su piattaforme on line e in televisione ma a prezzi meno competitivi del cinema dove c’erano le giornate a metà prezzo, le giornate sconto donne, le riduzioni studenti e anziani, così che un film sul web o in tv, vedi Sky Prémière che offre a pagamento i film che avremmo dovuto vedere in sala, costa anche più che al cinema. Ma pandemia o no sembra questo il futuro che si delinea, comodamente seduti in casa propria, senza prendere freddo, mettersi nel traffico, trovare parcheggio, fare file, sopportare i maleducati o fare nuove conoscenze – socializzare. Che è quello che ormai accade per la musica: si clicca, si scarica o si ascolta in streaming e solo i collezionisti o i nostalgici vanno nei negozi a comprare i dischi o cd o dvd che dir si voglia.

Questa la sorte di questo interessante e curioso film. Uscito negli Stati Uniti a fine marzo contemporaneamente nelle sale e online, in piena pandemia, resiste nelle sale per due settimane piazzandosi al primo posto negli incassi, prima che i cinema vengano chiusi; da noi arriva a giugno direttamente on demand, e adesso a fine anno, consumato il suo percorso commerciale è ora in chiaro nel pacchetto Sky, mentre altri film dello stesso distributore, Vision Distribution, e in generale altri film on demand, sono ancora a pagamento perché più richiesti dal pubblico che, come sappiamo, non sempre premia la qualità.

No talking! Jesse Eisenberg on playing Marcel Marceau | Saturday Review |  The Times
Marcel Marceau e Jesse Eisenberg che lo interpreta

Il film non ha grandi star. Ha in Jesse Eisenberg un protagonista di gran qualità, arrivato alla notorietà come interprete di Mark Zuckerberg, padrone di Facebook e contorni, in “The Social Network” di David Fincher del 2010; Jesse Eisenberg (che per altro non ha un profilo Facebook) non è (ancora?) una star capace di fare cassetta – come si diceva una volta, quando si metteva il contante nel cassetto – e il film è un’opera corale, un film che ancora una volta parla di olocausto e contorni: ebrei, nazisti, persecuzioni, separazioni, abbandoni, perdite, nascondigli, espedienti, eroismi, fallimenti; argomenti sempre necessari da raccontare per tenere viva la memoria su quegli orrori, perché la società moderna ancora esprime nelle sue pieghe il nazi-fascismo; e sono altresì argomenti sempre graditi in America, seconda nazione dopo Israele a contare la popolazione ebraica più numerosa e influente, nazione che co-produce il film insieme a Francia, Regno Unito e Germania.

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Matthias Schweighöfer interpreta Klaus Barbie, nel riquadro

Coproduzione complessa se fra produttori (coloro che mettono o reperiscono i soldi) e produttori esecutivi (che amministrano i fondi e seguono tutte le fasi della produzione) si contano ben 23 individui, fra cui spicca il nome dell’attore tedesco Matthias Schweighöfer che interpreta il nazista Klaus Barbie, il Boia di Lione. Ci sono un paio di modi in cui un attore può co-produrre il film che interpreta: o mette i soldi, appunto, o lavora gratuitamente e la sua paga non goduta viene considerata come capitale produttivo; nello specifico non si sa com’è andata ma in ogni caso l’impegno dell’attore è notevole.

La storia racconta del giovane ebreo di origine polacca Marcel Mangel che vuole fare l’attore ma la guerra lo travolge. Modificando abilmente il cognome sul passaporto, che all’epoca erano scritti a mano, da Mangel in Marceau, insieme al fratello Alain e le sorelle Emma e Mila, con le quali formeranno anche delle coppie sentimentali, si uniscono alla resistenza con lo specifico compito di nascondere i bambini orfani ebrei. La sua empatia, e la sua simpatia, saranno molto utili alla causa ed è proprio in quel periodo che mette a punto gli elementi essenziali della sua pantomima, con l’espressione dei sentimenti e delle azioni nel forzato silenzio della clandestinità.

Jesse Eisenberg, ebreo praticante che parla anche il polacco, lingua originaria della sua famiglia, come il personaggio Marcel, è l’interprete ideale e aderisce con grande sensibilità. Nella coralità del film spiccano anche i francesi Clémence Poésy che è Emma, l’amore di Marcel, e l’attore di origine ebraica-tunisina Félix Moati che interpreta Alain, il fratello maggiore di Marcel; l’ungaro-slovacca Vica Kerekes è Mila, sorella di Emma e amore di Alain; l’ungherese Géza Röhrig, anch’egli ebreo praticante, è nel ruolo di Georges Loinger, cugino di Marcel e Alain e figura di spicco della resistenza francese, che prima di morire all’età di 108 anni nel 2018 ha aiutato l’autore del film con le sue ricerche; come portavoce dei bambini c’è Elsbeth, interpretata dall’adolescente inglese Bella Ramsey che ha debuttato nel televisivo “Trono di Spade” come Lyanna Mormont; l’austriaco Karl Markovics è il padre di Marcel e Alain; la tedesca Alicia von Rittberg interpreta Regina la moglie del nazista; e, in ruoli minori ma fondamentali, il venezuelano Édgar Ramírez, protagonista del precedente film dell’autore, e che ha anche interpretato Gianni Versace nella miniserie tv “American Crime Story 2” che ne ricostruisce il delitto, è qui il padre di Elsbeth nell’antefatto; mentre il veterano Ed Harris è il generale americano George Patton che rende onore all’arte e al coraggio del giovane Marcel Marceau.

Scrive e dirige il venezuelano Jonathan Jakubowicz, discendente da famiglia ebraico-polacca e scrittore di successo, qui al suo terzo film che ha già incassato il German Film Award e sicuramente lo vedremo agli Oscar 2021. Premiazione che per necessità si apre anche ai film non usciti in sala, “Ma solo per quest’anno.” avverte il presidente dell’Accademia David Rubin, perché sia chiaro che l’Oscar non può andare ai film prodotti solo per la distribuzione on demand, vedi le grosse produzioni Netflix che fa uscire i suoi film in sala per un breve periodo solo per aggirare il divieto e poter concorrere; “L’Accademia crede fermamente che non vi sia modo migliore per vivere la magia dei film che vederli in una sala cinematografica. Il nostro impegno in tal senso è invariato e costante.” continua Rubin: più chiaro di così. Anche io sono per la magia del buio in sala, ma restiamo a vedere cosa ci riserva il futuro. Intanto è certo il prossimo Oscar indosserà la mascherina sanitaria!