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Assassinio sull’Orient Express, sempre grandi star

Nel 1974 dirigeva Sidney Lumet (4 nomination agli Oscar e uno alla carriera nel 2005) un cast all stars con 11 interpreti nominati agli Oscar di cui 6 vincitori e uno alla carriera nel 2009 a Lauren Bacall; un cast che il regista riuscì a mettere insieme facendo firmare per primo Sean Connery, allora una punta di diamante dello star system. Ingrid Bergman rifiutò il ruolo della Principessa Dragomiroff e si offrì per quello della missionaria col quale vinse l’Oscar come non protagonista; nomination ebbero il regista e il protagonista Albert Finney. Un gran film che è un classico da rivedere. Come gran film è anche quello attuale e per il quale, conoscere l’identità dell’assassino, nulla toglie al piacere della visione, anzi!

Nel 2017 dirige Kenneth Branagh che interpreta anche il protagonista Hercule Poirot e mette il cappello sul prossimo film con un richiamo nel finale nel quale viene richiesto in Egitto per un delitto sul Nilo. “Assassinio sul Nilo” fece seguito nel ’78 all’Orient Express del ’74 con un nuovo regista, John Guillermin, che si era fatto notare per la regia del catastrofico “Inferno di Cristallo” altro filmone all stars ma di qualità inferiore, come di qualità inferiore fu il film dal romanzo della Christie; anche l’interprete di Poirot cambiò con l’interpretazione di Peter Ustinov, che a mio avviso fu un interprete più azzeccato.

Branagh, e la più moderna sceneggiatura di Michael Green lo supporta, tratteggia un Poirot meno macchiettistico di come l’ha creato l’autrice, con la sua precisione maniacale che però si stempera in un afflato di umanità che arricchisce e dà profondità al personaggio – ma per il quale si inventa degli spettacoli doppi baffetti! Anche lui dirige un cast all stars, anche se gli Oscar al seguito sono di meno per motivi anagrafici, e tecnicamente il film è più ricco di azione ed effetti speciali, per cui la bufera di neve che blocca il treno diventa una vera e propria spettacolare valanga. E’ ovvio e divertente fare adesso il confronto fra il vecchio e il nuovo cast.

L’ambiguo antagonista, che nel ’74 fu Richard Widmark che accettò il ruolo solo per poter lavorare con tutte quelle star, oggi è un sorprendente Johnny Depp che con gustoso e misurato ghigno con cicatrice incorporata si muove fuori dal seminato dei suoi personaggi sempre positivi e sbruffoni portando una ventata di freschezza al film e alla sua filmografia.

Si è detto di Ingrid Bergman premiata per il ruolo della missionaria svedese Greta Ohlsson che qui diventa spagnola, Pilar Estravados, con l’aderente interpretazione di Penelope Cruz che però rimane negli standard: il carattere riprende il nome di un personaggio di Agatha Christie che compare in “Il Natale di Poirot” messo in film nel 1994 ma di cui non rimane traccia nella memoria.

Si è anche detto di Sean Connery, che interpretava Arbuthnot, colonnello nel romanzo e nel film, che di innamora di miss Debenham durante l’azione. Oggi il personaggio cambia vistosamente, rendendo più moderna e dinamica la trama e rimanendo altresì credibile: Arbuthnot è un medico di colore, interpretato da Leslie Odom jr, già segretamente in amore con la bella e giovane Debenham, segretamente perché all’epoca dei fatti narrati, gli anni ’30 del Novecento, non si parlava di amori interraziali, esistenti ma stigmatizzati.

La bella e giovane Mary Debenham oggi è interpretata dalla pressoché sconosciuta Daisy Ridley mentre nel ’74 era nientepopodimeno che Vanessa Redgrave in azzeccatissima coppia con Sean Connery.

Ruolo chiave della vicenda è Mrs Hubbard, vedova americana dalla parlantina brillante e tagliente che da Lauren Bacall passa oggi a Michelle Pfeiffer: entrambe star di prima grandezza ormai sessantenni, entrambe totalmente in parte, con una mia personale debolezza, anche anagrafica, per la Pfeiffer che mostra una dolcezza in più rispetto alla Bacall: le auguro una candidatura agli Oscar, anche senza premio, che la possa rilanciare nello star business, dato che il suo ultimo film con buoni esiti al botteghino è “Chéri” di Stephen Frears del 2009. Ma vale la pena fare l’elenco dei film di grande successo che ha rifiutato perché non ha saputo valutare sulla carta (tra parentesi l’attrice che la sostituì): Thelma e Louise (Geena Davis), Basic Istinct (Sharon Stone, nomination Golden Globe), Il Silenzio degli Innocenti (Jodie Foster, premio Oscar), Insonnia d’Amore (Meg Ryan, nomination Golden Globe), Pretty Woman (Julia Roberts, nomination Oscar e Golden Globe), Evita (Madonna, Golden Globe) e altri ancora.

Anche il personaggio di Hector MacQueen, segretario tuttofare del cattivo Ratchett/Cassetti, subisce una interessante evoluzione. Nel ’74 era interpretato da un Anthony Perkins con ancora attaccate addosso le nevrosi dello “Psycho” di quattordici anni prima. Oggi è interpretato da Josh Gad, cicciottello comico ebraico-americano che qui fa un salto di qualità ben riuscito, certo cercando di allinearsi ai suoi colleghi comici cicciottelli ormai star mainframe come Jack Black o Jonah Hill.

Il maggiordomo passa da John Gielgud (nominato agli Oscar) a Derek Jacobi nella migliore tradizione dei maggiordomi inglesi.

Ma sul treno c’è un altro investigatore privato in incognito, altro ruolo chiave della vicenda, Cyrus Hardman che, già interpretato dal caratterista Colin Blakely, cambia nome di battesimo in Gerhard e lo fa Willem Dafoe, con una performance a mio avviso sotto tono rispetto all’impegno generale – o forse il ruolo, a tratti lievemente grottesco, non è adatto a lui.

L’anziana Principessa Natalia Dragomiroff che fu Wendy Hiller oggi entra nello schermo con lo sguardo assassino di Judy Dench che dà subito il carattere del personaggio, che poi però rimane tutto lì: un personaggio di supporto poco definito da interpretare proprio come un cameo. La sua dama di compagnia, la tedesca Hildegarde Schmidt passa da Rachel Roberts a Olivia Colman senza colpo ferire.

Ci sono poi i Conti Rudolph Andrenyi e la Contessa Helena Maria Andrenyi che se ne stanno in disparte chiusi nella loro cabina che, interpretati originariamente da due nomi come Michael York e Jacqueline Bisset qui vengono affidati agli sconosciuti Sergei Polunin, che nasce come ballerino russo, e Lucy Boynton, ex attrice bambina inglese, condannando di fatto questi due personaggi al bozzetto di fondo.

C’è poi Antonio Foscarelli, venditore di automobili un po’ sbruffone, ovviamente italiano nella fantasia di Agatha Christie, che fu interpretato dallo sconosciuto inglese Denis Quilley e che oggi diventa Biniamino Marquez, interpretato dal messicano Manuel Garcia-Rulfo, certo per coprire la quota hispanica della super produzione statunitensi.

Il capo carrozza Pierre Michel, che fu interpretato dal francese Jean-Pierre Cassell oggi è il tunisino-olandese Marwan Kenzari; mentre il capotreno, il belga Bouc, che in francese significa caprone, certo con qualche intenzionalità nell’autrice, conterraneo amico e assistente improvvisato di Poirot, cui oggi dà il volto l’aitante australiano Tom Bateman, nel ’74 era diventato un Mr Bianchi interpretato da Martin Balsam.

Il film è riuscitissimo. Le star non sono quelle di una volta ma neanche il pubblico lo è, ben che vada è invecchiato come il sottoscritto. E la trovata più azzeccata è quella della risoluzione finale del giallo, che nel primo film avveniva all’interno del lussuoso treno, come da racconto, quando Poirot riunisce tutti per svelare il nome dell’assassino: oggi, a causa del treno bloccato per la valanga, la scena è montata all’aperto, e i 12 personaggi coinvolti sono tutti seduti a un lungo tavolo come in un’ultima cena, per un ultimo resoconto dove al peccato segue, ancora una volta, il perdono.

Note di costume: il pubblico in sala era per lo più fatto di adulti e anziani. I pochi giovani erano un ragazzo solitario, come ero io che al calcio preferivo un pomeriggio al cinema, e ragazzine selfie-dipendenti che erano solo venute a vedere Johnny Depp restando deluse (è il loro punto di vista) dalla performance, e sorprese che la storia fosse scritta da Agatha Christie: chissà che si credevano, povere stelle!

“Grace di Monaco” e di rotocalchi

Non ci sono più i bei filmoni biografici di una volta, come quello sulla vita di Edith Piaf per intenderci, diretto dallo stesso Olivier Dahan che con questo film fa il bis del biopic come pomposamente dicono gli americani. Questo tipo di biografie cinematografiche, che non possono più definirsi tali se per “biografia” si intende il racconto di una vita, scelgono di concentrare il racconto attorno a un momento specifico, vedi “Hitchcock” che parla della messa in opera di “Psycho” o “Marilyn” che s’incentra sulla lavorazione di “Il Principe e la Ballerina”: dunque sono solo capitoli di una biografia. Il lato positivo è che si va più nel dettaglio della vicenda che si è scelto di raccontare e ci si allontana dal pericolo di fare un film superficiale pur di coprire l’intera vita di un personaggio. Aprendo il 64mo Festival di Cannes questo film ha lasciato molti molto perplessi, e a ragion veduta. Racconta un momento cruciale per la vita di Grace che da un lato è tentata dal suo amico Hitchcock che le propone il copione di “Marnie” e dall’altro si trova intrappolata nel suo ruolo di principessa non ancora amata dai monegaschi perché lei stessa non si è veramente calata nel ruolo né resa conto di cosa il ruolo comporti. Coincidentalmente Ranieri di Monaco è in gravissime difficoltà col governo francese presieduto da De Gaulle che vuole annettere il principato alla Francia. Il film dunque ci racconta un passaggio tragico, fatto di intrighi di palazzo e drammi personali, con Grace messa davanti alla scelta della sua vita: diventare davvero “la” principessa e scegliere di salvare il principato e anche il suo matrimonio da favola. Favola che, scopriamo, non è così favolosa come ce l’hanno raccontata i rotocalchi dell’epoca: Ranieri ha sposato Grace Kelly non per amore ma perché al principato serviva una principessa patinata e Padre Tucker (un Frank Langella un po’ sottotono) consigliere spirituale di Grace, rivela d’essere più che un confessore, un vero manipolatore. Intorno poi si muovono figure come Aristotele Onassis che avendo interessi economici nel principato agisce come spregiudicato consigliere politico di Ranieri e la sua compagna Maria Callas relegata al ruolo di onesta confidente di Grace. Insomma, il pacchetto prevede la favola della borghesuccia americana che diventa una vera principessa, come nei sogni delle ragazze d’oltreoceano, dato che gli americani essendo progenie di poveri emigrati europei non hanno principi e principesse in proprio; e poi sfarzo di stucchi ori e specchi, acconciature gioielli e abiti firmati, contorno di personaggi famosi che inevitabilmente figurano come macchiette di lusso, insistiti primi piani sulle lacrime di Nicole Kidman che pare essersi liberata dal fardello del botulino, il clamoroso falso storico dato che la crisi con la Francia era avvenuta anni prima dell’arrivo di Grace a Monaco, tenere scene familiari con i piccoli Alberto e Carolina che si chiedono perché mamma piange, scene da intrigo internazionale e sordide lotte familiari, un Ranieri di Monaco (il sempre ottimo Tim Roth) preoccupato solo del destino del suo principato e che guarda alla sua principessa solo come una sfavillante acquisizione mentre Grace si lacera l’anima per capire cosa vuole da lei la vita: un’intelligente sequenza a inizio film ce la mostra disperata alla spericolata guida della sua macchina sportiva sui tornanti del principato con mancato incidente, lanciando per noi un’occhiata sul futuro incidente in cui realmente Grace di Monaco perderà la vita. Il film nell’insieme è gradevole e scorre bene anche se la sensazione è quella di una versione cinematografica dei rotocalchi d’epoca ma con l’aggiornamento di uno sguardo sul lato oscuro. Comprimari di lusso: Roger Ashton-Griffiths come credibile Alfred Hitchcock, Robert Lindsay come Aristotele Onassis e Paz Vega come Maria Callas alla quale non  mancano di far cantare l’aria famosa, Derek Jacobi come divertito e compiaciuto maestro cerimoniere, Parker Posey come gelida e intrigante segretaria di palazzo. In conclusione: un film che può rilanciare la carriera appannata di Nicole Kidman e che potrebbe farle raccogliere qualche candidatura a qualche premio qua e là, ma che rimane un film da pomeriggio con le amiche pensionate che da giovani sognavano sulla Grace patinata, o da serata da pensionati a casa davanti alla tivvù con un buon bicchiere di vino.